MODELLI DI CULTURA E IMMAGINI SOCIALI NEGLI ANNI `70 E `80

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MODELLI DI CULTURA E IMMAGINI SOCIALI
NEGLI ANNI '70 E '80
(La Scuola/La Cultura/I Giovani/ Il Costume)
Edgar Morin, parafrasando Santayana, afferma che coloro che non
vogliono rammentare l'esperienza sono condannati a ripeterla.
L'argomento che affrontiamo non vuole essere un revival di fatti e
avvenimenti accaduti negli anni presi in esame, bensì una ulteriore riflessione su
alcuni fenomeni connotativi e interni alla società italiana. Molto si è scritto e
detto del '68, degli "anni di piombo", della crisi delle istituzioni, dell'editoria e
dell'informazione, delle generazioni giovanili e dei loro costumi. Tuttavia,
riteniamo che non è mai esaustivo riflettere sull'accaduto, fare bilanci, capire e
prendere coscienza di fenomeni che tipicizzano l'evolversi dinamico della
complessità sociale. Il ponte tra passato e futuro, trova nel presente un proprio
laboratorio progettuale in cui il meccanismo di sviluppo si concretizza non
sull'ampliamento, ma su ristrutturazioni continue. Venti anni di storia sociale e
culturale sono uno spaccato interessante per chi con gli strumenti dell'analisi
psicosociale tenta di cogliere modelli e immagini che hanno configurato in
modo inequivocabile un periodo di transizione e crisi evolutiva tra il
dopoguerra e l'appuntamento con l'Europa degli anni '90.
Verso la fine degli anni '60 matura in Italia - ma il fenomeno è già
diffuso altrove - una nuova dimensione sociale, che incalza attraverso precise
richieste, in specie per il radicale mutamento che avviene nelle classi sociali che
postulano una revisione dell'assetto strutturale e culturale della società. Lo
scontro con la nuova ed emergente realtà è inevitabile, proprio nel momento in
cui la classe dirigente si ostina a tenere in scarsa considerazione l'opportunità di
modificare l'organizzazione della società, per mettere i giovani nella condizione
di realizzarsi attraverso processi formativi più adeguati ai nuovi tempi, per
rivitalizzare e ristrutturare dall'interno le istituzioni pubbliche.
Si comprende bene come il carattere "mondiale" e la simultaneità delle
rivolte giovanili e studentesche siano la prova indiscutibile di siffatto stato di
tensione che ferve in ogni società, in ogni paese; e tutto ciò mette in
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risalto anche quanto il mondo sia piccolo, in sostanza, proprio in virtù del
modo con cui le diverse culture vengono avvicinate tra loro dalla rapidità dei
trasporti e delle comunicazioni. Ciò che rende "mondiale" il fenomeno '68 non
è semplicemente la simultaneità delle agitazioni, bensì il fatto che i loro
protagonisti appartengono ovunque alla stessa generazione e presentano
caratteristiche sociali analoghe, individuabili in alcune "regole comuni", fatte di
corrispondenze di idee, di slogan, di tecniche di propaganda, frutto di una
circolazione internazionale, di momenti di scambio e di dialogo tra realtà
differenti. Il sociologo americano Shils, esperto in comunicazioni di massa,
nell'analizzare il fenomeno, parla di un modello narrativo-interpretativo della
circolazione delle agitazioni tra diverse università: da Barkeley a Londra, Berlino
e da esse a Parigi, Bruxelles, Milano e Roma.
Tuttavia, va precisato che il carattere internazionale delle agitazioni
studentesche è da imputare ad una "circolazione per identificazioni"; ed a
distanza di vent'anni affiora in tutta evidenza la caratteristica "generazionale" del
movimento, quale problema storiografico di grande complessità.
La spiegazione è nel fatto che negli anni '60 matura un filone di studi e
ricerche sulla gioventù, promosso da studiosi di psicologia sociale, che
ipotizzano l'emergere di una gioventù apatica, spoliticizzata, quasi totalmente
disimpegnata.
Il movimento studentesco sembra costituire una sfida a tale ipotesi.
postulando una revisione dell'assunto, sollecitando dibattiti, in cui il tema
dominante è il "conflitto con il padre". Da ciò deriva la diffusa interpretazione
configurata nell'etichetta freudiana di "rivolta edipica" attribuita al movimento,
che intende le ribellioni giovanili della fine degli anni ‘60 come un momento
inevitabile, ma passeggero, dello sviluppo di una giovane generazione.
