firenze - Società Italiana dei Viaggiatori

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Bollettino
della
Società Italiana
dei Viaggiatori
volume zero | 2012
firenze
Bollettino
della
Società Italiana
dei Viaggiatori
Società Italiana dei Viaggiatori
FIRENZE
Bollettino periodico in attesa di registrazione
presso il Tribunale di Firenze
Direttore
Alessandro Agostinelli
Redazione
Francesca Mancosu (caporedattore)
Sandro Petri (art director)
Claudio Serni
Gabriella Falcone
Comitato scientifico
Garanti
Maurizio Bossi
Saggista - Firenze
Vinicio Capossela
Musicista - Milano
Franco Cardini
Storico - Firenze
Philippe Daverio
Critico d’arte - Milano
Ahmed Habouss
Antropologo - Napoli
Mario Maffi
Americanista - Milano
Giovanni Pratesi
Geologo - Firenze
Giorgio Van Straten
Scrittore - Firenze
Revisori
Antonio Fournier
Università Torino
Luigi Marfè
Università Parma
Manuele Masini
Universidade Nova Lisboa
Maria Gloria Roselli
Museo Antropologia Etnologia Firenze
Info
www.societadeiviaggiatori.org
[email protected]
alessandro agostinelli
Presentazione
Viaggiare: quanti sensi in questo verbo.
Ci appassionano geografia, storia e scienze umane. Per questo cerchiamo nella tradizione delle vecchie società di ricerca ottocentesche una base di partenza per questa
neonata Società Italiana dei Viaggiatori.
Unire la ricerca e lo studio del passato con l’attualità dei reportage nel campo del viaggio può aiutarci ad ampliare lo sguardo sul nostro presente, sul qui e sull’altrove che
spesso non sappiamo più ben definire. Questa rivista che chiamiamo bollettino tenta
di legare insieme le formule dell’inchiesta storica, letteraria, antropologica, sociologica
con un metodo più generale di attraversamento delle città, delle culture e dei territori.
Questo bollettino è quindi una forma narrativa anfibia, a metà strada tra l’approfondimento scientifico e il racconto cronachistico. In questo medium di studi culturali si riprende l’ispirazione originaria illuminista di fare ricerca descrivendo segnatamente ciò
che l’occhio incrocia nel suo spostamento e il ragionamento testimoniale del racconto.
In questo lavoro di accostamento ai viaggi si cerca di raccontarne un nodo, ma pure di
studiare i luoghi attraverso il deposito della storia, come se tra mappe, diari, archivi e
luoghi si potesse riuscire a disperdersi dentro gli spazi fisici1, tentando di scardinare la
convenzione delle immagini da cartolina. Infatti, il grande equivoco del viaggiare nella
società attuale è legato a una banalizzazione estrema del concetto di altrove e di altro,
come ha scritto Guy Debord:
Sottoprodotto della circolazione delle merci, la circolazione umana considerata come
un consumo, il turismo, si riduce fondamentalmente alla facoltà di andare a vedere
ciò che è divenuto banale. L’organizzazione economica materiale della frequentazione di posti diversi è già di per se stessa la garanzia della loro “equivalenza”. La stessa
modernizzazione che dal viaggio ha ritirato il tempo, gli ha anche ritirato la realtà
dello spazio.2
Il tentativo della Società Italiana dei Viaggiatori è quello di ovviare a questa pseudomodernizzazione, a quel paradosso inquietante per cui nel mondo dove tutti viaggia1 Kant divide la geografia tra geografia matematica, politica e fisica. Secondo lui la geografia fisica
esamina la costituzione naturale e tutto ciò che in essa si trova, non con l’esattezza propria della fisica
o della storia della natura, “ma con la razionale curiosità di un viaggiatore che va dappertutto alla
ricerca del notevole, dello strano e del bello, e mette a confronto le osservazioni così accumulate e
riflette sul suo piano.” I. KANT, Scritti precritici, (di P.Carabellese), Bari 1923; (rifatta da R.Assunto
e R.Hohenemser), Bari 1953.
2 G. DEBORD, La società dello spettacolo, Milano 1997.
no, il viaggio viene meno, e si perde il senso della scoperta di sé attraverso il viaggio,
attraverso l’altro da sé. Come sintetizza Franco Ferrarotti:
[…] l’uomo moderno esce di casa sbattendo la porta, corre all’aeroporto, salta in auto
e si lancia a duecento chilometri all’ora. Non torna in sé, non si interroga, ma fugge
da sé. […] Il viaggio senza meta, come anestetico.3
Partire: quanti sensi in questo verbo.
Schivare il concreto? Voglia di travestimento? L’impatto con cose che avremmo già
dovuto conoscere? Il paragone impietoso del mondo con la propria forma di civiltà?
O che cosa?
Paul Watzlawick cerca di rispondere con disincanto:
Viaggiare non è facile. L’arte di soggiornare all’estero raramente si apprende nella
casa paterna: anzi, l’apprendistato nella casa paterna di norma non fa che condurre
al bar sottocasa.4
Si fa un gran parlare di mondo in rete, di villaggio globale: un pianeta codificato e
conosciuto, che rifugge la complessità. Ma non è così, anche se il mondo, sempre più,
sembrerebbe voler diventare tutto un bar sotto casa. Ma anche questa, forse, è solo
un’impressione scaturita dalla visione del mondo acquisita attraverso i vari schermi:
del computer, della tv, del cinema.
La concretezza del viaggio è una vera amplificazione dell’io5. In viaggio diminuiscono
le nostre conoscenze profonde, apprezziamo e valutiamo in maniera più superficiale gli
oggetti e le vicende dal punto di vista intellettuale, ma aumenta la nostra percezione
del mondo, la sensibilità della nostra prestazione.
I percorsi o le destinazioni affrontati qui sono tappeti con incroci diversi di diversi tessuti. Capita, infatti, che un giorno ci si ritrovi a guardare orizzontalmente molti posti,
proprio come sdraiati sopra un tappeto, e a riconoscervi (o proiettarvi) tanti luoghi
dell’anima. È il desiderio di andare dove pare sia il tempo e il luogo di immaginarsi
quale nuovo mondo, quale primavera preparare per l’avvenire.
3 F. FERRAROTTI, Partire Tornare, Roma 1999.
4 P. WATZLAWICK, America istruzioni per l’uso, Milano 1985, 1989.
5 Cfr. A. AGOSTINELLI, L’estasi del mondo. Il viaggio e le droghe nella letteratura: la ricerca dell’altrove o dell’oblio, in Neopsichiatria – Rivista di studi etnopsichiatrici in Italia, I-II.1999, Pisa 1999.
bollettino 2012
Studi
mieko namiki maraini
RICORDO DI MIO MARITO
Fosco Maraini
maurizio bossi
FOSCO MARAINI, DALLA LUNA ALLA TERRA
Piccola antologia da un grande viaggio filosofico
maria gloria roselli
KAFIRI, GLI INFEDELI
Il leggendario popolo delle valli dell’Hindukush tra Afghanistan e Pakistan
attraverso i racconti di Paolo Graziosi
franco cardini
LE MERAVIGLIE DEL NULLA
Viaggio fantastico nel Medioevo
Portfolio
simone donati - terraproject
TATARI DI CRIMEA
Return to Motherland
Report
fabrizio buricchi, claudia ferigo
FIRENZE
L’altra città: un giro nel mercato di San Lorenzo
alessandro agostinelli
ISTANBUL, BISANZIO, CONSTANTINOPOLI
La Città nelle pagine di Brodksij, De Amicis, Markaris
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mieko namiki maraini
ricordo di mio marito
Fosco Maraini
(Firenze 15 novembre 1912 – 8 giugno 2004)
La prima volta che mio marito Fosco Maraini è andato in Giappone è stato molto tempo fa. Era partito dall’Italia per studiare gli Ainu
nell’isola di Hokkaido. Oltre venti anni fa ci siamo tornati insieme e
abbiamo visitato Nibutani, un villaggio Ainu dove abbiamo incontrato una persona molto importante, un rappresentante del popolo Ainu.
Siccome gli Ainu non hanno mai avuto una loro scrittura lui aveva fatto
una trascrizione di tutto quello che gli anziani, gli ekashi, gli avevano
trasmesso. Quindi abbiamo parlato con lui che ci ha raccontato alcune
storie della tradizione Ainu. Ma ancora prima di parlare delle tradizioni
Ainu, appena arrivati, lui esclamò: “Benvenuto Fosco San, sei arrivato al
momento giusto”. E Fosco chiese perché. “Ti faccio vedere”, disse. Prese
una ciotola piena di cubetti lucidi, quasi trasparenti. Io e Fosco non capivamo che cosa fossero. E lui ci disse: “questo è cibo riservato soltanto agli
ekashi, intendendo che era destinato, come forma di rispetto, soltanto ai
più vecchi del gruppo. E quei cubetti erano polpastrelli delle zampe anteriori dell’orso. Un cibo molto prezioso. Qualche giorno prima avevano
fatto lo iyomande, la cerimonia di uccisione dell’orso e quindi ci stavano
facendo l’onore di mangiare una prelibatezza, un dono speciale.
Con Fosco eravamo a Sapporo in occasione delle olimpiadi invernali del
1972 perché il CONI e il Ministero degli Esteri avevano pregato Maraini di seguire le olimpiadi. Una casa automobilistica giapponese aveva
messo a disposizione alle nazionali alcune macchine di piccola cilindrata
per spostarsi dentro il villaggio olimpico. Anche l’Italia ne aveva due e
Fosco ne usava una. Alla fine delle olimpiadi Maraini decise di chiedere
l’auto in prestito alla casa produttrice per un mese e gliela concessero
con molto piacere. Con questa piccola macchina abbiamo fatto il giro
dell’isola. Lui conosceva benissimo tutti i villaggi, io molto meno. Lui
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Società Italiana dei Viaggiatori
voleva più di ogni altra cosa sciare e salire in montagna. Anche a me
piaceva l’idea e così siamo partiti riempiendo questa piccola macchina
di bagagli. Abbiamo scelto quasi sempre posti dai quali, tornando con
gli sci dalla montagna, ci si potesse riposare nelle terme. Salivamo ogni
giorno a piedi con gli scarponi e con gli sci in spalla, la sera scendevamo
contenti.
Alcuni giorno dopo Fosco si mise in testa di salire su una montagna
ancora più alta e io era già abbastanza stanca ma volevo stare insieme a
lui e così siamo partiti. Di buon’ora ci siamo incamminati con il classico
panino di riso e due arance dentro lo zaino. La salita era molto faticosa
in certi punti. Lui aveva i ramponi, io no. Lui andava avanti e io lo seguivo. A un certo punto la pendenza aumentò e io cominciai a scivolare.
Lui mi aiutava tirandomi con la mano. Alla fine riuscimmo ad arrivare
fino quasi alla cima ma non proprio in vetta. Siccome ero stremata, dissi
che ero stanca morta e non ce la facevo ad arrivare fino alla cima. Lui
disse: “va bene tu aspetti qua e io vado lassù”. Ero circondata dalla neve
e dal freddo, non si vedeva nessuno e l’idea di aspettare da sola mi faceva
paura. Allora dissi: “va bene, vengo con te”.
Piano piano siamo arrivati sulla cima, e io dissi: “ora mangiamo qualcosa”. E tirai fuori dallo zaino il panino. Ma era congelato, e anche le
arance erano congelate: non avevamo niente da mangiare. Così siamo
ridiscesi, stanchi e affamati.
Questo era mio marito: una volta che aveva deciso di fare una cosa non
si tirava indietro per nessun motivo. E a questo mi sono dovuta adattare
per tutto il tempo che ho passato con lui.
La tomba di Fosco è in Garfagnana.
Lui, come molti sanno, diceva di chiamarsi CitLuVit (Cittadino Luna
Visita Istruzione Terra). Amava dire: “sono venuto dalla Luna, mandato
qua per visitare la Terra, per vedere come vivono, cosa fanno, come si
muovono gli uomini e sono stato inviato per andare in giro più possibile,
per documentare, studiare e fare fotografie poi comporre un report al
rientro sulla Luna”. È per questo che lui ha viaggiato tanto e ha fatto
migliaia di fotografie in ogni parte del mondo, studiato le religioni, visitato tutto quello che è possibile. Questo era lui e quindi nella sua tomba
io ho scritto: CitLuVit è tornato alla sua terra.
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maurizio bossi
Fosco Maraini, dalla
luna alla terra
Piccola antologia da un grande viaggio filosofico
Nel 1828 Cosimo Ridolfi, agronomo ed educatore toscano, definiva “curiosità e meraviglia” madri del sapere.1 Credo che un sentimento simile
abbia accompagnato Maraini per tutta la vita, e che in esso risieda buona parte del perché della singolare capacità comunicativa di tutta la sua
opera. La sua curiosità profonda per gli uomini e la natura lo inserisce a
pieno titolo nella lunga corrente degli uomini che attraverso le epoche
hanno vissuto e teorizzato la curiosità come valore morale, e lo rende
un autore classico, valevole per ogni epoca. Bernard Berenson diceva
che pochi viaggiatori erano stati, come Maraini, capaci di portarlo fisicamente in luoghi lontani facendogli incontrare uomini “singolarmente
simili a noi”.2
Sulla sua scrittura, semplice e al contempo meticolosissima,3 così come
sul rapporto considerato inscindibile da Maraini tra scrittura e fotografia
(definita, quest’ultima, scrittura “con la luce”4) si sono soffermati molti
studiosi. Ognuno ha sottolineato dalla propria prospettiva la complessità e insieme la naturalezza di quanto la anima, individuandone ciascuno alcuni aspetti (non certo esclusivi nelle interpretazioni degli autori)
della sua personalità di scrittore: ne è stato sottolineato, ad esempio,
l’inscindibile rapporto tra empatia e ironia già proprio del sentimental
traveller di Lawrence Sterne;5 o il suo poter essere considerato ultimo
1 C. Ridolfi, Delle colmate di monte. Introduzione, “Giornale agrario toscano”, II, 1828, p. 61
2 B. Berenson, lettera-prefazione (datata I Tatti, Settignano, 23 marzo 1950) a F. Maraini,
Segreto Tibet, Milano, Corbaccio 1998 (1a ed. Bari, Leonardo da Vinci 1951), p. 5
3 Così la definisce Franco Marcoaldi nel suo saggio introduttivo a F. Maraini, Pellegrino in
Asia. Opere scelte, a cura e con un saggio introduttivo di F. Marcoaldi, postfazione e bibliografia
di F.P. Campione, “I Meridiani”, Milano, Arnoldo Mondadori editore 2007, p. XIV
4 F. Maraini, Incontro con l’Asia, a cura di F. Marenco, Bari, De Donato 1973, p. 29
5 L. Polezzi, Oltre la fine del viaggio: Fosco Maraini, “Antologia Vieusseux”, n.s. IV (1998), 10, pp. 35-46
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Società Italiana dei Viaggiatori
erede dei grandi dilettanti della storia della letteratura, dei Montaigne,
degli Stendhal, dei Savinio, nei quali il sapere implica l’essersi liberati
dall’ossessiva ricerca di una spiegazione univoca del Tutto.6 E per il suo
modo di introdurci con la scrittura e le immagini alla conoscenza delle
altre culture è stato definito “etnologo poeta”;7 o ancora come l’iniziatore, nella letteratura di viaggio del Novecento, della corrente forse più
significativa, quella dei “mediatori evanescenti” tra culture, come saranno
Nicolas Bouvier o Riszard Kapuściński, capaci di vedere dalla prospettiva dell’altro la propria civiltà, senza per questo rinnegarla.8
La curiosità di cui si parlava all’inizio, Maraini la esprimerà efficacemente con un termine scherzoso applicato a se stesso, e sempre citato quando
si parla di lui, ideato alla fine degli anni Trenta quando cominciava a
studiare la popolazione Ainu del nord del Giappone. Si tratta del “Citluvit”, acronimo di un “Cittadino-Luna-Visita-Istruzione-Terra” inviato
con una borsa di studio per cercare di capire qualcosa del nostro mondo,
e che nella sua fatica di osservare, registrare, comprendere, alla fine si
innamora della Terra: “Che pianeta stupendo, nonostante le sue miserie
e i suoi orrori!”. 9
Oggi che sempre più impellente si pone l’esigenza di ciò che viene chiamato dialogo tra culture, l’attualità di Maraini viaggiatore si rivela in
tutta la sua forza, come ben esemplifica quanto esprime nel 1956 nella
prefazione a Ore giapponesi, su come la reciproca conoscenza sia ogni
giorno più necessaria in un mondo “sempre più piccolo di spazi, sempre
più vasto di popolo”. Ma convivere significa conoscersi, e questo implica
“comprendere il cuore segreto degli altri”. 10
E qui sta l’aspetto che contraddistingue le opere di Maraini, ossia che ciò
6 F. Marcoaldi, in F. Maraini, Pellegrino in Asia, cit. , p. XIII
7 Come appare nel sottotitolo dato da Francesco Paolo Campione a F. Maraini, Gli ultimi
pagani. Appunti di viaggio di un etnologo poeta, a cura di F.P. Campione, Como, Red edizioni
1997
8 L. Marfè, Oltre la ‘fine dei viaggi’. La scrittura dell’altrove nella letteratura contemporanea,
“Gabinetto Scientifico Letterario G.P. Vieusseux, Centro Romantico. Studi 18”, Firenze, Olschki 2009
9 Id., Citluvit ed empresente. Colloquio con Lanfranco Colombo, in Fosco Maraini. Una vita per
l’Asia, a cura di A. Audisio, catalogo della mostra, Torino 1988, p. 11
10 F. Maraini, Ore giapponesi, Milano, Corbaccio 2000 (1a ed. Bari, Leonardo Da Vinci, 1957),
p. 5
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è possibile solo nella consapevolezza del rapporto che l’umanità, nelle
sue diverse espressioni, ha con l’universo e il mistero che lo compenetra.
