La strategia di Lisbona: una interpretazione istituzionalista

La Strategia dell’Occupazione in Europa e in
Italia: un approccio istituzionalista
di Pasquale Tridico
Articolo pubblicato su: Argomenti, n.16/ Aprile 2006
Abstract
My paper analyzes the Lisbon Strategy and its economic and job market
performances, from an institutional economics perspective. In particular I
will use the Regulation Approach. The Lisbon Strategy is seen as an European post-fordist strategy. Hence, I will describe, firstly, fordism and its crisis
within the European Union context, then I will analyze how the Lisbon Agenda fits in the case of Italy; in particular I will analyze the Lisbon aims and
their contradictions in the north/south Italian dualism. Finally, I will evaluate
outcomes of the Lisbon Strategy, both in Italy and in the enlarged EU. I argue
that, so far, Lisbon Strategy has failed to produce institutions and economic
performance it aimed at. My main criticism focuses on three aspects. The first
aspect is a critic of the convergence towards a putative European model. The
second is a matter of appropriateness of the proposed Eu governance, which
is also ambiguous, weak, and contradictory. The third reason for criticism
lies in the fact that Lisbon Strategy does not seem to take into account differences within institutional frameworks of regions of Europe, although the
Open Method of Coordination. Data from Eurostat, Istat and European official documents, seem to confirm a negative evaluation.

L’autore desidera ringraziare il prof. Bob Jessop e tutto lo staff dello “Institute for Advanced
Studies, Lancaster University” dove è stato ospitato come “visiting researcher” durante il periodo Ottobre – Dicembre 2005. L’autore è altrettanto grato al prof. Pasquale De Muro e al
progetto di ricerca Europeo Demologos (VI framework, CIT2-CT-2004-505462). Infine
l’autore vuole ringraziare il prof. Fadda per gli stimoli e il sostegno ricevuto durante questo lavoro.

Facoltà di Economia – Università degli Studi Roma Tre.
17
argomenti, 16/2006
1. Introduzione
Questo saggio si propone di analizzare la Strategia di Lisbona (SL) e le relative performance economiche e del mercato del lavoro realizzate
dall’Unione Europea (UE) durante il periodo della sua applicazione (20002005), attraverso la prospettiva istituzionalista della “Régulation School1”. La
Strategia Europea di Lisbona è vista come una strategia post-fordista. Per questo è necessario descrivere, in primo luogo, il Fordismo e la sua crisi
all’interno del contesto Europeo. Successivamente verranno analizzate le misure e le politiche della SL. Per concludere, si valuteranno i risultati della SL
sia in Italia che nell’Unione Europea.
L’approccio della Regolazione offre una metodologia, concetti e strumenti
utili per esaminare le crisi e la ripresa delle economie. Essa esamina
l’economia in termini di regimi prevalenti di accumulazione e forme istituzionali corrispondenti. Contrariamente al paradigma neoclassico, l’approccio regolazionista prende in considerazione anche fattori extra-economici, relazioni
del mercato del lavoro, istituzioni e rapporti di forza che evidentemente giocano un ruolo fondamentale nell’accumulazione capitalistica. Un regime di
accumulazione è un modello di produzione e di consumo che dura e si riproduce per un lungo periodo di tempo. Esso è caratterizzato dalla combinazione
di norme di produzione e di consumo, da modi di regolazione, e
dall’organizzazione del lavoro2.
Nello specifico la SL sarà analizzata e valutata rispetto ai suoi principali
obbiettivi: produttività, occupazione e disoccupazione, progresso tecnologico
e capacità di governance e di performance istituzionali. L’Europa degli ultimi
1
L’Approccio della Regolazione deriva essenzialmente dalla scuola Parigina (Aglietta 1979),
successivamente sviluppata da economisti quali Boyer, Lipietz e altri. Tuttavia, esso raggiunge
una certa diffusione nel resto dell’Europa e non solo in Francia. Un ottimo approfondimento è
trattato nell’opera in 5 volumi curata da Bob Jessop, “Regulation Theory and the Crisis of Capitalism”, Edward Elgar, 2001.
2
Norme di produzione che caratterizzano un regime di accumulazione sono le quantità di capitale investito e distribuito, la produttività del lavoro, il grado di meccanizzazione, ecc. Le norme di consumo sono i modelli di consumo, la spesa delle famiglie, la quota dei risparmi, la spesa del governo, i contratti nazionali, l’import-export ecc. Un modo di regolazione è un insieme
di modelli di comportamento e istituzioni. Nell’approccio regolazionista, il modo di regolazione
è rappresentato da cinque forme istituzionali generali che riguardano: il nesso salario-lavoro, il
regime monetario, il regime internazionale, la forma di Stato, il tipo di concorrenza vigente
(cfr. Tav.1). Per completare il sistema, bisogna dire che un regime di accumulazione è caratterizzato da un certo tipo di organizzazione industriale con certe relazioni di lavoro e delle condizioni tecniche, alla cui base si trova una determinata divisione del lavoro (Lipietz, 1992).
18
anni ha registrato una bassa dinamica del Pil, uno scarso andamento della
produttività e una dinamica relativamente al rialzo dell’occupazione. Questo
si può spiegare attraverso una interpretazione al contrario, e comunque non in
contrasto, con la logica dei modelli di salari di efficienza3. La scarsa produttività e la stagnazione del Pil sono probabilmente da attribuire ad una scarsa efficienza del lavoro, gravato da inefficienti costi di rotazione e disincentivato
da bassi salari, frutto della crescente flessibilità nel mercato del lavoro.
Inoltre, nel momento in cui ci concentreremo sul caso italiano, analizzeremo gli obiettivi di Lisbona rispetto al noto dualismo nord/sud del paese. Nel
saggio si sostiene che la SL non sembra aver prodotto risultati soddisfacenti, e
ciò principalmente per tre ordini di motivi che svilupperemo.
1. Il primo riguarda la struttura economico-istituzionale dell’UE, che
rende difficile un processo di convergenza da parte degli Stati Membri (SM) verso un presunto modello socio-economico Europeo unico.
Al contrario, l’analisi di varietà di capitalismo proposta tende a dimostrare che all’interno dell’UE esistono diversi modelli che tuttavia potrebbero coesistere se l’UE si dotasse di una governance appropriata.
L’attuale governance politica ed economica, se da una parte lascia
margini di decisione e di iniziativa agli SM, dall’altra risulta essere
debole e contraddittoria.
2. Il secondo motivo è una questione di appropriatezza. La SL sembra
essere una strategia inadeguata in quanto incapace di produrre simultaneamente pieno impiego, elevata produttività, conoscenza, competitività e coesione sociale, in particolare in paesi quali l’Italia, lontani
dagli obiettivi di Lisbona. Ovviamente, non è una questione di obiettivi troppo ambiziosi, ma di strategia, e questa critica si può applicare
a tutti gli SM. Il punto centrale, come vedremo, è nella contraddizione
tra il tipo di accumulazione vigente e la struttura politico-economica
che si sta costruendo.
3. La terza critica risiede nel fatto che la SL non sembra considerare le
differenze istituzionali all’interno delle varie regioni d’Europa, nonostante il Metodo di Coordinamento Aperto. Nel caso del Mezzogiorno
d’Italia, come vedremo, le priorità non sembrano essere quelle tracciate dalla strategia di Lisbona, e una buona politica non può considerare la disoccupazione esistente al Sud solo come strutturale.
3
Salop (1979); Shapiro e Stiglitz (1984).
19
In parte, la SL è considerata come la contrapposizione “sociale” del trattato di Maastricht, la sua relativa appendice sociale4. Più in generale, l’Unione
Europea mira a raggiungere, attraverso Maastricht ed in particolare Lisbona,
un quadro economico, politico ed istituzionale più stabile. Questa struttura
istituzionale formatasi tra Maastricht e Lisbona, dovrebbe essere il perno
dell’economia dell’Europa, il quadro di riferimento di un nuovo modello economico e sociale, dopo i due instabili decenni post-fordisti con produttività
decrescente del 1980-90.
2. Fordismo e Post-Fordismo
Il modello di sviluppo prevalente durante il fordismo era caratterizzato in
primo luogo da una forma di organizzazione del lavoro taylorista, con una
forza lavoro parzialmente specializzata e relazioni industriali abbastanza stabili; in secondo luogo, il regime di accumulazione teneva conto del contributo
dei lavoratori all’aumento di produttività, garantendo pertanto aumenti di salari sistematici e proporzionali; infine, lo Stato Sociale di tipo keynesiano provvedeva a distribuire benefici e sussidi alla forza lavoro disoccupata in modo
che anche i lavoratori esclusi dalla produzione fordista potessero consumare,
con ovvi vantaggi per la domanda aggregata. Tuttavia, questo modello “egemonico” di sviluppo ad un certo punto si rompe. Verso la fine degli anni ‘60 il
compromesso fordista di consumo e produzione di massa e distribuzione dei
guadagni di produttività tra lavoratori e imprese va in crisi. Ciò avviene essenzialmente per due categorie di ragioni, strettamente legate, una di tipo nazionale e una di tipo internazionale5. È importante analizzare, brevemente, le
origini e le conseguenze di questa crisi, poiché la Strategia di Lisbona e
l’attuale governance economica europea sono un prodotto dell’agenda postfordista conseguente.
Al livello nazionale il problema principale fu l’inizio della caduta della
produttività nella maggior parte dei settori industriali, in tutte le economie capitaliste avanzate. Durante gli anni ‘70, la disoccupazione insieme
all’inflazione (stagflazione), stimolata anche da un crescente mark-up introdotto per recuperare la crescita dei costi delle materie prime (in seguito agli
shock petroliferi) e la conseguente erosione dei profitti, dilagavano dappertut4
Rhodes (2000).
La letteratura della regolazione abbonda in questo campo, cfr.: Davis (1978); Aglietta (1979);
Lipietz (1987); Jessop (2002).
5
20
to in Europa; la produttività e i salari reali non aumentavano; gli investimenti
diventavano più costosi ed i profitti decrescevano. L’inflazione, alla fine del
processo a spirale di aumento di prezzi e salari, aveva eroso il potere di acquisto e la domanda aggregata era in discesa, causando un rallentamento
dell’attività economica, con il rischio di recessione. Inizialmente, lo Stato sociale di tipo keynesiano sorresse la Domanda Aggregata, ed evitò un drammatico crollo economico. Col tempo tuttavia il costo delle politiche economiche
keynesiane diventò sempre più oneroso, e le imprese e i contribuenti, che
maggiormente coprivano questo costo, cominciarono a metterne in discussione la sostenibilità e con essa il modello di Welfare. L’intero modello fordistakeynesiano entrò in crisi. Secondo Lipietz6 la crisi è essenzialmente nel lato
dell’offerta, in quanto il modello ad un certo punto non era più capace di organizzare un processo produttivo simultaneamente efficiente e umanamente
accettabile dal lato del lavoro. Allo stesso modo, Aglietta7, riferendosi al modello fordista degli USA affermava: “The crisis of fordism is first of all the
crisis of a mode of labour organization”. Tuttavia gli USA, ristrutturano
l’economia negli anni ‘80 e incrementano la produttività, superando, nei tassi
di crescita della produttività e del Pil l’UE a metà degli anni ‘90. Al contrario
il calo dell’UE continua inesorabilmente fino ad oggi.
A livello internazionale, la crisi è strettamente legata ai motivi appena
esposti. La crisi petrolifera degli anni ‘70 spinse le aziende verso i mercati internazionali, sia in termini di esportazioni che di produzione.
Le imprese nazionali diventarono sempre più multinazionali nel senso che
trasferivano i loro segmenti produttivi all’estero per evitare la crisi interna e
per recuperare sugli aumenti di costi, recuperando l’erosione dei profitti interni e accedendo a una domanda internazionale più vasta. Il compromesso fordista-keynesiano, fondato su incrementi di produttività condivisi tra lavoratori
e imprese, salari reali crescenti e Stato Sociale, cominciava a perdere la sua
stessa raison d’être, in quanto il potere d’acquisto dei lavoratori e la domanda
interna non erano più importanti in un contesto internazionale sempre più
aperto.
Al contrario, il modello “export-led” richiedeva competitività del sistema,
riduzione dei costi e soprattutto del costo del lavoro, dal momento che il
mark-up era deciso da imprese sempre più monopolistiche e oligopolistiche.
6
7
Lipietz (1992), p. 16.
Aglietta (1979), p. 162.
21
Graf. 1 - Crescita della Produttività del lavoro orario. USA e UE (15)
6
1966
5
4
3
1986
usa
2
ue
1
0
1966
1971
1976
1981
1986
1991
1996
2001
2003
Fonte: EU Commission Services.
In questo modo la crisi si stava internazionalizzando in quanto tutte le imprese ora avevano gli stessi comportamenti e conducevano tutte strategie simili, orientate verso i mercati internazionali. Alla fine questo portò ad una riduzione generale dei salari reali, alla riduzione della quota dei salari sul Pil in
molti paesi europei tra cui l’Italia, e ad una pressione sul potere di acquisto,
fino a causare una crisi nella domanda internazionale stessa8. Come Lipietz9
ha notato, al livello internazionale non ci sono forme istituzionali di tipo fordista-keynesiano, nessun meccanismo per aumentare la domanda internazionale,
nessun contratto collettivo, nessun Stato Sociale sopranazionale. Riassumendo, il
calo della produttività, una cattiva organizzazione del lavoro, e la pressione internazionale sui costi del lavoro sono le cause, dal lato dell’offerta, della crisi
fordista e del corrispondente regime di accumulazione. Successivamente è
emerso un nuovo, ma ancora instabile, modello di sviluppo10. Esso è caratterizzato da un regime flessibile di accumulazione e da uno sviluppo marcatamente diseguale, all’interno del quale la polarizzazione tra lavoratori specializzati e non-specializzati è ancor più evidente, la micro-elettrica, internet, le
tecnologie più avanzate e la conoscenza in generale hanno assunto il ruolo di
fattore produttivo prevalente11. Il modo di regolazione sta cambiando e sembra
8
Dowd (2000).