Calandoci nella realtà del nostro paese, oggi una valutazione del
fenomeno '68 è da interpretare come un grande esperimento sociale "in vitro"
in una realtà socio-economica dove l'industrializzazione e il benessere di massa
giungono dopo la guerra. In Italia il '68 viene vissuto in una dimensione teatrale,
di rappresentazioni, con linguaggi irruenti di messa in scena, con un bisogno
molto forte di avviare un mutamento, una nuova comunicazione generazionale
e modelli di comportamento, il cui punto di riferimento è sempre la comunità
dei giovani.
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Gli anni '70 sono carichi di fermenti e spinte innovative e la scuola è la
prima istituzione ad essere incalzata da ventate innovatrici, che intendono
rifondare il sistema formativo, tanto postulato dai giovani. Viene lanciata una
parola d'ordine: "Cambiamento", per rinnovare dal profondo la scuola e la
società nel suo complesso. Don Milani con la sua Lettera ad una professoressa
diventa il simbolo sul fronte cattolico di siffatto processo di rinnovamento,
mentre sul fronte laico si costituisce il Movimento di Cooperazione Educativa,
che fa capo a Codignola ed alla sua casa editrice La Nuova Italia.
Negli anni '70 vengono alla ribalta per la prima volta temi come "la
funzione sociale dell'educazione", "il rapporto studio-lavoro", "la comunicazione creativa", "il territorio come struttura formativa e laboratorio di
acculturazione". Si parla di insegnanti non passivi trasmettitori di cultura, ma
organizzatori del sapere e analisti di risorse e motivazioni.
Se con i Decreti Delegati si consolida un discorso di apertura della
scuola ad una partecipazione gestionale e culturale esterna, l'inchiesta condotta e
pubblicata con il titolo Le vestali della classe media di Marzio Barbagli e Marcello
Dei denuncia in modo aperto l'universo degli operatori della scuola, che
appaiono molto spesso demotivati nella pratica della professione docente. Il
dibattito nel mondo della scuola negli anni si fa sempre più vivace e, nonostante
le innovazioni, molti problemi attendono soluzioni ancora oggi; tra gli altri
citiamo la non risolta e spinosa riforma della "superiore" ed il conseguente
implicito problema, molto avvertito in ambito giovanile, del rapporto
formazione scolastica-mondo del lavoro ed orientamento universitario.
Fervono dibattiti e sperimentazioni, apertura della scuola alle agenzie e
istituzioni culturali del territorio (Musei, Biblioteche, Teatri, ecc.), la lunga
battaglia sulla riforina dei libri di testo (logorante braccio di ferro tra insegnanti
e industria editoriale!).
Gli inizi degli anni '70 risentono ancora dello shock degli avvenimenti
con cui si sono conclusi gli anni '60. Eventi travolgenti, imprevisti in varie
manifestazioni esterne, con parole d'ordine cariche di portata politica (Vietnam,
Che Guevara, Mao, ecc.). Lo stesso "Maggio francese" è ben più che un
episodio del movimento studentesco: la rivolta giovanile innesca in Francia uno
sciopero generale di proporzioni notevoli. Accanto a dieci
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milioni di operai scendono in piazza anche gli impiegati, il ceto medio nonché i
tecnici ed i professionisti. Lo stesso "autunno caldo" in Italia esprime la ventata
di protesta verso una società ed un sistema che devono invertire le linee di
tendenza.
Negli anni '71 -'72 l'onda delle lotte studentesche, espressa nelle forme
del collettivismo massiccio, comincia lentamente a rifluire per dar luogo ad una
costellazione di gruppi e gruppuscoli in conflitto permanente tra loro, ma
pronti a rinascere dalle ceneri al primo segnale di rivolta generale.
La storia della nostra società ci ha insegnato che nulla avviene in modo
aprioristico e che a fondamento di ogni evento innovatore, di ogni fenomeno
che scuote gli assetti sociali e li solca vi sono i fermenti culturali, alimenti delle
ideologie, che, a loro volta, determinano e configurano le azioni degli uomini.