Un mistero che avvolge gli uomini, in una condizione tale da ricondurre
a unità profonda, per chi sappia coglierla, la molteplicità di espressioni e
di comportamenti che l’umanità presenta alle più diverse latitudini.
Ma com’è possibile la semplicità con cui Maraini ci introduce ai multiformi aspetti degli uomini e della natura? Nelle sue fotografie, anche le
spedizioni o le scalate che più richiedono un forte equilibrio morale, o gli
incontri che più domandano sforzo di comprensione, ci appaiono infatti
con i tratti familiari di passeggiate, o di ritratti di vecchie conoscenze.
E la sua scrittura ci accompagna per i sentieri più impervi verso la natura umana nelle sue variatissime manifestazioni ed entro lo spettacolo
dell’universo come se fossero gli stessi veli del mistero che li avvolgono
a sollevarsi gentilmente offrendoci, se non la sua penetrazione, almeno il
senso della nostra ricerca come esseri umani.
Ho citato all’inizio un uomo del primo Ottocento, tra i più attivi partecipanti alle iniziative del Gabinetto Scientifico Letterario di Giovan
Pietro Vieusseux, fondato a Firenze nel 1819 per porre in comunicazione Firenze e l’Italia con le altre culture. L’ho citato non casualmente,
perché quel Gabinetto, dove grande era l’interesse per i viaggi, è stato
scelto da Maraini affinché accogliesse dopo la sua morte il materiale
librario e fotografico da lui raccolto e prodotto nel corso di tutta la sua
vita, così da porre a disposizione uno strumento di conoscenza per tutti
noi. Una visione, questa, che lo collega in qualche misura a quel viaggiare per riportare in patria conoscenza che fu parte essenziale del grande
movimento esplorativo del primo Ottocento. Nel raccontare le difficoltà
affrontate per la salvaguardia in Giappone del primo importante nucleo
della sua biblioteca orientale durante le vicende della guerra, e poi del
suo trasporto a Firenze, Maraini ricorda come nella sua biblioteca vi sia
un volume acquistato a Darjeeling, nell’allora India britannica, nel corso
del suo viaggio con Tucci nel 1937 verso il Tibet. Si trattava di The People
of Tibet di Charles Bell. “Se lo apro - scrive Maraini - vi trovo un timbro
del tempo e un segnetto che dice Or. 1. ossia Orientalia 1. Non so come,
ma avevo già in mente allora, da ragazzo ventiquattrenne, di poter raccogliere (Dio, salute e fortuna volendo) una biblioteca orientalistica, da
lasciarsi poi un giorno in qualche modo alla città di Firenze, che sapevo
essere gravemente mancante di strumenti per gli studi e le conoscenze
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Società Italiana dei Viaggiatori
del genere”.11 Viaggiare per una comune crescita di conoscenza e di consapevolezza, quindi, è parte delle sue motivazioni.
La profonda attrazione che la sua opera esercita è inscindibile da un
interrogativo, quello che i suoi scritti e le sue fotografie suscitano in noi
circa la natura del suo muoversi per il mondo.
Delle imprese odierne nei territori più impervi i suoi ‘tragitti’ non condividono il senso esasperato della sfida estrema. Né delle imprese di un
tempo, come quelle della citata grande stagione esplorativa del primo
Ottocento, hanno la tensione, estesa fino al sacrificio di sé, ad accertare le capacità di conoscenza, di adattamento e di resistenza dell’uomo
occidentale. Hanno piuttosto, con queste ultime imprese, una qualche
parentela nella forza interiore necessaria per favorire la crescita comune,
quell’aspetto che nel primo Ottocento venne a costituire del viaggiatore
per conoscenza un vero e proprio modello morale, che attraverso la circolazione dei resoconti dei viaggi permeava di sé buona parte degli orizzonti ideali della società dell’epoca. I ‘tragitti’ di Maraini comportano la
consapevolezza antica e saggia che una “spedizione” attraverso percorsi
impervi richiede mature qualità morali: come ci ricorda in Paropàmiso
essa infatti non comporta solo disagi e fatiche, ma significa “abituarsi
all’ansietà, all’incertezza, alla solitudine”. È quindi un atto morale, che
richiede a chi lo compie un raggiunto equilibrio interiore.
Delle passeggiate invece vi è tutta la viva disponibilità a cogliere ogni particolare dello spettacolo che il percorso dispiega davanti agli occhi e ai
sensi. Il singolo volto, la singola roccia, la singola nuvola hanno ciascuno
una presenza insostituibile, che viene aggettivata con sentimento partecipe e che nella sua individualità rappresenta sempre qualcosa di nuovo.
Ma una passeggiata dove, verso cosa? Niente viene posto davanti ai nostri occhi da Maraini per caso, come ornamento che può esserci e non
esserci o per l’unico scopo di contribuire all’equilibrio formale dell’insieme. Qualsiasi particolare, sia oggetto, sia essere vivente, sia gesto umano,
ci giunge, nella pagina scritta o nella fotografia, come parte essenziale
di un immenso flusso di vicende. Seguire Maraini, divertirci con lui, ci
impegna in realtà ad affrontare il mondo - per usare le sue parole sempre
in Paropàmiso - come “un geroglifico dai sensi innumerevoli», un «mi11 F. Maraini, Mèta: un Vieusseux-Asia, in A.Boscaro, M. Bossi (a cura di), Firenze, il Giappone, l’Asia Orientale, “Gabinetto Scientifico Letterario G. P. Vieusseux, Centro Romantico.
Studi 10”, Firenze, Olschki 2001, p. XIII
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stero in cui ogni generazione legge nuovi messaggi”, la cui conoscenza
richiede un costante andare con la comprensione oltre i “muri di idee”
che differenziano le diverse civiltà nelle rispettive visioni dell’universo,
“continenti dello spirito” progressivamente formatisi e in movimento costante nello sforzo di generazioni e generazioni di uomini di orientarsi
e di conoscere. Un’impresa non da poco, e se vogliamo profondamente
religiosa, quella di vivere quotidianamente come “rivelazione perenne” le
espressioni della realtà da noi percepibile.
Una ‘passeggiata filosofica’, dunque, quella dei viaggi di Maraini, della
quale è parte essenziale, nella via alla comprensione, la partecipazione
piena di ogni nostro talento e di ogni nostro senso. Viaggi nella casa
comune degli uomini dove si palesa, si è sopra ricordato, l’unità dell’essere umano in tutta la varietà senza limiti delle sue manifestazioni, come
Maraini ha posto in piena evidenza visiva nella grande mostra antologica
Il Miramondo, promossa dal Gabinetto Vieusseux nel 1999 a Firenze, e
poi esposta a Roma, Palermo, Tokyo.12
La naturalezza con cui viene prospettato da Maraini come normale, e
auspicabile per la condizione umana, confrontarsi in ogni istante con il
mistero dell’esistente può apparirci più spiegabile se riflettiamo su una
difficoltà che viene spesso espressa: quella di definire con una corrente
aggettivazione professionale la sua opera di viaggio. Ne occorrono infatti, e ne vengono generalmente usate, molte: opera di etnologo, antropologo, scrittore, fotografo, poeta,…
Se consideriamo poi come esempio il suo lavoro sulle pescatrici Ama
dell’isola di Hèkura, nella scrittura e nelle immagini dell’incontro con
un popolo dalla particolare, autosufficiente armonia con la natura non
vi è l’atteggiamento del ricercatore distaccato, né tanto meno lo spirito di una letteraria fuga dall’Occidente o la sensualità compiaciuta di
molti autori fra Otto e Novecento, o ancora l’illusoria contemplazione
di un edenico stato di natura. Vi è piuttosto, in condivisione gioiosa e
spontanea di una serena vitalità, la ricerca con tutto se stesso delle radici
arcaiche del colloquio tra l’uomo e le forze della natura, della simbiosi
tra il visibile e l’invisibile che “respirano in perenne comunicazione”.13
12 Il Miramondo. Fosco Maraini, sessanta anni di fotografia, mostra e catalogo a cura di F.
Maraini e C. Chiarelli (Firenze, Museo Marino Marini, novembre 1999 – febbraio 2000),
Firenze, Edizioni Polistampa 1999
13 F. Maraini, L’isola delle pescatrici, Bari, Leonardo da Vinci 1960
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Società Italiana dei Viaggiatori
Per uscire dalla difficoltà ‘definitoria’ cui si accennava, un termine di significativa ampiezza, e per questo probabilmente il più adeguato per Fosco Maraini, è quello di filosofo, un particolarissimo filosofo che è stato
capace di esprimersi con tutti i talenti di cui disponeva. La sua filosofia
della vita, o meglio la sua filosofia di apertura alla percezione della vita
al di là di ogni dogma o ideologia, rende inesauribile la lettura e rilettura
dei suoi scritti e delle sue immagini, perché stimola ognuno di noi a trovare la propria personale via.
La semplicità di cui parlavo prima è comunque frutto di un intenso lavorio interiore, come Maraini esprimeva in una lettera a Topazia Alliata,
che sposerà nel 1935, nella quale, giovanissimo (siamo nel 1932), le dice
quante anime si agitino in lui, e come desideri indirizzare verso una prospettiva di conoscenza quel continuo flusso di contrasti.14 Quanto studio,
quanta sapienza dietro quella leggerezza. È lo studio come amore per la
vita, e la divulgazione appassionata come impegno morale.
È inevitabile citare al riguardo due concezioni tra loro legate, ben note
a chi frequenta le opere di Maraini ma che qui vale la pena di ricordare
in quanto rappresentano coordinate fondamentali del suo osservare e
raccontare.
La prima riguarda il rapporto tra endocosmo ed esocosmo. Una concezione che inizia a mettere a fuoco intorno al dopoguerra e che esprimerà
in forma compiuta ne I francobolli endocosmici di Shonantō. L’esocosmo è il
mondo esterno all’uomo, dall’universo fisico alle cellule e agli elettroni,
“che sussisterebbe anche ad umanità conclusa, soppressa, assente o ignota. […] In ultima istanza l’esocosmo potrebbe anche essere l’Assoluto,
quindi Dio, o un lembo estremo di qualche sua clamide”.15 L’endocosmo è
invece lo spazio interiore in cui hanno luogo negli uomini le visioni del
mondo, e in Paropàmiso Maraini dirà, al riguardo, che l’io “conoscendo,
crea. Il cosmo, come si proietta e rigenera dentro di noi, vive, cresce,
esplode, palpita, decade, rinasce, è in continua evoluzione. Non solo, ma
l’eso, l’eterno mistero dell’essere, è uno; gli endo sono tanti e profondamente diversi. […] Si è un endocosmo, non si ha un endocosmo”.16
14 In F. Maraini, Pellegrino in Asia, cit., pp. LXXIII-LXXIV
15 Id., I francobolli endocosmici di Shonantō. Breve discorso su somiglianze e differenze, in Id., Gli
ultimi pagani, a cura di F.P. Campione, pp. 10-11
16 Id., Paropàmiso. Storie di popoli, di culture, di montagne e divinità, Torino, Edizioni CDA
2003 (1° ed. Bari, Leonardo da Vinci 1963), p. 48
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La seconda concezione riguarda il continuo fluire delle cose. In un dialogo con Lanfranco Colombo Maraini dice che “esiste un presente [...]
diverso, da tutti quelli teorici e grammaticali. [...] è il presente in cui si
respira, si vive, si agisce, il presente immediatamente a ridosso dell’invisibile e silenzioso muro del futuro, al di là del quale non ci è dato di
vedere. È il presente che emerge di secondo in secondo dall’ignoto…”.17
In questa frazione temporale che Maraini definisce empresente l’ “endocosmo” è in sicuro contatto con l’ “esocosmo”. Ogni altro contatto non
può consistere che in “speranze, aspettative, previsioni, per quanto riguarda il futuro; e in ricordi, memorie, sovvenire, per quanto concerne il
passato”. 18 È proprio il desiderio di cogliere l’empresente che motiva e
caratterizza le sue fotografie.
Con queste concezioni marainiane in mente possiamo avvicinarci al
viaggio che, dice Maraini, impone di “allargare l’endocosmo, nutrendolo
di esocosmo”. Le pagine di cui darò qui qualche ampio estratto sono
tratte soprattutto da Segreto Tibet, pubblicato nel 1951 e centrato sui
viaggi compiuti da Maraini come fotografo a seguito del grande orientalista Giuseppe Tucci in due spedizioni, nel 1937 e nel 1948, e Paropàmiso, racconto, pubblicato nel 1963, della spedizione voluta dal CAI di
Roma nell’Hindu-Kush e guidata proprio da Maraini, nel 1959, per la
conquista del picco Saragrahar, una delle più alte vette himalaiane (7349
m).
Sono due opere nelle quali è particolarmente evidente il suo modo di
confrontarsi con la natura, con gli uomini, con il mistero dell’universo, e
dove più emergono il suo pensiero e la sua spiritualità.
Come detto a proposito del Citluvit, conoscere vuol dire utilizzare tutti
gli strumenti di cui siamo dotati dalla natura, compresi i sensi, ai quali
dedico i due brani seguenti, con i quali vorrei iniziare alcuni esempi di
letture da Maraini.
Da Segreto Tibet l’approdo a Bombay, primissima tappa della spedizione
Tucci:
Con l’aria e le esalazioni circolano i profumi, nonché i loro parenti poveri, gli odori; ci sono naturalmente anche i fuorilegge dell’olfatto, i puzzi.