Lipietz (1992).
10
Jessop e Sum (2005), p. 74; Boyer (1997).
11
Jessop (2001).
9
22
spesso essere in contraddizione con il regime di accumulazione12. Come Petit13 ha precisato, con la transizione al post-fordismo, le istituzioni cambiano,
ed in particolare nel nuovo contesto, la forma istituzionale prevalente sembra
essere la concorrenza. A questo proposito, Boyer dice che “nella gerarchia
delle forme istituzionali”, quelle prevalenti, nelle economie avanzate, durante
il periodo di transizione, sembrano essere le istituzioni finanziarie14, che condizionano e modellano il cambiamento di altre istituzioni15.
Petit e Boyer convengono che nell’era del fordismo, la forma istituzionale
dominante era rappresentata dal particolare nesso tra salario, relazioni del lavoro e produttività, che consentì una crescita economica meno sperequata.
A livello politico, la transizione post-fordista sembra essere governata da
una classe politica conservatrice. Quindi, emerge la possibilità di un confronto
con l’era precedente al fordismo, quella pre-1920, allorquando il modello liberale di sviluppo era basato su un regime di accumulazione estensivo16, di
compressione dei costi del lavoro, senza un ruolo significativo dello Stato
nell’economia, senza compromessi riguardanti gli incrementi di produttività, e
in assenza di uno Stato Sociale17. La scuola della Regolazione propone
un’interpretazione della crisi e del passaggio dal fordismo al post-fordismo,
che possiamo riassumere con lo schema del grafico 2.
Il Post-fordismo è identificato nel Regno Unito sotto l’amministrazione
della Thatcher. Jessop18 sostiene che le nuove strategie di accumulazione, nel
Regno Unito, sono emerse in quel periodo. La strategia ha coinvolto il potere
delle multinazionali, la disciplina della finanza internazionale, un potere più
autoritario, e una sorta di capitalismo diffuso, quasi popolare, attraverso la diffusione della proprietà azionaria. La strategia fordista precedente, più legata ai
confini nazionali, è stata sostituita da una strategia finanziariamente più aggressiva, orientata verso i mercati internazionali, deregolamentata e concentrata nella city di Londra. Il Thatcherismo fu una accurata strategia di ristrutturazione del vecchio sistema di accumulazione fordista, che tra l’altro nel
Regno Unito aveva funzionato male e non aveva consentito una crescita sostenuta come nel resto del continente europeo19.
12
Lipietz (1992), op.cit.
Petit (2003), p. 20.
14
Boyer (2005), p. 4.
15
Ibidem (2005), p. 18.
16
Aglietta (1979).
17
Basso (1998).
18
Jessop (2001).
19
Peck e Tickell (1992).
13
23
La ristrutturazione si ottenne a discapito del compromesso sociale realizzato
dopo la seconda guerra mondiale, e soprattutto a scapito delle regioni industriali
e periferiche del nord dell’Inghilterra e del Regno Unito. Il risultato fu anche
in Inghilterra, uno sviluppo regionalmente diseguale, con un sud orientato
verso i servizi e la finanza, e il nord in declino industriale, e con un crescente
tasso di disoccupazione. Nel resto dell’Europa continentale, la transizione
verso il post-fordismo, sebbene socialmente meno dolorosa che nel Regno
Unito, si realizzò con caratteristiche simili: politiche fiscali e monetarie restrittive, ristrutturazione industriale, disoccupazione di massa, ecc.20.
Graf. 2 - L’approccio della regolazione
I livello
Relazioni Sociali e
individuali, e
interazioni collettive
Valori
Forme Istituzionali
(modi di produzione)
Distribuzione e
regime di
accumulazione
CRISI
II livello
Interazione delle
diverse strategie
e comportamenti
Interazione
all’interno del
modo di
regolazione
Nuove forme
Istituzionali
Dinamica
economica e
nuovo
regime di
accumulazione
Fonte: Boyer e Saillard (2002).
La crisi italiana del fordismo fu apparentemente, e per un certo periodo,
meno costosa dal punto di vista sociale, in quanto fu compensata, durante gli
anni ‘80, dal successo della cosiddetta “Terza Italia” e dall’organizzazione dei
distretti industriali. Tuttavia, quando la “Terza Italia” ha cominciato a declinare nella seconda parte degli anni ‘90, l’Italia intera smise di essere industrialmente dinamica, e cominciò a perdere in competitività e ad avere
20
Fitoussi (1992).
24
Tav. 1 - Fordismo e Post-Fordismo: un confronto
Salario
Fordismo
Guadagni di produttività condivisi tra
lavoratori e imprese; Contrattazione
collettiva; promozione di norme di
consumo di massa e
di pieno impiego
PostFordismo
Nessun accordo
generale sulla divisione della produttività; pressione
nazionale e internazionale sui salari;
salari flessibili;
polarizzazione
(“skilled/unskilled”)
nel mercato del
lavoro
Forma di
concorrenza
forme di concorrenza monopolistica e
oligopolistica
Regime Monetario
Vincoli monetari
non rigidi; Politica
pubblica del Credito; controllo
dello Stato sulla
moneta
Concorrenza
nazionale e
internazionale basata sulla
riduzione dei
costi
Vincoli monetari
rigidi; razionamento del credito;
ancore inflazionistiche rigide; promozione dei movimenti di capitali
all’estero; riduzione della sovranità
finanziaria
Forme Istituzionali
Relazione tra
Regime Internazionale
Stato/Economia
Protezione dei
Concorrenza Nazionale;
settori strategici;
Protezionismo
Controllo delle
Strategico;
relazioni economi- Frequenti svalutazioni
che internazionali;
del tasso di cambio
Forte intervento
dello Stato
nell’economia
Politiche
Politiche Macroeconomiche
Politiche Anti-cicliche;
Politiche dal lato della
domanda; Intervento
dello Stato; Promozione economie di scala e
produzione di massa;
R&S e incentivi alle
imprese per la crescita
della produttività
Ritiro dello Stato
dall’economia;
privatizzazione;
settore pubblico
residuo orientate
anch’esso al mercato
Politiche dal lato
dell’offerta; strategie
di marketing per aumentare le vendite;
Economie di scopo;
introduzione di politiche tecnologiche flessibili
25
Internazionalizzazione
della concorrenza;
globalizzazione del
commercio e dei flussi
finanziari
Politiche Sociali
Ridistribuzione del
reddito; tassazione progressiva; protezione dei diritti e
dei bisogni
sociali; Welfare molto forte
Politiche
orientate al
risparmio dei
costi sociali;
riduzione del
Welfare; aumento privato
dei servizi
pubblici
delle forti ripercussioni sociali pagate soprattutto in termini di alti tassi di disoccupazione. Nei Paesi scandinavi, la trasformazione verso un sistema postfordista fu sostenuta da politiche socialmente attente, da una continua ricerca,
nel processo produttivo, di incrementi di produttività da dividere equamente
tra capitale e lavoro, e dall’introduzione di nuove tecnologie, grazie alla cospicua quota di R&S sul PIL. Oggi i paesi Scandinavi, insieme agli Stati Uniti, e contrariamente al resto dell’UE, hanno superato il periodo di crisi postfordista. Produttività e Pil hanno interrotto il periodo decrescente ed hanno
ripreso a crescere in modo sostenuto.
In questo contesto di crisi, di ristrutturazione socio-economica, di cambiamento tecnologico, di trasformazione post-fordista, di concorrenza globalizzata e di ripresa dagli instabili anni ‘90, si inserisce il progetto dell’Unione Europea che cerca di dotarsi di un nuovo modello socio-economico. Questo modello è rappresentato da una lato dal trattato di Maastricht e dal conseguente
patto di Stabilità e Crescita, e dall’altro dagli obiettivi e dalla metodologia
della Strategia di Lisbona. Anche questo progetto può essere analizzato con la
lente istituzionalista della Regolazione. L’approccio della Regolazione esamina i modi di sviluppo, vale a dire dove trova origine un regime di accumulazione, come diventa stabile, e quando si trasforma. Dalle crisi economiche
emergono nuovi rapporti sociali e nuovi modi di produzione che originano regole e forme istituzionali. L’insieme dei comportamenti degli individui, delle
leggi, e delle azioni collettive sono organizzate in modi di regolazione. In altre
parole le istituzioni economiche convenzionali ed informali fungono da “regolatori” e servono a: 1) riprodurre i rapporti sociali; 2) sostenere il regime prevalente di accumulazione; 3) rendere compatibili fra loro le decisioni decentralizzate degli agenti21. La nostra analisi si concentrerà anche su questi temi,
al fine di verificare se il progetto economico-istituzionale dell’UE, così come
è stato costruito, è socialmente sostenibile, capace di dar vita ad un nuovo
modello di sviluppo e di produrre elevata crescita economica.
3. La nuova governance Europea: la Strategia di Lisbona e il metodo di coordinamento aperto
Dalla metà degli anni settanta in poi, cioè dalla crisi del fordismo e delle
relative politiche economiche keynesiane, l’economia europea ha perso gradualmente vitalità, e nel confronto con gli altri paesi industrializzati, quali
21
Boyer e Saillard (2002).
26
USA e Giappone, ha avuto una performance peggiore (cfr. Tabella A in appendice). La produttività è cresciuta meno, il mercato del lavoro è stato meno
dinamico, ed ha creato meno nuovi posti di lavoro, la disoccupazione è cresciuta o si è mantenuta su livelli elevati, il sistema economico ha perso competitività rispetto ad altri paesi avanzati, e la crescita del PIL è stata inferiore.
Il grafico qui sotto riportato evidenzia le performance mediocri dell’Europa in
termini di Pil, dagli anni ‘80 in poi. Infatti, mentre il divario del reddito procapite con gli USA si è ridotto nel periodo subito dopo la seconda guerra
mondiale, si è allargato o è rimasto stabile dal 1975 in poi.
Il mito del modello di sviluppo fordista, caratterizzato da pieno impiego ed
elevata crescita è via via svanito. L’UE ha creduto che attraverso il Mercato
Unico prima e la moneta unica poi, potesse dare uno slancio all’economia. Più
precisamente, la risposta è stata un mercato comune europeo liberalizzato ed
integrato, ma senza né una politica sociale comune né una politica fiscale comune né una gestione della domanda interna.
Graf. 3 - Pil pro-capite UE in PPP. (USA= 100)
Fonte: EU Commission Services.
Tav. 2 – Tassi medi di crescita
1961-1980
1981-1990
1991-1995
1996-2000
2001-2005
UE 15 (%)
3,3
2,1
1,2
2,4
1,5
Fonte: EU Commission Services.
27
USA (%)
2,5
2,2
1,1
2,8
2,6
I criteri di Maastricht e la realizzazione dell’Unione Economica e Monetaria (UEM) rappresentano l’obiettivo di una politica monetarista iniziata durante gli anni ‘80 come risposta al “fallimento” del modello fordista-keynesiano.
Tuttavia, i risultati dell’UE, in termini di produttività e crescita economica,
prima e dopo l’avvio dell’UEM, non sono soddisfacenti. Le politiche non si
sono rivelate idonee. Fitoussi (2005) ha notato una contraddizione in questa
tendenza: considerando che l’UE è diventata geograficamente più grande e
economicamente molto più vasta, non ha tuttavia adottato delle politiche adatte per un grande Paese, quali il sostegno della domanda interna, politiche industriali, politiche fiscali appropriate. Al contrario l’UE sembra orientarsi verso la promozione di una politica di sviluppo del commercio estero, con vincoli
fiscali, politiche monetarie più rigide, e adatte, ad un “piccolo paese”.
In un mercato unico come l’UE, con vincoli fiscali e con strumenti comuni
solo per quanto riguarda la politica monetaria, i paesi membri possono controllare il proprio deficit della bilancia commerciale soltanto per via di una riduzione delle importazioni dagli altri SM, riducendo il potere di acquisto dei
propri cittadini. Detto in altri termini, riducendo le possibilità di consumo, i
salari e la spesa pubblica nazionale. Ogni paese dovrebbe crescere di meno
rispetto al suo vicino. Alla fine, i paesi più ricchi del mercato unico crescerebbero di meno degli altri, e ciò avrebbe ovviamente effetti negativi su tutto
il mercato unico e per tutti gli SM22.
Un importante esempio, al contrario, è rappresentato dagli Stati Uniti.
Nell’ultimo decennio gli USA non hanno voluto sacrificare la loro sostenuta
crescita economica, nonostante il pericolo di deficit esterno rappresentato, tra
gli altri, dalla neo-costituita zona di libero scambio, la Nafta; di conseguenza
il deficit della bilancia commerciale è spropositatamente aumentato. A questo
proposito Lipietz23 si chiede se la costruzione del mercato unico in Europa,
con le caratteristiche dell’UE, è stato utile all’Unione stessa. I paesi non
membri dell’UE, quali la Norvegia, la Svizzera e l’Islanda, oltre a Svezia, Finlandia, e Austria (che sono entrati nell’UE solo nel 1995), non hanno perso in
competitività, crescita e produttività rispetto a Giappone e USA durante la crisi fordista degli anni ‘80. Al contrario, i paesi più ricchi e grandi dell’UE quali
la Germania, la Francia e l’Italia hanno avuto performance peggiori.
Qualche anno dopo il Trattato di Maastricht, l’UE introduce la Strategia di
Lisbona. In realtà questa strategia giungeva con ritardo rispetto alla prima iniziativa in questo senso rappresentata dal Libro Bianco di Delors del 1993,
22
23
Fitoussi (1992).
Lipietz (1992), p. 128.
28
“Crescita Competitività, Occupazione”. Per molti anni, le politiche economiche dell’UE avevano preferito altre “variabili-obiettivo” quali la stabilità monetaria, l’equilibrio dei conti con l’estero e soprattutto dei conti pubblici24.