La "nuova cultura", che informa i movimenti e le ventate innovatrici, è
quella che si rifà alla Scuola di Francoforte ed ai suoi migliori esponenti:
Horkheimer, Adorno e Marcuse, emigrati dalla Germania hitleriana negli Stati
Uniti, le cui analisi sulla società industriale vengono ora scoperte, tradotte e
diffuse. La Scuola di Francoforte vive una sua imprevista fortuna, dovuta alla
forte compenetrazione di temi dialettici hegeliani (molte avvertiti nella cultura
accademica italiana!) ed alla critica radicale della società industriale moderna,
simboleggiata dagli Stati Uniti; nonché alla scelta di un impegno politico-sociale
a favore dei popoli del terzo mondo e degli emarginati, oppressi dai detentori
della civiltà dell'opulenza consumistica.
Se La dialettica dell'Illuminismo di Horkheimer e Adorno si configura come
critica alla società dei consumi ed all'industria della cultura che la governa, Eros e
Civiltà e L'uomo ad una dimensione di Marcuse giungono in Europa come
strumenti di analisi dirompente e di revisione culturale. E ben attecchiscono in
anni in cui la gioventù occidentale, che frequenta le università, elegge a modelli
di incontaminazione sociale il diseredato, l'emarginato, il povero. Marcuse
aveva già verificato tutto ciò con i propri studenti del campus di Berkeley:
scopre che i "figli" della società opulenta e consumistica amano "protrarre" la
loro stagione della vita. Matura, cioè tra i giovani americani la concezione
dell'adolescenza protratta, del "differimento" dell'impatto con il mondo, dopo
anni di parcheggio/studio nelle superiori e nelle università, per volere capire il
funzionamento del
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sistema e qual'è il meccanismo che è alla base del principio di "prestazione di
efficienza", postulato dal sistema capitalistico-industriale. Le concezioni
marcusiane trovano un terreno molto fertile: Marcuse definisce nella categoria
dell’"Eros" il piacere, il godimento ed in quello di "Civiltà" la -repressione
addizionale", dovuta al fatto che la società capitalistica e industriale moderna,
per sopravvivere, ha bisogno di produrre e chiede sacrifici che reprimono
l’"Eros", rendono l'uomo irrazionale, mortificando la fantasia e
l'immaginazione. La proposta marcusiana è nel recupero dell’"uomo
unidimensionale" da realizzare attraverso la liberazione dal lavoro alienante di
una società che garantisce da una parte dei beni, dall'altra li sottrae; e che
opprime con i suoi ritmi produttivi intensi, con le sue richieste di consenso e
integrazione in un mostruoso ingranaggio che priva l'uomo di spazi da gestire
in autenticità. E' in questa analisi delle società moderne che matura la ideologia
marcusiana del "Gran Rifiuto al Sistema", per salvare l'uomo dall'integrazione
ed omogenizzazione di massa.
Una sorta di postulato anarchico che viene sposato dalla cultura dei
movimenti giovanili di quegli anni; che se da una parte è servito per costruire
proposte innovative, dall'altra ha registrato esisti negativi, provocando
fenomeni deteriori, come quelli, ad esempio, avvenuti nel nostro paese, della
violenza alle Istituzioni nelle forme della "P 38" e della lotta armata allo Stato
delle "Brigate rosse".
La diffusione dell'ideologia marcusiana e delle teorie della Scuola di
Francoforte non sono l'unico elemento connotativo della revisione culturale di
questo ventennio. Un ruolo determinante è giocato dalla presenza/ pressione di
fenomeni emergenti, quali, ad esempio, il grande mercato che attiva l'industria
culturale e la diffusione dei mass-media. Agiscono e si moltiplicano vecchie e
nuove strutture culturali: biblioteche in ogni comune, in ogni scuola, edicole di
giornali più diffuse, sale cinematografiche, televisore in ogni abitazione,
l'editoria di massa. Superata la fase delle enciclopedie "popolari", delle
"summae" a dispense, del libro tascabile da potere acquistare in edicola insieme
al quotidiano, l'industria editoriale intraprende in questi anni più ambiziose
iniziative, per soddisfare nello stesso tempo livelli diversi della nuova scala
produttivo-distributiva. Tuttavia, se da una parte si allarga la sfera delle
possibilità degli acquisti culturali, dall'altra non corrisponde un allargamento
della sfera della
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lettura. Per cui, se nel centro e nel nord del paese il mercato editoriale in buona
misura tira; nel Mezzogiorno, nonostante la presenza di case editrici come la
prestigiosa Laterza e le nuove Dedalo e De Donato, nonché la Sellerio di
Palermo che si indirizza, sotto la guida culturale di L. Sciascia. a lettori raffinati,
nulla avviene di nuovo.