17 Id., Citluvit ed empresente, cit., p. 19
18 Id., I francobolli endocosmici di Shonantō, cit, p. 30
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Società Italiana dei Viaggiatori
Puzzi aggressivi, a cui non siamo abituati: oppure indefinibili, che turbano
il respiro come la musica orientale turba l’orecchio. Vorrei dire anzi che
una sensibilità desta avverte prima di tutto attraverso il naso la grandezza
di metropoli continentale che ha Bombay. […] Al Taj [Mahal…], mollemente seduto su una poltrona, socchiudendo gli occhi, puoi aspirare dieci
civiltà diverse in mezz’ora [...]. Passa una giovane pakistana in calzoni
bianchi, ha le scarpe col tacco alto ed un sari; ha le unghie smaltate di rosso ed una borsa (influssi europei), lascia una scia pregna di cattiva colonia,
ma sotto sotto senti il sandalo, delle spezie indefinibili, e forse l’aglio. Ecco
un alto e magrissimo indù, una longitudinale caricatura di Nehru, sembra
sia un puro spirito, affinato da millenni di abluzioni e di cibo vegetariano,
eppure anche lui lascia la sua scia, il suo recondito garofano. Per un momento nessuno. Poi un europeo del nord; sigaro, sudore ed Atkinsons.19
Sempre i sensi, ma stavolta nel regno della natura. La spedizione infatti
è in marcia lungo la valle del fiume Tista, nel Sikkim, ai piedi dell’Himalaya:
La foresta è viva; come individui e come collettività; viva nei tronchi impellicciati di muschi e vestiti di felci, nei frutti, nelle farfalle, nei gorgoglii, nei
fischi, negli schianti, nel frusciare improvviso ed incomprensibile. La senti,
la foresta, che ha una sua personalità, sue voglie, sue cattiverie, suoi odi;
una sua fame, sue stanchezze e languori, suoi occhi occulti. Non puoi sfuggirle una volta che la penetri. I tentacoli verdi ti chiudono in un abbraccio
angoscioso. Come dire l’eccitazione strana che inducono alla lunga quelle
carni verdi, quei mostruosi tronchi addobbati di muschi gocciolanti? Ah
le carezze delle foglie vaste e lucide sulla pelle della mani! Il contatto delle
scorze, l’ebbrezza dei profumi e degli odori! Ma, parallelamente, chi può
esprimere appieno il senso repulsivo di tanta strisciante, insinuante, formicolante, turgescente vitalità? Chi può esprimere la paura della morte che si
cela dappertutto? Non della morte specificamente in quanto pericolo, ma in
un senso sottile e onnivadente. In nessun altro luogo vita e morte sono così
intimamente unite ed aggrovigliate. [...] ecco l’agguato, il male penetrante e
19 Id., Segreto Tibet, Milano, Corbaccio 1998 (1° ed. 1951), p. 26
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segreto, l’inganno; ecco lo splendore e l’orrore insieme.20
Ed eccoci agli incontri con altre civiltà. La carovana è ancora nel Sikkim,
e sosta nella capitale, Gangtok. Sempre da Segreto Tibet:
Ieri siamo stati invitati al palazzo per una visita che si è svolta in maniera
molto simpatica, senza alcuna formalità. Stasera siamo di nuovo invitati,
ma a pranzo. A tavola ci troviamo in ventisei. Il Maharaja, anziano, piccolo,
magro, delicato come un uccellino e nobile come un sigillo, splendidamente
chiuso nella sua zimarra tibetana di seta bruna, [...] benché d’origine tibetana (come lo è del resto l’intera classe dirigente del paese) è un rappresentante perfetto dell’umanità minuscola e furtiva che popola le valli ai piedi
dei colossi imalaiani. Ama le cose belle, le pietre rare, le lacche e le giade,
che carezza con le sue dita magre d’asceta raffinato, e passa in silenzio da
una stanza all’altra del palazzo come si muovesse per levitazione. [...] Intorno alle pareti sono appese delle pitture tibetane su stoffa (tangka) con
scene della leggenda del Budda [...] Il senso festoso dei tibetani per il colore
si riflette non solo nelle pitture, ma negli abiti degli ospiti. [...] Fra tanto
splendore, e tanta gioia per gli occhi, noi europei sembriamo dei pinguini.
Quando tornerà il gusto dell’occidente ad esprimersi nella ricchezza e nel
colore dei personaggi ritratti da un Bronzino o da un Holbein? [...] Dinanzi
al Maharaja siede la principessa Pemà Chöki, sua seconda figlia [...] La
fanciulla ha ventidue anni , il suo nome significa “Loto della Fede Gioiosa”
ed è altrettanto affascinante lei quanto lo è il suo mistico nome. È intelligente, nervosa, altera. I capelli nerissimi, riuniti in una treccia alla tibetana,
incorniciano un volto sottile, pallido, dove splendono due occhi, ora intensi
e penetranti, ora improvvisamente languidi. [...] Finita la cena passiamo nel
salone; mi trovo vicino a Pemà Chöki che parla assai bene l’inglese. Conosce
l’occidente per studi e letture, ma non si è mai allontanata dall’Asia; a scuola ha imparato a memoria storie ed antologie [...] però confonde Colbert
(Claudette) con Flaubert (Gustave) o Aristotile con Mefistofele. Ma della
civiltà tibetana conosce ogni aspetto. Adora le cerimonie buddiste ed ha
speciale venerazione per Milarepa.21
20 ivi, pp. 39-40
21 ivi, pp. 45-48
20
Società Italiana dei Viaggiatori
La carovana oltrepassa il valico di Natu-la e discende in Tibet. Visita al
monastero Kar-Gyu, il primo che si incontra lungo la carovaniera per
Gyantse:
Passando sotto l’arco del portale d’ingresso [...] ci accoglie un senso confortevole di pace, di cose buone ed antiche. Tanti trapa (monaci ordinari,
lama, “maestro”, è solo chi ha seguito certi studi e superato certi esami)
sono apparsi sugli usci della cucina (immenso locale fumoso e fuligginoso,
caldaie infernali, trogoli da poemi eroicomici, travi sconfinate e tutte nere
che si perdono nel buio); altri si affacciano dalla scala; molti sorridono, i
più timidamente; tutti attendono una mia parola od un cenno amichevole. I tibetani sono davvero dei curiosi xenofobi; degli xenofobi astratti
e teorici. Chiudono il proprio paese agli stranieri e dettano severissime
leggi da Lhasa per tenerli lontani, ma quando uno straniero arriva tra
di loro lo accolgono con feste ed entusiasmo. L’occidentale rappresenta
un mondo d’affascinanti misteri. Siamo l’esotico inverso. L’esotico degli
aereoplani, della fotografia, degli orologi, della pennicillina, dei miracoli
controllabili e repetibili (un lama vola per levitazione, ma occorrono dieci
anni per prepararvisi attraverso prove severissime d’ascetismo, e poi forse
non ci riesce; in aereo può volare chiunque). [...] L’om-tse [guardiano] ci
ha lasciati per un momento, forse va ad avvertire della visita il capo del
monastero, subito i seminaristi si fanno d’intorno; vogliono osservare, e
sperano toccare, la macchina fotografica. Riesco appena a muovermi per
la ressa; intanto vado respirando a grandi zaffate il foetor tibeticus. Il foetor
tibeticus è composto di vari ingredienti; il gran sudicio delle persone e
delle vesti costituisce il corpo base, il rancidume del burro lo perfeziona
con svolazzi lirici. [...] il burro (insieme alle ossa e al silenzio) è uno degli
elementi più caratteristici del Tibet. Sembra impossibile che quelle magre
femmine degli yak, pascolando fra i sassi e la sabbia, possano produrre tanto fiume di burro! Pure questo pacifico e nobile grasso ricopre il Tibet; lo
si vende nei più remoti villaggi; di burro sono le offerte agli dèi nei templi
e nelle cappelle private; il burro si scolpisce con maestria, colorandolo poi
con raffinatezze straordinarie; il burro si brucia nelle lampade; col burro
si pagano le tasse; di burro le donne si spalmano i capelli, spesso la faccia
[…] Universali come il burro sono le ossa. [...] In nessuna parte del mon-
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21
do, che io sappia, si vedono tante carcasse, tanti crani, scapole, femori,
vertebre e costole seminati per le strade, per i sentieri, dinanzi alle case,
sui passi dei monti, quanti se ne trovano lassù. Non è un fatto che abbia
luogo, così, per forza di cose, è un vero e curiosissimo tratto culturale. Gli
ossi degli animali non si seppelliscono, non si nascondono alla vista, non
si distruggono; stanno lì come sassi lungo la via, alle porte delle case si
pestano e si scalciano; i bambini vi giocano o se li scagliano a vicenda. [...]
Sono forse lo specchio del fluire ingannevole del tempo, da cui l’uomo
deve sfuggire se vuol salvarsi? Chissà. Col burro e le ossa ecco il terzo
elemento: lo Sconfinato Silenzio. La fisica moderna ci parla di continuo
tetradimensionale spazio-silenzio. V’è il silenzio giallo, ocra, delle sassaie;
quello cilestro-verde dei ghiacciai; quello delle valli dove roteano altissimi,
contro al sole, i falchi. Ed è il silenzio che purifica tutto, secca il burro,
polverizza le ossa e lascia infine nell’animo una dolcezza inesprimibile di
sogno, come avessimo toccato qualche patria originaria perduta, dopo la
primissima infanzia della storia.22
Maraini è in viaggio con un compito specifico, la registrazione fotografica di quanto ha a che fare con gli scopi scientifici della spedizione. Lavoro impegnativo, sia per la sua mole sia per il carattere di Tucci, geniale
e intrattabile al tempo stesso.
Siamo al monastero Kyangphu, sempre sulla carovaniera per Gyantse:
- Ehi, dove ti sei cacciato? Vieni presto con la macchina fotografica. Corri...! Raccolgo in furia le macchine, la borsa col magnesio, le altre diavolerie del mestiere, e m’avvio in fretta verso la Cappella Nord. Trovo Tucci
inginocchiato di traverso sull’impiantito sporco e polveroso che decifra,
con una piccola lente tenuta precariamente tra le dita, un’iscrizione incisa
sopra il piedestallo di una delle statue sparite, chissà quando.
- Oh bravo, finalmente! Ecco, fotografa questa scritta. Poi ti dirò. È prodigioso! Esattamente come pensavo! Guarda, osserva, nota: chi vi si nomina? Ma il monaco Cho-blos, cioè Cho Lo-dros, cioè Chökyi Lodrö.
Insomma il discepolo di Rinchenzangpo di cui parlavamo prima! [...] Di
22 ivi, pp. 77-79
22
Società Italiana dei Viaggiatori
quel tempo lontanissimo [Mille/Millecento] restano forse soltanto questi
piedistalli di statue scomparse. […] Mentre fotografo la scritta del piedistallo vuoto, Tucci si è alzato, ride faunescamente e si stropiccia più volte
le mani con un gesto caratteristico. Scoprire un accenno all’antico lama
Chökyi Lodrö, di cui ha scritto in altra occasione a proposito del Tibet
occidentale, gli ha dato improvvisi e vivissimi piacere e soddisfazione. [...]
E’ dunque tornato il sereno? Parrebbe. E col sereno riprende lo splendore
d’uno scialo regale del sapere. E io mi rituffo nella festa. So benissimo che
Tucci non ama affatto insegnare. Uffa che noia adeguarsi agli ascoltatori!
No, quand’è d’umore solare e benigno si compiace di gettar pensieri al
vento, ch’è tutt’altra cosa. Allora il guru pensa ad alta voce. Ed è un privilegio stargli vicino.23
E la sera è animata sia dal lavoro sulle fotografie sia dalla presenza del
singolare maestro:
Ci alziamo, la cena è terminata […] Io mi ritiro in uno sgabuzzino per
sviluppare le foto di Kyangphu. E’ un importante compito che m’impongo
giorno per giorno, talvolta in condizioni assai difficili. D’altra parte sarebbe terribile scoprire, magari tra sei mesi, che certe foto sono venute male!
Sviluppandole subito, controllo; quelle sbagliate eventualmente si possono
rifare. Mentre traffico col metolo, l’acqua, l’iposolfito eccetera, odo vagamente le voci di Tucci e del monaco nella stanza accanto. Sento ripetere
continuamente la parola gormo, rupie. Eco un altro tra gli infiniti aspetti
del mio poliedrico guru: adesso è l’abile mercante d’antichità tibetane in
azione! Ormai la scena è nota. Cala la sera. Tra il lusco e il brusco si vedono passare monaci scalzi, furtivi, dalle sagome mostruose. Soffrono d’una
moltiplicazione di braccia, di scroti smisurati, di idropisia alla schiena?
Niente affatto. Hanno grossi, fragili, rari, stupendi tesori sotto le tonacacce sudicie e bisunte. Vanno di là nel segreto della stanza da letto del
guru. Dopo lunghe contrattazioni (il maestro non si lascerebbe facilmente
prendere in giro) gli oggetti d’arte restano e i frati tornano verso il loro
impoverito monastero con manciate (per loro inaudite) di gormo. Come
vorrei assistere a questi occulti mercatini notturni. Non per malizia, o per
23 ivi, pp. 205-206
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23
gusto dello scandalo; semplicemente per conoscere meglio, nel suo tondo
completo, questo straordinario personaggio di cui ho la singolare ventura
di poter dirmi compagno attraverso i deserti del Tibet.24
Si giunge infine a Gyantse, e la spedizione si impegna nella visita alla città. Ma tra scoperte e lavoro la nostalgia può comparire, qui con qualche
venatura retorica che in seguito scomparirà dalle opere di Maraini per far
posto a una compiuta visione di quanto da lui sintetizzato con la formula
“endocosmo/esocosmo”:
Poi viene il momento della nostalgia; si ricordano allora passeggiate sui
monti d’Abruzzo o paesetti di Toscana, persone a noi vicine o poeti cari
ai nostri cuori. Una sera ho trovato un minuscolo Leopardi smarrito in
fondo alla cassetta degli abiti: Tucci me lo ha preso di mano, come un
assetato strappa di mano una bottiglia, ed ha letto il Canto Notturno ad
alta voce, poggiando il piccolo volume sdrucito fra le pagine d’un antico
trattato buddista. Alla fine del “Canto” avevamo tutti e due le lacrime agli
occhi: siamo usciti “per vedere la luna”; ciascuno si vergognava dell’altro.25
Che una spedizione si affronti in gran parte con i sentimenti e con la
forza morale e che, come si è ricordato, per Maraini significhi abituarsi
“all’ansietà, all’incertezza, alla solitudine”, è molto evidente nell’impresa
condotta nell’Hindu-Kush nel 1959 e narrata in Paropàmiso (questo il
nome dato dagli autori classici a queste montagne, che Alessandro Magno traversò nella sua discesa in India).
Ai piedi del picco Sagrahar la spedizione compie una prima ricognizione
del ghiacciaio ‘Roma’:
Ben presto il ghiacciaio divenne ripido. Le ondate si ruppero in cavalloni
disordinati, in quegli smisurati blocchi di ghiaccio che si chiamano, con
termine derivato dal francese della Svizzera, seracchi. […] E tra questi
monumenti della città di ghiaccio, che non era stata abbandonata perché
24 ivi, pp. 226-228
25 ivi, p. 315
24
Società Italiana dei Viaggiatori
nessuno l’aveva popolata mai, che non era stata popolata perché nessuno
l’aveva costruita, che non era stata costruita perché era successa, accaduta,
avvenuta per i giochi della gravità e del caso, s’aprivano strette e cupe voragini che serpeggiavano di qua e di là, incrociandosi: i vicoli, i chiassi, gli
sdruccioli che partivano dal nulla e portavano al niente. [...] Camminando
i passi rimbombavano sul vuoto; stavamo traversando le volte di catacombe del ghiaccio.26
A 5100 m sulle pendici del Sagrahar la spedizione è come alle soglie del
mistero dell’Assoluto:
La nostra voragine era fondamentalmente austera, arcigna; e talvolta –
specie la sera – diveniva lugubre, perfino macabra. Di rado ispirava simpatia, mai tenerezza. I particolari erano orridi, spesso funesti; molti erano
addirittura brutti. I colori della pietra impressionavano e scoraggiavano.
