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A. HELLER,
PER
UN’ANTROPOLOGIA
DELLA MODERNITÀ.
A cura di Ugo Perone,
Rosenberg & Sellier,
Torino 2009, pp. 132,
€ 13,00. 978887885082
I
l volume raccoglie il ciclo di lezioni e conferenze tenute, nel quadro delle attività
della Scuola di alta formazione filosofica di
Torino, dalla filosofa nata a Budapest nel 1929,
che oggi divide la sua docenza tra l’Ungheria
e gli Stati Uniti. La sua biografia, intellettuale
e umana, è uno spaccato esistenziale degli
eventi drammatici e promettenti del XX secolo; e il volume che il lettore si ritrova nelle
mani è un’intelligenza sapienziale (nel senso
alto del termine) delle «cose dell’umano», la
rimessa in gioco del quotidiano personale e
sociale non solo come questione di rilievo filosofico, ma anche come luogo in cui ne va
della qualità e della bontà di quella convivenza e rete di legami che caratterizzano l’ambiente in cui l’umano sorge, si plasma, si
orienta, e decidendo di sé coinvolge inevitabilmente la sfera innumerevole degli altri.
Si potrebbe dire che la filosofia di Heller
è contrassegnata da due profili principali:
uno pratico, che tocca l’effettività singolare
e irripetibile di ciò che accade e tocca la vicenda esistenziale dell’individuo e dei molti
legami in cui esso si presenta come tale – il
singolo non è mai solo, ma sempre inserito e
«generato» in un contesto sociale e culturale
che, anche nella congiuntura moderna, rimane elemento che concorre a costruire la sua
storia.
Il secondo profilo è appunto quello che
vorrei chiamare sapienziale, sotto due punti
di vista: da un lato, il recupero pieno dell’etimologia della disciplina come ragione stessa
della sua scientificità e del suo significato per
la vita comune degli uomini; dall’altro, la presa in carico del fatto che l’effettività pratica,
quando riguarda l’umano e le sue vicende, si
pone come dato che, proprio nella sua irripetibile singolarità, tocca e coinvolge tutto l’umano in ogni sua individualità.
Su questo doppio registro si articola il
tentativo di Heller di ricostruire le connessioni tra la validità per tutti (universale) e la sua
insuperabile concrezione nella singolarità
delle storie e degli eventi (particolare).
Il percorso filosofico che ne risulta tesse
continuamente insieme i filoni maggiori della
storia delle idee che attraversano l’Occidente
con le forme socio-culturali in cui esso si realizza nei vari momenti della storia. «Filosofia»
e «politica», pensiero e azione, non sono am-
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biti separati, ma si richiamano vicendevolmente e si implicano reciprocamente; e solo
l’intelligenza di questo nesso può permettere
di leggere adeguatamente quanto accaduto
nella storia dell’Occidente europeo, di comprendere le strutture guida che hanno condotto a quel particolare accadere, e di svilupparne una saggezza capace di raccoglierne la
promessa e di nominarne l’errore.
Davanti alla tendenza a ridurre per via di
semplificazione astratte, ossia de-contestualizzate, la complessità del contemporaneo,
Heller offre una comprensione e problematizzazione critica di questa stessa complessità come la condizione – l’unica e quindi la
propria – dell’umano così come esso realmente è.
È proprio questa passione per l’umano,
non schierata se non sul versante di quello
che tutti abbiamo (o dovremmo avere) in comune, che permette a Heller la ripresa dei
grandi temi della modernità in chiave non
ideologica. La «fine» delle ideologie si è offerta come possibilità di un incremento della
qualità della coesistenza umana e di una sua
pacificazione, perché si è spezzata quella
struttura portante che aveva generato l’apparato tecnologico dell’implementazione meccanica della violenza corporea; ma il contemporaneo – ossia l’epoca che esce dalle ideologie e dalla possibilità di grandi narrazioni
genealogiche – sembra essere più povero e
non meno disposto alla violenza.