Molti acquistano libri con l'intento dell'arredo delle pareti domestiche e,
fatte salve alcune fasce di classi sociali e i giovani universitari, gli indici sulla
lettura sono molto bassi.
La "repubblica delle lettere" registra, un fenomeno alquanto singolare: da
una parte abbiamo l'assalto agli Oscar di cultura che in veste economica
riproducono la gloriosa collana mondadoriana della Medusa (un Oscar in un
solo giorno può bruciare una buona fetta di tiratura che normalmente con una
novità si esaurisce in alcuni mesi!); dall'altra prende piede il best-seller di
"qualità", in specie se rivestito della fascetta che lo segnala selezionato in qualche
premio. Così, negli anni'70 abbiamo Paura e tristezza dì Cassola (Einaudi) con
180.000 copie; Ritratto in piedi della Manzini (Mondadori) con 152.000 copie; I
cieli della sera di Prisco (Rizzoli) con 115.000 copie; sino a giungere alle 600.000
copie de La storia della Morante (Einaudi) ed agli inizi degli anni '80 al Il nome
della rosa di Eco (Bompiani) con 856.000 copie.
Chiaramente tutto ciò è solo un aspetto: ve ne sono altri nel mercato
editoriale, che sono legati alle arretratezze e ritardi di una società che vuole
diventare dinamicamente moderna.
Dietro le classifiche commerciali del best-seller letterario e dell'Oscar si
delinea una vasta area di non-lettori o di lettori di sottocultura. Per cui, "chi
legge" e "che cosa si legge" o "chi acquista quali libri legge" continua ad essere
oggetto di dibattito e analisi che devono necessariamente tenere conto della realtà
di un paese che al suo interno negli anni '80 continua a contenere sacche di
arretratezza socio-economico-culturale e che, nonostante la scolarizzazione di
massa, registra ancora tassi di analfabetismo nonché fenomeni di dispersione
scolastica. Il foglio n. 35 dell'ISTAT riferisce che nel 1970 in Italia la tiratura dei
libri è di 108.605.000 copie, una media, cioè, di n. 2 libri per ogni cittadino; nel
1980 è di 172.860.000 copie, ma la media percentuale non cambia.
Le relazioni ISTAT riferiscono anche dei generi tra i più letti, così
nell'ordine: erotici, fantascienza, gialli, neoromantici, teleromanzi, rosa
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costume, astrologia e scienze occulte, best-seller, saggistica varia. Una inversione
di tendenza prende avvio intorno al 1982: il romanzo best-seller entra in crisi,
mentre si registra un incremento della "varia" (libri per il tempo libero, di
viaggi, di giardinaggio, di cucina) e di una certa saggistica di diverso livello (da
Ronkey a Pansa, da Bocca a Alberoni, Biagi e Luca Goldoni), nonché le
biografie.
Negli anni '70 entra nel vivo il dibattito su le nuove forme di politica
culturale; ed alla democratizzazione della cultura degli anni '60 si contrappone la
"democrazia culturale", vale a dire l'intervento diretto delle istituzioni in un
processo di decentramento e pluralismo. In realtà, la nuova linea di tendenza
non è quella di decentrare la cultura dalle grandi città ai piccoli comuni, bensì di
attivare iniziative coinvolgenti più cittadini ai banchetti di cultura, per sollecitare
le capacità creative collettive. Il Progetto '80 indica per la prima volta tra gli
impegni della programmazione economica la spesa per la promozione della
cultura, da perseguire con il controllo sociale dei mass-media e con la creazione
di interventi in ambito territoriale. I sociologi Bechelloni e Rositi nel Convegno
sul "Decentramento culturale in Italia", organizzato dalla Biennale di Venezia nel
1976 definiscono il "decentramento" come allargamento della base dei
produttori di cultura. Le Regioni, i Comuni, la Province si fanno promotori di
una miriade di iniziative: dal teatro in piazza, ai concerti negli stadi ed ai Festival
di musica jazz delle "Estati culturali", sino a mostre d'ogni genere, a
programmazioni di film d'autore ed ai revival della cultura locale-tradizionale.