Ora l’UE propone un ambizioso obiettivo, riassunto nelle conclusioni generali
del Consiglio Europeo di Lisbona del 24 marzo 2000: “To make Europe the
most competitive and most dynamic knowledge-based economy in the world,
capable of sustainable economic growth, with more and better jobs and greater social cohesion, and respect for the environment”. Ciò evidenzia un modello socio-economico europeo.
La ragione per la quale l’UE riconosce che una forte strategia di slancio al
livello europeo fosse necessaria, è immediatamente evidente dal grafico di
sotto. Il confronto con gli Usa e ed altri paesi industrializzati evidenzia una
forte perdita di competitività. In primo luogo, la perdita di competitività è visibile in termini di performance del mercato di lavoro, cioè produttività del
lavoro e occupazione, oltre al più basso livello del Pil. Quest’ultimo dato vede
l’UE in forte ritardo rispetto agli USA, con un PIL pro-capite che è soltanto il
70% di quello americano.
Graf. 4 - UE-15 - Performance dei principali indicatori 1999 (USA=100)
100
90
80
70
60
50
40
30
20
10
0
94,8
89
82,9
70
PIL pro-capite in
PPP
Tasso di
occupazione
Ore lavorate per
lavoratore
Produttività del
lavoro oraria
Fonte: EU Commission Services.
Gli obiettivi della strategia di Lisbona, ovvia conseguenza delle difficoltà
osservate nel mercato del lavoro dell’UE, sono il pieno impiego, maggiore
produttività e tecnologia in una società della conoscenza. A Lisbona, infatti,
24
Fadda (2005), p. 6.
29
policy maker, politici e economisti hanno osservato che il mercato del lavoro
dell’UE è caratterizzato da una scarsa partecipazione delle donne e degli anziani, attratti spesso da pre-pensionamento precoce. Inoltre, rispetto al mercato statunitense, emerge una scarsa flessibilità e mobilità del lavoro e un mercato unico ancora poco integrato e quindi che non sfrutta a pieno i vantaggi
delle economie di scala. In più, gli alti costi di start-up ed i costi di transazione sono spesso fattori decisivi che inibiscono l’attività imprenditoriale. Infine
la percentuale di R&S sul Pil è considerata insufficiente e di gran lunga inferiore rispetto a quella degli USA.
La strategia di Lisbona è un programma generale e complesso, e come tale
coinvolge diversi aspetti della società e dell’economia con molteplici obiettivi
che riassumiamo di seguito:
 preparare la transizione verso un’economia basata sulla conoscenza
attraverso politiche che incentivino la società dell’informazione, la
tecnologia e R&S. Allo stesso tempo la politica non deve trascurare il
processo di riforma strutturale al fine di aumentare competitività e innovazione, completando il mercato interno;
 modernizzare il modello sociale europeo, investendo nelle persone e
per le persone al fine di combattere l’esclusione sociale;
 creare un ambiente economico sano, favorevole agli investimenti e alla crescita, con prospettive di sviluppo, e applicando un appropriato
“policy mix” macroeconomico.
Gli obiettivi finali da raggiungere, secondo le conclusioni di Lisbona25 sono:
 un livello di investimento in R&S, che raggiunga almeno il 3% del
Pil;
 ridurre gli ostacoli, i costi di transazione, e le rigidità istituzionali
all’entrata nel mercato da parte di nuove imprese;
 raggiungere un tasso di occupazione totale pari al 70%, (60% per le
donne e 50% per le persone anziane con una età compresa tra 55 e 64
anni)26.
Al fine di promuovere la Strategia di Lisbona e per facilitare il raggiungimento degli obiettivi strategici dell’UE, è stato introdotto uno strumento importante ed innovativo, si tratta del “Metodo di Coordinamento Aperto”
25
Consiglio Europeo di Lisbona, Conclusioni Generali, Marzo 2000.
Il successivo Consiglio Europeo di Stoccolma (2001) stabiliva alcuni obiettivi di medio termine da raggiungere entro il 2005, si tratta del tasso di occupazione totale al 67% e quello
femminile al 57%.
26
30
(MCA). Il MCA è stato definito durante la presidenza portoghese del 2000
come una metodologia fondata su quattro direttive:
 linee guida di riferimento per tutti gli SM dell’UE al fine di raggiungere, dentro determinati tempi, obiettivi comuni;
 stabilire indicatori qualitativi e quantitativi in relazione alle performance dei migliori paesi al mondo;
 tradurre le linee guida europee in politiche regionali ed obiettivi specifici;
 controllare, valutare e monitorare periodicamente le performance degli SM.
In altre parole, il MCA è un metodo sperimentale, che mira a sviluppare
una nuova governance all’interno dell’UE basata su “indicatori di convergenza” e sul progresso nazionale verso obiettivi europei comuni. In questo contesto gli SM organizzano le loro politiche attraverso pratiche comuni di apprendimento27. L’UE promuove la condivisione di valori e di linee guida di riferimento. Il MCA obbliga gli SM a condividere informazioni e a confrontarsi
con gli altri SM, al fine di scambiarsi reciprocamente soluzioni e strategie. Si
tratta di una nuova governance attraverso cui SM e Commissione Europea fissano gli obiettivi lasciando ciascuno SM libero di raggiungere quegli obiettivi
nel modo più appropriato per il singolo Stato. Quindi, al livello europeo non
ci sono regole a cui uniformarsi ma linee guida di riferimento da seguire.
Queste linee guida di riferimento sono raggruppate in quattro pilastri che rappresentano gli assi più importanti della Strategia Europea per l’Occupazione
(SEO). Questi sono: l’occupabilità, l’imprenditorialità, l’adattabilità e le pari opportunità.
Sembra chiaro, da questi pilastri, che la SEO propone una politica del mercato del lavoro di tipo “offertista”. Con ciò si intende la volontà di implementare politiche unicamente dal lato dell’offerta, ed in particolare nel mercato
del lavoro, che si aggiusti alle esigenze produttive. Le politiche vanno ad incidere essenzialmente sulla disoccupazione strutturale e sulle difficoltà frizionali del mercato del lavoro che ostacolano l’incontro della domanda e
dell’offerta del lavoro, ignorando, conseguentemente che un certo ammontare
di disoccupazione sia dovuto a uno scarso livello della domanda aggregata e
quindi ad alti livelli di disoccupazione involontaria.
Rispetto a questi pilastri, alcuni analisti, fra cui Mosher28, hanno notato che
il MCA non è un metodo di governance completamente nuovo nell’UE. In27
28
Zeitlin (2005).
Mosher (2000).
31
nanzitutto il MCA trova le sue origini nella strategia europea per
l’occupazione, introdotta più generalmente con il Trattato di Amsterdam e con
il cosiddetto “processo di Lussemburgo”. Inoltre, le stesse direttive, la seconda fonte di legislazione dell’UE, sono degli strumenti legislativi molto frequenti all’interno dell’Unione. Al vertice di Lisbona, questo genere di governance è stato elaborato più nei particolari; tuttavia, politiche non vincolanti,
sono sempre state seguite all’interno dell’Unione Europea. Sulla stessa linea,
il MCA è un modo “soft” di governance che mira a condizionare gli SM su
questioni delicate a livello nazionale quali lo Stato Sociale, il mercato del lavoro, l’ambiente, ecc. Questi campi sono tradizionalmente molto sensibili a
livello nazionale perché le decisioni politiche possono essere difficili e spesso
impopolari. Tuttavia, le opinioni sono molto divergenti in merito all’effettivo
ruolo che il MCA svolge nell’economia politica dell’UE e al genere di compromesso che potrebbe generare con le più vincolanti regole della Banca Centrale Europea29. Alcuni sostengono che il MCA rappresenta una nuova occasione per le politiche sociali a livello europeo, e che dovrebbe favorire un
nuovo e migliore modello sociale europeo; altri sostengono che esso sia solo
un modo per far accettare ai sindacati e agli altri attori sociali, politiche “offertiste” che consoliderebbe un modello socio economico di stile comunque
neoliberale e monetarista30.
Recentemente, un gruppo di economisti europei è diventato popolare attraverso il loro rapporto annuale, critico sull’Europa, noto come Euro memorandum31. Essi contestano la costruzione attuale dell’Europa, considerata troppo
neoliberale. Nei Rapporti Euro Memorandum, si critica la “immensa” fiducia
dell’Europa verso il libero mercato e la concorrenza, la cosiddetta deregulation, la flessibilità del lavoro, oltre naturalmente all’idea di uno Stato
(l’Europa) minimalista. Al contrario, suggeriscono un programma di politica
economica ecologicamente sostenibile, ed orientato verso politiche socialmente attive, con un forte Stato Sociale, e un programma di investimento pubblico
annuale di almeno l’1% del Pil dell’Unione. Ciò dovrebbe progressivamente
aumentare il budget dell’UE dall’attuale 1.27% al 5% del Pil32. Questo programma, accompagnato da una lista di politiche sociali e di investimento in
R&S, quali: aumento dell’occupazione pubblica nei servizi sociali, nella formazione, riduzione delle ore di lavoro, politica tecnologica e energetica co29
Hodson (2004).
Wincott (2003).
31
Cfr. Euro memorandum group, 2003; 2004; 2005.
32
Euro Memorandum (2005).
30
32
mune, permetterebbe all’Europa standard di vita maggiori, una coesione sociale più grande, e il raggiungimento di quella società basata sulla conoscenza
con un modello sociale europeo33.
Nel seguito di questo saggio svilupperemo tre linee generali di critica
all’interno delle quali saranno analizzate le contraddizioni e i limiti della strategia di Lisbona.
4. Varietà di capitalismi: l’UE in cerca di un nuovo modello socio economico
La costruzione dell’UE è un processo complesso in se. Conseguentemente,
il raggiungimento di un modello socio economico comune a livello europeo, è
ancor più complesso e difficile. Dal momento che l’UE è la somma di diversi
Stati-Nazione, ognuno con il proprio modello socio-economico, è difficile, se
non impossibile, pensare di racchiuderli all’interno di un singolo modello,
adatto per tutti gli SM.
Tuttavia, dopo il 1980 tutti gli SM si sono progressivamente avvicinati ad
un’economia di mercato con caratteristiche piuttosto simili. L’idea centrale di
questo processo era quella di creare le condizioni per aumentare gli eventuali
meccanismi automatici di riequilibrio del mercato, e di liberare l’economia
dalla presenza ingombrante dello Stato. Il paradigma keynesiano di politica
economica non era più in grado di risolvere la crisi iniziata alla fine degli anni
‘60, e la stagflazione aveva minacciato anche alcuni presupposti empirici derivati dalla curva di Phillips. Inoltre, lo Stato Sociale cominciava ad essere
considerato inefficiente e troppo costoso in termini di spesa pubblica, debito
ed inflazione.
Contemporaneamente, negli anni ottanta, emergeva negli USA una ricetta
economica fortemente neoliberale nota come “Reaganomics”, con la quale
anche gli Stati Europei avrebbero cominciato presto a ristrutturare i loro sistemi economici. Il paradigma dominante divenne quello monetarista, sostenuto fra gli altri dal premio Nobel Milton Freedman, di cui era nota la spiccata
vena anti-keynesiana. Questo nuovo paradigma, che sottolinea un ritorno alla
teoria neoclassica pura, ha essenzialmente obiettivi anti-inflazionistici e di riduzione del debito e del deficit di bilancio, causati dall’intervento dello Stato
nell’economia, da politiche pubbliche troppo generose, sussidi ai consumi,
inefficienze della burocrazia ecc. Le nuove regole di politica economica sono
33
Ibidem.
33
sintetizzate in “ristrutturare, stabilizzare e privatizzare”. I programmi di aggiustamento strutturale vengono spesso acriticamente introdotti34.
A nostro avviso, il modello di politica-economica che sta alla base dello
sviluppo e dell’evoluzione dei regimi di accumulazione moderni è il seguente:
Graf. 5 - Un modello di Politica Economica internazionale
I BLOCCO
Politica Globale;
Economia Globale;
Pressione e vincoli
esteri;
Concorrenza
globale;
Conoscenza e
tecnologia;
Conflitto Nord-Sud.
II BLOCCO
Interazione delle
politiche
economiche;
società civile;
politica;
Implementazione
domestica delle
politiche.
Routine;
cultura,
Struttura
economica;
oppositori e
favorevoli;
ricchi/poveri
Performance
economiche e
sociali.
valori,
istituzioni
Il paradigma di policy neoclassico, nella forma del “Reaganomics” o del
“Washington Consensus”, trascura il secondo blocco nello schema appena
esposto. Nella nostra interpretazione esiste una evoluzione dialettica: il livello
internazionale condiziona quello nazionale. Tuttavia il modello di sviluppo
nazionale e regionale rimarrà, dentro certi limiti, legato ad un proprio sentiero,
influenzato da istituzioni, cultura e ambiente sociale, in continua interazione
tra loro. Lo schema appena esposto può applicarsi sia all’Unione Europea,
come una entità unica condizionata dal contesto internazionale, che al singolo
Stato Membro sottoposto tanto al condizionamento dell’UE che a quello
mondiale.
34
Questi programmi costituiscono il nucleo del nuovo paradigma neoliberale che sarebbe diventato famoso come “il consenso di Washington”. Esso si riferisce ad un decalogo di politiche
raccomandate dalle istituzioni finanziarie internazionali di Washington (in particolare FMI e
Banca Mondiale). Tuttavia, dopo quindici anni «…this consensus has by now largely dissipated» Rodrik (2004), p. 1, e le crisi economiche e finanziarie da esso causate sono numerose.
Stiglitz, (1998).
