Solennità di sant’Ambrogio
Omelia
Milano-Sant’Ambrogio, 7 dicembre 2009
SUL VOLTO DI AMBROGIO
BRILLA L’IMMAGINE DEL “BUON PASTORE”
Carissimi,
“Gesù disse: ‘Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita
per le pecore…’” (Giovanni 10,11). Inizia così la pagina del Vangelo di Giovanni
che la liturgia d’oggi, solennità di sant’Ambrogio, ripropone alla nostra
meditazione e alla nostra preghiera.
L’invito, dunque, è a guardare a Cristo con gli occhi della fede, a
contemplare con amore e con gioia il suo volto, a penetrare nell’intimo del suo
cuore: è il volto e il cuore del “buon pastore”.
E mentre ci avviciniamo a Cristo, noi ritroviamo noi stessi, riscopriamo
la nostra identità di discepoli del Signore, di pecore del suo gregge, ossia di
destinatari dell’amore e della cura di Gesù, il buon pastore. Proprio così:
entrando nel suo cuore entriamo nel nostro stesso cuore, un cuore che viene
colmato
dall’amore
premuroso
e
provvidente,
compassionevole
e
misericordioso di Cristo, un cuore colmato dal dono della sua vita: “Il buon
pastore dà la propria vita per le pecore”.
Oggi, solennità di sant’Ambrogio - patrono della città di Milano e
dell’intera nostra Chiesa -, contempliamo il volto di Cristo vedendolo riflesso in
quello del Vescovo Ambrogio, il cui ministero e la cui vita ci si presentano come
immagine viva e splendida, come specchio limpido e fedele di Gesù, il buon
pastore. Sul volto di Ambrogio ritroviamo i lineamenti propri del volto di Cristo: e
questo è il frutto della grazia che il Signore gli ha elargito chiamandolo alla
guida episcopale della Chiesa di Milano, e insieme è il risultato della risposta
libera e generosa che Ambrogio – con i suoi sentimenti e con le sue opere – ha
dato alla chiamata del Signore.
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Seguiamo allora lo stesso sant’Ambrogio che nei suoi scritti ha
commentato i passi evangelici riguardanti Gesù come buon pastore. Ci è dato
così di riascoltare la voce del nostro Santo, di condividere i suoi atteggiamenti
interiori, di accogliere le sue prospettive pastorali, di fare nostra la sua
preghiera a Cristo Signore. Ambrogio continua così ad esserci maestro e guida
spirituale nell’addentrarci sempre di più nel mistero di Cristo e della sua
Chiesa.
1. Conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me
La pagina di Giovanni che ci parla di Gesù il buon pastore trova il suo
centro vivo e palpitante nel singolarissimo rapporto di conoscenza e di amore
che esiste tra il pastore e le pecore: “Io sono il buon pastore, conosco le mie
pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io
conosco il Padre” (Giovanni 10,14-15). E il vertice della comunione d’amore sta
nel dono della vita: “e do la mia vita per le pecore”. Ora è davvero sorprendente
il fatto che il rapporto tra Gesù e noi non è un rapporto generico, indistinto, di
massa – siamo il suo “gregge” -, ma un rapporto personale, personalissimo:
tocca ciascuno di noi nella propria unicità e irripetibilità. Viene da pensare
alla confessione dell’apostolo Paolo: “Ha amato me e ha dato se stesso per me”
(Galati 2,20).
Sant’Ambrogio sottolinea questo
aspetto, insieme
commovente e
responsabilizzante, ponendo in luce la premura del buon pastore nei riguardi
della centesima pecora, l’unica dell’intero gregge andata smarrita. Il rapporto
tra le novantanove pecore che vengono lasciate e l’una che viene ricercata
manifesta il valore eminente della salvezza anche di una sola pecora. Così
scrive nel Commento al Salmo 118: “Nel suo Vangelo fu il Signore Gesù ad
affermare che il pastore ha abbandonato le novantanove pecore per andare
alla ricerca dell’una che andava errando. La pecora, che Egli chiama errante, è
la centesima: la perfetta interezza di questo numero è di per se stessa
istruttiva e significativa. E non senza ragione quella pecora viene preferita a
tutte le altre, perché vale di più l’essersi sottratti al vizio che l’averne quasi
ignorata l’esistenza” (Commento al Salmo 118, XXII, 3). E nel commento a Luca
sant’Ambrogio scrive “Egli (Cristo) è dunque un pastore ben provvisto, perché
tutti noi siamo la centesima parte della sua proprietà”. E riferendosi poi alla
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gioia degli angeli per il ritrovamento della pecora perduta, si rivolge al singolo
cristiano con questo invito fiducioso: “Anche tu, allora, sii motivo di gaudio per
gli Angeli, essi si allietino per il tuo ritorno” (Esposizione del Vangelo secondo
Luca, II, 210).