Vi è un pullulare di cooperative teatrali, di gruppi di animazione, di cooperative
di arti visive che gestiscono in appalto i programmi promozionali degli Enti
locali. Un esempio vistoso è quello di Nicolini a Roma, che punta con una serie
di iniziative a contestare l'emarginazione sociale e culturale dei giovani nella
Capitale. Come spesso accade, molti di questi interventi sono gestiti e
programmati in modo selvaggio e nella prospettiva di fare crescere il consenso
elettorale di questo o quello Assessore alla cultura di turno, rivelandosi poco
incisivi e incapaci di innescare positivi meccanismi di crescita culturale.
Si sono profusi nel nome della cultura centinaia di milioni appartenenti ai
cittadini contribuenti che sono serviti, nella maggiore parte dei casi, a foraggiare
questo o quel gruppo teatrale o musicale, o a dare assistenza a cooperative di
improvvisati professionisti dello spettacolo.
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Un fenomeno interessante si registra verso la fine degli anni '70 nei
generale clima del costume culturale italiano: il tanto conclamato "impegno
politico" va ormai attenuandosi in modo notevole, mentre si rilancia la vita
quotidiana ed i suoi valori: in breve, si ritorna al "privato".
Il sociologo Francesco Alberoni coglie l'importanza di un dibattito,
sorto intorno al 1978, sull'amore e l'adulterio (v. inchieste di Panorama. di
L'espresso); ed afferma che non esiste un netto contrasto tra momento collettivo
e politico e momento personale, per cui nel campo dell'amore
l'innamoramento appartiene alla stessa classe dei movimenti collettivi. Dice,
infatti, che l'amore è speranza, è rottura con il passato e nel contempo sua
memoria, ricrea il mondo attraverso la necessità di unione e fusione e quindi, si
concretizza come progetto. Se l'ondata femminista sessantottina ha elevato a
primato la politica e nell'apparenza ha provocato la frattura tra i sessi, secondo
il nostro sociologo ora l'amore si presenta come "nostalgia dell'amore". Siffatte
tesi Alberoni le sostiene in Innamoramento e amore, edito da Garzanti nel 1979,
registrando un notevole successo editoriale: dopo cinque mesi la vendita è di
100.000 copie!
La stampa divulga la dottrina alberoniana dell’"amore", definito dal suo
autore "stato nascente di un movimento collettivo a due", innescando un
dibattito che diventa moda e costume. Il cattedratico Alberoni autorizza a non
sorridere più dalle vicende sentimentali degli altri, a diffondere le proprie senza
ritegni, per sentirsi orgogliosi avversari di un sistema che tenta di reprimere
anche l'amore. E' sufficiente innamorarsi, raccontarlo per sentirsi dalla parte di
chi è progressista.
La sortita di Alberoni non è una semplice trovata commerciale per
l'editoria, ed al di là dello stupore ed ironia che suscita negli ambienti
accademici e degli intellettuali "impegnati", è il segnale eloquente di una stagione
politico-culturale che volge al tramonto. I sessantottini sono nella fase della
seconda età, quella che va dai quaranta ai sessant'anni e l'amore è una tematica
carica di implicazioni psicologiche di natura complessa, in cui il ritorno ai
sentimenti della vita a due è l'elemento trainante su cui si fonda il "riciclaggio
sociale" delle leve non più giovani.
Nel soffermarci sull'argomento che più ci interessa, vediamo che i
giovani, oggi, sono un problema culturale, sociale e politico, in specie per la
dilatazione notevole della fase adolescenziale, determinata dalla
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scolarizzazione di massa. E' un nuovo e diverso stadio della vita, creato dalle
società industriali e post-industriali, in cui i modelli e le regole non vengono più
dai canali collaudati dalla tradizione, quali la famiglia, la chiesa e la scuola, bensì
dai coetanei, dai mass-media, dalla civiltà dei consumi. I giovani, più che gli
adulti, sono il terreno fertile su cui il consumismo attiva tutti i canali della
comunicazione che detiene e governa, orientando i comportamenti, plasmando
i gusti, inserendosi in un processo formativo che la famiglia e la scuola non
riescono a controllare.
L'industria culturale (dal cinema, alla stampa e alla televisione) e quella
della pubblicità si sono attrezzate di esperti che studiano i fenomeni giovanili
per rilanciare di volta in volta un mercato di nuovi miti e nuovi riti, di modelli a
cui conformarsi, in cui trovare identità che la società continuamente vanifica.