34
Nel contesto europeo post-fordista, guidato dall’economia della conoscenza, diversi sentieri di sviluppo possono emergere. Questo perché le traiettorie
nazionali e le istituzioni prevalenti in un determinato contesto economico
svolgono un ruolo fondamentale. Naturalmente, le politiche e le istituzioni europee sono create poi da singoli Stati che diventano leader di posizioni dominanti in certi periodi. Bob Jessop35 distingue quattro “ideal types” di Stati contemporanei rappresentati nella tav. 2 di seguito. Questi quattro modelli distinti
da Jessop (più un quinto, il modello Post-Socialdemocratico), hanno delle caratteristiche che sono presenti nell’evoluzione di tutti i modelli socio economici degli SM. E’ possibile infatti raggruppare, anche se non con perfetta aderenza, tutti gli SM all’interno di questi 4-5 “ideal types”. Ognuno è guidato da
uno o più Stati leader, capaci di aggregare altri SM. Tuttavia, molti Stati
membri sembrano oggi essere attratti da singole politiche e istituzioni chiaramente appartenenti al modello liberista anglo-sassone. Questo è il caso dei
Paesi del Sud Europa, ma anche di alcuni paesi tradizionalmente socialdemocratici, come la Danimarca per quanto riguarda alcune decisioni riguardanti il
mercato del lavoro36, e come l’Austria per quanto riguarda il regime fiscale.
Anche i tre paesi del Benelux hanno perseguito politiche neoliberali per quanto riguarda il regime internazionale e finanziario.
Il modello neocomunitario, come Jessop37 afferma «…is a challenge to the
logic of capital accumulation in the economy, its extension to other spheres of
social life and the struggle to establish bourgeois hegemony over society as a
whole». In questo modello il ruolo della coesione sociale e di equi principi di
distribuzione del reddito è particolarmente accentuato. Esso è orientato alla
ricerca di una nuova forma di relazioni del lavoro. Al contrario degli altri modelli, questo non sembra essere guidato da uno Stato leader. Tuttavia è sostenuto a livello accademico dalla Scuola della Regolazione, dall’Euro memorandum Group, da importanti settori della società civile e da molti studiosi
Europei. Esso rappresenta un’importante alternativa allo scenario neoliberista
che sembra essere quello prevalente dagli anni ‘80 in poi, in seguito al lungo
periodo di keynesismo (1945-1980).
35
Jessop (2002), pp. 262-5.
La Danimarca, che rimane comunque sostanzialmente un paese con un modello Socialdemocratico, ha prodotto livelli di redditi e performance del mercato del lavoro superiori alla media
dell’UE. Negli ultimi anni, anche in Danimarca sono state introdotte alcune politiche di tipo
liberista, dando vita al modello cosiddetto flexicurity, in cui si combinano elementi sociali tipici
della socialdemocrazia scandinava, ed elementi di flessibilità del lavoro di tipo anglosassone
(Amoroso, 2003).
37
Jessop (2002), p. 263.
36
35
Da questa rassegna, emerge che ci sono diversi paesi dell’UE (quali
l’Italia, la Spagna, il Portogallo, la Grecia, il Benelux, e alcuni nuovi SM
dell’Europa centrale) che non hanno ancora un chiaro e coerente modello di
sviluppo, e che condividono caratteristiche di diversi modelli38. Tuttavia, i
sentieri di sviluppo contemporanei sono fortemente condizionati dal passato,
secondo il principio del “path-dependency”, e alcuni paesi leader, quali il Regno Unito, la Germania, i paesi Scandinavi e la Francia, possono ancora proporre un proprio modello di sviluppo come durante il fordismo.
5. Contraddizioni e Limiti della Strategia di Lisbona
L’analisi sulla varietà di capitalismi appena proposta ci è utile dal momento che la nostra ipotesi di lavoro poggia sul fatto che il Trattato di Maastricht,
con il conseguente Patto di Stabilità e Crescita (PSC), e in particolare la successiva Strategia di Lisbona, mirano a creare un modello socio-economico
convergente per un’Europa allargata a 25 e più SM. Il confronto tra il grafico
5 e la tavola 2 ci spinge verso un’importante considerazione, che è la prima
contraddizione, e quindi la prima ragione critica verso la Strategia di Lisbona:
la convergenza verso un presunto modello per l’UE si trova a dover fare i conti con fattori di inerzia sociali, politici e non strettamente economici che condizionano le diverse traiettorie nazionali di sviluppo. Essi sono, ad esempio:
l’eredità del passato, la cultura, la storia, le istituzioni, le norme sociali, i rapporti di forza, la politica e altri fattori extra-economici nazionali e locali.
L’insieme di questi fattori si ritrovano nel II blocco del modello di Politica
Economica presentato sopra (Graf. 4) e che vengono trascurati dall’analisi
economica ortodossa.
Da una parte un singolo modello Europeo sembra difficile da raggiungere. Una
convergenza potrebbe essere possibile aggregando in un unico modello un gruppo
di Stati Membri che condividono in partenza diverse caratteristiche.
Quindi non 25 modelli ma piuttosto 4-5 modelli dentro l’UE potrebbero
coesistere. D’altra parte, e contrariamente al trattato di Maastricht, gli obiettivi di Lisbona di occupazione e R&S non sono affatto vincolanti, dal momento
38
Nel caso dei PECO l’incoerenza del modello nazionale di sviluppo è maggiore a causa della
controversa transizione verso l’economia di mercato che questi paesi stanno sperimentando. Il
tipo di economia di mercato, in molti di questi paesi, si avvicina al modello neoliberale anglosassone (in Estonia, Lituania, Lettonia, Repubblica Ceca, Slovacchia). Mentre è più simile ad
un modello neostatista/neocorporativista in altri paesi quali Ungheria, Polonia e Slovenia. Tuttavia, la classificazione dei modelli, anche qui, non è sempre chiara e coerente (Tridico, 2004).
36
che nessuna sanzione viene emessa se lo Stato nazionale non si adegua alle
politiche, o agli obiettivi di Lisbona. Quindi ci sembra che gli obiettivi della
SL, che potrebbero essere validi in principio, insieme alla cosiddetta governance “soft”, siano solo funzionali al raggiungimento in modo meno drammatico e senza troppe rotture sociali di un considerevole livello di flessibilità e
liberalizzazione nel mercato del lavoro. Obiettivi questi, entrambi sostenuti
dai vertici più importanti e attivi della politica economica dell’UE, cioè dal
Commissario alla concorrenza, dagli organi della vigilanza al PSC e dalla
Banca Centrale Europea39.
In generale, la SL rappresenta un progetto ambiguo, dietro il quale c’è
l’affermazione di una versione neoliberista dell’Europa, che mira a sottoporre
diversi paesi sotto lo stesso unico modello, attraverso una via più accettabile.
In questo caso il MCA non è solo un vantaggio funzionale per
l’armonizzazione dell’UE, ma anche un mezzo, non democratico, per superare
l’opposizione sociale alle riforme. E questo è, come ha sottolineato Mosher40,
un grande svantaggio politico che aumenta quel deficit democratico di cui tanto si parla in UE41. Inoltre la SL «…is misguided in its ambitions, muddled in
its endless list of priorities, undercut by the illusory precision of its quantitative targets, and flawed in its reliance on improbable peer pressure42». Questa
ambiguità riflette un forte disaccordo esistente tra gli SM circa importanti
problemi concernenti alcune materie quali: lo Stato Sociale, le liberalizzazioni
e il protezionismo, l’intervento pubblico, la sicurezza sociale.
39
Fitoussi (2005).
Mosher (2000).
41
Fitoussi (2005), cit.
42
Tabellini e Wyplosz, (2004), p. 38.
40
37
Tav. 2 - Modelli Europei alternativi e principali caratteristiche
Caratteristiche
Concorrenza
Regolazione Economica
Agenti Economici Principali
Relazione tra
pubblico e privato
Internazionale Regolazione Economica
Tasse
Neoliberalismo
(Regno Unito,
Irlanda)
Promozione libera
concorrenza
Deregolamentazione, ritiro dello
Stato dall’economia
Imprese, Corporazioni,
Mercati
Concorrenza Globale
Bassa pressione
fiscale; nessuna o
poca progressione
Neocorporativismo
(Germania)
Cooperazione e
Concorrenza
Decentralizzazione
Importanza degli accordi
Tripartiti (Organizzazioni
industriali, Sindacati,
Governo)
Settore Pubblico
orientato a regole
e efficienza di
mercato
Partnership
Pubblico-privata
Alta pressione fiscale per finanziare lo
Stato Sociale
Neostatismo
(Francia)
Controlli di Stato,
Concorrenza controllata
Strategie di Regolazione e Accumulazione Nazionale
Settore Privato e Pubblico
Partnership
Pubblico-privata
a guida statale
Protezione settori
strategici in una economia aperta;clausole
di anti-dumping sociale
Protezionismo
Post-Social Democratico
(Paesi Scandinavi)
Liberalizzazioni
controllate dallo
Stato, concorrenza
Conoscenza, innovazione e tecnologia come elementi di guida
per la regolazione economica;
Liberalizzazioni
e concorrenza
controllate
Regolazione centrale limitata,
regolazione locale; importante
ruolo del Terzo Settore; Innovazione e Tecnologia; Controllo
pubblico
Partnership
Pubblico-privata
per la coesione
sociale
Partnership
Pubblico-privata
al fine di realizzare coesione
sociale
Economia aperta,
scambi internazionali,
clausole di antidumping sociale
Attori Locali in contesti globali, con limitata e controllata concorrenza tra paesi
simili
Elevati salari, pari
opportunità, alta
pressione fiscale
Neocomunitario
Imprese Pubbliche e Private;
PMI. Poche ma trainanti
grandi imprese
Economia Sociale, proprietà diffusa con partecipazione dei lavoratori.
Cooperative, Imprese
pubbliche e private
Modelli
38
Alta pressione fiscale e risorse collettive
Elevati salari, pari
opportunità, tassazione diretta elevata; differenziata
quella indiretta
In particolare un compromesso e la conseguente convergenza sembra impossibile tra due modelli, quello neoliberista, proposto dal Regno Unito, e
quello statalista, proposto dalla Francia43 o altri Stati socialmente più attenti
(quali quello Tedesco o quello Scandinavo).
L’Unione Europea sarebbe priva di significato senza uno di questi grandi
paesi. Quindi un’evoluzione ed un compromesso deve necessariamente realizzarsi. Questa evoluzione può anche essere contraddittoria, e la SL, con i suoi
generici obiettivi/auspici e con questo tipo di governance “soft”, sembra esserne un esempio.
La seconda contraddizione della SL trova le sue origini nella sua mancanza di stabilità, in quanto essa si presenta come una Strategia di politica economica strutturalmente incoerente. Il precedente regime fordista aveva una
struttura politico-economica e industriale sicuramente più coerente. Esso aveva, da una parte, obiettivi di produzione e consumo di massa, con crescenti
investimenti, guadagni di produttività e incrementi salariali, e dall’altra parte,
beneficiava di una politica e una gestione della domanda aggregata, il pieno
impiego e la presenza di uno Stato Sociale. Ciò rendeva possibile
l’accumulazione e la riproduzione capitalistica attraverso la variante keynesiana, con il livello di occupazione di pieno impiego che era determinato dalla
domanda effettiva, e con una particolare attenzione alla distribuzione del reddito. Queste due dimensioni, modello produttivo e politica economica, hanno
coesistito bene insieme, e hanno permesso una lunga espansione economica,
stabilità e crescita del Pil con un coerente modello di sviluppo.
Il nuovo modello ha ancora principi di consumo e produzione di massa, ma
politiche economiche, strategie e istituzioni incoerenti con questi principi44. Il
modo di regolazione proposto, cioè la nuova governance costituita principalmente dal Patto di Stabilità e Crescita e dalla Strategia di Lisbona, con le nuove forme istituzionali (flessibilità del lavoro, concorrenza globale, istituzioni
finanziarie, ecc), ignorano le politiche dal lato della domanda, non sostengono
43
Il recente Consiglio Europeo, sotto la presidenza Britannica (Dicembre 2005), ha evidenziato
un forte disaccordo tra SM ed in particolare tra Regno Unito e Francia. Questi disaccordi solo
apparentemente sono dovuti a questioni contingenti quali il bilancio e le politiche agricole. In
realtà essi nascondono due diverse idee rispetto al modello socio-economico dell’UE che si
vorrebbe.
44
L’emergere del toyotismo non rappresenta un cambiamento nel modello di accumulazione
che rimane comunque di massa, seppure con le varianti nei consumi, le differenze nei gusti e
nelle preferenze e quindi nella produzione differenziata ma per tutti. Tuttavia la produzione è
ispirata al “risparmio di manodopera”, all’introduzione di lavoro flessibile e adattabile, alla differenziazione delle tecniche produttive (Basso, 1998).
39
la domanda aggregata e il consumo, creano flessibilità e instabilità nei processi produttivi, minimizzano il ruolo dello Stato sociale come mezzo che permette consumi a coloro che sono esclusi dal processo produttivo (o consumi
aggiuntivi agli occupati), e privano il sistema europeo dei più elementari mezzi di politica economica anti-ciclica45. In questo caso, le due dimensioni, modello produttivo e politica economica, sembrano essere incoerenti tra loro.
Per queste due principali contraddizioni sembra improbabile che la SL
possa rappresentare un progetto economico istituzionale coerente, stabile e
capace di produrre insieme pieno impiego, competitività, conoscenza e grande
coesione sociale in tutta l’UE entro il 2010, né sembra che la verifica di medio
termine della SL abbia proposto modifiche rilevanti. Naturalmente, molteplici
sono le differenze tra i paesi dell’UE in termini di performance del mercato
del lavoro e obiettivi di Lisbona. Ad esempio, i paesi del Nord Europa quali la
Svezia, la Danimarca, l’Olanda e la Finlandia raggiungono o superano
l’obiettivo di Lisbona del 70% dell’occupazione, e hanno un elevato livello di
R&S rispetto alla media dell’UE. Il Regno Unito e l’Irlanda hanno performance più vicine agli USA in termini di flessibilità e mobilità del lavoro, e il
Regno Unito anche in termini di R&S. La Francia e la Germania hanno livelli
di produttività vicini a quelli degli USA. Tuttavia l’UE nel suo insieme (sia a
15 che a 25) presenta dei tassi medi rispetto agli indicatori di Lisbona, di gran
lunga inferiori a quelli degli USA.
