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L’ ISLAM
E
L’OCCIDENTE
a cura di
Gino Ragozzino
La culla dell’Islàm
L a culla dell’Islàm
Com’è noto, culla dell’Islàm fu la penisola arabica. Protendendosi tra il Mar Rosso e l’Oceano
Indiano, questa vasta regione (3.000.000 di Km2
ca) costituisce nel Continente Antico un passaggio
o, piuttosto, un ostacolo naturale tra l’Oriente e
l’Occidente. Paese arroventato, nel quale però di
notte il termometro scende sotto lo zero, terra
arida, dove però all’improvviso la pioggia si scatena a nubifragio, ogni cosa vi è rigida e angolosa:
meteorologia, colori del paesaggio, carattere degli
abitanti, la loro costituzione fisica, asciutta e nervosa; perfino la loro lingua, povera di vocali, irta di
gutturali. L’ambiente geografico educa l’uomo alle
posizioni nette, estreme, ignare di sfumature.
Ieri, come in gran parte ancora oggi, le occupazioni principali delle popolazioni erano la pastorizia e i traffici carovanieri da un punto all’altro del deserto.
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Gli avvenimenti storici che diedero origine all’Islàm si svilupparono principalmente nella regione chiamata Higia–z (= barriera di monti), situata tra il Mar Rosso e l’altopiano del Nagid. I
principali centri abitati erano Yatrib, chiamata
poi Medina, La Mecca e Ta’if. C’erano inoltre
nuclei abitati in alcuni punti della costa e nelle
oasi a nord di Yatrib. Intorno a questi centri di
sedentari vagavano i Beduini, i figli del deserto,
trasmigranti per le aride steppe e le vaste distese
sabbiose in cerca di scarsi pascoli e misere fonti,
in perpetuo stato di guerra contro chiunque non
appartenesse alla loro tribù. Gli stessi abitanti
delle città conducevano una vita sociale che si riduceva alla cerchia della famiglia e della tribù. Il
governo delle città si poggiava sull’equilibrio perennemente precario della convivenza delle varie
tribù, ciascuna delle quali costituiva uno Stato a
sé, con il proprio governo, con il proprio tribunale. L’etica sociale aveva come fulcri fondamentali l’inviolabilità dell’ospite, la fedeltà alla parola
Caratteristici dell’Arabia sono i widyân, il cui alveo è normalmente asciutto, tranne che durante le brevi stagioni
delle piogge
La culla dell’Islàm
data, l’implacabilità della vendetta per il sangue
sparso.
Prima della predicazione di Maometto, quelle
popolazioni professavano un politeismo misto ad
elementi animistici (culto di fonti, di alberi, di
pietre), demonistici (spiritelli, ginn, presenti un
po’ dovunque) e avevano vaghe cognizioni della
sopravvivenza dell’anima di là dalla morte. Il
pantheon, assai vario e numeroso, non era
comune a tutte le tribù, ciascuna delle quali
aveva le proprie divinità protettrici con i relativi
santuari. Alcuni di questi erano meta di pellegrinaggio e luoghi di culto anche al di fuori della
tribù per altri gruppi etnici dell’Arabia.
Le antiche divinità arabe erano di varia origine
e natura; ma tra esse prevalevano quelle astrali.
Fra tutte andava emergendo, per l’importanza
comune che aveva in varie tribù, la figura di
All a–h, dio maschile celeste. Accanto ad Alla–h, le
varie tribù conservavano comunque anche il culto tradizionale degli altri dèi, ovvero, come dirà
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poi il Corano, esse “associavano” al culto di Alla–h altri esseri divini.
Le divinità “associate” più diffuse erano femminili, e si riteneva che esse si manifestassero in
corpi celesti. Così All a–t, la “dea” per eccellenza,
si significava nel Sole, al-’Uzza–, la “gloriosissima,
nel pianeta Venere, al-Mana–t, la dea del destino,
forse nella Luna. I Meccani denominavano queste dee “figlie di Alla–h”, probabilmente non per
indicare vera e propria filiazione, ma solo rapporto di affinità e di subordinazione al dio celeste.
Generalmente le divinità arabe antiche erano
adorate sotto forma di pietre, di varie dimensioni
e figure, o stele o piccoli obelischi, i quali, piuttosto che rappresentare il dio, erano creduti essere
pervasi dal suo spirito, essere segno del luogo ove
egli volentieri scendeva ad accogliere la venerazione, l’offerta e la preghiera dei fedeli. Erano
luogo e oggetto di venerazione anche alberi piantati in recinti sacri, molte fonti, che spesso furono
il primo nucleo di santuari, e certe grotte ritenute
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sacre. Il più famoso dei santuari era quello della
Ka’ba, alla Mecca. Il santuario consisteva in una
piccola superficie quadrangolare, recintata da un
muro. Centro del culto era la così detta “Pietra
Nera”, incastonata in un angolo del muro perimetrale; ma nell’area sacra erano ospitati anche i
simboli di altre divinità, sì che il santuario aveva
una importanza pressoché panaraba.
Nei recinti che circondavano i santuari era risparmiata la vita ad ogni uomo e agli animali; le
stesse piante erano al sicuro da qualsiasi mano-
missione. I santuari erano deserti per la maggior
parte dell’anno; soltanto in primavera e in autunno le tribù vi si adunavano per celebrarvi riti religiosi. I partecipanti dovevano sottoporsi a purificazioni ed astinenze rituali per assumere su di sé
uno stato di sacralità. Non vi era sacerdozio vero
e proprio, ma vi erano dei servi del santuario, che
ereditavano e svolgevano i diversi uffici. Il sangue
degli animali sacrificati, talvolta anche libazioni di
latte, erano offerti sull’idolo oppure in una buca
ai suoi piedi.
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M aometto non fu in Arabia
l’«inventore» del monoteismo
Contrariamente a quanto comunemente si ritiene, Maometto non fu in Arabia l’«inventore»
del monoteismo. Al suo tempo e prima ancora
non pochi arabi dell’Higia–z, senza essere né cristiani né ebrei, professavano fede nella esistenza
di Dio uno e unico e si davano a pratiche ascetiche. Questi uomini sono denominati hanı-f, termine che poi nel Corano passerà ad indicare il praticante della “pura religione”, in contrasto con il
politeismo. Essi non facevano mistero della loro
fede, ma avevano poco seguito. Infatti la loro predicazione era confusa dalla gente comune con le
curiose esibizioni dei ka–hin, indovini, con i deliri
dei maginu–n, posseduti, con le magniloquenti tirate degli sha–’ir, poeti, che insieme frequentavano i
mercati e le fiere propalando stranezze d’ogni
genere. Sicché le idee monoteistiche, pur essendo
presenti e professate, vivacchiavano prive di ogni
vigore organico e risultavano incapaci di suscitare
una rivoluzione contro l’imperante politeismo.
Comunque la presenza degli hanı-f costituisce
un fenomeno che va spiegato. Cosa non difficile,
se si tiene presente che l’Arabia confinava a nord
con il cristiano Impero Bizantino e nella zona di
confine contava non pochi gruppi arabi che avevano abbracciato il Cristianesimo. Questo inoltre
era la religione dominante in Egitto e in Abissinia, regioni con le quali gli Arabi avevano fitti
rapporti commerciali. Inoltre il monoteismo era
professato a sud, nello Yemen, da robuste comunità ebraiche.
Ma comunità ebraiche ed elementi cristiani
erano presenti nello stesso Higia–z. Una serie di
oasi, da Taima– a Yatrib, ospitavano da tempo una
numerosa popolazione giudaica, economicamente fiorente e religiosamente fedele alle proprie
tradizioni. Questi ebrei erano di lingua araba (si
conservano poesie di autori ebrei in lingua e stile
Tipo arabo nel costume nazionale
Maometto non fu in Arabia l’«inventore» del monoteismo
arabo) ma conservavano ed usavano il testo
ebraico originale della Torah. A Medina, e probabilmente un po’ dovunque, avevano sinagoghe.
Il Cristianesimo in Arabia invece non era ortodosso. Era infatti prevalentemente o monofisita o
nestoriano. I monofisiti attribuivano a Gesù Cristo la sola natura divina, negandogli quella
umana. I nestoriani vedevano invece in Cristo la
natura divina e quella umana, ma l’una separata
dall’altra, in due persone distinte e sostenevano
che Maria è madre solo del Cristo uomo. Oltre
che dottrinalmente il Cristianesimo in Arabia era
mal rappresentato anche sul piano sociale, culturale e talvolta anche sul piano morale. Alla Mecca confluivano numerosi schiavi abissini, di cui si
faceva commercio. Pare che le famose truppe
qurascite, che erano dette aha–bı–sh e che ebbero
molta importanza nella storia militare della Mecca, fossero composte unicamente di abissini, così
come indicherebbe il loro nome. Schiavi o no, i
cristiani erano inoltre piccoli artigiani o esercita-
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vano professioni ritenute dagli Arabi umilianti e
non proprie di uomini liberi, fra cui quella di flebotomo, di chirurgo, di fabbricante di protesi di
denti, di nasi, ecc. Assai stimati dagli Arabi erano
invece i monaci che conducevano vita solitaria
nel deserto. Le laure, le loro dimore, erano spesso tappe preziose sulle vie carovaniere e punti di
appoggio per gli accampamenti dei Beduini.
È importante rilevare che nell’Higia–z ai tempi
di Maometto era possibile che un arabo facesse
esperienze della vita di una comunità ebraica; ma
non gli era possibile accedere ad una comunità
ecclesiale, per il semplice fatto che non v’era
traccia di vita cristiana organizzata.
A rendere conto del fenomeno degli hanı–f
può infine valere il fatto che già prima di Maometto l’antica religione araba era in fase di decadenza: il rito, con la sua tipica tenacia, si conservava ancora nella sua interezza, ma la partecipazione spirituale dei fedeli si andava affievolendo.
Non fa perciò meraviglia che alcuni uomini di pia
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disposizione sentissero, in forma più o meno
vaga, l’aspirazione verso una vita religiosa incentrata nella fede in un solo Dio e che tendessero
ad indicarlo col nome di Alla–h, ovvero con l’appellativo col quale giudei e cristiani di lingua araba indicavano Dio creatore e signore dell’universo. L’originalità di Maometto consisterà nella
coerenza con la quale egli saprà inserire l’idea
giudeo-cristiano di Alla–h entro un quadro genuinamente arabo, ispirato alla tradizione nazionale.
Ceppo con iscrizione preislamica
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I l Profeta
In questo ambiente socio-religioso, tra il 570 e
–l-Ka–sim ibn ’Abdil 580, alla Mecca nacque Abu
Alla–h, detto Muhammad, “il glorificato”. In Occidente il nome arabo sarà poi latinizzato in
Maometto.
Il bambino ebbe un’infanzia infelice e travagliata. Infatti nacque già orfano, poiché il padre,
agiato commerciante della potente tribù dei
Quraysh, morì durante un viaggio di affari, prima
che la moglie, Amina, lo mettesse alla luce. Per
ordine del nonno paterno ’Abd-al-Muttalib, il
neonato venne affidato a una balia; era infatti
consuetudine che i figli degli abitanti agiati della
Mecca venissero allattati da balie appartenenti a
famiglie di pastori nomadi della tribù dei Bakr. A
sei anni, il bambino perdé anche la madre; a otto
pianse la morte del nonno paterno. Dell’orfano si
– Ta–lib, che assai
prese cura allora uno zio, Abu
pre sto lo ingaggiò, ancora adolescente, nelle
carovane commerciali dirette in Siria. È immaginabile che queste vicende dovettero incidere non
poco sulla formazione del carattere e sul temperamento del futuro profeta dall’Islàm.
Intorno ai venticinque anni di età, Maometto,
che viveva in condizioni economiche ancora modeste, entrò al servizio di Khadigia, vedova di un
ricco commerciante. Presto ne divenne l’uomo di
fiducia; qualche anno più tardi la sposò. Il matrimonio fu per Maometto un momento decisivo.
Per più motivi. Innanzi tutto gli diede come
coniuge una donna che doveva essere dotata
d’intelligenza e di volontà non comuni se, in un
ambiente sociale che, come si vedrà più avanti,
teneva in condizioni di assoluta inferiorità il sesso
femminile, aveva assunto sopra di sé il carico e la
re sponsabilità della condizione di un’azienda
commerciale. Certo è che Maometto ne ebbe
sempre una stima affettuosa e profonda. In secondo luogo, Maometto poté finalmente avere
una posizione economica agiata, e ciò gli permise
Veduta del centro storico della Mecca
Il Profeta
di dedicarsi ai problemi che, forse, gli covavano
nella mente e nel cuore chissà da quanto. Erano
problemi che riguardavano la unicità di Dio, il
senso della vita terrena, il destino ultimo dell’uomo. Certo è che dopo il matrimonio Maometto incominciò a raccogliersi in meditazione in
luoghi solitari, intorno alla Mecca. Una notte –
oggi i musulmani la dicono “la Notte del Decreto” – si addormentò in una caverna ai piedi
del monte Hira– e in sogno ebbe una visione. Qui
conviene lasciare la parola al biografo Ibn Hisha–n,
che ci dà il più antico racconto dell’evento:
«Una notte, mentre ero addormentato, venne
(l’angelo) Gabriele con un panno di broccato sul
quale c’era qualcosa di scritto e mi disse: «Leggi!». Risposi: «Che devo leggere?». Allora mi
strinse col panno in modo tale che credetti fosse
la morte. Poi mi lasciò andare e disse: «Leggi!».
Questa scena si ripetè due volte e infine Maometto disse: «Che è ciò che debbo leggere?».