Nell'industria del cinema, agli inizi degli anni '80, viene lanciata per i
giovani una diva, una star "del riflusso", come l'ha definita la critica. E' Sophie
Marceau, protagonista di Il tempo delle mele: una giovane star che impone nel
mondo giovanile un modello di adolescente tutta casa e buoni sentimenti. Il
regista ci presenta l'iniziazione sessuale della protagonista bandendo dalla
narrazione filmica il sesso; ad attenta lettura, però, vediamo come esso sia
tenuto a distanza per essere meglio esorcizzato. Sophie Marceau incarna un tipo
di adolescente che tenta di rimuovere la sessualità proprio nel momento in cui
ne è assillata, ne è attratta.
Il ruolo della star riveste una grande influenza nel momento di
indeterminazione psicologica, tipico della fase adolescenziale, allorché la
personalità in evoluzione è alla ricerca di sé stessa, di una propria identità.
Una volta il cinema usava i divi adulti per offrire modelli ai giovani. Ora,
i mass-media propongono come divi i coetanei (si pensi alla forte presa della
rock-star Madonna!), divi che hanno la stessa età dei loro fans e che proprio
per questo interpretano in modo assai più credibile sentimenti e problemi.
Sono, cioè, modelli di proiezione/identificazione.
Le statistiche di qualche anno fa evidenziano come i giovani sono la
maggioranza del pubblico cinematografico: sono attratti dal cinema, sia perché
la loro autoeducazione individuale e le relazioni con i coetanei li spingono fuori
di casa a frequentare un ambiente sociale più vasto; sia perché cercano miti
culturali e modelli di comportamenti personali che il cinema può ancora loro
fornire come mezzi per scoprire il mondo ed il proprio posto in esso.
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La televisione in questi anni ha ancora di più messo in crisi il grande
schermo ed i suoi miti. La TV crea nuovi miti e nuovi riti, più privati, quasi
personalizzati o familiari: le personalità televisive si distinguono per una loro
tipica rappresentatività, per una loro tipicità, per la volontà di essere ordinarie e
nel contempo accettate come familiari.
I divi del cinema sono spesso modelli eccezionali, stelle enfatizzate e per
questo hanno una maggiore presa sui giovani.
Il dopoguerra ha prodotto tutta una schiera di eroi solitari, scettici,
individualisti, insoddisfatti, in lotta con un mondo difficile, sconcertante e
ambiguo. I giovani amano molto gli eroi negativi, per loro sono i migliori
interpreti della decadenza, della crisi. I problemi dei giovani, infatti si
manifestano in tutta la loro evidenza in un momento in cui l'adolescenza li
sollecita a ripiegarsi su se stessi, a riflettere e prendere coscienza di una propria
identità, mentre la società non offre loro alcuna soluzione o comunque
possibilità di riconoscersi.
Deriva da ciò un fenomeno importante avvenuto verso la fine degli anni
'70: i giovani incominciano ad avere un atteggiamento diverso nei confronti del
divismo, che per anni ha imperversato. Essi continuano ad avere i loro modelli
preferiti, ma relativamente pendono dalle loro labbra. Li considerano
semplicemente dei loro rappresentanti ai quali affidano il compito di dare voce
ai loro sentimenti. Il divo di questi anni è problematico, una sorta di anti-divo;
all'happy-end si va sempre più sostituendo il finale tragico o elusivo. Il
benessere come soluzione esistenziale diventa problema e la vita piena di beni e
di divertimenti viene messa in discussione.
Le insonnie, le depressioni, le turbe psicosomatiche sono i primi segni di
un malessere che si diffonde e si fa più profondo: e la cultura di massa pone i
problemi della coppia, dell'amore, del matrimonio, del sesso, delle malattie
sociali in genere.
La mitologia euforica degli anni '60 trova il suo epilogo nella tragedia di
Marilyn Monroe, nel suicidio, cioè, della star trionfante. Quella degli anni '80 si
disincanta nelle euforie dei concerti della rock-star Madonna.
Sostanzialmente si è messo in movimento la crisi delle ideologie ed il
malessere giovanile è il malessere nei confronti della società dei consumi. di un
modello di vita fondato, per dirla con Fromm, più sull'avere che sull'essere,
con tutte le ansie e le angosce che ne derivano, e che una volta razionalizzate si
trasformano in manifestazioni di critica radicale, in depressioni, in impotenze.