Quei giochi eleganti nel disegno degli speroni e delle creste di altre montagne (che se non rallegrano il cuore per lo meno incuriosiscono l’occhio
ed interessano la mente) potevano dirsi del tutto assenti. Guardandosi in
giro venivano sempre in mente due sole parole: semplice e colossale. Le
quali suggerivano poi la presenza d’un architetto grave e competente a
cui un tiranno, spietato e competente, avesse fornito mezzi senza limiti
per una piazza che celebrasse il potere assoluto. Il lusso c’era sì, ma era
solo del ghiaccio e della neve. E qui diveniva barocco e rococò; cartiglio
e lambrecchino. Allo sgomento che ispirava la voragine come struttura
s’aggiungeva dunque il disgusto d’un arredamento discordante ed eccessivo, una tarda sovrapposizione d’epoche decadenti, come certe cappelle
del Settecento su navate romaniche o gotiche. Il ghiaccio s’accumulava
dove poteva, appena la ripidità delle pareti glielo consentiva. E lì formava
balconi esuberanti, terrazze e grotte, davanzali dai fiori di vetro [...]. Chi
aveva tempo e fantasia poteva leggere senza limiti, in quell’ammasso prodigioso di materia e di ombre, case sbilenche e facce grottesche, oscenità
ed angosce, iscrizioni e profezie.27
26 F. Maraini, Paropàmiso, cit., pp. 336-337
27 ivi, pp. 366-367
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25
18 agosto: dal campo II si osserva il progredire di Paolo Consiglio ed
Enrico Leone verso il campo IV (6250 m):
Dal basso – dal campo II – seguivamo intanto col binocolo l’avanzata
lentissima di quei due puntini neri sulla gobba elementare e colossale
del monte. Quei due puntini erano due nostri amici; il fatto umanizzava
istantaneamente luoghi e luci. Certe volte andava avanti Paolo, certe altre
era Enrico che guidava la cordata. Li potevamo immaginare curvi, ansimanti, quasi vuoti; gusci d’uomini in cui strati su strati, millenni e millenni
di cronaca umana s’erano bruciati lasciando per residuo uno sgorbio primitivo, duro come un vecchio legno corroso. Restava intatto il senso di un
solo dovere: mettere avanti un piede, poi l’altro; di nuovo un piede avanti,
di nuovo avanti l’altro, e così senza fine.28
Gli ultimi giorni d’agosto la spedizione ridiscende al campo base e si
appresta ad abbandonare la montagna:
Ce ne andavamo. Tutto tornava come prima. […] Era stata appena una
parentesi! Il calore umano, che una tenda diffondeva sulle fratte di ghiaccio, sulle cupole di neve, sulle voragini di pietra nera, spariva di colpo.
Bastava guardarsi indietro partendo, quando gli ultimi sacchi stavano sulle
spalle, per sentire imperiosa di nuovo la presenza – quasi personale, quasi
fossero le misteriose fate – d’uno spirito nemico ed aggressivo. I seracchi
e le valanghe riprendevano, col vento, i loro diritti d’assoluti padroni. Ci
avevano soltanto tollerato. Eppure, proprio perché l’inospitalità era stata
così palese, lasciavamo lassù qualcosa di noi stessi nascosto in una nicchia
segreta.29
Tra le opere di Maraini Paropàmiso, con il suo viaggio verso il mistero
dell’Assoluto, è probabilmente il meno noto. Eppure, lungi dal considerarlo una sua opera minore, rispetto a Segreto Tibet o ad Ore Giapponesi,
Maraini ci dice, nella premessa all’edizione del 2003, come Paropàmiso
28 ivi, pp. 395
29 ivi, pp. 426-427
26
Società Italiana dei Viaggiatori
gli sia sempre stato molto caro perché cerca di “render conto di queste
due realtà della spedizione, che per noi furono importantissime: l’itinerarium mentis in naturam e l’itinerarium mentis in doctrinam”.30
A esplicitare la ricchezza che il viaggio, quello vero, porta a chi lo compie, nel libro afferma:
I viaggi possibili sul pianeta Terra sono di due specie. [...] Ci sono quelli
che si svolgono dentro i confini d’una civiltà, e ci sono quelli che ci portano entro i confini di altre civiltà. Quelli che non toccano il muro d’idee, e
quelli che lo scavalcano…31
Quanto fosse fondamentale per lui questo senso del viaggio lo mostra
la domanda che si poneva nella prefazione: “Riuscimmo a superare quel
‘muro delle idee’ che divide così fortemente l’una dall’altra le massime
civiltà dell’uomo?”.32
E nei suoi ultimi anni, dopo la strage dell’11 settembre, proprio quei
“muri di idee” sempre avversati da Maraini erano divenuti per lui un vero
e proprio tormento:
Fin dal primo giorno si parlò di terroristi appartenenti a gruppi di fanatici
islamici. Poco dopo si seppe che le quattro squadracce erano formate nel
loro complesso da ben 19 individui, di cui vennero ben presto pubblicati i
ritratti, col relativo corredo di nomi. L’impressione che provai fu penosissima. Anni fa avevo trascorso ben sei mesi, due volte, tra le montagne del
Pakistan, prima nel Karakorum, poi nello Hindu-Kush, e mi tornavano
in mente i portatori balti e chitrali, tutti di religione islamica, coi quali
avevamo, noi alpinisti italiani, convissuto in tanta simpatica armonia, in
sincera fratellanza, mangiando seduti intorno agli stessi fuochi, talvolta
dormendo nella stessa tenda. […] Vorrei ora tentare di gettare un ponte
30 ivi, p. 10
31 ivi, p. 39
32 ivi, p. 8
bollettino 2012 | studi
27
tra le due esperienze. Vorrei tentare di capire. Siamo tutti esseri umani;
un qualche collegamento sotterraneo ci deve pur essere. Il cammino sarà
lungo, spinoso, difficile, ma perché non affrontarlo?33
La risposta, e il percorso da seguire, Maraini li ha affidati alla sua lettera
di saluto agli amici prima di morire, e della quale fu data lettura il 10
giugno 2004 durante la cerimonia funebre nella Sala d’Armi di Palazzo
Vecchio.
Cari Amici, sono desolato di costringervi ad un raduno così insipido e
squallido, com’è sempre un funerale laico ... Sarebbe stato indubbiamente
più bello ritrovarsi tra canti, incensi, musiche e fiori, sotto alte e storiche
navate della nostra cara Firenze! Lo so, lo so... Ma purtroppo un minimo
di coerenza me l’ha impedito. […] Se esaminiamo con animo veramente
libero, diciamo con la prospettiva del CITLUVIT (“Cittadino Luna Visita Istruzione Pianeta Terra”) il problema delle Rivelazioni, ci accorgiamo
subito che esse non si limitano alle tre più famose che si irraggiano in
qualche modo da Gerusalemme. Occorre allargare l’orizzonte anche al
pensiero di Zoroastro, e senz’altro ai rishi dell'Induismo. [...] Un piccolo
dizionario delle Religioni, della Garzanti, ne elenca, mi pare, ben 38! Di
fronte a questa falange di Rivelazioni [...], data l'esperienza personale di
viaggi e la familiarità con più civiltà lontane tra di loro, ho optato per la
Rivelazione Perenne; cioè il regime religioso in cui Dio parla, per chi vuole
ascoltarlo, non attraverso messaggi singolari concessi in punti particolari
dello spazio ed in momenti particolari del tempo (Rivelazione Puntuale),
bensì sempre ed ovunque, nella natura e nella vita umana intorno a noi.
Tutto si presenta come Rivelazione, basta sentirla, vederla, leggerla.[…]
Nella Rivelazione Perenne ho trovato grande pace e serenità. [...] In regime di Rivelazione Perenne anche gli uomini di Neandertal sono nostri
stretti, cari fratelli in ispirito, come lo sono quelli di epoche ancora più
remote. […] Solo la Rivelazione Perenne, collegata alla Natura e non alla
Storia, può condurre verso una profonda e sentita unificazione spirituale
tra gli essere umani. In regime di Rivelazione Perenne viene radicalmente
33 F. Maraini, Le torri di New York: cercando di capire, “Antologia Vieusseux”, VII n.s., 21,
2001, pp. 117-138
28
Società Italiana dei Viaggiatori
superato ogni possibile dissidio tra religione e scienze, sia umane che della
natura. La scienza diviene anzi "lo studio della Rivelazione Perenne": si
trasforma in opera di religione, in collaborazione coi mirabili piani occulti
di Dio. […] Ancora una volta, cari Amici, perdonatemi per non avervi
fornito un addio più festoso e meglio consacrato dalle tradizioni, ma spero
che adesso mi comprenderete. Fosco34
Con i suoi viaggi e la sua opera, e fino al suo ultimo saluto, Maraini ci
invita alla consapevolezza di come esistano molteplici universi di valori,
ognuno legittimo e coerente nel costruire una complessa rete di relazioni
tra l’uomo e l’universo, e di come la curiosità profonda per la vita e le
sue manifestazioni sia una condizione imprescindibile per tale necessaria
consapevolezza.
34 Parzialmente riprodotta in F. Maraini, Pellegrino in Asia, cit., pp. CXV-CXVI, e leggibile
integralmente sul sito web dell’Associazione Italiana di Studi Giapponesi fondata da Maraini
nel 1973 in http://venus.unive.it/ aistug
bollettino 2012 | studi
notizie biografiche
su fosco maraini
Nel 2012 ricorre il centenario della nascita di Fosco Maraini.
Maraini nasce infatti a Firenze il 15 novembre 1912 da Antonio, scultore di fama che sarà molto in auge nel periodo fascista, e da Yoi Crosse, di madre polacca e padre inglese, scrittrice. Cresce quindi in un
ambiente cosmopolita e intellettualmente vivace, ma anche in stretto
contatto con il mondo contadino del podere affiancato alla villa padronale, situazione che già di per sé lo introduce all’incontro tra culture.
L’interesse per i viaggi gli nasce, come racconterà lui stesso, dall’innamoramento infantile per gli atlanti e per un grosso volume sul Tibet presenti nella biblioteca di famiglia. Tra le mete dei suoi principali
viaggi e soggiorni ricordiamo il Tibet (al seguito di Giuseppe Tucci) nel
1937 e nel 1948, il Giappone dal 1938 al 1946, poi 1954-1956, 19631964, le spedizioni alpinistiche in Asia Centrale nel 1958 (Gasherbrum IV, 7980 m) e nel 1959 (picco Saragrahar, 7349 m).
Viaggi da cui sono uscite opere di grande respiro e spessore tradotte in
tutto il mondo: Segreto Tibet (1951) caratterizzato secondo le parole di
Maraini dall’entusiasmo per la scoperta di nuove realtà; Ore giapponesi
(1957) nel quale ritiene di aver davvero raggiunto, più adulto e in un
soggiorno molto più lungo, uno stato di conoscenza e comprensione di
una civiltà diversa; Paropàmiso (1963) forse il più denso di riflessioni
sulla sua visione dell’umanità e dell’universo.
Fosco Maraini è morto a Firenze il 10 giugno 2004. Oggi la sua Biblioteca Orientale, il suo Archivio Fotografico e il suo archivio personale
sono conservati presso il Gabinetto Vieusseux di Firenze.
Una cospicua scelta dei suo scritti, corredata da un’esaustiva e ragionata
cronologia biografica e da una completa bibliografia di e su Maraini è
ora disponibile in F. Maraini, Pellegrino in Asia. Opere scelte, a cura e con
un saggio introduttivo di F. Marcoaldi, postfazione e bibliografia di F.P.
Campione, “I Meridiani”, Milano, Arnoldo Mondadori Editore 2007.
29
bollettino 2012 | studi
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maria gloria roselli
kAFIRI, GLI INFEDELI
Il leggendario popolo delle valli dell’Hindukush tra
Afghanistan e Pakistan attraverso i racconti di Paolo Graziosi
I Kafiri (parola derivata dall’arabo, significa infedeli) rappresentano la
testimonianza di una cultura pastorale arcaica, che ha conservato le proprie caratteristiche anche grazie all’isolamento geografico e geomorfico
di cui godono le valli montane al confine tra Afghanistan e Pakistan. Le
difficoltà di accesso da parte dei popoli circostanti hanno infatti permesso ai Kafiri di mantenere quasi inalterata la loro cultura e hanno
facilitato la loro resistenza al processo di islamizzazione, in un territorio
circostante che conta una percentuale altissima di musulmani. Con la
loro cultura e il loro mondo così particolare, i Kafiri, hanno solleticato
nel tempo la curiosità di studiosi, viaggiatori, scrittori e più recentemente di turisti. Anche Kipling fu suggestionato dal popolo kafiro delle valli
sul lato afgano, quando nel 1888 scrisse “L’uomo che volle essere re”, dove
immaginava l’avventura di due inglesi pazzoidi in cerca di fortuna che si
mettono in testa di conquistare i villaggi kafiri per diventarne i sovrani
e dunque i proprietari dei loro tesori35. Se in un primo momento il progetto sembra riuscire, il carattere e l’indole combattiva dei fieri guerrieri
Kafiri finiranno per vincere.
Paolo Graziosi visitò i Kafiri del Pakistan due volte, nel 1955 e nel 1960.
Archeologo, paleontologo e antropologo, Graziosi in quegli anni era direttore del Museo Nazionale di Antropologia di Firenze, oggi sezione
del Museo di Storia Naturale dell’Università, oltre che cattedratico presso lo stesso Ateneo. Era anche Presidente del Museo Fiorentino di Preistoria, di cui era stato fondatore insieme a Gaetano Pieraccini nel 1946. I
viaggi in Pakistan gli permisero di raccogliere una collezione etnografica
di grande interesse scientifico per il Museo di Antropologia e una colle35 Il romanzo è stato portato al cinema nel 1975 dal regista John Huston col titolo The Man
Who Would Be King (tit. it. L’uomo che volle farsi re).
32
Società Italiana dei Viaggiatori
zione preistorica altrettanto ricca destinata al museo di Preistoria.
Il primo dei due viaggi tra le valli dei Kafiri fu a seguito della Spedizione
Italiana al Karakorum K2 capitanata da Ardito Desio, alla quale partecipò anche il geofisico Antonio Marussi. Tra le due spedizioni Graziosi si
recò a Magonza per studiare le collezioni kafire conservate nel museo di
quella città e per confrontarle con quelle che aveva raccolto. Il prezioso
materiale conservato in museo è corredato da una serie di documenti
di grande interesse, consistenti in fotografie, schede antropometriche,
schizzi e disegni, un filmato, appunti e diari di viaggio36. Nonostante
avesse raccolto questa mole notevole di materiale, Graziosi non pubblicò
mai nulla sui Kafiri, a parte un paio di articoli su riviste. I diari e gli appunti di viaggio costituiscono dunque la fonte principale di documentazione sia dei viaggi sia delle collezioni raccolte e dunque la base anche di
questo articolo, nel quale le notizie di Graziosi vengono integrate con le
testimonianze di altri viaggiatori e con la bibliografia esistente, seppure
non così ampia, sulle caratteristiche fisiche e culturali dell’affascinante
popolo kafiro.
Tradizionalmente i Kafiri si distinguono in Kati, detti Kafiri rossi, in
parte islamizzati e Kalash, detti Kafiri neri, considerati, per dirla con le
parole del grande viaggiatore Fosco Maraini che li visitò nel 1956, gli
“ultimi pagani”.
In origine i Kati abitavano le valli dell’Indo-Kush prevalentemente sul
versante afghano. Nel 1895 l’emiro di Kabul Abdur Rahman Khan impose l’islamizzazione forzata e molti di loro si spostarono verso le valli
sul lato pakistano, per sfuggire al divieto di esercitare i riti religiosi che
imponeva anche la distruzione degli strumenti di culto. Chi tra gli antichi abitatori del Kafiristan (così si chiamava la regione allora) scelse di
rimanere, subì la conversione diventando formalmente musulmano. Il
nome Kafiristan, ossia “terra degli infedeli”, fu sostituito con Nuristan,
“terra della luce”.
Le valli impervie del lato pakistano erano, nei racconti di Graziosi, raggiungibili con strade che spesso si interrompevano, c’erano valichi da superare e fiumi da attraversare tramite ponti improvvisati. Con la stagione
36 S. Ciruzzi, S. Mainardi, M.G. Roselli – “Pakistan 1955”, Appunti di viaggio di Paolo
Graziosi. Archivio per l’Antropologia e la Etnologia, vol. CXXXIV- 2004, pp 3-100 e S.
Ciruzzi, S. Mainardi, M.G. Roselli – “Pakistan 1960”, Appunti di viaggio di Paolo Graziosi.
Archivio per l’Antropologia e la Etnologia, vol. CXXXVII- 2007, pp 5-133.
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invernale l’isolamento aumentava a causa delle nevicate e delle piogge
abbondanti.
Graziosi localizzò i territori abitati dai Kalash nei villaggi di 3 vallate
della zona del Chitral:
valle di Birir (8 villaggi) – 500 kafiri, 300 musulmani; valle di Bomberet
(9 villaggi) – 700 kafiri, 1600 musulmani; valle di Rumbur (6 villaggi) –
400 kafiri, 500 musulmani. In totale 23 villaggi.