Questo perché si è pensato di poter dismettere i temi che circolavano nell’inquadratura ideologica, e perché non ci si è accorti che i meccanismi di spaccatura offerti dall’ideologico continuano a operare, come fattori di una semplificazione violenta, anche
nella contemporaneità.
La «fine» di ogni epoca storica è sì, da un
lato, una cesura, il segno di un’impossibilità (o
di una possibilità) che una volta non era stata
tale; ma è anche la soglia di un rilascio, di una
consegna, di un compito che rimane tutto da
ideare e svolgere. È sul filo di questa visione
che la filosofia di Heller non è nostalgica, ma
neanche immemore; il pensiero di una donna
«curiosa», capace di raccogliere le questioni
che il pensiero deve affrontare solo in nome
della loro bontà per una vicenda umana finalmente giusta e giustificata, e non in virtù della loro provenienza.
È secondo questo registro che si può parlare della filosofia di Heller come compiutamente post-ideologica. Un tratto, questo,
che farebbe estremamente bene alla situazione attuale del poco pensiero che circola
nel nostro paese.
La molteplice «cittadinanza» di Ágnes
Heller le permette una connessione ben bilanciata delle tradizioni continentali con
quelle del pensiero di oltre Atlantico; soprat-
tutto laddove il rilancio del tema del legame
sociale riesce a evitare l’approdo comunitaristico, senza disperderne però gli apporti che
esso può dare per superare l’individualismo
particolarista ed elitario che scorre ancora
dentro la pratica effettiva dei grandi nomi
della comunanza inter-umana.
È in questa chiave che viene recuperato il
patrimonio della metafisica: non per l’impianto concettuale e la struttura sistematica che
essa offre, ma per le questioni pratiche che
l’hanno originata e fatta pensare per secoli.
Una lettura avvincente nella sua intelligenza,
appassionata nella sua capacità di critica, che
scorre senza salti e rotture e lascia alla fine il
senso di un affetto maturo per quello che
tutti siamo: uomini e donne al mondo, in una
complessità che ci può preoccupare fino alla
paura, ma che è anche portatrice di possibilità e promesse, impensabili solo due generazioni addietro, per poter dare forma a un
umano secondo verità e giustizia nel gioco
sempre aperto del legame democratico.
«La filosofia ha sempre posto domande
infantili: continuiamo a frequentarle» (130);
con questa frase, che riconduce la sapienza di
una vita all’origine della vita di tutti gli altri, si
chiude un volume la cui lettura lascia il senso
di un debito di gratitudine – continuiamo a
farci domande là dove esse sorgono sempre
di nuovo.
Marcello Neri
C.M. MARTINI,
IL TESORO
DELLO SCRIBA.
La spiritualità
del prete,
EDB, Bologna 2010,
pp. 119, € 9,00.
978881010884
C.M. MARTINI,
IO STO IN MEZZO A VOI.
Il prete e la sua comunità,
EDB, Bologna 2010, pp. 117,
€ 9,00. 978881010885
A
lcune lettere, meditazioni, omelie e riflessioni del card. C.M. Martini – durante il suo servizio pastorale a Milano
– dedicate ai preti sono state raccolte in questi due volumi. Il primo delinea la figura del
prete come «un uomo dalla spiritualità gentile, la statura del pastore solerte e vigile, il tratto di un cristiano che vuole farsi compagno di
viaggio di chiunque, per qualsiasi motivo, che
accetta di mettersi con lui in ascolto della parola di Dio e di camminare sulla via da essa in-
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dicata» (tratto dalla Presentazione di mons.
Carlo Ghidelli). Il secondo volume, invece, mira ad aiutare il prete a fare ordine nella sua vita e ad assumere uno stile ministeriale in rapporto alla propria comunità. Di quest’ultimo
riportiamo la Presentazione fatta da mons.