2. Offro la vita per le pecore
Questo rapporto personalissimo tra Gesù il buon pastore e ciascuno di
noi pecora del suo gregge trova la radice profonda, il segreto che ne spiega
tutta la preziosità e la bellezza, e insieme tutta la gioia che ne deriva, nel dono
totale di Cristo sulla croce, nella sua redenzione. Scrive sant’Ambrogio:
“Rallegriamoci, dunque, perché quella pecora, che in Adamo era andata
perduta, in Cristo è sollevata in alto. Le spalle di Cristo sono le braccia della
Croce. Là ho deposto i miei peccati, sul capo di quel nobile patibolo ho trovato
riposo” (Ibid., II, 209). E ancora: “… quella pecora, una volta trovata, viene
issata sulle spalle del pastore. Tu puoi vedere qui in forma certa il misterioso
modo con cui viene rianimata la pecorella stanca, dal momento che la
condizione umana così stanca non può essere richiamata alla vita se non
grazie al sacro segno della Passione del Signore e del sangue di Gesù Cristo, di
cui il principio sta sulle sue spalle. Su quella croce infatti Egli ha sorretto le
nostre debolezze, per cancellare lì i peccati di tutti. Con motivo gioiscono gli
angeli, quando colui che errava ormai non erra più, ormai ha scordato il suo
errore” (Commento al Salmo 118, XXII, 3).
Questo rapporto personale della singola pecora con Gesù conduce il
cristiano ad una preghiera confidenziale, da cuore a cuore, con la gioia intima
di poter dare del “tu”– nella forma più intensa e vibrante – al proprio Signore.
Le preghiere, talvolta brevissime ma sempre ardenti, infuocate, che Ambrogio
rivolge a Cristo e che abitualmente pone tra le righe dei suoi scritti, anche
quelli più dottrinali, sono una bellissima testimonianza del suo rapporto
personale affettivo con Gesù.
Nello stesso tempo, questo rapporto personale non si esaurisce nella
preghiera, ma diviene principio, forza, slancio nell’accogliere da Gesù, con
libera e grande serietà, i doni di grazia e gli impegni che ci sono dati per vivere
da autentici discepoli del Signore, per essere pecore che “conoscono” e amano
sempre più lui, il pastore delle nostre anime. Scrive sant’Ambrogio nel suo
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commento a Luca: “Noi siamo pecore, preghiamolo che si degni di condurci ad
acque che ristorano; siamo pecore, ripeto, chiediamogli i pascoli; siamo
dramme, teniamo alto il nostro valore; siamo figli, affrettiamo il passo verso il
padre” (Esposizione del Vangelo secondo Luca II, 211).
3. Il buon pastore come modello dei vescovi e dei presbiteri
Un altro passo interessante di sant’Ambrogio ci mostra come il buon
pastore guida il suo gregge non solo personalmente – dice, infatti, quasi con
amore estremamente geloso: “Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e
le mie pecore conoscono me” –, ma anche attraverso altri “pastori”, che da lui
incaricati lo rappresentano, ne fanno in qualche modo le veci, sono i suoi
strumenti vivi nella cura del gregge.