Secondo i racconti di studiosi che li hanno intervistati direttamente, i
Kafiri amano pensare di essere i discendenti di Alessandro Magno che
effettivamente attraversò quelle terre nel 327 a.C. per raggiungere e conquistare l’India. Alcuni soldati di Alessandro sarebbero rimasti incantati dalle bellezze delle valli, verdi e rigogliose, ricche di corsi d’acqua
e avrebbero deciso di rimanere a vivere in questa specie di shangri-là.
In questo modo i Kafiri giustificano con orgoglio la presenza di capelli
biondi specie nei bambini e talvolta di occhi chiari, effettivamente poco
frequenti nel resto della popolazione pakistana e afghana. L’origine dei
Kafiri, nonostante questa suggestiva ipotesi, rimane tuttavia ancora incerta, una sorta di problema antropologico aperto dal quale non è comunque esclusa nessuna ipotesi.
Le prime pagine del diario di Graziosi descrivono l’economia di questo
popolo, che viveva di pastorizia e coltivava riso, grano, miglio, mais, vite,
ortaggi, produceva tappeti di lana di pecora, armi (fionda e arco) senza
trappole, non si nutriva di galline né di uova ma di carne di bue e di
pecora. I mulini erano a gestione familiare. Non producevano ceramica perché sprovvisti di creta, dunque le suppellettili erano normalmente
di legno. Utilizzavano sedie, diversamente dal resto della popolazione
pakistana. Erano rudi e bellicosi, continuamente in guerra coi villaggi
circostanti. Esisteva una divisione sociale all’interno delle comunità, la
classe sociale più elevata era quella dei pastori.
Effettivamente la cultura kafira è di tipo pastorale. La capra e il montone, oltre a rappresentare la più importante forma di sussistenza, hanno
una valenza ben maggiore di quella economica, permeando la vita spirituale e religiosa. Sono frequentissime le stilizzazioni di teste di capra che
si ritrovano nei luoghi di culto, presso gli altari o incise negli stipiti del
tempio. Ricercatori e viaggiatori del passato riferiscono di capre sacrificate alle divinità, uccise durante le celebrazioni. La morte di un membro
della comunità era celebrata con l’offerta di caprini uccisi, e il numero
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Società Italiana dei Viaggiatori
degli animali offerti era rivelatore dell’importanza e della ricchezza del
defunto. Ma la cultura pastorale si riflette nel carattere stesso dei Kafiri,
nel mito della forza e della resistenza fisica, nel coraggio e nella fierezza
con cui sanno affrontare la solitudine, conseguenze dello stile di vita di
chi accudisce greggi e si sposta alla ricerca di pascoli. Il rapporto con la
natura è fortissimo e fortissimo quello con le divinità che ne regolano la
benevolenza.
Tuttavia le descrizioni dei viaggiatori ci dicono che al loro carattere rude
si associava un amore forte per la famiglia, per i bambini e un gusto
genuino per il divertimento, le feste, la musica e le danze. Oltre alle moltissime minori, le feste più importanti ancora oggi sono Chowmas, festa
d’inverno, il 21 dicembre e Jyoshi, festa di primavera, in maggio.
Durante le feste le donne si esibiscono nelle danze a gruppi, vestite con
la loro tradizionale tunica marrone lunga e stretta in vita da una cintura.
In testa, sopra i capelli pettinati con treccine qua e là, indossano il kupis,
una specie di cappello ornato di conterie e cipree (fig. 1). Le danze sono
accompagnate dal suono dei tradizionali tamburi a clessidra. I Kafiri ancora oggi producono e bevono vino, dato culturale che li distingue dal resto della popolazione afghana e pakistana la cui religione impedisce l’uso
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di alcol. Per citare Fosco Maraini: “La presenza del tralcio sacro a Dioniso
dava subito un carattere sottilmente mitologico alla valle. Che fosse davvero
un ricordo lasciato dal dio ellenico nella sua spedizione alle terre dell’India?
Di quel viaggio che poi ispirò così liricamente Alessandro Magno? Un fatto
era certo: ci trovavamo in un’isola antichissima di genti, cose, idee, costumi
sopravvissuti alle frane del tempo. L’intero territorio dell’islam, in cui è stato
proscritto a lungo il vino, separava queste valli, dove cresceva ancora libero
l’antico vitigno, dove i pampini si confondevano con le foglie dei platani, delle
querce, dei frassini, degli olmi, dalle terre del Mediterraneo”37.
I villaggi erano costituiti da case a due piani costruite con una tecnica che, anche se rozza a prima vista, è un vero prodotto di ingegneria.
Venivano impilate delle pietre grandi, cementate con fango, disposte a
formare file orizzontali tra le quali erano inframmezzati, a rinforzo, strati
di travature di legno, elastiche e robuste (fig. 2). Le case erano piccole,
con finestre minuscole, costruite per i bisogni familiari, di solito con
una grande terrazza per l’estate, spesso decorata e scolpita con motivi
ornamentali. Il legno per la costruzione e le decorazioni era di noce o
cedro, abbondanti e rigogliosi nelle valli. Il piano terra era destinato a
magazzino per le provviste.
Graziosi riscontrò l’assenza di fabbri tra i Kalash, ragione per la quale
non trovò molta frequenza di oggetti in metallo. I pochi che vide erano
di produzione Kati, che invece avevano il fabbro, oppure importati da
Chitral.
Per quanto riguarda la vita spirituale, la cosmogonia dei Kafiri viene descritta come composta da una serie di dei protettori, con piccole differenze tra i Kalash e i Kati non islamizzati. La differenza più importante
è la presenza di un dio supremo che i Kati chiamano Gish, figura assente
tra i Kalash. Il dio creatore è Dezau per i Kalash e Imra per i Kati, e rappresenta il signore che ha reso possibile la vita ma non il responsabile di
specifici aspetti della vita; per questo i Kafiri preferivano rivolgere le loro
preghiere e officiare le loro celebrazioni agli dei protettori. La dea Jestak
per i Kalash, chiamata Disarè dai Kati, era protettrice della famiglia, dei
bambini e dell’armonia domestica, e a lei era dedicato un luogo fisico di
culto, chiamato Jestakhan. Si tratta di un tempio di solito formato da
una sola sala abbastanza grande, coperto dal tetto che poggia ai lati della
stanza su quattro colonne di legno intagliato a motivi sacri. In mezzo alla
37 F. Maraini, Paropamiso, Leonardo da Vinci, Bari 1963.
Fig. 1 - Donne con il kufis in testa
Fig. 2 - Tradizionali case a due piani
Fig. 3 - Altare per il dio kalash Mahandeo
Fig. 4 - Statua equestre
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stanza c’è il focolare, simbolo della famiglia e in una parete è appoggiato
il Jestak, che rappresenta il luogo fisico dove si trova la dea all’interno
del tempio e consiste in una tavola di legno intagliata a formare segni
geometrici convenzionali, con una testa di cavallo che sporge in alto. Nel
Jestakhan venivano celebrate anche le cerimonie funebri.
Il dio Kalash Mahandeo, Mon tra i Kati, protettore della terra, dei raccolti, della fertilità, delle piogge, era invocato presso gli altari all’aperto al
fine di ottenere benevolenza per la sopravvivenza della comunità. L’altare è formato da un cumulo di pietre che reggono una tavola orizzontale
di legno scolpito a disegni geometrici, con un foro al centro. Dalla parte
superiore della tavola sporgono alcune teste di cavallo stilizzate (fig. 3).
Durante le cerimonie, come quelle ad esempio della festa di primavera,
secondo i diari di Graziosi, venivano passate attraverso il foro le offerte
per il dio e talvolta il foro era la porta di comunicazione tra un officiante il rito e il dio protettore. Davanti al Mahandeo c’è una pietra dove
si svolgono sacrifici di animali, offerte di sangue e cibo, festeggiamenti
della primavera e dell’inverno. Era diffuso in moti villaggi kafiri, proprio
perché considerato la casa del «grande dio».
La dea Dezalik, detta Nirmali dai Kati, era la dea delle donne. L’immagine della dea, non visibile agli uomini, era collocata nel Bashali, la
casa delle donne, il cui accesso esclusivo era consentito durante i giorni
del ciclo mestruale e alle partorienti. Agli uomini era interdetto non
solo l’ingresso al bashali ma anche il passaggio nel terreno circostante
la casa. Le levatrici erano le sole ammesse all’interno ma potevano entrare solo dopo essere rimaste completamente nude, indipendentemente
dal freddo e dalla stagione. Appena uscite, dovevano sottoporsi a riti
di purificazione, così come dovevano purificarsi anche le donne dopo il
parto, rimanendo per un periodo di tempo all’interno della casa. In caso
di morte all’interno del Bashali, la donna era seppellita in fretta, senza
dignità di cerimonia.
I cimiteri kafiri sono ampi spazi nei quali si trovano, sparse e senza ordine, tombe epigee. Le casse di legno, rudimentali, sono coperte da assi
di legno che non di rado sono assicurate a chiudere la bara con cumuli
di pietre pesanti. La disposizione caotica e irregolare fa pensare a un
culto dei morti poco elaborato. Maraini racconta di come fosse terribile
l’odore che proveniva da quei siti se solo si aveva la sventura di passare
nelle vicinanze, magari sottovento. Tra le tombe qua e là, si ergono delle
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Società Italiana dei Viaggiatori
bellissime statue di legno a grandezza naturale, che un tempo venivano
costruite in onore del defunto. Non potevano essere spostate, addirittura nemmeno toccare per rimetterle in piedi nel caso cadessero a terra.
Così l’effetto generale era di un grande guazzabuglio di tombe sfasciate,
mezze scoperchiate, statue in piedi e a terra, rotte e rovinate dalle intemperie. Alcune di queste furono raccolte da Graziosi e fanno parte della
collezione del Museo.
In onore di uomini ricchi o particolarmente influenti, per sottolinearne
la potenza, venivano erette statue equestri (fig. 4). Il cavallo infatti era
per i kafiri l’animale elegante per eccellenza e il cavaliere rappresentava
la figura più bella, che cammina senza toccare terra. Alcune di queste
statue furono descritte dai viaggiatori, colpiti dalla loro bellezza. Graziosi se ne procurò una, splendida, per portarla in museo, dove tuttora rappresenta il pezzo forse più spettacolare della collezione. Così raccontò
come si svolse la faccenda: Il cavallo, tolto dal basamento, finalmente parte;
in primo tempo si parlava di segarlo in tre per il trasporto. Però dopo un po’ di
tempo torna un messo a dire che il cavallo non passa per certi luoghi e quindi
va segato sul posto, 12 coolis sono necessari per trasportarlo.
BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE
S. Ciruzzi, S. Mainardi, M.G. Roselli – “Pakistan 1955”, Appunti di viaggio di
Paolo Graziosi. Archivio per l’Antropologia e la Etnologia, vol. CXXXIV- 2004,
pp 3-100
S. Ciruzzi, S. Mainardi, M.G. Roselli – “Pakistan 1960”, Appunti di viaggio di
Paolo Graziosi. Archivio per l’Antropologia e la Etnologia, vol. CXXXVII- 2007,
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and society in the Hindu Kush. Roma: ISIAO, 2001.
Maraini, Fosco. Paropamiso: spedizione romana all’Hindu-Kush ed ascensione del Picco
Saraghrar (7350 m.). Fosco Maraini ; fotografie dell’autore e dei suoi compagni di viaggio. Bari: Leonardo da Vinci, 1963.
Robertson, George Scott. (1974) The Kafirs of the Hindu Kush, Londra, Karachi
(edizione originale 1896).
Schomberg, Reginald Charles Francis. Kafirs and glaciers : travels in Chitral. London: Martin Hopkinson limited, 1938.
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franco cardini
LE MERAVIGLIE DEL NULLA
Viaggio fantastico nel Medioevo
La cultura medievale - nonostante le polemiche e gli equivoci ancor persistenti a proposito dei rapporti fra le diverse eppur affini e interferenti
categorie dell’ “immaginario”, del “fantastico”, del “meraviglioso”, dello
“straordinario”, dello “strano-estraneo” -1 trova nel viaggio e nello schema etico-allegorico delle scritture che su differenti piani e a diversi livelli
ne danno conto - trattati enciclopedici, scritti didascalici, opere mistico-
1 Il punto di partenza può essere costituito da M. Beutler, Fantastico, in Enciclopedia Einaudi, VI, Torino, Einaudi, 1979, pp.17-37, e R. Mecchia, Immaginazione, ibidem, VII, pp.4353. In generale, appare irrinunziabile la menzione di: T. Todorov, Introduction à la littérature
fantastique, Paris, Seuil, 1970; S. Solmi, Saggi sul Fantastico. Dall’antichità alle prospettive del
futuro, Torino, Einaudi, 1978; C. Lecouteux, Introduction à l’étude du merveilleux médiéval,
“Etudes germaniques”, 36, 3,juil.-sept.1981, pp.273-90; AA.VV., La narrazione fantastica,
Pisa, Nistri-Lischi, 1983; AA.VV., Fantastico e immaginario, a cura di A. Scarsella, Chieti,
Solfanelli, 1988; AA.VV., Gli universi del fantastico, a cura di V. Branca e C. Ossola, Firenze,
Vallecchi, 1988; G. Lanciani, il meraviglioso come scarto tra sistemi culturali, in AA.VV., L’America tra reale e meravigliso. Scopritori, cronisti, viaggiatori, a cura di G. Bellini, Roma, Bulzoni,
1990, pp.213-18; AA.VV., Le Terre dell’Altrove. Fantastico e Immaginario, Rimini, Il Cerchio,
1992 (“I Quaderni di Avallon”, 28); AA.VV. Geografia, storia e poetiche del fantastico, a cura
di M. Farnetti, Firenze, Olschki, 1995. Dal punto di vista letterario, S. Petrignani, Fantasia
e fantastico, Milano, Camunia, 1985, e C. Nejrotti, Sotto il segno di Hermes. I percorsi del mito e
la narrativa dell’immaginario, Rimini, Il Cerchio, 1996. Più specificamente per il medioevo:
El món imaginari i el món meravellós a l’edat mitjana, Barcelona, Fondació Caixa de Pnsions,
1986; J. Le Goff, Il Meraviglioso e il Quotidiano nell’Occidente medievale, tr.it., Roma-Bari,
Laterza, 1983; Idem, L’Immaginario medievale, tr.it., ivi 1988; De l’étranger à l’étrange, ou la
conjointure de la Merveille, Aix-en-Provence 1988 (“Senefiance”, 25); Il meraviglioso. Misteri e simboli nell’immaginario occidentale, a cura di M. Meslin, tr.it., Milano, Mursia, 1988
(che purtroppo non reca però le molte e belle immagini pubblicate nell’originale francese, Le
merveilleux, Tours, Bordas, 1984); Il meraviglioso e il verosimile tra antichità e medioevo, a cura
di D. Lanza e O. Longo, Firenze, Olschki, 1989; F. Dubost, aspects fantastiques de la littérature narrative médiévale (XII.ème-XIII.ème siècles). L’Autre, l’Ailleurs, l’Autrefois, voll.2, Paris,
Champion, 1991; J.-R. Valette, La poétique du merveilleux dans le Lancelot en prose, Paris,
Champion, 1998. Un tentativo generoso di sintesi è in J. Le Goff, L’immaginario medievale, in
Lo spazio letterario del medioevo. - 1. Il medioevo latino, vol. IV. l’attualizzazione del testo, Roma,
Salerno, 1997, pp.1-42.