Allora Gabriele recitò ciò che oggi si legge nel
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Corano nei primi cinque versetti del capitolo
(su–ra) 93:
«Per la mattina avanzata e per la notte quando s’abbuia! Il tuo Signore non ti ha trascurato,
né ti odia. In verità, la vita avvenire sarà, per te,
migliore della presente, e il tuo Signore ti darà
una ricompensa, di cui sarai soddisfatto». Poi Gabriele se n’andò, ed io mi svegliai dal sonno, ed
era come se quelle parole mi si fossero impresse
nel cuore. Uscii e, quando fui in mezzo al monte,
udii una voce dal cielo che diceva: «O Maometto,
–h, e io sono Gabriele».
tu sei l’inviato di Alla
Alla prima visione ne seguirono altre, e Maometto le considerò rivelazione attraverso la quale
Alla–h gli affidava la missione profetica. Riferendo
ai parenti e agli amici ciò che gli viene dettato
nelle visioni, ci terrà a distinguersi subito dai soliti
esaltati (maginu–n) e dai soliti poeti (sha–’ir) che
davano spettacolo di sé nei mercati e nelle fiere:
«Questa non è la parola d’un poeta, – quanto
poco voi credete! – questa non è la parola d’un
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indovino, – quanto poco voi riflettete! – questa è
una rivelazione, da parte del Signore delle creature». (Corano, 69, 41-43)
Nulla autorizza a dubitare della buona fede di
questa convinzione. Il primo a credere nella propria missione fu certamente lo stesso Maometto.
D’altronde, in generale, non si può essere trascinatori di masse, se non si crede nella autenticità
del proprio compito. Quando si passa a considerare la personalità di Maometto, non è facile destreggiarsi obiettivamente tra il cumulo di accuse
dei più antichi critici cristiani e le non troppo convincenti apologie di certi scrittori musulmani. Lo
studio scientifico delle fonti non ha fatto ancora
sufficienti progressi, sì da permetterci di distinguere con sicurezza l’antica tradizione geuina dalle aggiunte più tarde. Giacché, bisogna ammetterlo, la figura storica di Maometto ha molto sofAgiato mercante arabo nella sua casa
Il Profeta
ferto anche per il miscuglio di banalità che su di
essa hanno ammesso le successive generazioni di
musulmani. Tuttavia, anche nella massa dei particolari fantastici, risaltano una benignità profondamente sentita, una spiccata simpatia per i deboli,
una gentilezza che raramente si mutava in collera, salvo quando gli sembrava che si offendesse
Dio, un pizzico di timidezza nei rapporti personali
con gli altri e persino un bagliore di umorismo:
doti tutte che contrastavano con il temperamento
e lo spirito prevalenti del suo tempo e dei suoi
primi seguaci e che, perciò, altro non possono
essere che un riflesso dell’uomo reale.
Fin dal primo momento Maometto fu alieno dall’idea d’essere mandato a fondare una nuova religione. Egli si presentava semplicemente come un nadı-r,
un ammonitore, il primo inviato al suo popolo:
«Avverti dunque. Tu sei solo uno che avverte
Tu non hai autorità sopra di essi.
Se non che chi avrà volto le spalle e non avrà
creduto,
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Dio infliggerà loro il più grave castigo». (Corano, 88, 21-24)
Come ammonitore, egli ha la missione di dare al
suo popolo una rivelazione scritta, così come la
posseggono ebrei e cristiani. Ecco, il “Libro Celeste”, che fu già rivelato ad ebrei e cristiani, ora viene comunicato agli Arabi in “chiara lingua araba”:
«Perciò noi lo abbiamo reso di facile intelligenza, nella tua lingua, affinché essi riflettano»
(Corano 44, 58).
Gli ebrei designavano sprezzantemente gli Arabi
col nome di “illetterati”, volendo dire che questi erano in condizioni di inferiorità, perché non avevano un
proprio kita–b o Libro rivelato. Ora gli Arabi non hanno più motivo di vergognarsi: per la rivelazione che
ricevono attraverso Maometto, anch’essi entrano a
far parte della “Gente del Libro”. Non v’è che un’unica “rivelazione”. Essa si manifestò nel passato per
mezzo di Abramo, Mosé, Aronne, Giona, Lot e Gesù. Oggi essa si apre anche agli Arabi e si conclude
definitivamente per mezzo di Maometto.
Maometto riceve dall’angelo Gabriele una recitazione del Corano (miniatura turca)
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I temi fondamentali dell’ultima
“rivelazione”
Fin dal principio la rivelazione ricevuta da
Maometto e da questi ripetuta testualmente ai
suoi “compagni” ebbe tre punti basilari: la unicità di Dio, la resurrezione dei corpi, il giudizio
universale finale.
a – Unicità di Dio:
«Nel nome di Dio, misericordioso e compassionevole.
Dici: Egli, Dio, è uno,
Dio l’eterno.
Egli non ha generato, né è stato generato.
E non v’è alcuno uguale a lui». (Corano, 112)
b – Resurrezione dei corpi:
«Quando le anime verranno ricongiunte ai
corpi, […]
quando le pagine delle azioni umane verranno dispiegate,
quando il cielo verrà rimosso,
quando il giahı-m (l’inferno) verrà fatto avvampare,
quando il paradiso verrà fatto avvicinare,
ogni anima conoscerà ciò che avrà prodotto»
(Corano 81, 7, 10-14)
c – Giudizio universale finale:
«L’ora percuotente! Che è l’ora percuotente?
E che ti farà conoscere che cosa sia l’ora percuotente?
Il giorno in cui gli uomini saranno come farfalle disperse,
e le montagne saranno come lana tinta, cardata,
allora colui, le cui bilance saranno cariche di
opere buone
avrà una vita piacevole.
Quanto a colui, invece, le cui bilance saranno
leggiere,
avrà un baratro come dimora». (Corano 101, 1-6).
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Questi messaggi, comunicati dall’angelo a
Maometto e da Maometto prima in privato ai
propri familiari e agli amici poi in pubblico, fecero inizialmente un certo numero di adepti. Fra
coloro che ebbero l’onore di essere i primi le tradizioni annoverano Khadigia, Alì, cugino di Maometto, e Abu– Bakr suo futuro suocero. Invece
Abu– Ta–lib non volle mai prestar fede al nipote.
Chi accettò di “sottomettersi” (salima) alla signoria di Dio uno e unico fu detto muslim (musulmano) ovvero “colui che si sottomette”; consistendo essenzialmente nella sottomissione a Dio, la
sua fede fu detta islàm, “sottomissione”. Il contrario di muslim è ka–fir, che vuol dire insieme
“infedele” e “ingrato”.
Idolo preislamico (Museo Archeologico di Roma)
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L ’ ora della prova
Benché Maometto li avvertisse del contrario, i
meccani ritennero per un bel po’ che il loro conterraneo fosse null’altro che uno dei tanti posseduti, dei tanti indovini, dei tanti “poeti” che andavano in giro propalando mille stranezze. E perciò si
limitarono a punzecchiarlo, soprattutto chiedendogli ironicamente quando sarebbe venuta la fine
del mondo e quando il tanto minacciato giudizio
finale. Ma a poco a poco la tenacia del Profeta e
l’influsso che egli andava guadagnando sulle classi
umili con le sue tirate contro i ricchi e i profittatori
incominciarono ad impensierire i dirigenti della
Mecca. Forse indifferenti all’aspetto strettamente
religioso dell’agitazione, principiarono a sospettarvi aspirazioni di riforma sociale e di egemonia politica. In ogni caso il loro intuito di accorti mercanti
Maometto trasmette ai suoi “compagni” la parola del
Corano (miniatura turca)
li portava a prevedere i danni che poteva causare
ai loro interessi il discredito delle divinità venerate
alla Ka’ba, il santuario che richiamava intorno a sé
ogni anno folle di pellegrini e carovane ricche di
merci. Il rigido sistema tribale voleva che ogni
attentato contro un membro di qualche tribù obbligasse solidarmente tutti gli altri membri a difenderlo o a vendicarlo. Toccare la persona di Maometto, che poi apparteneva alla più potente tribù
della città, avrebbe provocato un conflitto fune-
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sto. Non restava che combatterlo con le armi del
ridicolo e dell’assurdo, per dimostrare all’opinione
pubblica che il preteso “profeta” era null’altro che
un folle o un posseduto dai ginn.
Maometto rispondeva che anche se avesse fatto
miracoli, non gli avrebbero creduto. Il vero miracolo,
egli diceva, stava nella grandezza delle verità che
aveva la missione di trasmettere e nella incomparabile bellezza della parola che le esprimeva. Ma la sua
era una lotta impari e logorante. Sicché nell’animo
gli sopraggiunsero la stanchezza e lo sconforto, malgrado l’esortazione dell’angelo che così gli dettava:
«Il tuo Signore non ti trovò, forse, orfano e ti
ha raccolto?
Non ti trovò traviato e ti ha guidato?
Non ti trovò povero e ti ha arricchito?»
(Corano 43, 6-8);
«Segui dunque ciò che ti è stato rivelato e sii
perseverante,
La solitudine del Profeta è come tamerice nel deserto
fino a che Dio abbia pronunziato il suo giudizio,
perché Egli è il migliore dei giudici»
(Corano 10, 109).
A rendere più penosa la situazione intervenne
prima la morte di Khadigia, poi quella di Abu–
Ta–lib, che privarono Maometto di due saldi appoggi morali. Sì che il Profeta incominciò a pensare che non gli restasse che abbandonare la
città natia e migrare altrove.
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L a migrazione
Ma l’emigrazione dalla città natia era un atto
assai grave, perché comportava l’abbandono della propria tribù e, di conseguenza, anche la rinunzia ai diritti e alla protezione che la solidarietà tribale garantivano. Allora, sì, che Maometto
si sarebbe trovato alla mercé dei suoi nemici, che
avrebbero potuto impunemente anche ucciderlo,
senza tirarsi addosso la ritorsione e la vendetta
della solidarietà tribale.
Ben consapevole della gravità della decisione,
Maometto non agì di furia, non fuggì, come assai spesso ancor oggi si dice, ma ponderò ogni
passo con estrema cautela e scelse con sapiente
oculatezza la città dove trasferirsi. Infine la scelta
cadde su Yatrib.
Da tempo questa città si trovava in una situazione singolare. Essa infatti ospitava una numerosa e prospera colonia ebraica, che tuttavia costi-
tuiva la minoranza della popolazione. Di contro le
tribù arabe s’erano cacciate in una sanguinosa
fratricida catena di offese e di vendette. Sì che, in
pratica, la maggioranza araba, debole per la sua
interna discordia, finiva con l’essere alla mercé
della minoranza giudaica, compatta e concorde.
Maometto, con pronto acume politico, colse i termini della situazione e si offrì alle tribù arabe come paciere, a condizione però che tutte riconoscessero in lui l’unica indiscussa autorità.
Vi furono colloqui e trattative segrete tra i
rappresentanti della città e Maometto, la cui fama lo raccomandava come possibile arbitro e capo. Infine fu concluso un patto, per il quale le tribù arabe di Medina rinunziavano al tradizionale
isolamento e costituivano un’unica comunità politica e rimettevano ogni facoltà e potere nelle
mani di Maometto. Ciascuno dei gruppi costituenti la comunità conservava la propria identità
etnica e le proprie credenze religiose; ma tutti
dovevano contribuire alla difesa e avevano diritto
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ad essere protetti dagli altri. Tutti si rimettevano
all’autorità di Maometto, che giudicava in definitiva istanza.
Con questo patto Maometto modificava la
legge del deserto e fondava una comunità sopratribale, all’interno della quale si stabilivano rapporti analoghi a quelli della tribù o del clan.
L’unificazione dei gruppi arabi, abituati da sem-
Veduta attuale della città di Medina
pre ad uno stato di semi-ostilità permanente, era
un evento nuovo, che suscitava lo stupore dei
Beduini. E li esaltava.
Attraverso il Profeta, il Corano li esortava:
«Attenetevi saldamente alla corda di Dio, tutti assieme, e non vi disperdete! Ricordate il dono che
Dio v’ha fatto: eravate nemici, ed Egli unì i vostri
cuori, sì che, per grazia sua, ora siete fratelli” (3, 98).
La migrazione
Preceduto dai suoi fedelissimi, che partirono
alla spicciolata, nel settembre del 622 il Profeta
lasciò la Mecca e si trasferì a Yatrib, che da allora
fu chiamata Madı-nat al-Nabı-, la “Città del Profeta”, ovvero Medina.
Operando all’interno della neonata comunità
di Medina, i “compagni” del Profeta ottennero
presto che gli arabi medinesi si sentissero uniti
non solo politicamente, ma anche religiosamente
nella comune fede in Dio Uno e Unico. Nacque
così una comunità, la cui dimensione religiosa
non è separabile da quella giuridica; una comunità che trova coesione nell’islàm ovvero nel fiducioso abbandono alla volontà di Dio.
Ben a ragione i musulmani presero come data
di inizio della loro èra l’anno 622, l’anno della
migrazione (hı-gra, italiano ègira), perché proprio
con l’emigrazione del Profeta dalla Mecca a Medina l’Islàm si definì come corpo religioso a sé
stante, distinto e separato sia dall’Ebraismo sia
dal Cristianesimo, pur ribadendo che con queste
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religioni condivideva l’origine comune in Abramo. A Medina gli ebrei fecero notare a
Maometto le differenze che v’erano fra il dettato
della Bibbia e il dettato del Corano, e si burlarono di lui, come di un ignorante. Di contro, Maometto accusò ebrei e cristiani d’aver adulterato
l’autentica rivelazione da essi ricevuta, si proclamò “restauratore” di quella rivelazione, e stabilì che l’orientamento (qibla) nel rito della preghiera non fosse più verso Gerusalemme, così
come precedentemente aveva ordinato, ma verso La Mecca.