Graf. 6 - Tassi di occupazione negli SM (1998-2002-2004).
Obiettivo di Lisbona = 70% entro il 2010
1998
2002
2004
80
70
60
50
40
30
20
10
0
AT
BE
DE
DK
ES
FI
FR
GR
Fonte: Eurostat 2005.
45
Fitoussi (2005).
40
IE
IT
LU
NL
PT
SE
UK
Media
EU15
Nel prossimo paragrafo analizzeremo la terza contraddizione della SL, nello specifico caso dell’Italia.
6. La SL in Italia: il dualismo nord-sud, un classico problema
irrisolto
La terza critica che rivolgiamo alla SL risiede nel fatto che essa non tiene
in dovuto conto delle differenze istituzionali delle regioni d’Europa. Nonostante il metodo di coordinamento aperto, le differenze istituzionali tra i vari
contesti regionali non sono adeguatamente considerate. Nel caso dell’Italia,
non è sufficiente offrire possibilità di scelta, al livello nazionale, in termini di
mezzi, in base a degli obiettivi europei comuni, perché comunque le differenze fra il Nord ed il Sud del paese sono enormi. La SL non propone una politica di creazione di nuovi posti di lavoro, quale potrebbe essere necessaria nel
Sud d’Italia, ma semmai di riduzione della disoccupazione strutturale, ignorando l’esistenza di disoccupazione involontaria. Nel Mezzogiorno d’Italia le
priorità di intervento e quindi anche gli obiettivi, potrebbero essere diversi rispetto a quelli proposti dalla SL.
Inoltre, le istituzioni informali (cioè le istituzioni economiche non codificate ma prevalenti) a livello regionale possono giocare un ruolo non secondario nel determinare le decisioni degli agenti. Di conseguenza rendere effettivi i
nuovi modi di governance, i nuovi programmi, e le nuove istituzioni, richiede
tempo. Spesso, l’inerzia che le nuove istituzioni e regole economiche a livello
locale incontrano, rende difficile la loro applicazione e il rinforzamento, tale
da compromettere l’efficacia stessa e i risultati dei nuovi programmi. In questo contesto, gli obiettivi di Lisbona, in termini di mercato del lavoro e performance economiche in generale, a livello nazionale, possono avere poco significato, perché sono inevitabilmente condizionate dalle differenze regionali.
La trasposizione e l’implementazione del metodo di coordinamento aperto,
a livello regionale e locale sembra ottenere scarso successo. I cosiddetti “tavoli di concertazione” non funzionano immediatamente laddove non sono mai
esistiti. Essi non mediano interessi, né risolvono i problemi, piuttosto sono
spesso tavoli di lobbying, di “zone grigie” che organizzazioni, istituzioni, imprese e altri agenti utilizzano per propri fini, non sempre coerenti con gli
obiettivi di Lisbona.
La necessità di risorse, investimenti pubblici, istituzioni e regole differiscono tra nord e sud d’Europa. La differenza diventa enorme tra sud d’Italia e
nord d’Europa (per esempio, Germania, Svezia, Regno Unito). Il principio di
Lisbona «different means for equal objectives» potrebbe essere una buona
41
idea di governance tra paesi e contesti simili ma non tra regioni le cui differenze e condizioni iniziali sono drammatiche. Dunque obiettivi e priorità non
possono essere gli stessi per tutti i contesti. Inoltre, quando gli obiettivi sono
gli stessi, i mezzi potrebbero convergere. Infatti dentro il MCA, l’UE richiede
esplicitamente di condividere programmi, politiche e conoscenze. Questi
mezzi potrebbero essere non appropriati per tutti i contesti regionali, e gli
obiettivi privi di significato. Infine molto spesso, gli indicatori non sono solo
obiettivi ma chiare direzioni politiche, e queste, ancora, potrebbero essere
inappropriate per particolari contesti.
Nel Mezzogiorno d’Italia, sia la SL che il MCA sembrano essere inappropriate come strategie dato il livello di sviluppo di quelle regioni. Paradossalmente nel Mezzogiorno, flessibilità e mobilità esistono già nelle forme peggiori: mercato nero, emigrazione, forme persistenti di caporalato, lavoro occasionale ecc. Quindi, continuare anche nel Mezzogiorno con politiche “offertiste” che si concentrino sul lavoro, introducendo “forme legali” di flessibilità
non sembra una buona prospettiva di sviluppo sostenibile. Nel sud d’Italia, il
tasso di disoccupazione, non solo quello strutturale, è molto alto, ed è molto
difficile per giovani specializzati e persone semi-specializzate, entrare nel
mercato del lavoro46. La disoccupazione di lunga durata è la più elevata rispetto all’Europa a 15. Le politiche quindi dovrebbero concentrarsi su questi
aspetti. La disoccupazione specializzata, giovanile e di lunga durata, non possono essere risolti definitivamente attraverso una maggiore flessibilità. Al
contrario essi necessitano di misure consistenti, riforme strutturali, attrazione
di maggiori investimenti, politiche dal lato della domanda, intervento pubblico, maggiore innovazione da parte delle imprese in modo da assorbire giovani
lavoratori specializzati, maggiore R&S, e pertanto creazione di nuovi posti di
lavoro.
Inoltre, le politiche dell’offerta se da una parte propongono
l’aggiustamento della forza lavoro verso le esigenze della produzione,
dall’altra non tengono conto della capacità delle imprese di assorbire lavoratori più specializzati e l’abilità delle stesse di produrre innovazioni di processo e
di prodotto.
Il grafico qui sotto mostra la drammatica situazione delle regioni del Mezzogiorno rispetto ai tassi di occupazione. Nessuno crede seriamente che
l’Italia possa raggiungere gli obiettivi occupazionali di Lisbona. Probabilmente neanche il nord ne sarà capace. A nostro parere, l’aumento dei tassi di occupazione richiede un principio imprescindibile: ogni regione geografica, ogni
46
Daniele (2005).
42
settore produttivo, ogni contesto sociale, merita di essere trattato con particolari strumenti e politiche.
Cercare di spiegare i bassi livelli di occupazione attraverso analisi generali
e nazionali non porta ad altri risultati che a suggerire politiche che potrebbero
andar bene in alcuni contesti ma non in altri. Quindi, di volta in volta bisognerebbe analizzare i casi specifici, cercando di vedere, ad esempio, quali sono
gli impedimenti sociali e culturali che portano a bassissimi tassi di occupazione femminili in alcune regioni del sud; quali sono i motivi per cui, in alcune
grandi città italiane solo un componente all’interno di una famiglia è disposto
a lavorare47, pur avendone, gli altri, la possibilità; quali sono i settori e le professioni che impediscono pari opportunità lavorative, ecc. Una volta individuate queste ragioni, le politiche, probabilmente, saranno più efficaci.
Graf. 7 - Tassi di occupazione regionali, Italia 2003
70
65
60
55
50
Fonte: Ministero del Lavoro 2004; Istat 2004.
47
Ad esempio per via della mancanza di servizi per l’infanzia.
43
Italia
Sardegna
Sicilia
Calabria
Basilicata
Puglia
Campania
Molise
Abruzzo
Lazio
Marche
Umbria
Toscana
E.Romagna
F.V.Giulia
Veneto
Liguria
T.A.Adige
Lombardia
Piemonte
40
V. D'Aosta
45
Gli ultimi dati sulla rilevazione delle Forze di Lavoro evidenziano una diminuzione del tasso di attività nel sud, causata, presumibilmente, dallo scoraggiamento e dall’abbandono della ricerca di un lavoro (Istat, 2004, 2005)48.
Infatti, tra il 2003 e il 2004, le persone in cerca di lavoro sono diminuite, cosi
come anche le forze di lavoro. Pertanto il risultato della diminuzione della disoccupazione, nel Sud e nell’aggregato Italia, va letto alla luce di ciò. Allo
stesso tempo, l’aumento di occupazione registrato nello stesso periodo, è essenzialmente dovuto all’aumento di occupati nel Centro-nord (+1,2%), ed in
particolare nell’aggregato Centro (+2,5%) (cfr. Tabella B in appendice).
Le enormi differenze tra Nord e Sud dovrebbero convincere i policy makers che il gap è troppo grande e non permette di accomunare la situazione del
Mezzogiorno in una strategia europea o persino nazionale. E questo non solo
in termini di obiettivi ma anche di performance istituzionali che cercheremo
ora di definire. Con questo non si vuole dire che gli esempi buoni, le cosiddette “best practices”, non vanno seguite, al contrario. Tuttavia, le strategie vanno non solo diversificate, ma le priorità devono essere selezionate e gli obbiettivi vanno commisurati.
Il MCA potrebbe essere uno strumento di governance utile per paesi che
condividono simili possibilità di raggiungere certi obiettivi e una certa efficacia istituzionale. In effetti, entro certi limiti, le istituzioni degli SM comunque
diverse, possono produrre risultati simili in termini di efficacia. Pensiamo
all’efficienza di certe regioni del centro nord in Italia, pensiamo alle infrastrutture, pensiamo a certi rapporti di fiducia e cooperazione nei distretti industriali, al grado di partecipazione alla vita pubblica ecc. In un confronto tra il
nord d’Italia e molti paesi Europei, le differenze istituzionali, sebbene marcate, sono in grado di produrre simili livelli di efficacia, di governance e di qualità istituzionale. In altre parole simili performance istituzionali. Questo è assolutamente da escludere nel Mezzogiorno. Le rispettive istituzioni non sono
48
La ricerca di lavoro, nel sud, in settori agricoli, edili, o simili, e per categorie svantaggiate
quali disoccupati espulsi in età adulta dal mercato, manovali, non è facilitata dai nuovi servizi
per l’impiego (previsti dalla Legge 30/2003), le cui pratiche (quali la compilazione di curricula,
l’utilizzo di internet, software, banche dati, e altri strumenti informatici adottate per la ricerca)
sono lontane da quelle a cui, le persone in cerca di lavoro nelle condizioni appena dette, erano
abituati attraverso l’uso dei tradizionali uffici di collocamento. Questi nuovi centri, in quei contesti, e per quelle categorie, hanno un effetto discriminante, disincentivante. Al contrario, i moderni centri per l’impiego possono essere utili in contesti, come in molte regione del centronord, in cui il mercato del lavoro è molto teso, l’incontro tra l’offerta e la domanda di lavoro è
al limite, e bisogna solo migliorarla, e la dinamica dell’occupazione è positiva.
44
solo diverse ma sono incapaci di produrre risultati simili a quelle del nord, in
termini di cooperazione, fiducia, efficienza delle amministrazioni, governance, relazioni industriali, partecipazione, accordi, e più in generale, funzionamento del mercato del lavoro. Al contrario, la prevalenza di diacroniche istituzioni informali, la corruzione, il mercato nero, il nepotismo e le lobbies, sono troppo pervasivi nella società meridionale. La fiducia, la cooperazione, la
partecipazione alla vita pubblica, il capitale sociale nelle sue più ampie e
complesse definizioni, non sembrano essere di sostegno al cosiddetto “business environment”49. In questo caso le performance istituzionali sono molto
scarse50.
Al contrario, la SL assume che una struttura istituzionale già esista e funzioni. Il MCA applicato a livello locale e regionale significa cooperazione,
coinvolgimento degli attori sociali, scambio di informazioni, condivisione di
valori, obiettivi comuni, efficienza amministrativa, ecc. In altre parole, un certo livello di performance istituzionali nel significato di Putnam51. Ciò manca
nel Mezzogiorno. Si potrebbe argomentare che questo è il motivo profondo
per cui il Mezzogiorno non è sviluppato. E allora, il MCA nel caso del Mezzogiorno, sembra essere una strategia tautologica poiché assume che per avere
buone performance economiche bisogna avere migliori performance istituzionali, cioè assume che il paese o la regione dovrebbe sfruttare i vantaggi
delle esternalità, della cooperazione tra attori sociali, il coinvolgimento delle
parti, l’ambiente economico sano ecc. Ma una regione che ha queste abilità
istituzionali è già una regione sviluppata. Per queste ragioni la SL sembra essere inappropriata nel caso del Mezzogiorno d’Italia.
L’occupazione è una priorità, ma è necessario un appropriato mix di politiche economiche per raggiungere l’obiettivo. Inoltre alcune priorità potrebbero
essere precedenti al raggiungimento degli obiettivi di Lisbona. C’è bisogno di
una partnership pubblico-privata al fine di creare condizioni ambientali e istituzionali migliori, aumentare e incentivare la domanda aggregata, attrarre investimenti e creare nuovi posti di lavoro. Le infrastrutture, laddove sono sostenute da una domanda, sono necessarie, così come è necessario la costruzione di università, centri di ricerca di eccellenza e poli tecnici. Investire in R&S
è assolutamente fondamentale. Sconfiggere la corruzione, il mercato nero e il
crimine è altrettanto fondamentale. In questo modo anche la fiducia, il capita-
49
Daniele (2005); Zamagni (1990).
Putnam (1993).
51
Ibidem.
50
45
le sociale e la cooperazione, fattori immateriali necessari allo sviluppo, potrebbero essere potenziati.
L’Italia, nel suo complesso, ha mancato l’obiettivo di medio termine che
riguarda il tasso di occupazione, nel 2005, al 67%, con quello femminile al
57%. Naturalmente il problema risiede nel Mezzogiorno. Tuttavia, la SL, come abbiamo argomentato, non risolve la situazione del Sud. Al contrario essa,
insieme al Patto di Stabilità e Crescita, sembra frenare lo sviluppo al sud, poiché non coglie i veri obiettivi e le priorità principali, e non attua il giusto mix
di politiche. Inoltre, la coesione sociale, uno degli indicatori della SL, continuerà ad essere trascurata finché i vincoli del PSC continueranno a prevalere.