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I divi televisivi e della musica rock incarnano modelli di autorealizzazione
della vita privata, tendendo a spodestare sempre più quelli antichi e collaudati
rappresentati dagli educatori, dai genitori. Suggeriscono essi norme di
comportamento, seguono i loro fans passo passo, in modo indiretto, con
continui e allusivi messaggi. Sophie Marceau tiene ad informare i suoi giovani
fans che ama Sthendal e legge Sartre; Renato Zero impartisce con le sue
canzoni una "nuova etica"; Dalla e Morandi colgono nel segno alcune molle
emozionali. Le magliette unisex e le gonne a fiorellini dei giovani sessantottini
cedono il posto ad una moda fondata sul sex-appel: minigonne vertiginose,
pantacollant e niente reggiseno. Mike Buongiorno continua ad incarnare la
figura rassicurante del tuttologo formato famiglia che informa opinioni e
sentimenti dei telespettatori su un campo vastissimo. Costanzo, Minà e Arbore
mettono in piedi trasmissioni trasgressive e provocatorie, ma nella sostanza
omogenizzatrici e rassicuranti. Frassica inventa comunicazioni gergali all'insegna
della strasgressione linguistica fascinando i giovani, mentre Bennato e Episcopo
con i loro travolgenti concerti decantano le tensioni adolescenziali.
Gli eroi, i simboli, i nomi degli spettacoli di massa riprodotti su milioni
di supporti diversi, indossati da milioni di fans, trasformano questi ultimi in
viventi ripetitori di pubblicità, destinati a imprimere una accellerazione
simbiotica tra popolarità e indici di gradimento, tra successo di pubblico e
successo commerciale.
Quanto abbiamo detto è solo un versante del sofisticato e sottile gioco
in cui vengono coinvolti i giovani della nostra generazione. Un gioco che da'
vertigine, continuamente provocatorio, che tende al conformismo collettivo e
mette in moto meccanismi palesi e latenti incontrollabili, privilegiando la
provvisorietà e l'effimero.
In realtà, i giovani oggi vogliono certezze, sono desiderosi di conferme
che la società, l'industria della cultura fingono di dare. Nel momento in cui
matura in essi una coscienza critica e cercano di andare al di là delle apparenze
avvertono il vuoto, l'inconsistenza, la provvisorietà, la solitudine di questa
società, pur così piena di immagini e suoni.
L'angoscia li solca ed a livelli più stratificati crea le nevrosi, le ansie, le
turbe comportamentali che sono le matrici delle devianze più diffuse: dalle
manifestazioni di violenza gratuita alla droga, dalla vocazione all'etilismo al
rifiuto totale di ogni responsabilità di reinserimento.
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La società dei consumi e il suo sistema informativo si sono incuneati con
ruolo cattivante - e legato alla logica della mercificazione - nelle strutture
formative tradizionali, quali la famiglia e la scuola. La famiglia vive oggi una
situazione di grave disorientamento, dovuto in modo peculiare alla dimensione
stessa della organizzazione del sistema sociale.
I genitori sono, spesso, assenti nel processo formativo dei propri figli.
perché delegano ad altri compiti che non possono, o non sanno, gestire.
La famiglia non coltiva al suo interno un buon patrimonio di relazioni
tra i membri che la compongono, la struttura stessa del dialogo e della
comunicazione è frammentata e ridotta spesso all'essenziale. I giovani si
avvertono sempre più soli e reagiscono cercando la loro identità di generazione
in momenti collettivi, nell'organizzarsi in gruppi, nell'affollare gli stadi per
applaudire i concerti dei loro autori preferiti.
La scuola, a cui la famiglia ha "scaricato" una pesante delega, non riesce a
stare al passo con i tempi, rivelandosi impreparata e aggravata da responsabilità
che, spesso, non le competono. Le procedure formative, che in essa si attivano,
sono molte volte lontane dal soddisfare le rinnovate esigenze che i giovani
reclamano. La società dei consumi li bombarda di messaggi molteplici, di
modelli che essi vogliono sapere leggere e bene interpretare. I giovani alla
scuola chiedono metodi e strumenti nuovi. L'esigenza di fondo è quella di
avere i pass-partout per la lettura della realtà, per rendersi conto in modo
diretto dei meccanismi che la predeterminano.
In breve, vogliono essere sostenuti, formati, laddove per formazione si
intende lo sviluppo delle capacità critiche, delle possibilità creative che
permettono ad ogni individuo di costruirsi una propria ed originale identità.
Luigi Mancino
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