Questa emancipazione soddisfaceva anche
l’orgoglio nazionale degli Arabi. Fin da principio
il Profeta aveva inteso dare alla nazione araba
una “religione del Libro” che fosse pari in dignità
a quelle degli ebrei e dei cristiani. Proclamandosi,
ora restauratore della rivelazione e “suggello dei
profeti”, faceva della propria nazione la portatrice d’un messaggio che concludeva e suggellava
per sempre la storia stessa delle rivelazioni di Dio
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all’umanità. Ciò non vuol dire che l’Islamismo assumesse un carattere strettamente nazionalistico;
anzi bisogna riconoscere che neppure nei primi
tempi esso escluse un’apertura universale a tutti
gli uomini, di là dalle differenze di razza e di nazione. Resta tuttavia innegabile che la nazione
araba ha sempre occupato nell’Islàm un posto di
preminenza e di privilegiata nobiltà.
Infine a Medina avvenne un fatto gravido di
conseguenze per il futuro: Maometto si trovò ad
essere il capo d’una comunità che era, insieme, e
politica e religiosa. Questa coincidenza della sfera politico-sociale con quella religiosa resterà uno
dei caratteri fondamentali dell’Islàm. La distinzione che il cristiano fa tra “ciò che appartiene a
Cesare” e “ciò che appartiene a Dio” per il musulmano non ha senso alcuno.
Antica pianta della moschea di Medina, che ingloba in
sé i luoghi legati alla vita del Profeta (miniatura del
«Libro dei pellegrini». Biblioteca Nazionale di Parigi)
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L a comunità del Profeta
La neonata comunità islamica fu indicata col
nome di umma. Derivando da umm, che significa
“madre”, questo nome evoca i legami di sangue,
che vincolavano fra loro, un tempo, i membri di
una stessa gente. Nella prospettiva cosmica, la
nuova comunità, la ummat-al-Nabı-, la “comunità
del Profeta” è la realizzazione completa e definitiva delle comunità che ciascun profeta, anteriore
a Maometto, era stato incaricato di formare.
Fin dai primi tempi la umma è aperta a tutti coloro che abbracciano l’islàm. Oggi la umma è
costituita dall’insieme dei gruppi umani, a qualsiasi popolo o razza appartengano, che accolgono
un principio unificante superiore ai legami del sangue, agli odi o alle attrattive naturali degli uomini.
Questo principio superiore è la sottomissione alla
legge di Dio, riconosciuto l’unico Signore. Ma, pure in questa apertura universale, la comunità isla-
mica costituisce il “popolo eletto” in mezzo agli
altri popoli. Il Corano infatti proclama: «Voi siete
la migliore nazione che sia stata prodotta dagli
uomini». (3. 106).
La umma unisce fra loro i musulmani, ma contemporaneamente li separa da tutti gli altri uomini, perché, di fronte agli errori e alle impurità
degli altri, essi hanno il privilegio di proclamare la
unicità di Dio e la purezza della Sua legge.
Appartenendo al popolo eletto, veridico e puro, i musulmani hanno una coscienza acuta di ciò
che li rende differenti dagli altri. Nello stesso
tempo, il legame giuridico della comunità alimenta, all’interno della stessa, un sentimento di
unità di ordine affettivo. Anche se ignorante o
scettico nel campo della dottrina e della legislazione islamica, il musulmano prova per gli altri
musulmani un sentimento fraterno, che può divenire molto intenso e rendere assai viva la coscienza del legame religioso, che uniscce i musulmani in comunità coerente, ombrosa e perfino
26
aggressiva in faccia a tutti coloro che le sono
estranei.
Fortissimo all’interno della umma, il sentimento di fraternità del musulmano è, però, incapace
di estendersi a tutti gli uomini.
Il senso di separazione dagli altri è reso tangibile e più vivo dalla dimensione territoriale che
tradizionalmente i musulmani attribuiscono alla
loro religione. Il diritto musulmano considera il
mondo come diviso in due parti: il da–r-al-islàm,
ovvero “dimora dall’Islàm”, e il da–r-al-narb, “dimora di guerra”. I paesi, nei quali vige la legge
coranica e che sono soggetti a governi musulmani, costituiscono il da–r-al-islàm; il resto è la terra
degli “infedeli”, contro i quali i musulmani si trovano, teoricamente, in stato di guerra, finché
tutto il mondo non abbia abbracciato l’Islàm.
Maometto parla ai suoi guerrieri prima d’una battaglia contro gli idolatri meccani (miniatura turca)
La comunità del Profeta
Fin dai tempi più antichi, tuttavia, alcuni autori
islamici introdussero una categoria intermedia, il
da–r-al-sulh., ovvero “dimora del patto” o del trattato, per indicare paesi non musulmani tributari o
alleati dell’Islàm.
Il sentimento di fraternità, che unisce fra loro i
musulmani, non esclude divergenze e discordie
intestine, giacché queste, dicono i musulmani, sono
permesse dalla misericordia al Dio, che ha pietà
delle debolezze umane. La storia dimostra che
l’Islàm ha conosciuto lotte politiche e dottrinali fin
dall’inizio. Ci volle più di un secolo perché gli Arabi
rinunziassero ai loro privilegi e ammettessero effettivamente l’uguaglianza politica di tutti i credenti.
Le lotte intestine dei primi secoli indussero alcuni musulmani a suggerire un altro termine per
designare la comunità. Questo termine è jama–’a,
che significa “riunione”, assemblea. Esso vuole
evocare una nozione più spirituale di quella
espressa dal termine umma, che sembra restringersi al concetto di consanguineità. La jama–’a
27
designa l’insieme dei credenti in quanto “coscienti” della loro unità nella essenza del Messaggio divino e della Legge rivelata.
Il vincolo, che unisce fra loro i musulmani, non è
alcuna forma di partecipazione alla vita soprannaturale. È il Libro sacro, il Corano, tesoro inestimabile
e insostituibile, del quale solidalmente è depositaria
e custode la Comunità del Profeta. Il Corano è la
prova tangibile dalla presenza di Dio in mezzo al
suo popolo. Attraverso il Corano, Dio insegna, ammaestra, ammonisce, guida, conforta, illumina. In
una religione priva di sacramenti, qual è l’Islàm, il
Corano è l’unico canale attraverso il quale un
“qualcosa” che venga da Dio, si comunica all’uomo. Pertanto, per il musulmano il Corano è tutto.
C’è anche una unità dogmatica alla base della
vita della umma; ma si tratta di un vincolo dogmatico estremamente semplice, che si può così formulare: è musulmano e, quindi, fa parte della umma chiunque attesti pubblicamente la unicità di
Dio e la missione profetica di Maometto, e si volga
28
verso la Mecca per pregare. Nessun musulmano
può essere escluso dalla comunità, se conserva
questa minima esigenza dogmatica, anche se egli
appartenga ad una delle tante sètte, nata dalla
discussione e dai disaccordi relativi alla successione
del Profeta, anche se trascuri l’osservanza della
legge di Dio, anche se, in fondo al cuore, nutra
dubbi o sia scettico riguardo ai due articoli (unicità
di Dio e missione profetica di Maometto) di cui si
compone la shaha–da ovvero il “credo” del musulmano. Solo i peccatori pubblici, che turbano l’ordine sociale della comunità agendo contro la
legge di Dio o insegnando modi di agire opposti
alle osservanze esteriori, devono necessariamente
essere espulsi dalla comunità. La loro espulsione si
attua con l’esecuzione capitale; e contro di essi c’è
la presunzione della dannazione eterna.
Gli ebrei di Medina vengono cacciati dalla città dopo
la costituzione della “comunità del Profeta”
La comunità del Profeta
Ma nessuno può lasciare la umma di propria
volontà. Che un musulmano lasci volontariamente la comunità del Profeta, per aderire ad un’altra
religione, è una eventualità che il mondo islamico
si rifiuta di prendere in considerazione. L’apostata
è assimilato al peccatore pubblico. Pertanto è reo
di morte. Tuttavia, se in particolarissime circostanze la professione di fede islamica dovesse comportare grave pericolo, il musulmano può, secondo la legge, trovare rifugio nel “nascondimento”
(kitma–n), nel segreto, che lo esime dall’adempiere
i precetti religiosi in caso di forza maggiore o se si
teme un danno considerevole.
L’occultamento delle proprie convinzioni religiose per motivi di prudenza non è una innovazione tardiva della legislazione islamica. Infatti
già il Corano proclama:
29
«Colui che non crede in Dio […] sarà punito,
eccetto colui che sia stato costretto a ciò, ma il
cui cuore riposi sicuro nella fede» (16, 108).
Commentando questo passo, Al-Tabarı-, dottore musulmano del IX-X secolo, sentenzia che,
se qualcuno si vede forzato a dichiararsi infedele
e a rinnegare la sua fede con la lingua per liberarsi così del suo nemico, non v’è nulla da rimproverargli, purché il suo cuore si mantenga fermo nella verità; Dio guarda, infatti, alla fede del
cuore.
In sintesi, la umma è una comunità nella quale chiunque creda nella unicità di Dio e nella missione profetica di Maometto, può entrare; ma
dalla quale nessuno è libero di uscire.
Cavalieri arabi
31
I l combattimento nella via di Dio
A Medina, Maometto ricevé dall’angelo la recitazione di due versetti del Corano, che dicono:
«I miscredenti non cessano di combattervi per
farvi apostatare dalla vostra religione, se ci riescono. Ora chi di voi apostaterà dalla sua religione, morendo infedele, vedrà rese vane, in questa
vita e nell’altra le sue azioni […]. Coloro, invece,
che credono, che emigrano e combattono nella
via di Dio, costoro possono sperare nella misericordia di Dio, perdonatore e misericordioso». (2,
214-215).
Maometto li intese come una approvazione
del le operazioni militari che aveva intrapreso
contro i meccani e come una esortazione a perseverare in essa. Con circa trecento dei suoi affrontò mille meccani presso i pozzi di Badr e vinse. Con il «miracolo di Badr» Alla–h confermava
la missione di Maometto e scompigliava i piani
dei miscredenti. D’ora in poi non bisognava più
contare il loro numero. Cento musulmani potevano vincerne mille:
«O profeta, incita i credenti al combattimento.
Venti di voi, che siano perseveranti, vinceranno
duecento miscredenti. Cento di voi vinceranno
mille di quelli che non credono» (Corano 8, 66).
Nasceva così il giha–d, il combattimento nella via
di Dio, la guerra sacra, come uno dei doveri fondamentali della umma, impegnata a lottare perché
sulla terra si estenda il rispetto dei diritti di Dio.
Le più importanti disposizioni del Corano concernenti la guerra sacra risultano dai seguenti
versetti:
«Fate guerra per la causa di Dio a coloro che
vi fanno guerra, ma non siate aggressori: Iddio
non ama gli aggressori.
Uccideteli dovunque li incontriate e cacciateli
di donde vi hanno cacciati» (2, 190-191).
«Combatteteli dunque, finché non vi sia più
persecuzione e la fede in Dio sia libera. Se la
32
smettono, non vi sia ostilità che contro gli iniqui»
(2, 193).
«Dio difende i credenti. Dio non ama i traditori ingrati. Coloro che combattono perché è stato
fatto loro torto, vi sono autorizzati, e Dio è ben
capace di sostenerli.
Coloro che sono stati costretti ad uscire dal
loro paese senza alcun diritto, ma solo perché
dicono: “Il nostro Signore è Iddio. – Ché se Iddio
non contenesse gli uni per mezzo degli altri, quanti monasteri e chiese e sinagoghe e mo schee
sarebbero distrutti in cui viene menzionato il nome del Signore! – Certamente Iddio assisterà chi
Lo aiuta: Egli è forte e potente» (22, 38-40).
Oggi soltanto alcune correnti estremiste dell’Islàm sostengono ancora lo stretto dovere del
combattimento con le armi; la maggior parte dei
riformisti contemporanei insegnano, invece, che
Proclamazione della unicità di Dio e spada sguainata.
Simboli dell’Islàm
Il combattimento nella via di Dio
basta rispondere con mezzi pacifici alla chiamata
missionaria che impegna tutti i musulmani. Ma è
da tutti riconosciuto che, se una terra musulmana
viene attaccata dagli “infedeli” ovvero da una potenza non musulmana, tutti i credenti, donne e
bambini compresi, hanno il dovere di rispondere
secondo le proprie forze alla mobilitazione generale. In tal caso, tutti debbono essere volontari per il
giha–d. Se il paese musulmano aggredito non è in
grado di rispondere all’aggressione, è dovere dei
paesi musulmani vicini di entrare in guerra contro
l’aggressore. E, se anche questi paesi vengono sopraffatti, allora tutti i musulmani del mondo devono entrare in guerra contro il nemico comune.
Tornando alla guerra intrapresa da Maometto
contro gli idolatri meccani, va ricordato che essa
si protrasse per circa sette anni con alterne vicende, ma complessivamente a favore dei musulmani. Nell’anno ottavo dall’ègira, 630, Maometto si
presentò avanti alla Mecca con forze numerose e
vi entrò quasi senza alcuna resistenza. La sua
33
entrata fu pacifica, perché egli non veniva a distruggere ma a dominare e a guadagnarsi con la
magnanimità gli ostinati. Anzi lo fece a tal punto
da suscitare il malumore dei “compagni” della
prima ora. Ordinò soltanto di distruggere dentro
e fuori la Ka’ba gli emblemi dell’idolatria e di
uccidere alcuni meccani che riteneva particolarmente pericolosi.