40
Società Italiana dei Viaggiatori
allegoriche, memorie di pellegrinaggio, romanzi d’aventure,2 relazioni a
carattere tecnico-commerciale - un suo punto di riferimento costante,
che si fonda sull’analogia tra iter-peregrinatio come esperienza esistenziale e status viatoris dell’uomo in quanto pellegrino che compie il suo
viaggio della vita verso la Casa del Padre.3 In questo senso ogni scritto
medievale sul pellegrinaggio conserva, comunque atteggiata e mediata, una sua dimensione etico-paradigmatica.4 Per questo la cultura del
lungo periodo che per convenzione continuiamo a chiamar “medioevo”
- almeno, e significativamente, fino alla scritto di Thomas More, che è
pur soggetto a varie interpretazioni - non ha propriamente conosciuto
la dimensione del “viaggio fantastico”, e tanto meno di quello “in nessun
luogo”, nell’u-topos, cioè in luoghi per definizione ritenuti inesistenti o
l’esistenza dei quali non costituisce comunque un problema obiettivo
d’ordine “realistico” ma riguarda piuttosto (da Platone e da Luciano di
Samosata in poi) il dominio dell’allegoria o della metafora:5 salvo i casi
dei viaggi verso “l’Altro Mondo” desunti dalle tradizioni celtiche riconsiderate e tradotte nei mabinogion gallesi, nei lais come in quelli di Maria di Francia6 e nei viaggi d’aventure cavalleresca, in quella dimensione
2 Sul concetto, è fondamentale E. Köhler, L’avventura cavalleresca. Ideale e realtà nei poemi
della Tavola Rotonda, tr.it., Bologna, Il Mulino, 1985. Molto importante anche P. Le Rider, Le
chevalier dans le Conte du Graal de Chrétien de Troyes, Paris, CDU-SEDES, 1978. Per i testi italiani relativi a questa dimensione, F. Cardini, L’avventura cavalleresca nell’Italia tardomedievale:
modelli letterari e forme concrete, in AA.VV., Mediterraneo medievale. Scritti in onore di Francesco
Giunta, Soveria Mannelli , Rubbettino, s.d., pp.243-88. In linea generale, A. Pioletti, Forme
del racconto arturiano. Peredur, Perceval, Bel Inconnu, Carduino, Napoli, Liguori, 1984, e M.C.
Storini, Lo spazio dell’avventura. Peripezia e racconto nel medioevo, Firenze, La Nuova Italia,
1997.
3 Cfr. G.R. Cardona, I viaggi e le scoperte, in Letteratura italiana, vol. V, Le questioni, Torino,
Einaudi, 1986, pp.687-716; B. Basile, Il viaggio come archetipo. Note sul tema della peregrinatio
in Dante, in Idem, Il tempo e le forme, Modena, Mucchi, 1990, pp.9-36.
4 Cfr. C. Segre, Fuori dal mondo, Torino, Einaudi, 1990.
5 Cfr. Voyage aux pays de nulle part, éd.p. F. Lacassin, Paris, Laffont, 1990. Per la definizione
del concetto di Utopia e la relativa problematica filosofica e politica, cfr. R. Trousson, Voyage
au pays de nulle part. Histoire littéraire de la pensé utopique, Bruxelles, Editions de Bruxelles,
1975; F.E. e F.P. Manuel, Utopian thought in the western world, Cambridge Mass., Cambridge
University Press, 1979; A.Petrucciani, La finzione e la persuasione. L’utopia come genere letterario, Roma, Bulzoni, 1983 (sulla finzione come “categoria strutturale” del testo utopico);
Per una definizione dell’Utopia, a cura di N. Minerva, Ravenna, Longo, 1992 (in particolare
il saggio di G. Zaganelli, L’Utopia medievale. Note su paradisi e discorsi, ibidem, pp.61-70); G.
Jean, Voyages en Utopie, Paris, Gallimard, 1994.
6 Cfr. p.es. Maria di Francia, Eliduc, a cura di E. Levi, Firenze, Sansoni, 1924 (rist.anast.,
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che la Harf-Lancner ha definito “morganiana”7 e che è caratterizzata dal
viaggio in una terra incantata ardua se non impossibile a ubicarsi sulla
superficie terrestre, o nelle regioni aeree sublunari, o nel sottosuolo; per
quanto i miti celtici la situino in una del resto geograficamente imprecisabile area transoceanica, all’occidente estremo. Un’area imprecisabile,
appunto: ma nondimeno considerata appartenente al mondo concreto o
dotata comunque di una sua realtà.8
La gamma dei “viaggi fantastici”9 quindi, quantitativamente non trascurabile, va considerata concettualmente ben distinta - per quanto somiglianze, connessioni o scambi fra i due generi possano ben verificarsi: e
quindi la distinzione sia talora ardua e talaltra appaia pedante - da quella
dei “viaggi immaginari”, che avevano attinenza con l’imago mundi e dunque con l’immagine dell’ecumène e delle aree terrestri, marittime oppure
oceaniche in qualche modo note (o per esperienza diretta, o per descrizione delle auctoritates).10 Tali viaggi immaginari, anche se e quando non
ivi 1984): è il tipico racconto d’impianto “morganiano” secondo la tipologia proposta dalla
Harf-Lancner (cfr. infra).
7 L. Harf-Lancner, Morgana e Melusina. La nascita delle fate nel Medioevo, tr.it., Milano,
Einaudi, 1989; cfr. anche P. Gallais, La Fée à la Fontaine et à l’Arbre. Un archetype du conte
merveilleux et du récit courtois, Amsterdam-Atlanta, Rodopi, 1992.
8 Si pensi al Dilmun sumerico, o al paese deli Iperborei, o a quello delle Esperidi: luoghi
tutti che dispongono di un’ubicazione quanto meno precisabile sotto il profilo dei punti cardinali: cfr. R. Thévenin, I paesi leggendari dinanzi alla scienza, tr.it., Milano, Garzanti, 1950; Peuples et pays mythiques, éd. p. F. Juan - B. Deforge, Paris, Les Belles Lettres, 1988; M.Menghi,
L’utopia degli Iperborei, Milano, Iperborea, 1998. Nella categoria di “paesi leggendari”
vengono ordinariamente inclusi, non sempre con le necessarie distinzioni, terre mitiche appartenenti a sistemi mitico-religiosi differenti e paesi più propriamente leggendari individuati
dalla geografia antica e più tardi effettivamente scoperti (o comunque identificati con terre
scoperte): cfr. E.H. Bunbury, A history of ancient geography, voll.2, London 1979; C.R. Beazley,
The dawn of modern geography, voll.3, London 1897-1906; L.Olschki, Storia letteraria delle
scoperte geografiche, Firenze, Olschki, 1937.
9 Alla dimensione immaginario-fantastica del viaggio e del viaggiare hanno dedicato attenzione, in un contesto generale, M.S.Mazzi, Oltre l’orizzonte. In viaggio nel medioevo, Torino,
Paravia, 1997, pp. 157-277, passim, e J. Verdon, Voyager au Moyen Age, Paris, Perrin, 1998,
pp.333-84.
10 Su miti geografici, assetto del mondo e geografia immaginaria in rapporto alla realtà
allora conosciuta (ma anche a quella obiettiva), cfr. U. Tucci, Credenze geografiche e cartografia,
in AA.VV. Storia d’Italia. V.1.-Documenti, Torino, Einaudi, ..., p.49sgg.; A. Brusa, Aspetti della
conoscenza dell’oriente nell’Occidente cristiano, “Archivio storico pugliese”, XXXIII, I-IV, genn.dic. 1980, pp.185-204; AA.VV., Hic sunt leones. Geografia fantastica e viaggi straordinari, a cura
di O. Calabrese, R. Giovannoli, I. Pezzini, Milano, Electa, 1983; I. Pezzini, Exploratorium.
Cose dell’altro mondo. ivi 1991. Per il medioevo: C. Frugoni, La figurazione bassomedioevale
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Società Italiana dei Viaggiatori
intendevano presentarsi esplicitamente come avvenuti nella realtà materiale, avevano comunque come loro mèta luoghi che magari non erano
mai stati raggiunti - e che addirittura non potevano esser raggiunti -11 da
esseri umani, ma che nondimeno erano considerati esistenti, erano stati
descritti e sull’esistenza dei quali non si nutrivano dubbi. I regni dell’Aldilà erano fra questi luoghi:12 e potevano essere visitati mediante viaggi
concreti ed effettivi ma, più spesso, mediante una visione.13
I “falsi” viaggi - chiamiamoli impropriamente così - si sforzano o fingono di sforzarsi per presentare la loro erudizione geografica, variamente
accompagnandola con invenzioni fantastiche le quali sono più sovendell’imago mundi, in “Imago mundi”. La conoscenza scientifica nel pensiero bassomedioevale, Todi,
Accademia Tudertina, 1983, pp.223-69; A. Quondam, (De)scrivere la terra. Il discorso geografico
da Tolomeo all’atlante, in AA.VV., Culture et société en Italie du Moyen-Age à la Renaissance.
Hommage à André Rochon, Paris, Sorbonne Nouvelle, 1985; G. Tardiola, Atlante fantastico del
medioevo, Anzio, De Rubeis, 1990; M. Ciccuto, Le meraviglie d’Oriente nelle enciclopedie illustrate del medioevo, in L’enciclopedismo medievale, a cura di M. Picone, Ravenna, Longo, 1994,
pp.81-116; P. Gautier Dalché, Saperi geografici nel Mediterraneo cristiano, in AA.VV., Federico
II e il mondo mediterraneo, a cura di P. Toubert - A. Paravicini-Bagliani, II, Palermo, Sellerio,
1994, pp.162-82; P. Zumthor, La misura del mondo. La rappresentazione dello spazio nel Medio
Evo, tr.it., 1995; P. Gautier Dalché, Géographie et culture. La représentation de l’espace du VI.e
au XII.e siècle, Aldershot, Variorum Reprints, 1997. Per il concetto di “viaggio immaginario”
e la sua delimitazione, cfr. J. Richard, Voyages réels et voyages imaginaires, instruments de la
connaissance géographiques au Moyen Age, in Idem, Croisés, missionnaires et voyageurs, London,
Variorum Reprints, 1983, pp. 211-20.
11 L’interdizione relativa all’accesso di certi luoghi da parte degli esseri umani, e addirittura
l’invisibilità di essi (e la possibilità d’individuarne l’accesso solo attraverso metodi rituali, come
accade nella Nekyia descritta nell’XI libro dell’Odissea, per cui cfr. P. Santarcangeli, Nekyia. La
discesa dei poeti agli Inferi, Milano, Uni, 1980, pp.125sgg.), fa parte degli oggetti dello studio
di C. Lecouteux, Démons et Génies du terroir au Moyen Age, Paris, Imago, 1995.
12 Cfr. F. Bar, Les routes de l’autre Monde, Paris, P.U.F., 1946; H.R. Patch, The Other World
according to description in medieval litarature, Cambridge Mass., Cambridge University Press,
1950.
13 Cfr. C. Kappler et Collaboreurs, Apocalypses et Voyages dans l’Au-Dela, voll.2, Paris, Cerf,
1987; visioni dell’Aldilà in Occidente. Fonti modelli testi, a cura di M.P. Ciccarese, Firenze,
Nardini, 1987; A. Micha, Voyages dans l’au-delà d’après des textes médiévaux, IV.e-XIII.e siècles, Paris, Klincksieck, 1992; I viaggiatori del Paradiso. Mistici, visionari, sognatori alla ricerca
dell’Aldilà prima di Dante, a cura di G. Tardiola, Firenze, Le Lettere, 1993. Per il concetto
di visio e i suoi complessi rapporti con quello di somnium, cfr.: W. Levison, , Die Politik in
den Jenseitsvisionen des frühen Mittelalters, Düsseldorf 1948; M. Aubrun, Caractères et portée religieuse et sociale des “Visiones” en Occident du VI.e au XI.e siècle, “Cahiers de Civilisation
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rappresentazioni medievali dell’Aldilà, “Quaderni medievali”, 20, 1985, pp.133-43.
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te, a loro volta, espedienti ipotetico-esegetici, sotto le vesti d’un genere nel Tardo Medioevo straordinariamente fortunato ch’era appunto
quello del resoconto di viaggio (o, nel caso della Terrasanta, del viaggiopellegrinaggio).14 Definirli “falsi viaggi” o “viaggi fittizi” è per la verità
riduttivo e forse ingeneroso: anche perché introduce di contrabbando
in una categorizzazione che si presenta come sistematrice un implicito
negativo giudizio morale fuori luogo. Si tratta in realtà di opere che si
accampano fra il trattato enciclopedico-didascalico e il romanzo, avvalendosi magari delle stesse scritture a carattere economico-commerciali
(i vari trattati “di mercatura”) o di un altro sottogenere in parte fittizio
in parte eterogenetico, i trattati scritti fra Due e Trecento de liberatione
Terrae Sanctae, ch’erano sovente scritti politologici o geopolitico-economici travestiti; con in più l’elemento letterariamente parlando non certo
nuovo, però originale e stimolante, della tecnica narrativa in chiave autobiografica che fra Tre e Quattrocento dà eccellenti prove di sé nella
memorialistica, anche in quella dei viaggiatori-pellegrini in Terrasanta.
Esaminiamo brevemente i casi di maggior rilievo di questa letteratura,
in presuntivo ordine cronologico di composizione. Interessante l’avventura redazionale e editoriale di uno strano, straordinario zibaldone di meraviglie odeporiche e geoteratologiche: il cosiddetto “Mandeville”, un racconto che di solito viene presentato col titolo
francese di Voyage d’outremer o con quello inglese di Travels e che si
diffuse presto un po’ in tutte le lingue europee ed è rimasto noto - e
autorevole...- almeno per tutto il medioevo e oltre,15 per poi passare alla
cultura subalterna diffusa dove rimase radicato si può dire fino alle soglie
dell’età contemporanea. Passa per esserne stato l’autore un non troppo ben identificato cavaliere anglo-francese, Jean de Mandeville, l’ “io
narrante” del testo, che sostiene di esser nato nella città di St. Albans in
Inghilterra e di esser partito per mare il 29 settembre del 1322 per visitare - nell’ordine in cui egli pone le regioni attraversate - Costantinopoli,
Turchia, Armenia Minore e Maggiore, Tartaria, Persia, Siria, Arabia,
Alto e basso Egitto, Libia, Caldea, Etiopia, Amazzonia, India Minore
e Maggiore, isole attorno all’India. Non mancano indizi secondo i quali
14 Cfr. ora, per quest’ultima dimensione, A. Grabois, Le pélerin occidental en Terre Sainte,
Paris-Bruxelles, De Boeck Université, 1998.
15 . Cfr. C. Deluz, Le livre de Jehan de Mandeville, autorité géographique à la Renaissance, in
Voyager à la Renaissance, éd. p. J.Ceard - J.C. Margolin, Paris, Maisonneuve-Larose, 1987,
pp.205-220.
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il vero autore di questo resoconto di viaggio sarebbe stato un medico di
Liegi, Jean de Bourgogne. Originariamente redatto verso il 1356-57 in
francosettentrionale - ma l’originale è andato perduto -, il libro conobbe immediatamente traduzioni, volgarizzamenti e adattamenti di vario
tipo, anche in volgare italico.16 Nella letteratura inglese, la traduzione del
Mandeville - condotta tra fine XIV e inizio XV secolo su una versione
franconormanna - è rimasta uno dei testi fondamentali di quella “lingua
di Londra” usata anche da Geoffrey Chaucer che si avviava ormai a diventare lingua nazionale.
Le fonti del Mandeville sono ben note e molto studiate: ma resta difficile delimitarle con esattezza, data la grande abbondanza di topoi che si
ripetono e di auctoritates citate e riciclate in testi come questi. Appunto la
mancanza o la carenza di queste citazioni e di queste forme di riciclaggio
fece cadere il Milione sotto il sospetto di esser un falso viaggio, in quanto
non vedeva le cose che in Asia ci si aspettava di vedere o le descriveva
in modo non conforme a quanto ci si attendeva;17 viceversa, fu proprio
la ripresa - magari fantasticamente ampliata - di topoi e auctoritates che
valse al Mandeville credibilità e fama. Per la prima parte, che potrebb’esser considerata come dotata di una sua autonomia in quanto viaggio
in Terrasanta, è sfruttato il Liber de quibusdam ultramarinis partibus del
domenicano tedesco Wilhelm von Boldensele, che andò pellegrino in
Terrasanta nel 1332-33 e completò il suo scritto nel 1337; per la restante
parte sono utilizzati i principali repertori enciclopedici duecenteschi - da
Giacomo da Vitry a Vincenzo di Beauvais - nonché gli scritti dei francescani Giovanni da Pian del Carpine, Guglielmo di Rubruck, Odorico
da Pordenone e lo stesso Marco Polo.