Tuttavia, simili argomentazioni sono validi anche in altri contesti Europei, che
presentano caratteristiche affini al Sud Italia, quali il Portogallo, la Grecia, alcune regioni della Spagna, e molte regioni dei nuovi SM dell’Europa Centro
Orientale.
Secondo la valutazione Europea del 200352 l’Italia, e in particolare il Mezzogiorno, soffrono delle seguenti difficoltà riguardanti il mercato del lavoro:
1. Transizione inefficiente dalla scuola al mercato, con una conseguente
disoccupazione di lunga durata ed un’alta disoccupazione giovanile.
2. Scarsa partecipazione femminile e degli anziani al mercato del lavoro.
Notevoli disparità di trattamento uomo-donna nelle carriere e nei salari.
3. Enorme fetta di economia nera.
4. Elevato disequilibrio regionale, con una elevata differenziazione nei
livelli di disoccupazione giovanile nord-sud.
5. Elevata disuguaglianza tra i livelli di garanzia tra lavoratori.
Queste cinque problematiche che caratterizzano l’Italia in generale, sono
più accentuate nel Mezzogiorno. Negli anni più recenti il problema del Mezzogiorno si è aggravato con l’andamento negativo dei fondamentali macroeconomici del paese in generale. In effetti, a parte la controversa questione della crescita dell’occupazione, le performance dell’Italia non sono affatto soddisfacenti nel confronto con gli altri paesi dell’UE (cfr. Tabella A, in appendice).
Con la “Legge Biagi” (Legge n. 30/2003), l’Italia consolida definitivamente un modello di relazioni del lavoro iniziato durante gli anni ‘90, dove la flessibilità rappresenta il mezzo principale per raggiungere gli obiettivi di Lisbona. Gli effetti di questa legge sono ovviamente ancora incerti e spesso controversi da giudicare. Tuttavia, quando si confrontano i modesti aumenti di oc-
52
Commissione Europea (2003).
46
cupazione realizzati negli ultimi anni, con le negative tendenze macroeconomiche italiane, il giudizio finale non può che esser negativo.
La legge introduce una lista di forme di lavoro flessibili e atipici, dotati di
un livello di diritti sociali inferiore rispetto ai contratti di lavoro precedenti 53,
di cui non si trovano praticamente esempi rilevanti in altri paesi dell’Europa
continentale a parte il classico part-time. Inoltre, ed è questa la principale differenza con gli altri paesi europei, le forme flessibili di lavoro previste dalla
legge 30, sono principalmente usate per contratti con lavoratori scarsamente
specializzati, con bassa produttività, e bassi salari. Questa tendenza non è seguita nel resto d’Europa, dove per la maggior parte, i lavoratori con contratti
atipici e flessibili, eccetto il part-time, sono specializzati e ben pagati. Questa
tendenza aumenta le disparità nei redditi degli italiani, tra i lavoratori specializzati e non, tra ricchi e poveri. Il risultato di questo è che una fetta della popolazione, più del 10%, è sotto la linea della povertà54.
Il dato più allarmante, rispetto ai fondamentali macroeconomici, è che negli ultimi cinque anni, il Pil pro capite degli italiani è sceso sotto la media
dell’UE55. L’Italia è caratterizzata da una disoccupazione in diminuzione (dal
9,4% al 7,7 % nel periodo 2001-2005), ma la produttività non cresce (-01%
nel periodo 2001-2005, e -0,7 nel I Semestre 2005, i peggior dati dell’UE-25)
il Pil non cresce (crescita zero nel 2005, il peggior dato nell’UE-25, e 1% nel
periodo 2001-05, sotto la media dell’UE a 15 e a 25). Nel 2005 la crescita zero del Pil è costata, in termini di occupazione, 102 mila posti di lavoro persi.
Le partite correnti peggiorano (-0,9% nel 2005, il peggior dato tra i paesi più
grandi dell’Unione), il consumo privato non è cresciuto negli ultimi tre anni,
sottolineando con ciò una perdita del potere di acquisto dei cittadini.
Sebbene la SL non sia, secondo l’analisi qui proposta, una strategia appropriata, i suoi principali obiettivi (occupazione, disoccupazione, R&S) sono
comunque validi, con le considerazioni fatte per il caso del Mezzogiorno. Per
questa ragione ne riportiamo la “pagella” che delinea un confronto con tutti i
paesi europei. In generale, secondo questa “pagella 2005” di Lisbona, elaborata dal “Centre for the European Reform” (CER), l’Italia detiene la peggiore
posizione tra l’UE-1556. La graduatoria è basata sulla media dei risultati con-
53
Tronti e Ceccato (2005).
Istat (2005).
55
Fatto 100 il Pil dell’UE-15, quello italiano è 97,8%. A metà degli anni 90, il Pil dell’Italia era
intorno a 105% rispetto a quello dell’UE (Commissione UE, 1997; Eurostat 2005).
56
Il CER dà un giudizio categorico. Definisce “Heroes” la Svezia, paese al vertice di questa
graduatoria, e “Villain”, l’Italia che è posta al fondo della stessa (Murray et al: 11).
54
47
seguiti dai paesi rispetto agli indicatori raggruppati nella cosiddetta “short
list” di Lisbona57.
Potremmo anche argomentare che, politiche, istituzioni, mezzi e strategie
perseguite in Italia dal 1999 in poi non hanno generato risultati di successo. In
altre parole, la flessibilità del lavoro, la riduzione dello Stato Sociale, la debole dinamica della domanda aggregata, la mancanza di investimenti pubblici, e
uno scarso livello di R&S sembrano essere alla base delle scarse performance
della produttività, delle esportazioni e del reddito, e questo nonostante i modesti aumenti di occupazione.
Tav 3 - Performance generali degli obiettivi di Lisbona, 2005
Rank
Paesi
Progressi
fatti
dal 1999
Obiettivi di
Lisbona
raggiunti
(2005)
Rank
Paesi
Progressi
fatti dal
1999
Obiettivi
di Lisbona
raggiunti
(2004)
1
Svezia
5
12
15
Lettonia
13
2
2
3
4
Danimarca
Regno Unito
Olanda
6
2
12
9
7
6
16
17
18
R.Ceca
Spagna
Portogallo
27
9
16
2
3
5
5
6
Finlandia
Austria
11
21
7
5
19
20
Cipro
Grecia
22
10
5
0
7
8
Slovenia
Lussemburgo
18
19
2
1
21
22
Ungheria
Slovacchia
1
23
1
2
9
10
11
Germania
Francia
Irlanda
20
4
3
3
3
1
23
24
25
Italia
Polonia
Romania
8
25
26
2
2
1
12
13
Estonia
Belgio
17
14
4
1
26
27
Bulgaria
Malta
7
24
1
1
14
Lituania
15
4
Fonte: Murray et al., (Centre for European Reform), 2005.
Rispetto a quest’ultimo dato, inoltre, le nuove metodologie di rilevazione
delle forze lavoro, introdotte a livello Europeo nel 1998 e adottate in Italia nel
2004, lasciano il dubbio che il miglioramento della situazione occupazionale
57
Si tratta di sei gruppi quali: performance economiche generali (Pil e produttività), occupazione (femminile, anziana, totale), innovazione e ricerca (R&S, tasso di scolarizzazione 20-24
anni), riforme economiche (stabilità dei prezzi, “business investment”), coesione sociale (rischio povertà, disoccupazione di lungo periodo, dispersione regionale di disoccupazione), ambiente (emissione gas, livelli energetici, volume dei trasporti).
48
sia in parte dovuto al mutamento delle definizioni di occupato e disoccupato58.
Infine, come riporta il Bollettino Economico della Banca d’Italia (2005), negli
ultimi due anni, l’aumento di occupazione è in gran parte, per più del 50%,
spiegato dalla regolarizzazione di lavoratori immigrati, da diversi anni in Italia, e pertanto già lavoratori “a nero”. Un reale aumento di occupazione deve
portare ad un aumento delle condizioni di vita e della situazione “reddituale”
del paese. Ciò non sembra sia avvenuto. Quindi, se da una parte non possiamo
considerare lavoro le attività illecite e si vuole far emergere l’occupazione
sommersa, forse è giusto non considerare lavoro neanche quello che non fornisce un reddito minimo.
7. L’Europa sta raggiungendo pieno impiego e maggiore coesione
sociale?
Il 2005 è stato un importante anno per la valutazione di medio termine della SL. I dati confermano le nostre preoccupazioni. L’UE sembra essere lontana dagli obiettivi di Lisbona. In generale, la valutazione negativa del Rapporto
Kok, incaricato di giudicare i risultati fin qua raggiunti nell’ambito della Strategia Europea per l’Occupazione, può essere riassunta nella seguente frase
conclusiva del rapporto: «Although some progress was made on innovating
Europe’s economy, there is growing concern that the reform process is not
going fast enough and that the ambitious targets will not be reached».
La scarsa velocità del processo di riforma sembra essere la principale causa della lenta performance individuata dal Rapporto Kok. Il principale problema, a nostro avviso, rimane l’inadeguatezza della strategia. La flessibilità
del lavoro probabilmente ha portato ad una riduzione nel tasso di disoccupazione ma non ha sostanzialmente aumentato il tasso di attività e la produttività. Il pieno impiego è ancora molto lontano e l’obiettivo del 70% sembra ir-
58
Ponendo, nelle indagini trimestrali sulle forze lavoro, come requisito per essere considerato
“occupato”, aver effettuato almeno 1 ora di lavoro nell’ultima settimana, rientrano tra gli occupati anche coloro che non producono un reddito almeno sufficiente per il proprio sostentamento. Inoltre, dal lato della disoccupazione, la richiesta, nel nuovo questionario sulle forze lavoro,
di un’intensa e continua attività di ricerca, per essere considerato disoccupato, rischia di sottostimare il fenomeno dello scoraggiamento: coloro che non hanno una occupazione da lungo
tempo (“disoccupazione di lungo periodo”) non vengono presi in considerazione tra i disoccupati, e non compaiono così nel numeratore del tasso di disoccupazione, che risulta quindi sottostimato.
49
raggiungibile entro il 201059. La dinamica della forza lavoro flessibile sembra
condizionare non solo la produttività decrescente, ma anche la riduzione del
potere di acquisto dei lavoratori, i quali sono soggetti a una forzata riduzione
del tempo di lavoro e a tagli di salari attraverso maggiore flessibilità, con effetti controversi non solo sull’efficienza produttività ma anche sul benessere
dei singoli lavoratori.
A questo punto è utile citare una frase di Solow: «If pure unadulterated labour-market reform is unlikely to crate a substantial increase in employment,
then the main reason for doing it is anticipated gain in productive efficiency,
however large that may be. But if we respect the wage earner’s desire for job
security, and it seems at least as respectable as anyone’s desire for fast cars or
fat-free desserts, then an improvement in productive efficiency gained in that
way is not a Pareto-improvement. More labour market flexibility may still be
worth having – and I think it is – but then the losers have a claim in equity to
some compensation. The trick is to find a form of compensation that does not
cancel the initial gain in labour-market flexibility»60.
Che la flessibilità del lavoro introduca dei guadagni di efficienza è altamente discutibile. Al contrario, è stato ampiamente dimostrato che guadagni
di efficienza e produttività dal lato del lavoro sono possibili quando i lavoratori si sentono soddisfatti e fanno un lavoro che dia loro sicurezza economica e
sociale61. Allo stesso modo, i sussidi di disoccupazione, elargiti grazie
all’esistenza dello Stato Sociale, permettono al lavoratore di trovare il lavoro
che gli si addice di più, contribuendo così, ad aumentare la sua efficienza.
In effetti, maggiori guadagni di produttività sono in genere ottenuti, a parità di altre condizioni, attraverso un processo di “learning-by-doing” e grazie a
fattori extra-economici che sono possibili solo quando il rapporto con
l’impresa, in un determinato posto di lavoro, è stabile, continuato e duraturo,
tale da rendere possibile incrementi di fiducia, cooperazione, ed evitare costi
di aggiustamento e inefficienze organizzative. Al contrario, i modesti aumenti
di occupazione che si registrano negli ultimi anni, si sono ottenuti attraverso
un aumento del lavoro flessibile che tende ad essere caratterizzato da bassa
produttività62. L’aumento di occupazione nel settore terziario, frammentato e
disorganizzato, riporta le perdite maggiori di produttività.
59
Kok’s Report (2004).
Solow (2002), p. 4.
61
Fitoussi (2003); Freeman, (2005).
62
Kok Report (2004), p. 15.
60
50
Graf. 8 - UE 15 - Performance dei principali indicatori 1999-2003 (USA=100)
120
100
1999
94,8
2003
82,9
95,3
89
86,6
87,4
80
70
70,2
60
40
20
0
Pil pro-capite in PPP
Tasso di occupazione
Ore lavorate per lavoratore
Produttività del lavoro oraria
Fonte: EU Commission Services.
La situazione è peggiore in quei paesi lontani dagli obiettivi di Lisbona,
quali l’Italia, la Spagna, la Grecia. In effetti, in questi paesi, ma anche in altri
più grandi quali Germania e Francia, un mercato del lavoro più flessibile non
ha permesso un consistente aumento del tasso di occupazione, mentre ha contribuito a diminuire il potere di acquisto dei lavoratori.