La vittoria gli fu favorita dalla saggezza con la
quale seppe trattare con i capi meccani. Salvi
restando i dogmi fondamentali della unicità di
Dio, dalla resurrezione dei corpi, del giudizio universale, non pochi elementi della religiosità araba
tradizionale venivano conservati: era stata accolta l’antica istituzione del pellegrinaggio alla
Mecca e al monte Arafat, la quale veniva anzi ad
occupare un posto d’onore fra i doveri del culto;
la Ka’ba era diventata il centro spirituale della comunità islamica; antiche credenze popolari, come quella nei ginn, spiritelli in parte buoni e in
parte cattivi, erano state islamizzate.
34
D ivisioni nell’Islàm:
Sunniti e Sciiti
Tornato a Medina, Maometto si dedicò ad ampliare la cerchia della sua autorità, mostrandosi
terribile con gli ostinati e liberale con i sottomessi.
La tendenza generale degli Arabi era quella di
entrare a ingrossare le file dei musulmani; ma la
qualità dei nuovi adepti non era più quella dei
primi fedelissimi, né può dirsi che la convinzione
religiosa fosse il motivo primo della loro adesione
all’Islàm. Lo stesso Corano, del resto, testimonia:
«Dicono i beduini: “noi crediamo”. Di’ loro:
“voi non credete; dite piuttosto: abbiamo abbracciato l’islàm; poiché la fede non è ancora entrata nei vostri cuori”. (49, 14).
L’anno decimo dell’egira, 632 dell’era cristiana, Maometto era appena tornato dal suo ultimo
pellegrinaggio alla Mecca, pellegrinaggio che i
musulmani oggi ricordano come quello “del con-
gedo”, quando fu colto da febbre, da attacchi di
delirio e, in breve, nel mese di giugno morì, senza aver lasciato alcuna disposizione circa il futuro
governo della umma. Nel disordine e nello scompiglio generale che ne seguì, il cadavere rimase
insepolto, contrariamente all’uso, per più di un
giorno. Infine fu sepolto da pochi seguaci nella
stessa casa, a porte sbarrate, di notte. E si scatenò tra i compagni e i parenti la lotta per il potere. Che il Profeta potesse avere un “successore”
era, chiaramente cosa assurda; bisognava comun que designare un “vicario” (Khalı-fa) che
prendesse le redini del governo.
Che il “califfo” dovesse essere scelto tra i consanguinei del Profeta era un principio accettato da
tutti. Si trattava comunque di decidere se fosse
– Bakr,
più opportuno affidare il governo ad Abu
suocero di Maometto, oppure ad Alì, suo cugino e
– Bakr; ma
genero. Prevalse la candidatura di Abu
Alì e il suo “partito” (shi’a) abbandonarono per
protesta l’assemblea e si rifiutarono di riconoscere
Divisioni nell’Islàm: Sunniti e Sciiti
35
– Bakr e, in seguito, dei suoi sucla nomina di Abu
cessori. Solo nel 656 Alì poté ottenere il califfato;
e fu il quarto califfo. Ma la legittimità della sua
elezione fu sanguinosamente contestata. Infine
–fa nel
egli cadde assassinato nella moschea di Ku
gennaio del 661, anno 40° dell’ègira.
Le travagliatissime vicende che seguirono la
morte di Maometto hanno provocato scissioni nel
corpo dell’Islàm, non solo di natura politica, ma
anche di prassi religiosa. Quando, infatti, con l’estendersi geografico della sua area, la umma si
trovò a dover risolvere problemi di natura giuridicomorale non esplicitamente trattati nel Corano, ci si
domandò che cosa, al suo tempo, avesse deciso,
sentenziato, fatto, in circostanze analoghe il
Profeta. Si cercò di ricostruirne la Sunna, ovvero il
comportamento, nei detti e nei fatti. A tale scopo
–d),
si ricorse alla “catena delle testimonianze” (isna
per arrivare fino al Profeta o almeno ad un persoMaometto e Abu– Bakr nella grotta (miniatura turca)
Maometto sul letto di morte (miniatura turca)
Divisioni nell’Islàm: Sunniti e Sciiti
naggio che fosse direttamente o indirettamente
testimone autorevole. Ora, nella catena dei testimoni spesso compaiono delle figure che la shi’a, i
“partigiani di Alì”, ovvero gli Sciiti, non riconoscono per il semplice fatto che quei testimoni risultano
essere stati i primi tre califfi ed i loro fautori, ovvero
i nemici di Alì. Sicché la loro Sunna risulta meno
ricca di «fatti» e di «detti» del Profeta di quanto
non sia la Sunna riconosciuta da tutti gli altri musulmani. Questa differenza ha prodotto all’interno
dell’Islàm, la distinzione tra Sunniti e Sciiti. Nella
stragrande maggioranza, i musulmani sono sunniti. La loro Sunna si compone di alcune migliaia di
“narrazioni” (had -ı th) di fatti e detti del Profeta.
Quella degli sciiti è notevolmente più stringata.
Sicché gli Sciiti finiscono con l’essere più Sunniti
degli stessi Sunniti, nel senso che la maggiore
ristrettezza della loro tradizione li induce ad essere
più legittimisti degli altri musulmani.
Ya Alì, l’ascia di Alì
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38
Per esempio, essi non ammettono la dissimulazione delle convinzioni religiose che, in caso di
grave pericolo personale, è ritenuta lecita dagli
altri musulmani.
L’ambiente di violenza e di repressione in cui è
nata e si è sviluppata la Shi’a ha contribuito
potentemente a fomentare in essa uno spirito
aspro e ostile nelle sue relazioni con membri di
altre confessioni religiose, sia musulmani che non
musulmani.
La turbolenza congenita degli sciiti ha dato
luogo, nel corso dei secoli, a frequenti scissioni.
Sarebbe lunga e complessa una rassegna, anche
sommaria, delle sètte alla quali la shi’a ha dato
origine.
Maometto e Alì ripuliscono la Ka’ba dagli idoli
39
I l Corano
Assai al di sopra della Sunna la fonte dottrinale
primaria dell’Islàm è il Corano. Il nome Corano è la
traduzione occidentale dell’arabo al-Qur’a–n che significa “recitazione” o “lettura recitata”, perché effettivamente secondo la dottrina islamica, esso contiene le proposizioni che, di volta in volta, l’angelo
Gabriele recitò a Maometto, leggendo da un volume
arcano, sublime e santo, ben conservato in Cielo, e
che, a sua volta il Profeta recitò ai suoi compagni, a
mano a mano che gli venivano dettati in “chiara lingua araba”. Pertanto il Corano è parola testuale di
Dio. Di proprio, il Profeta non vi ha posto nulla. La
sacralità del Corano comprende ogni sillaba del
testo, tanto che il tollerare anche semplici errori
materiali nella riproduzione manoscritta o stampata
della lezione sarebbe offesa assai grave fatta al Libro.
Il Corano si compone di 114 capitoli, detti sure; ciascuna sura consta di periodi più o meno
lunghi, chiamati “versetti” (a–ya–t). Ciascuna sura
ha un titolo proprio. La prima, per esempio, è
detta “La aprente il Libro”, l’ultima è “La sura
degli uomini”. È inutile cercare nella successione delle sure un ordine logico o tematico, giacché esso non v’è; la recitazione dei versetti da
parte dell’angelo fu infatti intermittente e frammentaria, secondo una lo gica che si rifà alla
insondabile sapienza di Dio e alla opportunità
del mo mento, còlta dalla Sua mi se ricordiosa
provvidenza.
A mano a mano che venivano dal Profeta recitati ai compagni, i versetti furono da essi dapprima imparati a memoria e poi fissati per iscritto. So lo più tardi, durante il califfato di Abu–
Bakr, si provvide a raccogliere tutti i passi del
Corano conservati per iscritto o ricordati a memoria dai recitatori, così che niente del Libro
andasse perduto. La numerazione dei versetti di
ciascuna sura avvenne in un secondo momento,
e non fu sempre seguito lo stesso ordine. Sì che
40
oggi è possibile trovarsi di fronte a redazioni che
hanno numerazioni diverse.
Nell’ordinare le sure fu invece seguito un ordine abbastanza concorde e uniforme nelle diverse
re dazioni. Tranne la prima, che contiene una
breve preghiera, si decise di disporle secondo la
loro lunghezza, cominciando dalla più lunga e
procedendo in ordine decrescente fino alle più
brevi. Quest’ordine di successione rispondeva a
certe abitudini proprie dal mondo semitico. È
così, infatti, che i filologi iracheni dei secoli VIII e
IX hanno sistemato le raccolte dell’antica poesia
araba: dai passi più lunghi via via a quelli più
brevi.
Verso la metà dell’Ottocento gli orientalisti
europei, appoggiandosi a criteri di evidenza interna, di stile, di lessico, di allusioni, cercarono di
ricostruire l’ordine cronologico delle sure e distinsero le sure del periodo meccano da quelle del
Frontespizio del Corano
Il Corano
periodo medinese. Ma è chiaro che questo lavorio storico-filologico non ha alcuna importanza
per il fedele musulmano.
I versetti coranici sono in massima parte in
versi o in prosa rimata. Ciò ne favorisce la memorizzazione. Notevoli per il valore poetico sono
le vigorose, immaginose, ardite descrizioni del
giudizio universale, le commosse esaltazioni della
bontà di Dio, le invettive contro i miscredenti e i
disonesti. Non senza ragione i musulmani considerano il Corano, oltre che fonte primaria di dottrina e di diritto e guida di vita pratica, anche incomparabile monumento letterario. Con il Corano, infatti, nasce e si codifica la letteratura araba.
Nei Paesi islamici la recitazione del Corano costituisce una vera arte, coltivata in scuole speciali
e oggetto di studio da parte di molti autori.
41
“Masticato e rimasticato” continuamente in ogni
occasione, il sacro testo incide profondamente
sulla formazione spirituale e sulla mentalità del
musulmano. Poiché il testo conserva intatta la
propria sacralità solo nella “pura lingua araba” in
cui fu originariamente dettato dall’angelo Gabriele, è in lingua araba che esso va recitato dal
musulmano. Ciò spiega quell’aria comune di famiglia e quei vincoli di fratellanza che si osservano fra popoli musulmani anche di razza e di lingue diverse.
La recitazione del Corano accompagna la vita
giornaliera di ogni musulmano e solennizza gli
atti più importanti della sua esistenza, dalla culla
al sepolcro; in molti Paesi musulmani fa parte del
programma radio e riscuote un alto indice di gradimento.
Albero genealogico dei profeti e dei “santi”
(disegno dell’Autore su schema islamico)
43
L a “storia sacra” nel Corano
Nel Corano non v’è nulla che, in quanto a
contenuto e struttura, corrisponda al Genesi della Bibbia. Chi voglia ricostruire una “storia sacra” del mondo e dell’uomo secondo il dettato
coranico deve ricercare qua e là nel Libro i passi
più significativi, per poi disporli in ordine logiconarrativo.
Bisogna prendere le mosse dalla proclamazione della eternità e unicità di Dio, principio e fine
ultimo di tutte le cose: «Egli è il primo e l’ultimo
[…] ed è l’onnipotente» (57, 3).
Con l’onnipotenza del suo comando, Dio ha
tratto dal nulla il cielo e la terra, le montagne e i
fiumi, le piante e gli animali. Con l’onnipotenza
della Sua parola ha tratto dal nulla gli angeli,
della cui creazione però il Corano, come del resto anche la Bibbia, non fa esplicita narrazione.
Un tempo Dio comunicò agli angeli la sua
volontà di creare l’uomo e di farlo vicario (khalifa) amministratore della terra:
«Il tuo Signore disse agli angeli: “in verità, io
sto per costituire in terra un vicario”; gli angeli risposero: “costituirai su di essa uno che porterà
corruzione su di essa e spargerà sangue, mentre
noi celebriamo le tue lodi ed esaltiamo la tua
santità?”. Dio rispose: “io, in verità, so ciò che
voi non sapete”» (2, 28).
Come si vede, gli angeli manifestano previsioni pessimistiche, forse anche un po’ invidiose,
per la nuova creatura che deve venire. Ma, come
sempre, anche questa volta i progetti di Dio
restano insondabili dalle creature. Dio sa bene,
senza che gli angeli glielo dicano, che la nuova
creatura sarà fragile e, inevitabilmente, cadrà
nell’errore e nel peccato. E tuttavia permane nella volontà di crearla e di farla khalı-fa, vicaria amministratrice della Terra. Ma, sapendone in anticipo la debolezza, la dota di una “rivelazione”
innata, che la premunisca dall’idolatria e, comun-
44
que, non le lasci la scappatoia dell’ignoranza,
quando vorrà scusarsi:
«Il tuo Signore trasse dai lombi dei figli di Adamo la loro discendenza e li fece testimoniare contro se stessi, dicendo: “non sono io il vostro Signore?; essi risposero: “sì, lo attestiamo”. Ciò facemmo perché non aveste a dire, il giorno della risurrezione: “in verità, noi fummo incuranti di ciò,
perché lo ignoravamo» (7, 171).
Così Dio convoca alla propria presenza tutta
l’umanità futura allo stato potenziale, e le fa testimoniare la verità fondamentale dell’Islàm, cioè
che non v’è altra divinità al di fuori di Dio. Così
Dio imprime nel singolo uomo la fitra, ovvero la
religione innata, per effetto della quale ogni uomo nasce naturalmente credente, naturalmente
muslim, ovvero musulmano per costituzione.