Un viaggio per molti versi da considerar immaginario, ma elaborato in
realtà come un vero e proprio Odoeporikon, una guida geoculturale, è
l’Itinerarium Syriacum del Petrarca, scritto nel 1358 per servire da vademecum per un personaggio della corte viscontea desideroso di recarsi in
pellegrinaggio in Terrasanta. Molto opportunamente il titolo di questo
16 Per una traduzione moderna con buon apparato erudito, cfr. John Mandeville, Viaggi ovvero trattato delle cose più meravigliose e più notabili che si trovano al mondo, a cura di E. Barisone, Milano, Il Saggiatore, 1982; cfr. anche I viaggi di giovanni da Mandavilla. Volgarizzamento
antico toscano, a cura di F. Zambrini, Bologna, Romagnoli, 1870.
17 Per il fondamentale testo, cfr. l’edizione critica: Marco Polo, Il Milione, ed. crit. V. Bertolucci Pizzorusso, Milano, Adelphi, 1975, da integrare oggi con l’ed. a cura di A.Barbieri,
Parma, Guanda-Fondazione Bembo, 1998.
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scritto petrarchesco, che a sua volta conobbe volgarizzamenti italici, non
reca riferimenti alla mèta religiosa del suo destinatario: si tratta di una
ricerca erudita sulle tappe marittime e terrestri fra Italia e Siria condotta
sui testi laici e religiosi antichi e vòlto anzitutto a fra meditare i suoi
fruitori sulle memorie di quel tempo che il Petrarca predilegeva, astraendo dal carattere di pellegrinaggio dell’occasione che l’aveva spinto a
comporlo.18
Al Mandeville si ricollega invece la memoria di viaggio in Terrasanta e
nel solito Oriente favoloso redatta nel 1416 da uno Jacopo da Sanseverino ch’è forse identificabile col pittore Jacopo Salimbeni: un altro giro
attorno al mondo da Gerusalemme all’Africa all’India all’Irlanda, sulla
scorta della Lettera del Prete Gianni, di Marco Polo, di Odorico da Pordenone, di Giovanni da Mandeville.19
Non ci pare siano da considerarsi “viaggi immaginari” quelle peregrinationes animae, quei “pellegrinaggi di desiderio” fino al Santo Sepolcro,
che talvolta appaiono nelle meditazioni e nelle estasi dei mistici tardomedievali e che in vario modo servono da complemento a pellegrinaggi
effettivamenbte compiuti o sono surrogato di essi in seguito a impossibilità obiettiva di compiere il viaggio o a forme varie di divieti o di
censure talora autoimposti, talatra subìti da un’autorità ecclesiastica che
- nonostante le pratiche delle indulgenze, i meccanismi delle elemosine
e dei lasciti pro Terra Sancta - non aveva mai abbandonato quell’atteggiamento contra peregrinantes che da Gerolamo a Tommaso da Kempis e
ad Erasmo da Rotterdam percorre l’intero pensiero cristiano medievale
facendo da contrappunto alla devozione per i Luoghi Santi.
Alla dimensione del “viaggio fantastico”, non immune da elementi che
possono in parte essere onirici, appare invece quel “pellegrinaggio cavalleresco” a forte carattere erotico alla sede d’una divinità pagana o
d’un’entità féerique che ha stretti contatti con episodi narrati nei lais a
proposito di contatti fra umani e fate e, naturalmente, con la dimensione dell’aventure. Conosciamo al riguardo la tradizione del viaggio del
Minnesinger Tannhäuser al Venusberg - incerto è però il periodo in cui
18 Cfr. Francesco Petrarca, Itinerario in Terra Santa, a cura di F. Lo Monaco, Bergamo, Lubrina, 1990. Cfr. T.J. Cachey Jr., Peregrinus (quasi) ubique. Petrarca e la storia del viaggio, “Intersezioni”, XVII, 3, dic.1997, pp.369-84.
19 Jacopo da Sanseverino, Libro piccolo di meraviglie, a cura di M. Guglielminetti, Milano,
Serra e Riva, 1985.
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tale leggenda si è affermata - e la pratica del “pellegrinaggio” alla grotta
della cosiddetta Sibilla Picena, sul Monte Vettore dell’Appennino umbro-marchigiano, oggetto a quel che pare del viaggio compiuto nel 1420
dal francese Antoine de la Sale e da lui narrato in uno strano componimento, la Salade. E’ noto che tracce di viaggi effettivamente praticati alla
“grotta della Sibilla” ci sono pervenute: arduo a dirsi comunque il grado
di verosimiglianza e quello di divertissement dello scritto del de la Sale.20
Così com’erano frequenti i viaggi al cosiddetto Pozzo di San Patrizio.
Cosa fosse esattamente questa grotta d’accesso al Purgatorio ce lo spiega
la Vita di san Patrizio, composta nel XII secolo da un cisterciense, Jocelyn di Furness, il quale racconta che in santo, non riuscendo a convertire
gli irlandesi, ricevette una visione nella quale il Cristo gli mostra una
cavità, una sorta di pozzo o grotta, dicendogli che chiunque, dopo essersi
mondato dei peccati, avesse trascorso un giorno e una notte interi al suo
interno, avrebbe visto le pene che attendevano i malvagi e il premio che
spettava ai buoni. Il santo fece allora recintare la fossa con un muro chiuso da una porta e ordinò di edificare una chiesa nei dintorni. La chiave
della porta venne affidata al priore dei canonici posti a servire la chiesa,
con la disposizione che tutti i penitenti che avessero affrontato la prova
avrebbero poi scritto una relazione su quanto visto. L’agiografo collocò
il Purgatorio di san Patrizio sopra un monte del Connaught, anche se il
luogo nel quale più sovente lo si identificherà è invece il Lough Dergh,
nel Donegal21.
Sulla scorta della leggenda di san Patrizio e della visione di Owein, e
probabilmente di tradizioni precedenti, ebbe inizio una pratica di pellegrinaggio al Lough Dergh – evidentemente incoraggiata dall’Ordine
cisterciense. Grazie al volgarizzamento del racconto di Owen ad opera
della poetessa Maria di Francia22, quasi contemporaneo all’originale, e
20 Cfr. Antoine de la Sale, Il Paradiso della regina Sibilla, a cura di M. Montesano, San Benedetto del Tronto, I.S.S.P., 1993; I. Chirassi, Un pellegrinaggio del fantastico: itinerario al regno
di Sibilla, in AA.VV., Homo viator, a cura di B. Cleri, Urbino, QuattroVenti, 1997, pp.37-64.
21 A. Curtayne, Lough Derg: St. Patrick’s Purgatory, London and Dublin, Burns, Oates &
Washbourne, 1945; J.-M. Picard – Y. de Pontfarcy, Saint Patrick’s Purgatory: A Twelfth
Century Tale of a Journey to the Otherworld, Dublin, Four Courts Press, 1985; H. Birkett, The
Saints Lives of Jocelin of Furness: Hagiography, Patronage and Ecclesiastical Politics, Woodbridge,
York Medieval Press, 2010. Ma sul tema dell’identificazione del luogo cfr. L. Bieler, St.
Patrick’s Purgatory: Contributions towards an Historical Topography, «The Irish Ecclesiastical
Record», 93, 1960, pp. 137–144.
22 T. Atkinson Jenkins, “Espurgatoire Seint Patriz” of Marie de France: An Old–French Poem
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all’inclusione dello stesso nella celebre Chronica Majora di Matthew Paris, della prima metà del Duecento la storia circolò abbondantemente sul
continente23. Considerando che in pieno Trecento il capitano di guerra
Malatesta Ungaro sembra aver davvero compiuto il suo pellegrinaggio
in Irlanda al Pozzo di San Patrizio con lo scopo di rivedere ancora, in
visione, una sua amante morta in tragiche circostanze,24 sarà opportuno sospendere il giudizio a proposito di scritti che la nostra sensibilità
moderna c’induce troppo rapidamente a ritenere come puro frutto di
fantasia.
of the Twelfth Century, Philadelphia, Ferris, 1894, rpt. Chicago, University of Chicago Press,
1903; L. Foulet, Marie de France et la Légende du Purgatoire de Saint Patrice, «Romanische
Forschungen», 22, 1908, pp. 599–627; Saint Patrick’s Purgatory. A Poem by Marie de France, ed.
M. J. Curley, Binghampton, N.Y., Medieval and Renaissance Texts and Studies, 1993.
23 Matthew Paris, Chronica majora, ed. H. R. Luard, 2 voll., London, Longman & Co.,
1874; rpt. Nendeln, Kraus, 1964, 192–203, anno 1153; 212–14, anno 1156
24 F. Cardini, Malatesta Ungaro al Purgatorio di San Patrizio. Immaginario e realtà di un episodio italiano di cavalleria, in AA.VV., Das andere Wahrnehmen, Köln-Weimar-Wien, Böhlau,
1991
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simone donati · terraproject
tatari di crimea
Return to Motherland
Annovka village, Crimea, Ukraine. Aishe Kurtametova on her doorstep. She said it was a mistake to come
back to Crimea because her life right now is terrible. She’s ill with a low pension and her sons are ill too.
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tatari di crimea
Alexeyevka, Crimea, Ukraine. Esma Rustemov in her kitchen.
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tatari di crimea
Koreiz, Crimea, Ukraine. Mariam, the daughter of the local imam Fevsi Tasinov, plays with her dog
outside the house.
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tatari di crimea
Shernovo village, Crimea, Ukraine. Akim Adjeumerov smoking a cigarette in front of his house.
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tatari di crimea
Koreiz, Crimea, Ukraine. A moment of prayer inside the local mosque.
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tatari di crimea
Simferopol, Crimea, Ukraine. A portrait of Daniyal Ametov, Crimean Tatars protest leader.
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tatari di crimea
Lenino, Crimea, Ukraine. Muzine Gazieva with her daughters Sevilya (L) and Liyna (R). She’s 76 years
old, was deported in 1944 and came back in 1990. Her daughters were born in Uzbekistan and arrived in
Crimea in 1990.
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tatari di crimea
Annovka village, Crimea, Ukraine. A view of a field outside the village.
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fabrizio buricchi e claudia ferigo
FIRENZE
L’altra città: un giro nel mercato di San Lorenzo
S
e Firenze ha un’anima, dopo l’invasione del turismo di massa e
l’affollamento delle auto che riempiono le strade, forse la si trova nel
vecchio mercato di S. Lorenzo. San
Lorenzo è un quartiere “nobile” delimitato da una parte dalla trafficata
Via Nazionale, ma dall’altro lato è la
Basilica del santo a dettare il confine e
dall’altro ancora il palazzo della Famiglia Medici, che scelsero questa parte
della città per viverci in vita e dopo la
morte. Prima di giungere al cuore del
mercato entriamo in una sorta di girone infernale, fatto di banchi che si
incontrano e quasi si sovrastano, coperti di merce, per un turista affrettato
che in tre giorni magari deve visitare
tutta l’Italia destreggiandosi fra torri
di Pisa, maschere veneziane, sciarpe in
seta, tra i cappelli in paglia di Firenze
e le figurine dei presepi napoletani. I
banchi creano un contrasto netto con
le cupole delle chiese e le colonne dei
palazzi delle vie circostanti, ma questo
non deve preoccuparci perché è una visita diversa che ci viene offerta da questa città, che tutti al mondo, almeno
una volta, vogliono vedere. Non tutte
le guide indicano in dettaglio questo
mercato e ci si capita quasi per caso,
uscendo dalle Cappelle Medicee o dalla Biblioteca Laurenziana, che è qui a
due passi.
È solo dopo essersi districati in questa
“bolgia dantesca” di persone che cercano un varco per passare in quell’accozzaglia di cose, che notiamo l’edificio del mercato vero e proprio. È una
struttura in pietra, ferro e vetro quella
che l’architetto Lingoni costruì nel
1874 in concomitanza dell’inaugura-
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zione della Mostra Internazionale dei
fiori. Successivamente, l’allora avveniristico edificio, diventò la sede per tutti
quegli esercizi commerciali che il Poggi, l’urbanista delle ristrutturazioni di
Firenze capitale, aveva fatto sloggiare
dai “Camaldoli”, viuzze buie e insalubri che riempivano il centro dove ora
si trova la Piazza della Repubblica.
Entrando all’interno, la prima impressione è un po’ quella di un souk arabo
strabordante di merci e parole. L’attenzione viene catturata dai “brigidini”, dolcetti toscani tipici della vicina
Lamporecchio. Fra banchi di trippa,
prosciutti e formaggi, pesci, dolci, frutta e scatolame emerge una figura comunque piccolina che per puro caso
diventa il nostro Virgilio. Ivana Cenci,
è una fiorentina vera, che vive da sempre nel quartiere. Ci sommerge subito
di parole con la voglia di guidarci e farci conoscere al meglio quel luogo che è
la sua vita. Ci racconta le difficoltà del
mercato che al momento vive a metà,
essendo in ristrutturazione il primo
piano che una volta alloggiava i fruttivendoli e che adesso sono fuori in un
tendone. “Siamo in guerra con il Sindaco”, ci dice, “che si preoccupa più di
picconare l’ex convento di Sant’Orsola
per trovare la tomba della Gherardini,
più conosciuta come Monna Lisa, che
fra le altre cose per togliersi dai coglioni si era pure fatta monaca. Invece che
occuparsi del mercato che deve trovare
una soluzione e velocemente”.
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Questa sua critica però non intacca il
fascino del mercato. Ivana, infatti ci
porta a conoscere gli storici negozianti
e da loro emerge una storia che dona
ulteriore vita a questo luogo. Lei li conosce tutti, fin da quando correva fra i
banchi con un vestitino corto e enormi
fiocchi bianchi nei capelli. E così incontriamo “la Valentina” che vende la
trippa in un bancone fra i più belli, “il
Marconcini” qui da più di 50 anni a
vendere il vino, “il Trevisan” da 70 anni
qui a vendere carni, “il Pierini” che
vende alimentari, al mercato da non si
sa quanto tempo, e il famoso “Nerbone”, la trattoria del mercato, che ha i
fornelli accesi dal 1870.
Ivana ci racconta della differenza fra i
commercianti, che sono quelli di una
volta che lavorano con integrità e correttezza e i “bottegai” che sono per i
turisti e loro sono li “a fare ciccia”. Fra i
commercianti quindi incontriamo Paolo, macellaio, che ci parla di come il
mercato cambia perché il mercato dei
fiorentini si sta aprendo agli stranieri
che fanno i lavori più umili incalzato
da Alessandro, la cui ortofrutta è presente al mercato dal 1926, che ci conferma che i giovani non vogliono fare
più questi lavori perché “voglion fare
tutti i dottori… ma quanti malati ci
devono essere in futuro!?” Intanto un
cliente indiano si avvicina e d’improvviso Alessandro cambia tono e lo saluta
amichevolmente: “Willie, mi chiamo
Willie signori, e vengo da lontano!”
bollettino 2012 | report
Ivana, mentre ci spostiamo da un banco all’altro, ci racconta di quando da
piccolina, ancora con i suoi enormi
fiocchi nei capelli, veniva menata da
Don Armando, prete in San Lorenzo,
dopo che aveva preso a sassate i vetri
delle finestre della chiesa. Cerchiamo
di immaginarci la scena e San Lorenzo
si tinge di un color seppia, da vecchia
fotografia.
Ivana ci fa conoscere Luciano, un altro
storico negoziante, che qui chiamano
“il presidente”. Non sappiamo se sia
veramente il presidente di qualche cosa
ma il suo attaccamento a questo mercato è veramente forte, fino alla commozione. Suo nonno era già qui quando i fascisti gli tolsero per ben due volte
la licenza perché non voleva la tessera
del fascio. “Il mercato è cambiato perché sono cambiati i fiorentini”, ci dice,
“e il vero negoziante si adegua ai nuovi
acquirenti. Se una volta c’erano fino a
250 banchi adesso non si arriva a un
centinaio”.