Tav. 4 - Germania, Italia e UE 25 – Sviluppi Macroeconomici (tassi medi di
cambio)
2005
2001-05 (media)
UE-25 Germania
Italia
UE-25
Germania
Crescita Pil
2,0
0,9
0
1,7
0,8
Domanda Interna
2,1
0,6
1,3
1,7
-0,2
- consumo privato
1,9
0,7
1,4
1,7
0,3
- consumo pubblico
1,7
-0,1
1,0
2,2
0,7
- investimenti totali
3,3
2,0
1,6
1,0
-2,3
Esportazioni
6,4
6,9
5,1
4,1
5,6
Partite correnti (% del Pil)
0,4
4,4
-0,9
0,3
2,6
Costi del lavoro unitari
-0,4
-0,2
-0,1
-0,3
-0,6
Quota dei Salari (% del 67,4
64,4
67,9
68,1
66,1
Pil)
Produttività
1,0 (I Sem) -0,7 (I Sem.) (UE-15) 1
0,9
Italia
1,0
1,2
1,0
1,9
1,0
1,0
-0,6
0,3
67,8
-0,1
Fonte: EU Commission Services; Euro memorandum group, 2005; Banca d’Italia 2005.
Questa tabella mostra chiaramente che durante la prima parte della strategia di Lisbona (2001-‘05), le performance economiche dell’UE non sono state
soddisfacenti. In particolare Germania e Italia sembrano soffrire di problemi
simili: domanda interna stagnante, riduzione della quota dei salari sul Pil,
51
mancanza di investimenti. Nel caso dell’Italia poi, la situazione è peggiorata
dall’andamento negativo delle partite correnti, che evidenzia una forte perdita
di competitività.
Questi due problemi che riguardano domanda e investimenti, sono direttamente legati alla SL e al PSC. Secondo la nostra analisi, la riduzione dei salari reali e i vincoli di politica fiscale hanno rallentato sia la domanda che gli
investimenti. Inoltre, scarsi livelli di R&S, politiche di innovazione insufficiente, contrariamente a quanto previsto dalla stessa SL, sono la causa della
perdita di competitività italiana sui mercati internazionali. Infine, si deve sottolineare che le performance dell’UE sono strettamente legate a quelle dei
tre/quattro paesi più grandi dell’UE, che fungono da traino per tutto il mercato
unico. Come mostra la tabella A in appendice, dopo la seconda guerra mondiale, la Germania la Francia e l’Italia hanno condizionato positivamente le
performance dell’Europa. Oggi questi tre paesi hanno una dinamica stagnante
e il resto dell’Unione ne è influenzata.
Il Rappoto Kok, che offre una valutazione ufficiale della SL, non può che
riconoscere queste performance negative. Il Rapporto è una valutazione basata sui principali indicatori strutturali decisi a Lisbona. La Tabella C in appendice riassume il Rapporto nei 15 indicatori della “short list”. Inizialmente la
SL presentava un numero molto maggiore di indicatori (40 indicatori “chiave”
e 26 indicatori di “contesto”)63. Successivamente, questi sono stati ridotti a 15.
L’UE riconobbe che a Lisbona erano stati selezionati troppi indicatori, spesso
privi di reale significato e soprattutto difficili da controllare e monitorare. Il
rilancio della SL nel Marzo del 2005, non ha cambiato nulla rispetto alla originale Strategia del 2000, assumendo dunque che questa non fosse sbagliata.
L’unica novità risiede in una maggiore semplicità delle linee guida, nel numero ridotto di indicatori, ecc64. Così facendo l’UE attribuisce il ritardo del raggiungimento degli obiettivi alla complessità della strategia, al numero degli
indicatori, ignorando le critiche che da più parti in Europa si sollevano, in
primo luogo la sua ambiguità e la scarsa efficacia verso gli SM, ma anche
l’assenza di una forte politica dal lato della domanda, e quindi l’integrazione
tra politiche del lavoro e politiche dello sviluppo65.
Per quanto riguarda, infine, la parte relativa alla coesione sociale, i dati
non evidenziano affatto riduzioni consistenti della dispersione regionale. Inoltre, e ciò non è sorprendente, il rischio di cadere sotto la linea della povertà è
63
Commissione Europea (2004).
Commissione Europea (2005).
65
Fadda (2005).
64
52
aumentato in alcuni paesi dell’UE-15 durante il periodo 1999-2003, quali in
Italia (+0.5%) in Irlanda (+1%), mentre è rimasto costante negli altri paesi
(cfr. Tabella C, in appendice). Quindi la nostra risposta alla domanda posta
nel titolo di questo paragrafo non può che essere negativa. L’unico dato parzialmente positivo dell’aumento di occupazione è negativamente compensato
dall’andamento negativo della produttività, dalla riduzione della percentuale
dei salari sul Pil, dalla riduzione del potere di acquisto dei lavoratori e dalla
scarsa dinamica del Pil.
Questo fenomeno, apparentemente contraddittorio, si può spiegare attraverso un’interpretazione al contrario dei modelli di salari di efficienza ed in
particolare del modello di Salop66. Infatti la maggior occupazione si è avuta a
salari reali anche più bassi rispetto a quelli necessari a mantenere un potere di
acquisto adeguato all’andamento dei prezzi. Questi bassi salari, accompagnati
spesso da precarietà, scarsi incentivi e riconoscimenti per i lavoratori, non
hanno aumentato lo sforzo e quindi l’efficienza dei lavoratori. I minori salari
reali, e quindi la minimizzazione dei costi, atteggiamento razionale da parte
del datore di lavoro, non hanno portato ad un aumento della produttività né ad
una maggior produzione. Hanno portato, al contrario, ad un aumento dei profitti, i quali, spesso, non si sono trasformati in nuovi investimenti, ma al contrario, in aumenti di rendite, posizioni dominanti e movimenti di portafoglio
massimizzato i suoi profitti, per via di una riduzione dei costi, il sistema economico non ha ottenuto effetti positivi, e di conseguenza non ha realizzato situazioni efficienti in termini di produttività e crescita economica. Se questi
elementi hanno almeno altrettanto valore che il profitto degli imprenditori, allora i risultati ottenuti negli ultimi anni, in termini di occupazione, non sono
né Pareto ottimali né socialmente efficienti.
8. L’Europa sta diventando la più dinamica economia della
66
Salop (1979) afferma che i costi di rotazione inibiscono il turn over di lavoratori
nell’impresa. Il datore di lavoro, al fine di evitare costi di assunzione, formazione e addestramento, evita di assumere continuamente lavoratori, e al contrario preferisce pagare un salario
maggiore pur di incentivare la permanenza nella sua impresa del lavoratore. In questo modo la
produttività e l’efficienza del singolo lavoratore aumentano e allo stesso tempo il datore di lavoro minimizza i costi di rotazione per nuovi lavoratori. Questo è un comportamento razionale
che non massimizza i risultati in termini di occupazione (a quei salari corrisponde una disoccupazione involontaria) né i profitti, che vengono erosi da più alti salari. Allo stesso tempo,
l’esistenza di disoccupazione involontaria che ne deriva, giustifica l’esistenza di uno Stato Sociale e di sussidi alla disoccupazione, i quali, tra l’altro, sono sostenibili grazie alla dinamica
positiva di produttività e Pil che consegue alla maggior produttività.
53
conoscenza al mondo?
Il titolo di questo paragrafo riproduce il titolo di un interessante articolo in
inglese di Archibugi e Coco67. Da questo articolo e da altri Rapporti e valutazioni ufficiali dell’UE, abbiamo dedotto delle conclusioni e delle risposte negative alla domanda posta. Innanzitutto fare dell’Europa, come la Strategia di
Lisbona chiede, “the most dynamic and competitive knowledge economy in
the world”, implica che ci siano dei parametri oggettivi per misurare la conoscenza. Questo non è ovvio né privo di controversi dibattiti68 Tuttavia
l’obiettivo di questa analisi esula da queste problematiche teoriche. Possiamo
quindi prendere in considerazione soltanto l’indicatore principale stabilito al
vertice di Lisbona, cioè la spesa in R&S al 3% sul Pil69. In questo modo, analizzeremo comparativamente le performance degli SM dell’UE, accennando
anche al confronto con Stati Uniti e Giappone.
L’Europa affronta un problema strutturale di scarsa produttività che ne
compromette la sua competitività, e, più in generale, nel lungo periodo, le
condizioni di vita dei suoi cittadini70. Questo è dovuto ad un basso tasso di investimenti per occupato, e ad un basso livello di progresso tecnologico. Una
strategia che miri a fare dell’Europa la più dinamica e competitiva economia
al mondo, con un modello socio-economico sostenibile, dovrebbe concentrarsi
principalmente su Tecnologia e Investimenti (pubblici e privati), piuttosto che
sul lato dell’offerta del lavoro e sulla flessibilità del lavoro.
Al contrario, gli obiettivi di R&S sembrano presi superficialmente in considerazione da parte di molti SM. Inoltre, in questo campo, come anche in altri
concernenti la SL, l’UE ha poco potere decisionale, e scarsa capacità di persuasione, quindi il 3% del Pil sembra essere più un auspicio che un vero e praticato obiettivo di policy. Le performance europee in R&S sono più deludenti
di quelle concernenti i tassi di occupazione. Durante il periodo 1999-2003 il
tasso medio di crescita di R&S in UE è stato solo dello 0.02%. In alcuni SM
esso è persino diminuito (cfr. Tabella C in appendice). Gli USA e il Giappone
hanno avuto delle performance migliori. Il loro livello di R&S sul Pil è del
2,59% e 3,15% rispettivamente, mentre la percentuale dell’UE-25 è solo
dell’1,95 (cfr. Tav. 5). Se l’Europa nel suo complesso persiste in questo ritar67
Archibugi e Coco (2004).
Cfr. Antonelli e Calderini (2001); Nonaka e Takeuchi (1995); Polanyi (1966).
69
A Lisbona si prese in considerazione un secondo indicatore per la conoscenza “The Educational attainment (age 20-24)” che riguarda appunto il tasso di scolarizzazione superiore per il
gruppo di persone comprese in un’età tra 20-24 anni.
70
Denis et al. (2005); Kok’s Report (2004).
68
54
do tecnologico rispetto agli USA e al Giappone, la produttività ne verrà inevitabilmente condizionata, i divari di reddito si allargheranno, la competitività
peggiorerà, e gli standard di vita diminuiranno.
Investire in tecnologia, innovazione, ICT è assolutamente vitale per
l’Europa, dal momento che la concorrenza globalizzata spingerebbe pericolosamente verso il basso i costi del lavoro e i salari. Aumentare la produttività è
necessario al fine di mantenere salari reali elevati, e allo stesso tempo abbassare i costi medi del lavoro, in modo da continuare ad essere competitivi. A tal
fine è necessario un grande sforzo, una partnership pubblica privata che aumenti la spesa per l’innovazione e la ricerca. A ben vedere, molti paesi Europei, tra cui l’Italia, sono affetti da una scarsa presenza di investimenti privati
in R&S. Nel caso italiano, la cui quota di R&S sul Pil è solo del 1,14%, alcuni
studi attribuiscono questo dato alla dimensione relativamente piccola della
maggior parte delle imprese. Tuttavia questa non sembra essere univocamente
la spiegazione determinante. Infatti, sono molti i casi, anche in Italia, in cui
PMI investono con ottimi risultati in R&S. Inoltre la Danimarca, e altri paesi
del nord Europa, rappresenta un importante esempio di economia prevalentemente basata sulle PMI ma con un alto livello di R&S sul Pil (2,61%)71.
Senz’altro il problema rimane, e nel confronto con gli altri paesi Europei, in
Italia, il finanziamento privato per R&S è inferiore. Tuttavia bisogna aggiungere che l’investimento in R&S non è tutto, ma è necessaria, sulla linea degli
esempi scandinavi, un’organizzazione del lavoro e una struttura istituzionale
più efficiente.
Seguendo il pensiero di Schumpeter72, l’innovazione dovrebbe condurre il
sistema economico verso un’espansione simultanea di occupazione e produttività. In Europa non avviene né l’espansione di occupazione né quella di produttività, e la principale ragione, secondo l’analisi qui proposta, risiede nelle
distorte priorità individuate dalla SL.
Finlandia e Svezia detengono rispettivamente la prima e la seconda posizione in Europea rispetto alla graduatoria delle regioni più competitive (European Regional Competitiveness Index)73. Questo indice si basa su tre criteri:
Conoscenza, Performance economiche, e Infrastrutture. Grazie a investimenti
pubblici e privati in R&S, la Finlandia e la Svezia non solo hanno un miglior
71
Amoroso (2003).
Schumpeter (1934).
73
Fonte: World Knowledge Competitiveness Index 2004, Robert Huggins Associates.
72
55
indice di competitività, ma, insieme alla Danimarca, occupano anche le prime
posizioni nella “pagella di Lisbona” (cfr. Tav. 4)74.
Tav. 5 - R&S come % del Pil
1
2
Svezia
Finlandia
%R&S sul Pil
1996-97 2001-02 2004
2001-02
3,67
3,67
3,74
3,51
2,63
3,43
3
Germania
2,28
2,5
2,49
17
4
Francia
2,26
2,2
2,16
5
Danimarca
1,9
2,13
6
Belgio
1,84
7
Olanda
2,03
Rank Paesi
Rank Paesi
Rank
Paesi
15 Ungheria
16 Slovacchia
%R&S sul Pil
1996-97
2001-02
2004
2004
0,89
0,69
0,93
0,9
0,9
Portogallo
0,62
0,81
0,78
18
Polonia
0,71
0,61
0,58
2,61
19
Estonia
0,57
0,6
0,91
1,99
1,93
20
Grecia
0,51
0,6
0,58
1,96
1,77
21
Lituania
0,61
0,56
0,76
22
Lettonia
0,44
0,46
0,42
0,53
8
Austria
1,66
1,92
2,26
9
Regno Unito
1,86
1,87
1,79
10
Slovenia
1,43
1,54
1,61
UE-15
1,81
1,89
1,9
11
Rep. Ceca
1,14
1,31
1,28
UE-25
1,73
1,83
1,95
12
Irlanda
1,31
1,16
1,2
Giappone
2,8
3,11
3,15
13
Italia
1,03
1,11
1,14
USA
2,57
2,71
2,59
Svizzera
2,73
2,73
1,07
14
Spagna
0,83
0,9
Fonte: Archibugi e Coco 2004 e Eurostat 2005.