Poi Dio procede alla creazione dell’uomo: ne
plasma il corpo con la creta, e nel corpo «soffia
del Suo spirito» (32,8), dandogli in tal modo la
vita e le facoltà di udire, di vedere, di amare.
Islàm e Occidente
Infine comanda agli angeli: «Prostratevi davanti
ad Adamo» (2, 32). Gli angeli, obbedienti, si prostrano tutti, tranne uno:
«Essi si prostrarono tutti, eccetto Iblı-s, il quale
si rifiutò, anzi s’inorgoglì e così divenne uno dei
miscredenti». (2, 32).
Per la sua disobbedienza dettata da orgogliosa superbia, Iblı-s, il diavolo, viene scacciato dal
paradiso; e dovrebbe essere precipitato nell’inferno. Invece ottiene di rimanere sulla terra, quale
nemico dichiarato dall’uomo:
«Poiché tu mi hai fatto errare – disse Iblı-s – io
insidierò gli uomini sul tuo sentiero diritto, poi
sopraggiungerò ad essi, per dinanzi e per di dietro, da destra e da sinistra, e tu non troverai la
maggior parte di loro riconoscenti». (7, 15-16)
Gli effetti dell’opera tentatrice di Iblı-s-Satana non
tardano a farsi sentire. Infatti il Corano prosegue:
«Noi dicemmo: “o Adamo, abita tu e la tua
sposa nel giardino, e mangiate dei frutti di esso
abbondantemente, a vostro piacere, però non vi
La “storia sacra” nel Corano
avvicinate a questa pianta, perché non diventiate
iniqui”.
Però Satana li fece scivolare da esso e li fece
bandire dal luogo in cui si trovavano; allora noi
dicemmo loro: “scendete dal Paradiso […]; sulla
terra voi avrete una dimora e un godimento per
un tempo limitato”» (2, 34-35).
In questo passo il Corano ricorda stringatamente la disobbedienza di Adamo e le sue conseguenze, che furono la perdita del paradiso terrestre e la brevità della vita sulla terra. Tuttavia essa
fu “il primo” peccato dell’uomo, non “il peccato
originale” di cui parlano i cristiani. Nella narrazione coranica, infatti, il peccato di Adamo e di Eva,
anche se costò al genere umano la perdita del
paradiso, non incise sostanzialmente sulla sua
natura. Il primo peccato non tolse ad Adamo la
qualifica di credente né gli precluse il perdono di
Dio e la salvezza. Di fatto, pur dopo il peccato:
«Adamo imparò dal tuo Signore parole di
preghiera, e Dio si volse benigno verso di lui,
45
poiché Egli è il misericordioso, il compassionevole». (2, 35)
Dio sa di aver dato esistenza e vita ad una
crea tura costituzionalmente fragile, incline al
peccato e, in più, esposta alle insidie di Satana;
specificamente Egli sa che, malgrado la fitra ovvero la religione innata che gli ha stampato nel
cuore, l’uomo ha bisogno continuo del Suo soccorso per conservarsi fedele ai compiti di vicario
e di servo (abd) che gli ha affidato. Perciò gli promette la Sua assistenza attraverso i profeti che gli
manderà col compito di rammentargli che non
v’è altra divinità al di fuori di Dio e di esortarlo
alla “prostazione”. Il Corano assicura:
«Quelli che seguiranno la mia direzione non
avranno alcun timore» (2, 36).
L’invio e la missione dei profeti è un beneficio
divino di cui l’uomo ha assolutamente bisogno;
ma da parte di Dio è un libero atto della Sua grazia. Il primo degli Inviati di Dio (rusul Alla–h) è lo
stesso Adamo; seguono nel tempo Noé, Abra-
46
mo, Giuseppe, Mosé, Giona, Davide, Salomone,
alcuni personaggi i cui nomi non si trovano nella
tradizione biblica, e infine Giovanni il Battista e
Gesù il figlio di Maria. Nella successione dei profeti non v’è progressività di rivelazione, perché
ciascun profeta viene a ricordare e a ribadire ciò
che è stato ricordato dal profeta che lo ha preceduto.
Tra l’invio d’un profeta e di quello successivo
si apre un vuoto (fatra), durante il quale gli uomini giacciono in una notte tenebrosa, perché, non
avendo la guida d’un profeta e la luce della profezia, non sanno testimoniare l’unicità e la signoria assoluta di Dio. L’avvento degli “ammonitori”
è come una illuminazione discontinua che rompe
le tenebre della notte.
Tutti uguali fra loro per la comune identica
missione, i profeti non sono però uguali anche
nei carismi che ricevono da Dio. Il Corano dice:
«Di tali profeti abbiamo preferito alcuni ad
altri» (2, 254).
Islàm e Occidente
Fra tutti emergono gli “apostoli privilegiati”,
che sono: Noé, che “levò il suo grido a Dio e fu
esaudito» (21, 76); Abramo, l’amico di Dio (khalı-l
Alla–h) che ricevette “la via retta” (21, 52); Mosé,
l’“interlocutore di Dio” (28, 30); Gesù, il figlio di
Maria, “eminente in questo mondo e nell’altro e
uno dei più prossimi a Dio” (2, 40).
La serie dei profeti culmina nella missione di
Maometto:
«Oggi ho reso perfette, per voi, la vostra religione e completata, per voi, la mia grazia, e ho
gradito, per voi, l’isla–m come religione» (5, 5).
E si chiude definitivamente con lui:
«Maometto non è il padre di alcuni dei vostri
uomini, bensì l’apostolo di Dio e il suggello dei
profeti» (33, 40).
Con l’invio del Corano la trasmissione della
pa rola di Dio si chiude definitivamente,e con
Maometto viene suggellata la serie dai profeti.
D’ora in poi, Dio non manderà più profeti.
Nella successione dei messaggi, così come il
La “storia sacra” nel Corano
Vangelo abroga la Tora–h, il Corano abroga il Vangelo. Ma, di volta in volta, si tratta di una abrogazione che è anche una conferma. L’ultimo annuncio, ovvero il Corano, riprende e ricapitola gli
annunci precedenti. Si spiega così, fra l’altro, la
frammentarietà della sua trasmissione, frammentarietà che trova organicità nei testi della Tora–h e
del Vangelo. Si spiega così il suo linguaggio che
raramente è espositivo; più spesso è evocativo e
allusivo:
«Ricordate la grazia di Dio verso di noi e il
patto che Egli ha concluso con voi…» (5, 10);
«Ricordatevi pure come noi vi liberammo dalla
gente di Faraone…» (7, 137).
«Ricorda quando gli angeli dissero a Maria:
47
“O Maria, Dio ti ha scelta, ti ha resa pura, ti ha
prescelta fra le donne…» (3, 37).
Essendo tra le genti che nel tempo hanno ricevuto profeti e messaggi, contenuti rispettivamente nella Tora–h e nel Vangelo, gli ebrei e i cristiani fanno parte della “Gente del Libro”. La
loro fede religiosa non è falsa; è semplicemente
adulterata e mutila. A chi voglia professare rettamente e pre cisamente la fede in Dio, Uno e
Unico, a chi voglia essere, cioè, vero muslim, non
resta che attenersi al Corano, giacché solo questo Libro contiene inalterata la Parola di Dio. E
riconoscere a Maometto per eccellenza la missione e il titolo di Profeta, perché egli “suggella” e
chiude, per sempre, la serie degli Inviati di Dio.
La moschea Selimiye di Edirne, Turchia (XVI secolo)
49
I l clero islamico
Per quanto i princìpi e i precetti islamici siano
esplicitamente e chiaramente enunciati nel Corano, possono sempre sorgere dubbi e perplessità nell’atto di calarli nelle contingenze della vita
quotidiana. Appunto allo scopo di offrire al musulmano una guida sicura nell’applicazione dei
precetti coranici è nata la sharı-ah, la “strada
maestra”, il cui studio è affidato ai dottori della
legge. Secondo il musulmano la sharı-ah non è,
però, opera dell’uomo: essa è stata rivelata da
Dio stesso, che l’ha inserita implicitamente nel
testo coranico. Compito dei dottori della legge è
perciò solo quello di coglierlo ed esplicitarlo.
Obiettivo dichiarato della sharı-ah è di stabilire
per il credente una esistenza equilibrata e sana,
nel rispetto dei diritti di Dio.
L’Islàm non conosce né la figura né la funzione
mediatrice del sacerdote. Pur inserito esistenzialmente nella umma, ciascun musulmano è solo nei
suoi rapporti con Dio. E tuttavia gli u–lema, studiosi
del Corano e della Sunna, e i faqı-h, studiosi del diritto positivo, esercitano qualcosa come un sacerdozio del diritto, formano una specie di clero, ed
hanno sempre goduto, nel mondo islamico, di una
venerazione religiosa e di una grande autorità.
Tuttavia l’Islàm non ha un corpo docente unitario, e i dottori della legge seguono scuole diverse. Sicché è possibile che su uno stesso tema
vengano formulate ed espresse sentenze diverse.
La Ka’ba nella Grande Moschea
51
I “segni distintivi” del popolo
eletto
Poiché, con Maometto, l’invio dei profeti è definitivamente concluso, è ai musulmani che Dio affida
il compito di «comandare il bene e proibire il male»
(3, 106), di promuovere “i diritti di Dio” in mezzo
alla gente. Questa è la missione della umma. Dopo
la morte del Profeta, la sua comunità resta messaggiera e testimone permanente di Dio, sino alla fine
dei tempi. Essa è incaricata di dare vittoria alla Legge
e alla Parola di Dio, di attuare il governo divino degli
uomini, conducendoli con la persuasione e l’esempio e, se è necessario, con la forza a riconoscere la
sola autorità legittima, che è quella di Dio.
Perché possa compiere la sua missione, la
umma è disciplinata da una serie di precetti, dettati dal Corano. Vedere tali precetti come “obblighi” o costrizioni è errato ad occhi musulmani. Il
musulmano vede i precetti coranici come un pri-
vilegio, come “segni distintivi dell’Islàm” (sha’
a’ir al-Isla–m), come blasone d’una nobiltà sacrale.
Ciò alimenta in lui l’orgoglio di ottemperare ai
suoi precetti e una sorta di rispetto umano alla
rovescia che, per esempio, lo induce a non detergersi la polvere dalla fronte, dopo la preghiera,
affinché tutti possano vedere quanto profonde
siano state le sue prostrazioni. Generalmente, il
musulmano è più scrupoloso esecutore delle prescrizioni coraniche, proprio quando si trova in
compagnia e si sente osservato.
La vita del musulmano è informata da un insieme di doveri culturali e sociali, alcuni dei quali
riguardano i singoli credenti, altri invece investono la comunità nel suo insieme. I doveri “personali”, però, sono tali solo in quanto impegnano
le singole persone e non nel senso che si esauriscano come valore e significato nell’azione personale, quasi fossero un affare privato: segnando
e ritmando la vita comunitaria della umma, essi
anzi sono manifestazione e suggello di unità.
52
I doveri personali sono cinque: la professione di
fede, la preghiera, l’elemosina legale, il digiuno nel
mese di Ramada–n, il pellegrinaggio alla Mecca.
Dovere fondamentale di ciascun musulmano è
rendere testimonianza della propria fede, proclamandola. Perciò la recitazione della shaha–da è la
testimonianza prima e principale. Nella prospettiva musulmana, la fede (ima–n) è prima di tutto
interiorità; ma questa non avrebbe valore, se non
si manifestasse nella testimonianza della parola e
nell’osservanza delle prescrizioni coraniche.
La shaha–da costituisce il nucleo centrale della preghiera, che il musulmano recita in cinque momenti
della giornata: al mattino, nel primo pomeriggio, al
vespro, la sera e prima del riposo della notte. La preghiera (as-sala–h) si svolge secondo un rituale rigidamente stabilito, perché è il culto ufficiale che la comunità dei credenti rende a Dio. Essa è preghiera
“pubblica”, è liturgia. E conserva il carattere di pubblicità, anche se, per ipotesi, viene recitata da un sinMusulmano raccolto in preghiera privata
I “segni distintivi” del popolo eletto
golo musulmano nella solitudine del deserto o nell’intimità della propria casa. La preghiera del venerdì,
recitata nella moschea poco dopo il mezzogiorno,
nulla aggiunge alla preghiera degli altri giorni. Di speciale ha soltanto che è “in comune” e perciò rinsalda
nel musulmano la coscienza di appartenere ad un’unica comunità. Coscienza che comunque e sempre è
alimentata dal fatto che i musulmani, in qualunque
angolo della terra si trovino, nell’atto di pregare,
rivolgono tutti la propria fronte verso la Mecca.
Alla preghiera liturgica, il musulmano può, se
vuole, aggiungere la preghiera privata, che la
pietà personale gli suggerisce.
L’elemosina legale è detta zaka–t. Tutti i musulmani, il cui patrimonio in denaro, metalli preziosi, merci,
bestiame ed altri beni superi un certo minimo stabilito, sono tenuti a pagare una tassa percentuale annua. La zaka–t ha lo scopo religioso di rendere grazie
a Dio dei beni da Lui concessi, ed è un dovere sociale in quanto sostegno economico della Comunità.