Il nostro Santo rileva come prima della nascita di Cristo la condizione
dei popoli della terra era simile a quella di tanti greggi abbandonati, erranti,
indifesi dagli assalti delle belve. Ora però la situazione è cambiata, perchè il
buon pastore ha raccolto questi greggi nel suo ovile per mezzo dei suoi pastori
e li ha affidati alla loro custodia. E i pastori sono quaggiù i vescovi e in cielo
angeli di Dio. Riferendosi al testo evangelico che marra come alla nascita di
Gesù i pastori vegliavano all’aperto e stavano a guardia del loro gregge,
Ambrogio scrive: “Guardate i primordi della Chiesa che sorge: Cristo nasce, e i
pastori cominciano a vegliare per radunare nell’atrio della casa del Signore le
greggi dei Gentili, che vivevano come tante pecore, affinchè non subissero le
irruzioni delle bestie spirituali, favorite dalla tenebre incombenti della notte. E
bene si dice che i pastori vegliamo, perché lo stesso buon Pastore è il loro
modello di vita. Pertanto il gregge è il popolo, la notte il mondo, e i pastori sono
i vescovi. Oppure pastore è anche colui al quale si dice: Sii vigilante e rafforza,
perché il Signore ha incaricato della cura del gregge non soltanto i vescovi, ma
vi ha destinato anche gli angeli” (Esposizione del vangelo secondo Luca II, 50).
Da questo testo di Ambrogio emerge, anche se solo per rapidissimi
accenni, la fisionomia pastorale propria dei Vescovi. Ad essi è affidata – come
da preciso incarico – la cura, la custodia del gregge, ossia del popolo di Dio. E’
una custodia che comporta di riunire il gregge e in particolare di vigilare sul
gregge e così difenderlo dagli assalti delle bestie spirituali, ossia dagli errori di
quei lupi rapaci che sono gli eretici. Scrive al riguardo il vescovo di Milano in
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un altro passo del commento a Luca: “Non sono forse da paragonare a codesti
lupi gli eretici, i quali stanno in agguato presso gli ovili di Cristo, e fremono
attorno ai recinti più di notte che di giorno? E’ sempre notte per gli increduli, i
quali, per quanto è loro possibile, si danno da fare per offuscare e oscurare la
luce di Cristo con le nebbie di interpretazioni sinistre… Stanno a spiare
quando il pastore è assente, e per questo fanno di tutto sia per uccidere sia
per esiliare i pastori delle Chiese, perché se i pastori sono presenti, non
possono assalire le pecore di Cristo” (Ibid., VII, 49-50).
Come si vede, nell’interpretazione di Ambrogio il vigilare del pastore sul
gregge è un aspetto della sua missione evangelizzatrice, del suo compito di far
risplendere – nella notte del mondo non credente - la luce di Cristo, di pascere
le pecore con la dottrina, la verità del Signore. Rileviamo ancora come nella
custodia vigilante dei pastori rientra anche il compito più ampio di condurre il
gregge ai verdi pascoli della sapienza divina, della grazia, delle virtù.
In una parola riassuntiva: i pastori sono chiamati a seguire il Signore
Gesù come modello di cura del gregge loro affidato: “Lo stesso buon pastore è il
loro modello di vita”.
Proprio questa parola di Ambrogio voglio interpretare come un prezioso
invito alla serenità e alla responsabilità, di cui devono essere segnati coloro che
fanno le veci di Cristo nel guidare il gregge ai pascoli di vita eterna: in
particolare i vescovi e i presbiteri. Serenità e responsabilità vogliamo chiedere
al Signore, in questo anno sacerdotale proposto a tutta la Chiesa dal papa
Benedetto XVI, per i vescovi e tutti i presbiteri della nostra Chiesa ambrosiana:
serenità perché Gesù non è solo un modello quanto mai affascinante di vita,
ma anche la sorgente inesauribile di grazia e di forza per ogni suo ministro; e
insieme responsabilità, perché di fronte alla propria coscienza e all’intero
popolo di Dio il ministro è chiamato a mostrare sul proprio volto i lineamenti
di amore e di santità che splendono sul volto di Cristo Signore, il buon pastore
che offre la vita per noi.
Carissimi fedeli, pregate per noi vescovi e presbiteri, preghiamo insieme
tutti gli uni per gli altri, facendo nostra la confessione di fede e di amore che
sant’Ambrogio ha rivolto a Cristo come a Colui che è buono, anzi è la stessa
bontà. Ecco la sua invocazione: “Questo ‘bene’ venga nella nostra anima,
nell’intimo della nostra mente… Questi è il nostro tesoro, questi è la nostra
via, questi è la nostra sapienza, la nostra giustizia, il nostro pastore e il buon
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pastore, questi è la nostra vita. Tu vedi quanti beni ci sono in un solo bene”
(Lettera XI, 6).
+ Dionigi card. Tettamanzi
Arcivescovo di Milano
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