Giovanni Giudici, vescovo di Pavia.
Un vescovo in dialogo con i suoi preti
esprime una paternità e una coscienza apostolica che sono rivolte nello stesso tempo ai
pastori e al gregge. La vita e il ministero dei
pastori è la via ordinaria scelta dal Signore
perché i credenti possano attingere con verità
alle fonti della salvezza. Ma sia l’esistenza dei
pastori sia quella del gregge è immersa nella
storia, nelle storie personali e nelle vicende
complesse e sempre in mutamento della società umana.
Occorre dunque incessantemente percorrere il cammino che riporta alle radici della
propria identità vocazionale. Del corpo di Cristo risorto, vivo e operante nella storia, noi
siamo membra vive, ciascuno secondo la propria funzione, con il compito cioè che il Signore ha voluto affidarci. E il compito affidato al sacerdote è quello di mettere l’uomo in
contatto con Dio, con il suo essere luce, verità, amore. Nessun uomo da sé, a partire dalle proprie risorse può mettere l’altro in contatto con Dio. Ciascun presbitero sa bene di
essere strumento dell’agire salvifico di Dio,
strumento da lui scelto, ma pur sempre solo
strumento.
È bene essere dotati di buone qualità
umane e saper condividere la vita degli altri,
ma ciò che abilita un credente a essere pastore del gregge è l’iniziativa di grazia del Risorto
che compie la sua opera di salvezza nella potenza dello Spirito operante nella Chiesa (cf.
BENEDETTO XVI, Udienza generale, Piazza San
Pietro, 5.5.2010). Come sarebbe possibile essere annunciatori efficaci del mistero di salvezza
senza sentirsi salvati, raggiunti nell’intimo dalla grazia che chiama e manda?
Nella dedicazione al ministero è necessario che il credente pastore resti aperto alle situazioni e alle domande presenti nel contesto
sociale in cui si vive. Esse assumono continuamente nuove configurazioni e sollecitano a ripensare sé stessi, l’esperienza di fede e le forme con cui il Vangelo va ripresentato in ogni
ambito e tempo.
In dialogo con i suoi preti l’arcivescovo di
Milano C.M. Martini ha ben presenti gli insegnamenti del magistero e i contributi dei vari
ordini di sapere: teologico, antropologico e
sociale. Ma la sua attenzione è rivolta al modo con cui il Vangelo anima la vita delle persone, al modo con cui esse si rapportano con
la testimonianza di vita di Gesù e con il suo insegnamento, al modo con cui affrontano le
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difficoltà che incontrano e riavviano i dinamismi della conversione e della missionarietà.
È una comunicazione di tipo sapienziale,
dunque, quella dell’arcivescovo, con la quale
egli vuole aiutare la maturazione di un discernimento spirituale e pastorale dentro il quale
il presbitero ritrova se stesso e i criteri di fondo del suo servizio nella Chiesa.
I testi qui riportati appartengono a un periodo determinato del servizio pastorale del
cardinale C.M. Martini a Milano. In essi però
Martini inserisce molteplici richiami a riflessioni e proposte da lui fatte nel corso degli
anni fin dall’inizio del suo episcopato, a sottolineare così una continuità e coerenza di pensiero che consentono di leggere anche nel
frammento il senso dell’insieme. Benché collocati in un preciso contesto storico ed ecclesiale, i testi parlano oltre la contingenza nella
quale sono nati. Essi si propongono con un’esemplarità che mantiene tutta la sua forza illuminante.
Prima di tutto perché da essi emerge con
chiarezza il metodo con cui il prete deve
muoversi nelle vicende della sua realtà personale e del suo servizio ecclesiale. Sottoposto
a molteplici richieste e pressioni interne ed
esterne, il credente che è pastore cerca il discernimento e si mette in ascolto di colui che
ci parla nella Scrittura e che con la sua Parola
ci fa capaci di ascoltare con realismo noi stessi, le persone e le situazioni. L’ascolto della Parola non è successivo a giudizi e scelte già assunti con altri criteri, è invece primario, fondante per la comprensione di quello che il Signore ci dona e ci chiede, di quello che la
Chiesa è chiamata a vivere e a operare.