Un musulmano dà l’elemosina
53
I pellegrini si prostrano nella Grande Moschea della Mecca
55
R amada–n
Ramada–n è il mese del digiuno e della penitenza. All’apparire della luna nuova, i musulmani cominciano ad astenersi dal cibo, dalle bevande, dal
fumo, dall’uso dei profumi e da ogni altro possibile
godimento fisico. Il digiuno vale dall’alba al tramonto, finché v’è tanta luce da poter distinguere
ad occhio nudo un filo di lana bianca da uno di lana nera. I fedeli pii si ritirano nella moschea a pregare e a ringraziare il Creatore dei favori ricevuti.
Durante il mese del digiuno ciascun credente proverà la sua forza di volontà nel rispettarlo interamente, rinnoverà il suo atto di fede con l’ubbidienza alla Legge e si purificherà con la preghiera.
Ramada–n è il nono mese dell’anno islamico,
che si compone di 354 giorni, distribuiti in 12
mesi di 29 e 30 giorni ciascuno, alternativamente.
Fra il 26 e il 27 di Ramada–n cade la “Notte del
Decreto”, cioè la notte in cui il Profeta ebbe la prima
celeste visione. I musulmani dicono che nessuno sa
dire veramente il mistero di questa notte in cui i fiumi cessano di scorrere, il vento si tace, la natura
s’addormenta, gli spiriti del male sono ridotti all’impotenza, e si può sentire l’erba crescere e udire la
voce degli alberi. Coloro che sanno viverla, che sanno percepirne la bellezza, diventano santi o sapienti,
perché «vedono attraverso le dita del Signore».
Durante il mese del digiuno i musulmani ricordano in preghiera l’anniversario della morte di
Khadigia, la moglie prediletta del Profeta (10°
giorno), il ritorno vittorioso del Profeta alla Mecca (19° giorno), l’anniversario della morte di Alì,
quarto califfo dell’Islàm (21° giorno). Mese dunque anche di meditazione.
I rigori del digiuno non sono però tali da opprimere i fedeli. Intanto sono esentati dall’obbligo di osservarlo gli ammalati, i fisicamente deboli, i viaggiatori affaticati.
Dice infatti il Corano:
«Dio vuole portarvi conforto non disagio» (2, 181).
Musulmani durante la preghiera del venerdì nella Moschea di Balkh
–n
Ramada
Poi l’obbligo cessa al calare del Sole:
«Mangiate e bevete fino a quando appaia a
voi distinto il filo bianco dal filo nero, per l’alba;
poi compite il digiuno fino alla notte successiva,
né praticate quelle (i.e. le vostre donne), bensì
attendete alla preghiera nei templi» (2, 183).
Dal calare del sole all’alba la vita rientra nella
normalità e le privazioni dell’astinenza diurna
vengono spesso compensati da una eccessiva
libertà notturna, benché il clero non si stanchi di
ricordare che sta scritto «Dio non ama gli immoderati» e «mangiate, ma non scialacquate». Ma,
quando l’alba si profila all’orizzonte, il silenzio
57
torna a regnare nelle città e nei villaggi: i fuochi
dei bivacchi si spengono, i barracani tornano ad
avvolgere i viaggiatori (che si astengono quasi
sempre dal proseguire), le calzature d’ogni tipo
tornano ad allinearsi davanti alle moschee, dove i
fedeli si raccolgono di nuovo in preghiera e in
meditazione.
Al termine di Ramada–n il mondo musulmano
entra in festa. Il primo del mese di Shawwa– l,
appena chiuso il digiuno, ha inizio uno “svago”
di tre giorni, durante i quali ha luogo una preghiera solenne nella moschea e vige l’obbligo di
distribuire elemosine.
Donne nelle vie di Kabul
59
L a donna e il matrimonio
Un sereno discorso sulla condizione della donna
nell’Islàm deve prendere le mosse dalla condizione
della donna nella società araba preislamica. Prima
di Maometto in Arabia la donna era considerata
poco più e per certi aspetti anche meno di un animale domestico. Al punto che la “eccedenza”
delle nascite femminili veniva smaltita con l’infanticidio, perpetrato in modo feroce, ovvero con il seppellimento delle neonate, spesso ancora vive, nella
sabbia del deserto.
Il Corano condannerà decisamente e ripetutamente l’infanticidio: «Non uccidete i bambini»
(6, 141 e 152; 16,61; 17,33) e si occuperà specificamente della sorte delle neonate:
«Quando viene annunziata a qualcuno la nascita di una femmina, il suo volto si oscura, ed
Donne saudite al mercato
60
egli è profondamente afflitto; si nasconde dalla
gente, per l’onta di ciò che gli è stato annunziato, chiedendosi se debba lasciare in vita la neonata, oppure seppellirla vivente nella polvere»
(16, 60-61).
Per gli uccisori delle bambine non vi sarà
scampo il giorno del Giudizio Universale, perché
allora le neonate saranno invitate ad accusare
davanti al tribunale di Dio i loro carnefici:
«La sepolta viva sarà interrogata,
per colpa di chi sia stata uccisa» (81, 8-9)
L’aver rivendicato il diritto alla vita di tutti i
bambini, specialmente delle femmine, è non trascurabile innovazione nel costume sociale degli
Arabi. Per quanto poi riguarda lo status della
donna, bisogna tenere presente che esso s’inquadra nella visione monoteistica dell’essere umano,
che vede in ciascun uomo, maschio o femmina
che sia, una “persona”, ovvero una realtà unica e
irripetibile, a somiglianza dell’unicità e della irripetibilità di Colui che le dà esistenza e vita. L’uomo e
la donna hanno origine comune. Dio creò l’essere
umano e poi fece «di esso i due sessi, il maschio e
la femmina» (75, 39). I due sessi sono concordi
nel disegno di Dio: «I credenti e le credenti sono
amici, gli uni degli altri; essi ordinano ciò che è
lodevole e vietano ciò che è riprovevole» (9, 72). E
Dio non fa differenza nell’apprezzare l’operato
dell’uomo e della donna:
«Non lascerò che vada perduta l’opera di alcun
operante, fra di voi, sia egli maschio o femmina;
gli uni di voi provengono dagli altri» (3, 193).
Di conseguenza neanche nella vita sociale
può esservi discriminazione di diritti tra uomo e
donna. E tuttavia Dio ha voluto concedere all’uomo una maggiore maturità.
Ciò lo rende superiore alla donna, ma anche
responsabile della sua tutela:
«Gli uomini hanno autorità sulle donne per la
superiorità che Dio ha concesso agli uni sulle altre
e a causa di ciò che essi hanno speso per esse
delle proprie sostanze. Le donne oneste, alla loro
61
La donna e il matrimonio
volta, sono sottomesse e custodiscono il proprio
onore durante l’assenza dei mariti in cambio della
protezione loro concessa da Dio» (4, 38).
A motivo della loro fragilità, viene consigliata
alle donne una vita ritirata:
«Rimanete tranquille nelle vostre case e non
fate pompa di ornamenti come al tempo oscuro
della idolatria, osservate la preghiera, fate l’elemosina e ubbidite Iddio e il suo profeta» (33, 33);
e di tutelare la loro modestia coprendosi il
capo quando escono di casa:
«O profeta, di’ alle tue mogli, alle tue figlie e
alle donne dei credenti che facciamo scendere
un lembo del loro mantello (gilba–b) su di sé; questo sarà il modo più acconcio, perché esse vengano distinte e non ricevano noie. Dio è indulgente e compassionevole» (33, 59).
In sostanza, il Corano prescrive che le donne
abbiano il capo coperto, cosa che è comune a
Tradizionale costume di gala saudita
62
numerose altre tradizioni culturali, Cristianesimo
compreso. Di più non dice.
La proclamata “minorità” della donna nei
riguardi dell’uomo emerge in modo particolare
nella articolazione del diritto matrimoniale musulmano. Il matrimonio è considerato lo stato
obbligatorio per ogni musulmano che per condizioni personali ed economiche possa contrarlo.
Non solo i puberi capaci ed atti, ma anche gli
impuberi, per mezzo dei loro rappresentanti
legali, possono sposarsi, attendendo la pubertà
per la coabitazione. Gli interessati, tuttavia, possono rescindere il contratto matrimoniale nel
momento in cui acquistano capacità legale di
farlo. Alla stipula del contratto è indispensabile
la presenza dal patrono (walı-) della donna, che,
a motivo della sua presunta inesperienza, ha
bisogno di essere tutelata nei suoi interessi. Il
walı- è, d’ordinario, il parente più prossimo. L’oggetto del contratto è, per il marito, il diritto alla
moglie; per la donna, il pagamento della dote
nuziale stipulata. Il perfezionamento del contratto stabilisce il vincolo del matrimonio, per il
quale la donna rimane soggetta all’autorità del
marito, non può uscire di casa senza il suo permesso, né mostrarsi a capo scoperto, né riceve
visita di maschi salvo i parenti prossimi coi quali
è proibito il matrimonio.
La donna deve badare alla casa. Il marito può
correggerla, come i figli, ma senza eccedere. La
tradizione equipara le funzioni del marito ai più
alti doveri religiosi e raccomanda la bontà e la
tenerezza.
Il diritto obbliga il marito a mantenere la moglie in modo conforme alla sua posizione sociale.
La donna, invece, anche se ricca non è obbligata
a concorrere alle spese della casa; nemmeno a
soccorrere il marito indigente, poiché fra marito
e moglie c’è divisione di beni.
Al padre spetta la patria potestà sopra i figli,
che egli deve educare, correggere e mantenere
finché il figlio è pubere o finché la figlia non si
La donna e il matrimonio
sposa. La madre non è obbligata a concorrere al
mantenimento dei figli.
Per quanto riguarda la disparità di religione tra
gli sposi, le unioni miste sono permesse nel senso
che un musulmano può prendere moglie fra la
“Gente del Libro”, ossia cristiani, ebrei e assimilati,
però questi non possono prendere in spose delle
musulmane. Gli idolatri sono totalmente esclusi.
Oltre che per morte o per apostasia dall’Islàm
che ha lo stesso valore della morte, il matrimonio
musulmano può essere sciolto dal ripudio (tala–q),
da parte del marito, che comunque è dovuto a
risarcire la moglie ripudiata con un «mantenimento secondo le sue facoltà» (Corano 2, 237).
In casi eccezionali la donna può ottenere dal
marito il divorzio (tatlı-q) in cambio di una certa
somma come riscatto.
Il diritto islamico prevede la poligamia con un
numero massimo di quattro mogli legittime. La
poligamia simultanea non è tanto estesa come
molti occidentali pensano, perché ragioni econo-
63
miche la restringono d’ordinario ai ricchi. Del
resto lo stesso Corano consiglia la monogamia:
«Se voi temete d’essere ingiusti, sposatene
una sola» (4, 3).
Più che la poligamia simultanea, nei paesi
musumani è oggi diffusa quella che si potrebbe
chiamare “poligamia successiva” che consiste
nella sostituzione successiva dei coniugi nel processo di ripudi e di nuovi matrimoni. Ma questo
è un fenomeno che i paesi musulmani hanno in
comune con tutti gli altri paesi, anche non
musulmani, in cui sia ammesso il divorzio.
Le disposizioni coraniche sul matrimonio sono
per la donna un progresso sugli antichi costumi
arabi, poiché danno un carattere meno precario
alle unioni ed elevano le condizioni della donna.
Questa non è ormai più una “cosa” che fa parte
dell’eredità. La donna acquista diritti non solo ad
un equo trattamento ma anche alla successione
ereditaria, a un compenso in caso di ripudio e
all’amministrazione indipendente dei suoi beni.
(da G. Mori, Via Maestra. Atlante storico commentato, Milano 1951)
65
C onquiste degli Arabi ed
espansione dell’Islàm
Nel 633, dopo la morte di Maometto, gran
parte dell’Arabia si trovò, per la prima volta nella
storia, riunita in uno Stato unitario, tenuto insieme dalla comune religione. Allora gli Arabi iniziarono un movimento di conquista politica e religiosa di proporzioni grandiose; movimento sostenuto dall’entusiasmo religioso e dalla sicurezza della protezione di Alla–h. Le bande arabe invasero i territori dall’impero bizantino e dell’impero
persiano, che si rivelarono due colossi dai piedi di
argilla.
I Bizantini, sconfitti in varie battaglie tra il 634
e il 336, dovettero sgombrare la Palestina e la Siria, rinchiudendosi nelle roccheforti della costa
sostenute dalla flotta. I Persiani furono rapidamente disfatti negli anni 635-637, e gli Arabi occuparono l’Iraq, la Mesopotamia e Ctesifone, la
capitale dell’impero. Dalla Palestina si rovesciarono sull’Egitto e sconfissero l’esercito bizantino.
La cavalcata proseguì verso occidente, e nel 642
furono strappate ai Bizantini la Cirenaica e la Tripolitania. Invece nella Siria gli Arabi, giunti ai
piedi della barriera del Tauro, dovettero segnare il
passo: ci vollero ancora quattro secoli prima che
l’Islàm riuscisse a dilagare nell’Asia Minore.
I meravigliosi successi delle prime schiere partite alla conquista richiamarono nuove ondate di
guerrieri dall’Arabia, e il movimento di espansione fu ripreso sotto il terzo califfo ‘Utma–n (644656). Fu proseguita la conquista dell’impero persiano e in Africa fu occupato l’Alto Egitto sino alla Nubia. Fatto importante fu la creazione di una
marina araba, che operò sbarchi nelle isole di Cipro, Rodi e Creta. Intanto, all’interno dello Stato
arabo, il potere andava concentrandosi nelle mani degli Ommiadi, la famiglia di ‘Utma–n; ciò destò risentimenti e reazioni che culminarono nella
uccisione del califfo da parte di ribelli venuti dal-
Veduta aerea del maidan di Isfahan
Conquiste degli Arabi ed espansione dell’Islàm
l’Egitto. Allora fu nominato califfo Alì, genero di
Maometto. Anche questa nomina suscitò ribellioni, e Alì fu ucciso (661). Il potere ritornò nelle
mani degli Ommiadi, che stabilirono la loro sede
a Damasco e ressero l’Islàm per 89 anni.