In realtà, i paesi Scandinavi sembrano aver bene interpretato le assunzioni
teoriche Schumpeteriane basate sulle “wave of innovation75” attraverso il sostegno pubblico in partnership con piccole e grandi imprese private. Ciò ha
reso sostenibile e duraturo lo sviluppo economico di quei paesi. L’esempio di
Finlandia, Svezia e Danimarca dovrebbe essere seguito dall’intera UE. Tuttavia, bisogna osservare, paradossalmente, che Finlandia, Danimarca e Svezia,
non hanno avuto, né hanno, obiettivi di Lisbona da seguire. Sia da un punto di
vista tecnologico che sociale, questi paesi, stavano già nel 2000 al di sopra
degli obiettivi di Lisbona. Inoltre, bisogna dire che Danimarca e Svezia non
sono stati strettamente vincolati dai criteri di Maastricht né dal patto di Stabilità, in quanto non aderiscono alla zona dell’Euro. Ciò ha sicuramente lasciato
loro maggiori margini di manovra per la gestione della domanda aggregata e
della spesa pubblica.
Essi hanno raggiunto gli obiettivi di Lisbona senza l’introduzione della
flessibilità nel mercato del lavoro. Al contrario, le politiche pubbliche e le
strategie delle imprese hanno sempre mirato a ottenere rapporti e relazioni
74
75
Murray et.al, CER (2005).
Schumpeter (1934).
56
stabili e duraturi con i lavoratori. Questi paesi si prestano ad una coerente interpretazione dei modelli di efficienza, in cui, da una parte, elevati salari disciplinano lo sforzo dei lavoratori76, e dall’altra, i datori di lavoro preferiscono
rapporti stabili e duraturi con i lavoratori al fine di aumentarne la produttività
e ridurre i costi di rotazione77. L’eventuale disoccupazione involontaria che
potrebbe risultarne è sanata dall’intervento pubblico e dal sistema di Welfare.
Le relazioni del lavoro in questi paesi sono organizzate, oltre che sulla stabilità del rapporto lavoro-capitale-stato, intorno ai seguenti principi: alti livelli
salariali, politiche tecnologiche appropriate, elevati livelli di specializzazione
dei lavoratori e Welfare. Infine, una stabile cornice istituzionale, una governance pubblica appropriata e una efficiente organizzazione del lavoro, ha
permesso in quei paesi la costruzione di un coerente modello socioeconomico, con effetti positivi sulla produttività totale del sistema economico.
Quindi, non solo tecnologie e macchine, ma anche istituzioni e comportamenti
virtuosi.
9. Conclusioni
La nostra analisi giunge a conclusioni negative rispetto alla Strategia di Lisbona, per diverse ragioni. Innanzitutto a causa della sua ambiguità e mancanza di efficacia verso gli SM. Sebbene le politiche di Lisbona sono, per molti
versi, inappropriate, gli obiettivi (tranne nel caso del Mezzogiorno d’Italia, e
di situazioni simili al Mezzogiorno), in molti casi sono da considerare validi.
Tuttavia, la SL è incapace di forzare gli SM per raggiungere quegli obiettivi.
Il MCA è uno strumento di governance debole e ambiguo, e non ha né vincoli
né incentivi per il raggiungimento degli obiettivi da parte degli SM.
Un importante aspetto che si è sottolineato nel saggio è la contraddizione
tra l’esistente regime di accumulazione capitalistica e le politiche proposte. Il
primo è evidentemente basato su norme di produzione e di consumo di massa,
sebbene con differenze rispetto al fordismo, concernenti soprattutto la tecnologia, la varietà nelle preferenze, nei gusti, nel consumo e quindi
nell’organizzazione della produzione. Al contrario, le politiche e le forme istituzionali del regime post-fordista sembrano essere poco funzionali, e non sostengono il consumo di massa, il pieno impiego, le politiche di sostegno alla
domanda aggregata. In particolare, il regime di lavoro e salari flessibili, i vin76
77
Shapiro e Stiglitz (1984).
Salop (1979).
57
coli alla politica fiscale, il sistema internazionale basato sulla concorrenza
globale e su una finanza aggressiva e deregolamentata, non sembrano la giusta
risposta alla lunga crisi fordista.
La SL nel caso italiano non lascia spazi a dubbi circa la sua scarsa efficacia: tutti gli indicatori strutturali previsti dalla stessa SL, a parte il tasso di occupazione, presentano dei risultati molto negativi, tra i peggiori nell’UE-25. Il
MCA non si è dimostrato un buon strumento di governance per problemi economici ed istituzionali del Mezzogiorno d’Italia. Diverse sembrano essere le
priorità, e non solo quindi le strategie, rispetto a quanto previsto dalla SL. La
disoccupazione giovanile, la mancanza di opportunità, il crimine, la transizione dalla scuola/università al lavoro, la mancanza di infrastrutture, la discriminazione femminile, la distorsione dei servizi pubblici, il mercato nero, la mancanza di investimenti ed altro ancora. Queste priorità non si coniugano bene
con una strategia, quella Europea per l’occupazione, che introduce solo misure dal lato dell’offerta, partendo dal presupposto che la disoccupazione sia solo di tipo strutturale, un problema di incontro tra domanda e offerta di lavoro.
Il problema principale rimane la creazione di nuovi posti di lavoro, di investimenti, di nuova ricchezza e di sviluppo. Il caso del Mezzogiorno non è un
caso isolato in UE-25. Simili situazioni si ritrovano in Portogallo e Grecia, in
regioni della Spagna, in alcune regioni della Germania dell’Est e della Francia, e in molte regioni dell’Europa Centro Orientale.
Inoltre, la situazione del Mezzogiorno, seppur diversa dal resto della penisola italiana, non può essere scissa dalle performance negative registrate
dall’intero paese in questi anni. Il Centre for European Reform (2005) posiziona l’Italia al 23° posto nella sua “EU Lisbon Scorecard”. In Italia il tasso di
R&S è uno dei più bassi in UE. La valutazione del Rapporto Kok per il periodo 1999-2003 riporta una crescita del tasso di occupazione soltanto dello
0,9%, la crescita del Pil per lo stesso periodo è stata dell’1,1%, la produttività
negativa (-0,4%), la crescita della percentuale di R&S sul Pil solo dello
0,04%, la povertà è aumentata e la dispersione regionale non si è ridotta78.
Durante gli anni 2001-2005, i dati sul Pil e la produttività sono stati i peggiori
in Italia dalla seconda guerra mondiale in poi, e i peggiori nell’UE per lo stesso periodo (cfr Appendice, Tabella A).
La SL insieme al PSC, rappresenta oggi la struttura di governance economico-istituzionale in UE. Essa non ha prodotto risultati soddisfacenti, e non
ha proposto un’alternativa possibile all’organizzazione del mercato del lavoro
in crisi dalla fine dell’era fordista. I problemi del lato dell’offerta del sistema
78
Kok’s Report (2004).
58
economico europeo non sono stati affatto risolti, e la stagnazione o la crescita
rallentata continuano ad essere originate da problemi nel lato dell’offerta.
Di conseguenza le politiche dovrebbero concentrarsi, a nostro avviso, su
questi aspetti:
◘ organizzazione del lavoro socialmente accettabile ed economicamente
più efficiente, il che vuol dire aumentare la produttività e stimolare la
domanda, anche per via di un maggior potere di acquisto dei lavoratori;
◘ maggiore innovazione, aumento sostanziale della quota di R&S sul
Pil;
◘ politiche regionali svincolate dai criteri fiscali del Patto di Stabilità e
Crescita;
◘ politiche industriali che favoriscano la cooperazione istituzionale e la
creazione di distretti, e poli tecnologici che aiutino le PMI ad innovare;
◘ necessità di un nuovo Patto Sociale simile a quello nei paesi Scandinavi;
◘ clausole di salvaguardia sociale per proteggere il lavoro nella concorrenza globale come in Germania;
◘ politiche di sviluppo nazionale, infrastrutture e protezione di assi strategici come in Francia;
◘ programma di investimenti pubblici al fine di aumentare la domanda
aggregata;
◘ programmi di trasparenza, lotta alla corruzione, all’evasione e alle
corporazioni come nel Regno Unito, soprattutto in paesi, quali l’Italia,
dove questi problemi rappresentano un grosso ostacolo alla imprenditorialità.
Questi aspetti sono ugualmente fondamentali tanto per l’armonizzazione
del modello socio-economico europeo, quanto per la ripresa economica
dell’Italia, dal profondo declino degli ultimi anni.
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62
APPENDICE
Tabella A – Tassi medi di cambio (Val. %)
Germania
Francia
Spagna
Italia
UE4
UE11
UE15
USA
1961-1980
Occupazione
0,2
0,6
0
0,1
0,3
0,4
0,3
2,1
Produttività
3,4
3,8
5,4
4,6
3,9
3,1
3,6
1,7
Pil
3,6
4,4
5,4
4,7
4,2
3,4
3,9
3,7
Popolazione
0,5
0,8
1,1
0,7
0,7
0,5
0,6
1,2
Pil Pro-capite
3,1
3,6
4,3
4
3,5
2,9
3,3
2,5
1981-1990
Occupazione
1
0,3
1,1
0,6
0,7
0,6
0,7
1,8
Produttività
1,3
2,2
1,8
1,7
1,7
1,8
1,7
1,3
Pil
2,3
2,5
2,9
2,3
2,4
2,4
2,4
3,1
Popolazione
0,3
0,6
0,3
0,1
0,3
0,3
0,3
0,9
Pil Pro-capite
2
1,9
2,6
2,2
2,1
2,1
2,1
2,2
1991-1995
Occupazione
0
-0,1
-0,3
0
-0,2
0
-0,4
1,1
Produttività
2
1,2
1,8
1,9
1,9
2,3
2,1
1,3
2,5
Pil
2
1,1
1,5
1,3
1,6
1,6
1,6
Popolazione
1,3
0,5
0,2
0,2
0,4
0,4
0,5
1
Pil Pro-capite
0,7
0,6
1,3
1,1
1,2
1,2
1,1
1,5
Occupazione
0,7
1,4
3
1
1,3
1,6
1,4
2
Produttività
1,1
1,3
0,8
0,9
1,1
1,8
1,3
2
Pil
1,8
2,7
3,8
1,9
2,3
3,5
2,7
4,1
Popolazione
0,1
0,4
0,3
0,1
0,3
0,3
0,3
0,9
Pil Pro-capite
1,7
2,3
3,5
1,8
2
3,2
2,4
3,2
1996-2000
2001-2005
Occupazione
-0,1
0,7
2
1,2
0,7
0,5
0,6
0,1
Produttività
0,9
0,9
0,7
-0,1
0,7
1,5
1
2,5
Pil
0,8
1,6
2,7
1
1,3
2
1,5
2,6
Popolazione
0,1
0,5
0,7
0,1
0,3
0,3
0,3
1,5
Pil Pro-capite
0,7
Fonte: Denis et al. (2005).
1,1
2
1
1
1,6
1,2
1,1
63
Tabella B - Variazione % rispetto all’anno precedente (in parentesi variazioni
assolute in migliaia di unità)
2001
Occupati
Pers. in cerca di lav
Forze lavoro
Occupati
Pers. in cerca di lav
Forze lavoro
Occupati
Pers. in cerca di lav
Forze lavoro
Mezzogiorno
Nord
Centro
Italia
Fonte: Istat (2005).
2002
Mezzogiorno
2,4
1,7
-7,8
-5
0,5
0,5
Centro-Nord
1,6
1,3
-11,8
-4,2
0,8
1
Italia
1,9
1,4
-9,4
-4,7
0,7
0,9
Tasso di attività
2003
2004
55,5%
54,3%
68,1%
68%
64,9%
65,2%
62,9 %
62,5%
64
2003
2004
-04
-1,7
-0,6
-0,4 (-23)
-8,6 (-97)
-1,7 (-130)
2,3
0,9
2,2
1,2 (186)
2,4 (19)
1,2 (206)
1,5
0,7 (163)
-0,7
-4,3 (-84)
1,3
0,3 (76)
Tasso di disoccupazione
2003
2004
16,1%
15%
4%
4,2%
6,9%
6,5%
8,4%
8%
Tabella C. Indicatori selezionati dalla “shortlist”: performance dei “vecchi” Stati Membri (%)
Evoluzione degli Indicatori Selezionati (1999-2003)
Pil pro-capite
in PPP
Produttività del
lavoro per lav.
Tasso di occupaz.
R&S (% del
Pil)
Tasso di occupazione. fem
Tasso di occupaz.
R&S (% del
Pil)
Scolarizzazione
(20-24 anni)
A rischio di
Povertà
Dispersione
regionale del
tasso di occupazione
Disoccupazione
di lungo periodo
Emissioni di
Gas
Anno base
=100. (2002)
Pil pro-capite
(PPP UE15=100), 2003
target
2005
target
2010
AT
BE
DE
DK
ES
FI
FR
EL
IE
IT
LU
NL
PT
SE
UK
EU-25
EU-15
US
1,2
1,2
0,8
1,1
2,1
2,3
1,4
3,9
4,8
1,1
2,9
0,5
0,4
1,9
2,1
1,5
1,4
1,2
1,1
0,8
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1,7
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1,4
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1,2
1,7
1
0,7
1,9
0,2
0,1
-0,1
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1,5
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0,6
0,6
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0
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2,2
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2,5
1
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2
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20
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15
15
3,1
7,7
6
na
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6,1
5
3,6
na
17
na
2,4
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6
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108,9
91,2
100
-0,02 -0,02 0,04 na
-0,07
Livelli: Indicatori Selezionati (2003)
Fonte: Rapporto Kok (2004).
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3