E ancora perché dall’ascolto così praticato
il cardinale fa emergere un’armonia di messaggi che aiutano il prete a fare ordine nella sua
vita e ad assumere uno stile ministeriale: riconoscere e rispettare il primato di Dio, inserirsi
con libertà interiore e disponibilità collaborativa nella pastorale della propria Chiesa particolare, incoraggiare i carismi suscitati dallo
Spirito e aiutarli a porsi nella comunione, interpretare le situazioni con lo sguardo della
fede cogliendo le possibilità positive che in
esse si aprono.
Non possiamo che essere grati al Signore
perché in ogni tempo, e nel nostro, non mancano nella Chiesa presenze illuminate che
svolgono nei confronti dei fratelli il servizio
educativo a immagine di quello compiuto dal
Risorto verso i due discepoli di Emmaus. Con
i tratti particolari della sua fede, della sua sapienza e umanità, la parola del cardinal Martini va oltre l’effettivo esercizio milanese della
sua responsabilità episcopale e si propone come buona compagnia per tutti, aiuto a ritrovare il volto del Signore e una fiduciosa e attiva appartenenza ecclesiale.
Ciascuno di noi dovrebbe essere attento
a riconoscere la luce evangelica che ci raggiunge attraverso i compagni di strada che il Signore ci ha messo accanto. E per queste figure, con l’opportuna semplicità e misura, sentiamo vere le parole della preghiera della
Chiesa alle Lodi mattutine quando si fa memoria di pastori santi: «Li hai posti come sentinelle... giorno e notte annunciano il tuo nome... vegliano sulla tua Chiesa».
Giovanni Giudici
A. CASTEGNARO,
OSSERVATORIO SOCIORELIGIOSO TRIVENETO,
C’È CAMPO?
Giovani, spiritualità,
religione,
Marcianum Press,
Venezia 2010, pp. 626,
€ 39,00.
978886512098
S
baglierebbe chi circoscrivesse questo
corposo volume alla presentazione dei
risultati di una specifica ricerca: un’indagine sociologica di tipo qualitativo condotta dall’Osservatorio socio-religioso triveneto su 72 ragazze e ragazzi dai 18 ai 29 anni
della diocesi di Vicenza e avente per oggetto
la vita spirituale dei giovani e il loro (difficile)
rapporto con la religione. Come sottolinea il
responsabile della ricerca e curatore del volume, A. Castegnaro, la ricerca è «all’origine» del
libro, ma il libro va oltre: vi concorrono, oltre
all’ampia letteratura in materia, le precedenti
indagini di tipo campionario sulla religiosità
nel Triveneto condotte dall’Osservatorio
stesso, la realizzazione previa di quattro focus group e ancor più una fortissima motivazione, nei ricercatori che l’hanno progettata e
condotta, ad andare in profondità nella comprensione dell’universo giovanile e del rapporto giovani-religione, così da poter affermare, a lavoro ultimato, di aver compiuto «un
passo avanti».
In questo senso, la scelta metodologica
dell’indagine qualitativa attraverso interviste
semi-strutturate, così lungamente motivata
nel primo capitolo, dice anche la volontà di
perseguire, evitando il «filtro» del questionario, una reale situazione di ascolto degli intervistati, essendo i ricercatori più interessati ai
significati piuttosto che ai comportamenti e
avendo «l’ambizione di ricostruire il punto di
vista delle persone studiate» (33). Dalle cinque aree che costituivano i fuochi dell’intervista, pur senza prestabilire l’ordine e la forma
delle domande, sono scaturiti così i sette capitoli centrali del libro, che dunque insistono
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