Fu ripreso il movimento di conquista. Nell’Asia
centrale gli Arabi avanzarono fino all’Aral, toccarono i confini della Cina ed occuparono l’altopiano dell’Iran sino al fiume Indo. In Africa l’avanzata fu ripresa oltre Tripoli; nel 682 gli Arabi giunsero all’Oceano Atlantico e si spinsero nel deserto sino al Fezzan. La conquista di questa regione
fu fatta sui Berberi, che gli Arabi riuscirono a
convertire e ad associare in nuove conquiste.
Così, nel 711, un esercito islamico, composto in
gran parte di Berberi, ma sotto il comando di
Arabi, invase la penisola iberica o, come gli Arabi
dicevano, “il paese dei Vandali” (Andalus), e la
conquistò quasi tutta, strappandola a Visigoti.
Quindi gli Arabi passarono i Pirenei, con l’intento
di conquistare il cuore dell’Europa cristiana. Ma a
67
Poitiers furono arrestati da Carlo Martello, re dei
Franchi, nel 732.
Fu questo il periodo della maggiore estensione dell’impero arabo, che si mantenne in un primo tempo uno Stato unitario; estensione territoriale molto maggiore di quella di tutti gli altri imperi che lo avevano preceduto. In seguito, l’Islàm
si diffuse sino al centro dell’Africa e nell’Asia
orientale, ma solo come religione, mentre nei
primi secoli l’espansione della religione islamica
era andata di pari passo con l’espansione dall’impero arabo.
Nel 750 gli Ommiadi furono violentemente
soppressi e sostituiti dagli Abassidi, discendenti
di Abbas, zio di Maometto. Gli Abassidi instaurarono una monarchia assoluta ed ereditaria,
che diede all’Islamismo parecchi grandi sovrani,
quali Al-Mansur e Harun ar-Rashid, e portò il
mondo arabo ad una grande floridezza economica e ad un alto grado di cultura. Nei due secoli di dominio degli Abassidi furono conquista-
La ex Moschea di Cordova
Conquiste degli Arabi ed espansione dell’Islàm
te dagli Arabi l’isola di Malta e la Sicilia (827878); scorrerie furono fatte poi nel Mediterraneo occidentale, con occupazione di punti sulla
costa, che servivano di base a spedizioni di saccheggio.
I califfi abassidi accolsero sempre più largamente nel loro esercito truppe di schiavi turchi,
che essi ritenevano fedelissimi; ma queste truppe
finirono per diventare padrone dello Stato e degli
stessi sovrani. Di conseguenza, il potere centrale
s’indebolì, e si formarono Stati particolari autonomi entro i confini dell’impero. Il primo fu quello spagnuolo; seguirono quelli del Marocco, dell’Egitto, dalla Mesopotamia, della Persia.
Nel 1055 Bagdad fu conquistata dai Turchi
Selgiuchidi, i quali occuparono l’Asia Minore e
lottarono per il possesso della Siria e della Palesti-
69
na. Contro di essi e la loro intolleranza furono rivolte le crociate dei paesi europei.
L’occupazione araba della Spagna fu accompagnata da discordie e lotte fra i conquistatori. Nel
929 un ommiade si proclamò califfo dell’Andalus.
Intanto gli Stati cristiani, costituitisi nel settentrione della Spagna, iniziavano la lotta per la “riconquista” del paese. Lotta che durò fino al 1492,
anno in cui i cristiani conquistarono l’ultimo superstite Stato musulmano: il regno di Granata.
L’epoca del califfato di Cordova fu la più splendida della Spagna musulmana. La nuova fiorente
civiltà arabo-ispanica fu il risultato della fusione
della civiltà romana di Spagna con gli apporti
degli Arabi e dei Berberi ed esercitò una grande
influenza non solo sulla Spagna cristiana, ma su
tutta la civiltà europea dell’ultimo Medio Evo.
Osservatorio astronomico del XVI secolo a Istanbul (miniatura turca)
71
M usulmani e cristiani
nell’Occidente medievale
La Spagna musulmana divenne la regione più
popolosa e ricca d’Europa. La città di Cordova si
estese fino a raggiungere le 200.000 abitazioni; fu
abbellita da numerosi e fastosi edifici, da palazzi riccamente decorati, da una maestosa moschea cattedrale. Divenne meta di viaggiatori che venivano da
ogni parte del mondo per ammirare lo splendore in
cui vivevano i califfi e anche per acquisirvi la scienza.
Tanta magnificenza era dovuta all’eccezionale
sviluppo dell’industria e del commercio. L’arboricoltura e l’orticoltura, grazie ad un’abbondante e sapiente irrigazione, fecero del paese una regione in
cui si producevano i frutti più diversi. A questo proposito il geografo arabo al-Bakri (XI secolo) scrive:
«La Spagna è come la Siria per la piacevolezza
del clima e la salubrità dell’aria, come lo Yemen
per la mitezza e la costanza della temperatura,
come l’India per i penetranti profumi, come alAhwaz [in Persia] per l’abbondanza delle entrate
fiscali, come la Cina per le pietre preziose, come
Aden per le produzioni del litorale».
I califfi seppero valorizzare le abbondanti risorse
minerarie: oro, argento, rame, piombo, mercurio, ecc.
I tessuti di lana e di seta di Cordova, Malaga e Almeria erano meritamente famosi. Soltanto a Cordova
pare ci fossero quasi 13.000 telai. Come a Bagdad,
nella Spagna musulmana esisteva una celebre industria della ceramica e del vetro; le sue fabbriche di vasi
in bronzo e in ferro e di armi erano molto apprezzate.
Cordova era la patria dell’industria del cuoio.
Il commercio relativo a questa attività industriale contribuiva ad arricchire considerevolmente
le casse dello Stato. La Spagna musulmana esportava i suoi prodotti in Africa e nell’Asia centrale.
Un regolare servizio postale assicurava i contatti
tra il governo e i suoi lontani corrispondenti.
La lingua ufficiale del governo era l’arabo
classico, che costituiva anche la lingua della lette-
72
ratura, della scienza e dell’insegnamento. La lingua parlata era un dialetto derivato dall’arabo
classico, con una sintassi semplificata e con mescolanze di latino e del dialetto romanzo iberico.
L’educazione primaria era obbligatoria e così
diffusa che quasi tutti gli spagnoli dell’epoca musulmana sapevano leggere e scrivere: un livello di
istruzione che era sconosciuto nel resto dell’Europa. L’insegnamento superiore era lo stesso che
oggi viene impartito agli studenti nelle università
islamiche tradizionali: lingua araba classica, letteratura, storia e le scienze religiose propriamente
dette: esegesi coranica, Sunna, giurisprudenza,
dottrina (kala–m); infine, scienza (astronomia, calcolo, geometria, ecc.) e musica.
L’universale diffusione dell’istruzione promuoveva la passione per i libri (i manoscritti, beninteso) e
per la loro collezione. In assenza delle assemblee
politiche, dei teatri e delle accademie che caratterizzarono la vita sociale in Grecia e a Roma, gli Arabi ricorrevano ai libri come fonte d’informazione.
Grazie al periodo di pace e di ordine sotto il
califfato di Abd al-Rahma–n III (912-961), eruditi
invitati dall’Oriente, studenti venuti da ogni parte, esperti copisti, ricchi collezionisti di libri assicurarono alla vita intellettuale di Cordova una fama internazionale. La biblioteca reale arrivò a
contare circa 400.000 volumi. Anche i privati
possedevano ricche collezioni di libri.
E tuttavia nella Spagna musulmana la maggioranza islamica e la minoranza cristiana si ignoravano reciprocamente, pur vivendo in pace l’una accanto all’altra. Forse da parte cristiana ciò era
dovuto a intolleranza, a un preciso proposito di
ignorare la religione del nemico per non permetterle d’intaccare ulteriormente le proprie forze spirituali. La comunità cristiana manteneva effettivamente i propri vescovi e preti, le chiese e i monasteri; conservava, così come prescrive la legge islamica, i propri tribunali; e alcuni cristiani prestavano persino servizio agli emiri musulmani. Ma questi indigeni “arabizzati” erano considerati dagli
Musulmani e cristiani nell’Occidente medievale
Arabi autentici come dei cittadini di seconda classe. Anche coloro che si convertivano all’Islàm
erano sospettati di averlo fatto solo per interesse.
E poi il culto pubblico, con le sue processioni,
le sue campane, le sue manifestazioni, era proibito ai cristiani. E chi, in momento di collera o di
sconsiderato fervore religioso malauguratamente
ingiuriava il Profeta, diventava passibile delle
peggiori punizioni, compresa la morte in caso di
mancato pentimento. Ciò che aumentava l’amarezza dei cristiani zelanti era vedere come molti
dei propri correligionari si lasciavano attrarre
dalla brillante civiltà dei nuovi venuti, abbandonando così le loro tradizioni e la loro lingua.
Tra l’850 e l’860 questo processo d’arabizzazione suscitò una reazione violenta non tanto
contro l’Islàm quanto contro quei cristiani che
abbandonavano la loro fede e la loro cultura tradizionale. Questa reazione portò alcuni a concepire l’Islàm come il segno precursore dell’Anticristo e della fine del mondo. Alla loro immagina-
73
zione l’Islàm appariva come una perversa cospirazione contro la cristianità. Per essi, l’unica soluzione era di lasciare questo mondo dando la suprema testimonianza della loro fede. Desiderando il martirio, lo provocavano insultando pubblicamente il Profeta, così che le autorità musulmane, irritate dal pubblico oltraggio alla religione di
Stato, finivano per condannarli a morte.
Intanto la Reconquista cristiana della penisola
iberica proseguiva lenta ma inesorabile. D’altra
parte, le condizioni politiche dal paese erano favorevoli a questa impresa. Difatti, qualche anno
dopo la morte di quell’energico e terribile dittatore che fu il ministro Al-Mansu–r (751-775), la Spagna musulmana s’era frantumata in un pulviscolo
di piccoli Stati indipendenti retti dai reyes taifas,
che si combattevano tra loro indebolendosi e facilitando così i prìncipi cristiani. Traendo profitto da
questa confusa situazione, Alfonso VI di Castiglia
nel 1085 s’impadronì di Toledo, la cittadella dei
musulmani che dominava tutta la valle del Tago.
74
La caduta di Toledo atterrì i prìncipi musulmani. I
loro ministri, per scongiurare il pericolo cristiano si
rivolsero ai nuovi padroni del Sahara marocchino,
gli almovàridi. Rispondendo alla loro richiesta di
aiuto, Yu–suf Ibn Ta–shfin venne in Spagna, ma per
stabilirvi il proprio dominio. La Reconquista per un
certo tempo venne arginata, ma presto i rudi
cavalieri dal deserto si lasciarono prendere dal
fascino della vita cittadina, e furono scalzati e
costituiti da nuovi dominatori, più rigidi e più
fanatici, gli almohadi. Dotati di notevoli capacità
militari costoro inflissero ai cristiani la disfatta di
Alarcos (1195). Ma non fu che una pausa: diciassette anni dopo, nel 1212, i cristiani riportarono la
decisiva vittoria di Las Navas de Tolosa. Fu l’inizio
d’una serie di eclatanti successi. Nel 1236 Cordova, la metropoli della Spagna musulmana, cadde
nella mani di Ferdinando III. Il re Giovanni I d’Aragona s’impadronì delle isole Baleari e di tutto il
Federico II di Svevia (miniatura dall’Exultet di Salerno)
Musulmani e cristiani nell’Occidente medievale
regno di Valencia. Solo il regno di Granada rimase
nelle mani dei musulmani. Quest’ultimo lembo di
dominio islamico in terra iberica conobbe ancora
quasi un secolo d’intensa vita intellettuale. Poi fu
la fine. Il 2 gennaio 1492, Granada, il gioiello della
civiltà musulmana, aprì le porte ai “re cattolici”
Ferdinando d’Aragona e Isabella di Castiglia. La
bandiera di San Girolamo fu issata sulla cima dell’Alhambra. C’erano voluti sette secoli di guerra
perché la Spagna cristiana si riscattasse dal dominio musulmano.
Altra importante regione d’Europa, dove si
realizzò l’incontro delle due culture, fu la Sicilia.
Qui la conquista araba non fu fulminea come in
Spagna. Le prime incursioni, semplici atti di pirateria, ci furono nel 650 e nel 670, e non ebbero
se guito. Incursioni più massicce ci furono nel
701. La conquista dell’isola avvenne nel 740. Tuttavia Mazara fu presa solo nell’827, Palermo nell’831, Messina nell’842, Siracusa nel’878, Taormina nell’892. La conquista dell’isola da parte
75
dei musulmani fu completa nel 903, dopo due
secoli e mezzo di incursioni e di guerre.
Dalla Sicilia, avventurosi pirati saraceni non
esitarono a lanciarsi attraverso lo stretto di Messina per rapide incursioni in Italia. Nell’846 arrivarono a prendere Ostia e la chiesa dei Santi Pietro
e Paolo in Roma. Riuscirono persino a stabilirsi a
Bari per un quarto di secolo.
Ma presto i dissensi intestini dei musulmani in
Sicilia portarono Ibn al-Thumna a chiedere, incautamente, l’aiuto dei Normanni. Nel 1061 Roberto il Guiscardo si affrettò a raccogliere l’invito.
