Licenziamento per giusta causa : a tutto c`è un limite Renzo La

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Licenziamento per giusta causa : a tutto c’è un limite
Renzo La Costa
Un ministro del culto religioso non può invocare il riconoscimento di un rapporto
subordinato per l’opera svolta nell’ambito del suo ufficio pastorale, e, conseguentemente,
non è legittimato a richiedere l’illegittimità del licenziamento per giusta causa. Del caso si è
occupata la suprema Corte. Il fondamento giuridico delle attività poste in essere da un
ministro di culto deve essere identificato nei testi costitutivi dell’organizzazione religiosa, e
non nei rapporti tra l’organizzazione ed il ministro in questione. Pertanto, un ministro
della Chiesa (metodista) non può essere ritenuto un “dipendente” ai fini della legislazione
sul licenziamento senza giusta causa e non può avvalersi di tale disciplina per opporsi alla
interruzione delle sue attività decretata dalla stessa Chiesa. Succedeva che nell’anno
2003,una signora era stata nominata ministro della Chiesa metodista e, nel 2005, a
seguito ad uno scambio epistolare tra la diocesi e la Conferenza della Chiesa metodista,
aveva accettato un invito a diventare ministro sovrintendente regionale. Nel 2009, aveva
intentato una causa contro la Chiesa metodista presso il tribunale del lavoro per
licenziamento senza giusta causa, asserendo che la corrispondenza era tale da dimostrare
la sussistenza di un rapporto di lavoro dipendente.
Nella specie, la questione che si poneva era se il rapporto tra la signora e la Chiesa
metodista fosse o meno configurabile come un rapporto di lavoro dipendente. Il tribunale
del lavoro si era pronunciato in senso contrario, posizione confermata dalla Corte
d’appello. Giunta la questione alla suprema Corte , questa ha sottolineato che, secondo le
fonti vigenti in materia, la questione della configurabilità o meno dell’attività di un
ministro di culto alla stregua di un rapporto di lavoro deve tener conto del modo in cui il
ministro viene incaricato e delle regole circa il suo ministero. Ciò dipende dalle intenzioni
delle parti, alla luce anche delle circostanze individuali della situazione; nella specie,
rilevava naturalmente il fatto che l’obiettivo dell’operato del ministro fosse di natura
fondamentalmente spirituale.
La costituzione ed i regolamenti interni della Chiesa metodista permettevano di trarre le
seguenti conclusioni. La nomina dei ministri non può essere esaminata in base agli
ordinari criteri della contrattazione. I doveri dei ministri di culto non sono
consensualmente determinati, ma vengono piuttosto determinati unilateralmente dalla
Conferenza metodista. Lo stipendio e l’alloggio che spettano ai ministri sono legati
all’ordinazione iniziale al ministero, ed infatti permangono anche in caso di malattia o
infermità del ministro. I procedimenti disciplinari vigenti sono gli stessi per i semplici
membri della congregazione e per i ministri. I rapporti tra la Chiesa ed i propri ministri
possono essere terminati solamente dalla Conferenza o da suoi comitati, o da comitati
disciplinari; non vi è alcuna possibilità di dimettersi unilateralmente, anche previa notifica
anticipata. Il ministero, così come descritto nei testi costitutivi, è una vocazione, attraverso
la quale i candidati si sottomettono alla disciplina della Chiesa a vita. In assenza di accordi
particolari, i diritti ed i doveri dei ministri derivano dal loro semplice rango entro la
Chiesa, e non da alcun tipo di contratto. In sostanza, il servizio presta dalla signora
Ministro ricorrente, non era configurabile come rapporto di lavoro subordinato.
Il caso narrato non è italiano, ma sviluppatosi e risolto come sopra in Inghilterra . ( The
President of the Methodist Conference (Appellant) v Preston (Respondent), [2013] UKSC
29, del 15 maggio 2013 ) .
Ne si trae che il rapporto di lavoro subordinato è l’ambizione primaria in ogni settore. Ma
in quello religioso, no grazie. Pensate per un attimo che cosa significherebbe affidarsi ad
un Ministro del culto sapendo che egli svolge questa funzione a seguito di direttive della
suprema Chiesa, magari osservando un orario di lavoro, e magari soggetto al potere
disciplinare. Per non parlare di ferie e scatti di anzianità, e magari anche l’intervento del
sindacato per un accoro sulla cassa integrazione in deroga.
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