Ma anche a lui la conquista dell’isola richiese un
certo numero di anni (1072-1092).
Ben presto nella Sicilia arabo-normanna si formò una originalissima simbiosi tra le due culture.
Ruggero I il Normanno (1071-1101) si dimostrò
notevolmente tollerante: il suo esercito era formato per la maggior parte da musulmani. Il re normanno favorì l’insegnamento dell’arabo, consentì
ai musulmani il libero esercizio del loro culto, aiu-
Chiostro del Paradiso nella Cattedrale di Amalfi
Musulmani e cristiani nell’Occidente medievale
tandoli persino nella conservazione della loro religione, mantenne l’amministrazione nelle mani di
funzionari arabi. La corte di Palermo fu più orientale che occidentale. L’agricoltura, rimasta in mano agli Arabi, conobbe un grande sviluppo.
Ruggero II (1130-1154) si vestiva all’orientale;
costruì la sua famosa cappella in stile orientale,
patrocinò arti e scienze secondo la tradizione
araba e ospitò a corte al-Idrı-sı-, il maggior cartografo e geografo del Medio Evo.
Guglielmo II leggeva e scriveva l’arabo. Sotto il
suo regno, navi cristiane trasportavano pellegrini
musulmani alla Mecca. Ma fu soprattutto con Federico II di Svevia (1215-1250) che la cultura siculo-musulmana conobbe il suo apogeo. Federico
si circondò di filosofi e di saggi arabi, intrattenne
relazioni e scambiò doni con il sultano d’Egitto alKa–mil Muhammad, nipote di Saladino, e con alAshraf di Damasco. Fece venire dei falconieri dalla
Siria, essendo egli stesso un appassionato della
caccia col falcone. Il suo astronomo, Teodoro, era
77
un cristiano giacobita di Antiochia. La “crociata”,
da lui promessa al papa Innocenzo III e pretesa da
Gregorio IX (1227), fu più una missione diplomatica che un’impresa militare.
Promotore delle scienze arabe nella scuola
medica di Salerno e nella università di Napoli, da
lui fondata nel 1224, Federico suscitò un movimento culturale, che può ben dirsi umanesimo
arabo-cristiano.
Malauguratamente, soprattutto nel popolo, le
relazioni tra cristiani e musulmani peggiorarono. I
cristiani, ritornati al potere, pretendevano di riavere i
loro beni sottratti dai musulmani. In seguito a frizioni sempre più numerose e a massacri sia a Palermo
sia nelle campagne, i musulmani si rifugiarono sulle
montagne e, guidati da un certo Ibn al-Labba– d,
organizzarono una rivolta. Federico II represse con
decisione questo tentativo, fece arrestare e uccidere
il capo dei rivoltosi, ed esiliò molti musulmani a Lucera. Nel 1249, in Sicilia l’intesa e la simbiosi arabocristiana erano praticamente finite.
Il castello di Gormaz (Soria)
79
I l mondo cristiano “scopre” la
religione islamica
Per lunghi secoli, da parte cristiana, i rapporti
con l’Islàm sono stati condizionati da un equivoco di fondo, che è consistito nel pensare che
l’Islamismo non fosse una religione a sé stante,
ma più semplicemente una delle tante eresie
rampollate dal Cristianesimo. A generare l’equivoco fu inizialmente Giovanni Damasceno, padre
e dottore della Chiesa del secolo VIII, il quale,
probabilmente ingannato dalla corposa presenza
di personaggi biblici nel Corano, dal posto di
onore che vi occupano Gesù, il figlio di Maria, e
la stessa Maria quale vergine e madre, confutando le eresie, mise i musulmani sullo stesso piano
degli iconoclasti, dei pauliciani e dei manichei.
È chiaro che con un’eresia non si discute, tanto
meno si dialoga. La si combatte. E con ogni mezzo. Tanto che Giubert de Nogent nella sua storia
delle crociate, Gesta Dei per Francos, esprimendo
l’opinione comune del suo tempo, arrivò a dire
che di Maometto era lecito dire ogni male.
Bisogna attendere la metà del XII secolo per
vedere nella cultura cristiana profilarsi un atteggiamento un poco più ragionevole. Una data memorabile in questo senso fu il viaggio in Spagna
nel 1141 di Pietro il Venerabile, abate della celebre abbazia di Cluny. Egli intraprese quel viaggio
per questioni che interessavano il suo ordine, ma
anche per risolvere un problema che lo preoccupava. Si rendeva conto dell’ignoranza in cui l’Europa versava riguardo alla dottrina dei musulmani
e, in obbedienza alla regola del suo ordine, era
persuaso che, per salvare l’anima dei seguaci di
Maometto, esistevano mezzi diversi dalla guerra.
Ma occorreva, anzitutto, procurarsi una conoscenza diretta della dottrina di coloro che fino a
quel momento erano stati combattuti con le armi, in modo da poter mettere in mano ai teologi
i testi originali circa la loro fede e la vita di Mao-
Veduta di Istanbul e Galata
Il mondo cristiano “scopre” la religione islamica
metto. Pietro il Venerabile promosse perciò la traduzione in latino del Corano e di altri testi arabi.
Ma forse egli stesso non lesse attentamente i libri
di cui aveva voluto la traduzione, tant’è che in
una lettera indirizzata a Bernardo di Chiaravalle
non uscì dai vecchi schemi mentali e definì
l’Islam «la cloaca di tutte le eresie». E tuttavia,
con la sua iniziativa, l’abate di Cluny aveva aperto una pista. Nel mondo cristiano còlto, coloro
che avevano la responsabilità della missione presso i musulmani e gli ebrei si rendevano conto
della necessità di conoscere la loro lingua, per
poter accedere allo studio diretto delle loro dottrine. A tale scopo, Alfonso il Saggio (12211284) istituì una cattedra di arabo all’università
di Salamanca. Tra il 1238 e il 1240 il domenicano
Raimondo di Peñafort fondò in Catalogna numerose scuole di lingua araba, ottemperando ad
una disposizione emanata dal capitolo generale
81
di Parigi nel 1236, che raccomandava lo studio
dell’arabo e di ogni altra lingua di cui i padri
avessero avuto bisogno nel loro ministero. Nel
1311 papa Clemente V dispose l’istituzione di
cattedre di lingue orientali (arabo, greco, ebraico, caldaico) nelle università di Roma, Oxford,
Bologna e Salamanca. Frutto di questo studio fu,
tra l’altro, l’approccio diretto al Corano e ad altri
testi islamici. In questo contesto si collocherà la
Cribratio Alcorani, l’esame critico del Corano, di
Nicolò Cusano.
Nel 1453 Costantinopoli cadeva sotto l’ondata delle armate musulmane turche. I polemisti
cristiani, Martin Lutero in testa, indirizzarono allora i loro strali contro quella che chiamavano la
“religione dei Turchi”. Ma che si trattasse d’una
religione a sé e non d’una eresia cristiana non
v’era più dubbio.
Dimostranti con immagini di Khomeini in Iran
83
M usulmani fondamentalisti,
liberali e tradizionalisti
Il risveglio dell’Islàm come forza religiosa e politica è oggi una tendenza culturale diffusa in
quasi tutti i settori del mondo islamico. A partire
dalla seconda metà del Settecento e soprattutto
dall’Ottocento i popoli islamici si sono impegnati
nello sforzo di superare il ristagno della vita spiriturale e la decadenza politica manifestatasi intorno al XVI secolo. Il predominio politico e la superiorità tecnica degli Occidentali cristiani sono
diventati la principale preoccupazione dei popoli
musulmani. Essi sentono la necessità d’una grande riforma, intesa come ritorno allo spirito originario dell’Islàm, che porti al superamento delle
divisioni politiche interne al mondo musulmano.
Uno dei primi e maggiori promotori del movimento panislamico è stato lo scrittore afgano
Gemal ad-Din al-Afgani, che nell’Ottocento si
batté per l’unione degli Stati islamici in un unico
regno unitario. Dopo la seconda guerra mondiale, con la fine degli imperi colonialisti europei, il
movimento panislamico ricevette un decisivo impulso dalla nascita di grandi Stati islamici quali
l’Indonesia (1945), il Pakistan (1947), la Libia
(1951). Da allora gli Stati islamici hanno promosso una politica di alleanze e di scambi economici,
culturali, sociali. Ma già dal 1906 operava la Lega
Musulmana, un’associazione politica di indiani di
religione islamica. Questo movimento promosse
e ottenne nel 1947 la separazione del Pakistan
(letteralmente il “Paese dei puri”) dall’India,
paese a maggioranza induista e pertanto giudicato “impuro”. Grande peso ha pure avuto la Confraternita Musulmana, fondata in Egitto nel 1928
allo scopo di salvaguardare le tradizioni politicoreligiose islamiche dalle influenze occidentali. Dal
1945 questa associazione è diventata, in Egitto,
un potente e attivo movimento di massa, capace
di mobilitare, nel 1948, ingenti forze nel corso
84
della guerra contro lo Stato di Israele. Benché
messa fuori legge nel 1954 in seguito ad un attentato alla vita del presidente egiziano Nasser, la
Confraternita Musulmana è punto di riferimento
per varie associazioni operanti in Iran, in Pakistan, in India.
La Lega Araba, fondata col Patto del Cairo del
1945, è una organizzazione sorta tra Stati arabi
dell’Asia e dell’Africa, che mira ad una stretta collaborazione politica, sociale e culturale tra gli Stati
aderenti. La Lega Araba considera lo Stato di Israele
come una spina nel fianco del mondo islamico.
Circa i rapporti tra Stato e religione, nel mondo musulmano si possono attualmente distinguere quattro principali correnti di opinione.
1) Il così detto “fondamentalismo islamico” propugna un ritorno alle origini, riproponendo l’unione indissolubile tra religione e organizzazio-
Architettura araba moderna
Musulmani fondamentalisti, liberali e tradizionalisti
85
ne statale. I fondamentalisti rifiutano, perciò,
nel modo più assoluto il patrimonio di idee e i
modelli di vita del mondo occidentale e tentano di elevare a leggi dello Stato i princìpi giuridici della sharı-’a, la legge religiosa islamica.
4) La quarta tendenza è rappresentata dai così
detti “liberali”, che propugnano la religione
islamica ma respingono una visione integralista dello Stato. Attualmente essi costituiscono
solamente una minoranza.
2) Su posizioni opposte a quelle dei fondamentalisti si pongono quei musulmani che si possono definire “secolaristi”, giacché sono sostenitori della laicità dello Stato. Essi operano
in Turchia, Siria, Egitto, Iraq.
A prescindere dalla corrente religiosa o d’opinione dominante, i popoli islamici si considerano
la seconda potenza politico-religiosa del mondo,
dopo l’Occidente che, pur largamente laicizzato
e desacralizzato qual è, essi continuano a vedere
come “cristianità”. E, paradossalmente, addebitano al Cristianesimo, ormai concettualmente
espulso dalla legislazione occidentale, le licenze
sociali e morali che l’Occidente legalizza.
Ma anche se avviene assai più tardi e con premesse storiche diverse che nell’Occidente, anche
nel mondo islamico si verifica un processo di secolarizzazione di vasti settori della vita umana.
Anche l’Islàm, come il Cristianesimo, è minacciato dal diffondersi di concezioni laiciste e materia-
3) In posizione intermedia si trova la corrente dei
“tradizionalisti”. Essi distinguono la vita interna dello Stato islamico dalla politica estera. In
pratica, pur richiamandosi allo spirito originario della religione islamica e pur applicando la
sharı-’a anche nella vita pubblica interna, non
assumono atteggiamenti pregiudizialmente
negativi nei confronti del mondo occidentale.
Su questa linea si pongono l’Arabia Saudita e
gli Stati dal Golfo.
86
listiche della vita. Si tratti di indipendenza economica e politica, di evoluzione della condizione
femminile e della famiglia, dell’educazione umana o tecnica dei lavoratori, i Paesi musulmani si
trovano all’incrocio di due strade: o verso un laicismo che, per un certo tempo, accetterebbe una
possibile fede religiosa nelle coscienze individuali,
ma rifiuterebbe a Dio ogni posto nella “città”
come tale; o verso una soluzione nuova fondata
su valori musulmani purificati e universalizzati.
Assai presto nelle scuole coraniche i bambini apprendono a memoria lunghi brani del Libro sacro
87
P er saperne di più
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due culture nell’Occidente medievale, Vita e
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CASERTA, A., La “Bolla della Crociata” nel Regno di
Napoli, Athena Mediterranea, Napoli 1971.
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Indice
• La culla dell’Islàm ......................................
• Maometto non fu in Arabia l’«inventore» del
monoteismo...............................................
• Il Profeta ....................................................
• I temi fondamentali dell’ultima “rivelazione”
• L’ora della prova.........................................
• La migrazione.............................................
• La comunità del Profeta .............................
• Il combattimento nella via di Dio ...............
• Divisioni nell’Islàm: Sunniti e Sciiti ..............
• Il Corano ....................................................
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11
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19
21
25
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34
39
•
•
•
•
•
•
•
La “storia sacra” nel Corano .....................
Il clero islamico ..........................................
I “segni distintivi” del popolo eletto ..........
Ramadân ...................................................
La donna e il matrimonio ...........................
Conquiste degli Arabi ed espansione dell’Islàm
Musulmani e cristiani nell’Occidente
medievale ......................................................
• Il mondo cristiano “scopre” la religione
islamica .....................................................
• Musulmani fondamentalisti, liberali e
tradizionalisti .............................................
• Per saperne di più ......................................
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