Il mercato centrale ha servito tutta
Firenze per tanti anni, quando ancora
non c’erano i supermercati e in centro
si arrivava senza problemi. I negozianti vogliono continuare a fare questo,
rispettare la tradizione, accontentare
i loro clienti e non essere personaggi
di un museo per turisti. San Lorenzo
deve ritornare ad essere il luogo dove
la gente si incontra. Qui capitavano
gli accademici della Crusca, il rettore
dell’Università e il “Pacini” dell’Isti-
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tuto Seminiano e mentre compravano trippa e lampredotto, parlavano di
storia e filosofia con gli acquirenti e i
negozianti e da quest’incontro nasceva
la vera cultura. Quella cultura non solo
accademica ma anche popolare perché
qui si veniva anche per raccontare le
proprie storie e le storie di tutti: per
aggiornare e rimanere aggiornati.
Marasco in una delle sue canzoni parla della Beatrice che faceva la spesa al
mercato di via dell’Ariento.
E la figura di Beatrice, quella di Dante
certo, ci riporta alla nostra Ivana che
rivendica da questa, una discendenza. Nel lasciare il mercato verso via
Sant’Antonino ci racconta ancora di
lei e dei sui grossi fiocchi bianchi inviata di corsa dal padre a comprare per
10 lire 5 sigarette di numero. Nel suo
ritorno al presente ci saluta con una
amara conclusione: “se i grandi di un
tempo vedessero la Firenze di oggi
cancellerebbero tutto quello che hanno
fatto”.
Forse ha ragione ma noi al Mercato
Centrale abbiamo trovato le storie di
una Firenze vera, di un luogo che è
stato il cuore pulsante di questa città
e vuole continuare ad esserlo. Ciò che
auguriamo a tutti quelli che verranno
qui è di trovare una Ivana che aiuti a
comprendere ancora di più l’anima di
magia e storia di quest’altra Firenze.
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Società Italiana dei Viaggiatori
alessandro agostinelli
Istanbul, Bisanzio,
Constantinopoli
La Città nelle pagine di Brodksij, De Amicis, Markaris
L
a nave parte da Ancona e arriva a Igoumenitsa. E da lì fino in
Tessaglia, per una tappa a Salonicco, nella parte anatolica della Grecia.
Dopo altri 600 chilometri, tra Kavala,
Alexandroupoli, fino al confine con
la Turchia, poi Ipsala, e ancora avanti, per lande turche desolate e deserte.
Un attraversamento del niente, sotto
il solleone, con camioncini malandati
e trattori lentissimi che camminano
controsenso sulla corsia di emergenza
della superstrada. A circa 40 chilometri da Istanbul comincia la città, cioè
le periferie della metropoli turca che
conta ormai sedici milioni di abitanti.
E appena entrati nell’abitato comincia
un torpedone di camion, furgoni, auto
e taxi impressionante.
Il traffico di Istanbul è come una turba
di piccioni intorno a un monumento:
invasivo e inquinante. E tocca sorbirlo
tutto per raggiungere Sultanhammet,
vero cuore antico della città ottomana.
Istanbul sembra ancora condizionata dal caos dello sviluppo. In meno di
venticinque anni dicono che la sua area
metropolitana sia passata da 6 milioni di abitanti a 16 milioni attuali. Ma
il segno distintivo di questa comunità
si gioca ancora tra reislamizzazione
e tensione verso l’Europa. Infatti la
Turchia ha ancora le basi solide della
rivoluzione culturale di Ataturk, lo statista padre della Turchia moderna: fu a
capo del movimento di liberazione turco, abolì il sultanato, creò la divisione
tra stato e religione, sostituì il diritto
islamico col codice civile, dette il voto
alle donne, operò la riforma linguistica,
abolì gli ordini religiosi, il velo per le
donne, il fez e il caftano.
Resta il fatto però che a Istanbul, soltanto fra il 1985 e il 1988, sono state costruite 306 nuove moschee. E in
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bellezza universale e sovrana, dinanzi
alla quale il poeta e l’archeologo, l’ambasciatore e il negoziante, la principessa e il marinaio, il figlio del settentrione
e il figlio del mezzogiorno, tutti hanno
messo un grido di maraviglia. È il più
bel luogo della terra a giudizio di tutta
la terra. Gli scrittori di viaggi, arrivati
là, perdono il capo”.
E il Nobel russo, Josif Brodskij, centodieci anni più tardi, nel 1985, ha scritto
Fuga da Bisanzio (Adelphi, 1987) che
ci illumina soprattutto sul rapporto tra
Est e Ovest, tra Cristianesimo e Islam.
Lui dice che la croce apparsa in sogno
a Costantino (alla vigilia della sua vittoria su Massenzio) non era in realtà
Non c’è altro luogo più strategico di una croce cristiana, ma una croce urquesto. Bisanzio era il crocicchio del bana, l’elemento fondamentale di ogni
mondo, una prua di case ficcata tra insediamento romano (cardo e decuOriente e Occidente. E quando Co- mano). La frase cristiana della crostantino, l’imperatore romano conver- ce, In hoc signo vinces, non era per lui
tito al Cristianesimo, arrivò qui, dopo un’affermazione spirituale, ma un amaver visitato quel che restava di Troia, pliamento del suo potere personale, del
pensò bene di fondare la nuova capitale suo controllo su tutto l’impero, d’Ocdell’Impero romano, la seconda Roma, cidente e d’Oriente. Il vinces, quindi,
forse per la meraviglia speciale che lo aveva un significato non solo militare,
attrasse in questo luogo. Non fu da ma anche amministrativo, fatto di fonmeno l’autore del libro Cuore, quando dazioni e città, vale a dire una pianta
nel 1875 riuscì finalmente ad arrivarci: urbana a croce, cioè il principio ispira“Su Costantinopoli infatti – scrive Ed- tore di ogni insediamento. Costantino
mondo De Amicis – non ci son dubbi; era uomo d’azione, perché Imperatore
anche il viaggiatore più diffidente ci va e perché vedeva in se stesso l’incarnasicuro del fatto suo; nessuno ci ha mai zione e lo strumento del principio liprovato un disinganno. E non c’entra neare dell’esistenza. Così nasceva l’Ocil fascino delle grandi memorie e la cidente: una linea retta tesa in avanti,
consuetudine dell’ammirazione. È una sia spazialmente sia temporalmente.
questi ultimi anni la crescita dei partiti
politici di ispirazione islamica sembravano essere una sorta di risposta al
crescente impoverimento e alla disoccupazione di massa, anche se in realtà
la presenza e l’attrazione dell’Europa è
forte e i governanti turchi cercano da
tempo di entrare nell’Unione. Proprio
Istanbul Capitale della Cultura Europea 2010 è stato il primo passo forte
verso questo ingresso. Sempre che la
Turchia cominci a modificare alcune
questioni basilari, come il reato d’opinione e la pena di morte che comunque non è stata più applicata da oltre
un decennio.
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Per lui Bisanzio era una croce in senso simbolico, ma anche letterale, cioè
un’intersecazione di rotte commerciali,
di strade carovaniere. Per questo forse
il traffico è così intenso qui: anche oggi
si tiene fede al principio costantiniano.
E lo stretto del Bosforo è un via vai
di mercantili e petroliere che dal Mar
Nero lo attraversano, passando per il
Mar di Marmara fino all’Egeo e poi al
Mediterraneo.
Istanbul come groviglio di popoli e
luogo di poteri che nel tempo hanno
costruito ininterrottamente modi di
città differenti e uno sull’altro, come
nota anche lo scrittore Petros Markaris: “Piano piano riesco a capire la
contraddizione urbanistica di Costantinopoli. Ha enormi boulevard, ma con
certi negozietti ai lati che ricordano le
bottegucce di giochi e articoli tipo luna
park che si trovavano attaccati all’antica Agorà […] Corriamo lungo la litoranea, la stessa che avevamo percorso
entrando nella Città, ma stavolta in direzione opposta, verso l’aeroporto. Alla
mia sinistra il Mar di Marmara, che
vedo e non vedo oltre le mura bizantine, quindi enormi centri commerciali,
parchi con vecchi e giovani che pescano con la canna, vecchiette sedute
sulle panchine e bambini che giocano.
Quando si intravede il mare, scorgo i
candidi battelli della linea urbana che
incrociano bordeggiando la riva del
porto, tra chiatte, piccoli traghetti e
battelli turistici. Alla mia destra sfilano
Società Italiana dei Viaggiatori
delle taverne che assomigliano molto ai
nostri ristoranti sul mare: costruzione
di vetro, compensato con su una mano
di vernice e formica. I tavoli, fuori e
dentro, disposti alla rinfusa”.
Quindi tre scrittori per una città:
Brodskij che ne parla prendendola
come spunto filosofico per analizzare
certe differenze tra Oriente e Occidente, Markaris che nel suo giallo La balia
(Bompiani, 2009), ha scritto una guida
puntuale su Istanbul e De Amicis che
nel 1877 scrisse un reportage giornalistico intitolato Costantinopoli (Einaudi, 2007).
Questi tre libri, tra i tanti che raccontano Istanbul, sembrano descrivere la
città a fondo. De Amicis, Brodskij e
Markaris entrano dentro Costantinopoli, Bisanzio, Istanbul offrendoci col
racconto la bellezza, le contraddizioni
e la vitalità di quella che da sempre è
semplicemente la Città.
E nella Città c’è un’altra città che è il
Gran bazar dove nulla è mai cambiato nelle armi insinuanti dei mercanti
che adottano i trucchi più subdoli pur
di vendere qualcosa. Markaris descrive proprio una trattativa d’acquisto
all’interno del bazar, con la romea
turca Maria Mouràtoglou che riesce
a comprare un oggetto al prezzo più
conveniente, insegnando il trucco della
trattativa con i mercanti alla moglie del
protagonista del romanzo La balia. E
bollettino 2012 | report
anche più di un secolo fa era così, come
racconta De Amicis: “In ogni parte si è
apostrofati a parole e a cenni. Il mercante greco chiama ad alta voce e gesticola in atto quasi imperioso; l’armeno,
altrettanto furbo, ma d’apparenza più
modesta sollecita con maniere ossequiose; l’ebreo sussurra le sue offerte
nell’orecchio; il turco silenzioso, accosciato sopra un cuscino sulla soglia della bottega, non invita che cogli occhi e
si rimette al destino. Dieci voci insieme vi chiamano: Monsieur! Captain!
Caballero! Signore! Eccellenza! Kyrie!
Milord! […] Se poi tenete duro, v’insaponano; vi dicono che parlate bene la
loro lingua, che avete un fare da gentiluomo e che non dimenticheranno
mai più la vostra bella figura; vi discorrono del vostro paese, nel quale sono
stati molto tempo, perché sono stati da
per tutto; vi fanno il caffè, vi offrono
d’accompagnarvi alla dogana quando
partirete, per impedire che vi facciano
dei soprusi, ossia per truffar voi, la dogana e i vostri compagni di viaggio, se
ne avete; mettono sottosopra tutta la
bottega, e non vi fanno punto il viso
arcigno se ve n’andate senza comprare:
se non è quel giorno, sarà un altro; al
bazar ci dovete tornare, i loro cani da
caccia vi riconosceranno; se non cadrete nelle loro mani, cadrete in quelle di
un loro socio; se non vi peleranno come
mercanti, vi scorticheranno come sensali; se non vi aggiusteranno in bottega,
vi serviranno la messa alla dogana; il
colpo non può fallire”.
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Uno stambuliota si trova nel proprio
elemento solo nell’infinito aggrovigliarsi – secondo disegni simili a quelli del tappeto o a quelli dei muri delle
moschee – delle gallerie a volta che
formano la ragnatela del bazar, che è
il cuore, la mente e l’anima di Istanbul.
È una città dentro la città; è costruito
anch’esso per i secoli.
Scrive Brodskij: “Vi sono luoghi in cui
la storia è inevitabile, come un incidente automobilistico – luoghi in cui
la geografia provoca la storia. Uno è
Istanbul, alias Constantinopoli, alias
Bisanzio”.
Scrive l’ultima edizione della guida
Edt-Lonely Planet: “La Turchia ha un
tasso di incidenti tra i più alti del mondo. I turchi alla guida sono impazienti
e imprudenti. Amano l’alta velocità e
sembrano avere un irrefrenabile bisogno di sorpassare. In teoria, in Turchia
si guida a destra. In pratica i turchi guidano al centro della strada e non danno
la precedenza a nessuno. È anche consuetudine sorpassare prima di una curva cieca: se sopraggiunge un veicolo nel
senso opposto, tutti e tre gli automobilisti frenano bruscamente e pregano di
uscirne indenni. La segnaletica stradale internazionale è presente, ma è raro
che venga osservata. Per avere maggiori possibilità di sopravvivere alle statali
turche, guidate con estrema cautela,
restando sempre sulla difensiva, e non
lasciatevi mai sopraffare dall’emotività.
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Evitate di guidare di notte, quando è
assai difficile riuscire a vedere le buche
del manto stradale, gli animali che attraversano e persino i veicoli che viaggiano a fari spenti!”
Nella vita di tutti i giorni Istanbul è
una città che nei suoi quartieri più interessanti come Sultanhammet, Fatih,
Sirkeci, Eminonu, Beyoglu, Besiktas,
Uskudar non dà particolari preoccupazioni. Non ci sono apparentemente
episodi di microcriminalità, nemmeno
nei luoghi più affollati come il tramway
che corre lungo la direttrice tra il Mar
di Marmara e il Corno d’oro, attraversando il Ponte di Galata e dirigendosi
verso est fino a Kabatas. Tantomeno
nella parte più vitale tra la torre di Galata e Taksim, sulla Isitklal Caddesi,
dove una volta si estendeva la zona
di Pera (luogo di vita e commerci dei
Romei), e dove si arrampica il piccolo
e vecchio tram rosso, a cui i ragazzini
si arrampicano dall’esterno rischiando
di cadere a ogni passo, urtando spesso
volontariamente le borse degli acquisti dei passanti. L’unico pericolo che si
corre in Città sono le peripezie dei tassisti e delle auto che non permettono
mai ai pedoni di avere la precedenza, e
se non si fa attenzione ti vengono con
le ruote ai piedi anche sulle strisce e rischiano di incastrarsi nei tuoi polpacci.
Costantino vide una città che si sporgeva sul Mar di Marmara, una città
difendibile se veniva eretta una mura-
Società Italiana dei Viaggiatori
glia intorno, e così fece: mura per oltre trenta chilometri, mura che ancora
oggi si ergono alte sul blu del mare.
Egli capì che dalle finestre dei palazzi
la vista sarebbe stata da straordinaria,
da togliere il fiato: tutta l’Asia sotto gli
occhi. E tutta l’Asia avrebbe guardato
stupita le croci innalzate. Ma non vide
che aveva a che fare con l’Est.
“Dopo dieci secoli di Cristianesimo
che si orientalizzava, arrivò la mezzaluna dell’Islam e Costantino non
poteva sapere che l’antindividualismo
dell’Islam, il monologo del Corano,
avrebbero trovato a Bisanzio un terreno così propizio. Il Cristianesimo
fuggì a nord e il terreno bizantino fu
favorevole alla nuova religione per la
composizione etnica della città: un miscuglio di razze e nazionalità al quale
mancava ogni ricordo di una qualsiasi
tradizione coerente di individualismo”
– scrive Brodskij – “Così ebbe spazio
l’Islam, che come l’Est significa prima
di tutto una tradizione di obbedienza,
di gerarchia, di profitto, di commercio,
di adattabilità, estranea ai principi di
un assoluto etico”.
E quanta sottomissione a un potere
maschile può esserci in tutte quelle
donne che a Sultanahmet, nel pieno
della zona turistica per eccellenza della Città, camminano, in pieno agosto,
nel solleone impietoso di questo pezzo
di mondo, col capo coperto, chiuse in
lunghissimi trench che dal collo arrivano ai piedi, indossano calze di nylon
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spesse dentro a scarpe chiuse. Oppure sono completamente oscurate da
un’uniforme casacca nera che le copre
dai piedi fino sulla testa, dove l’unica
cosa che resta in vista sono gli occhi.
Alcune hanno guance rosse e sudate,
e stanno dietro i loro mariti gentili
che vestono in maglietta, pantaloncini e sandali. In certi casi sono due per
ogni uomo. Certamente due mogli
dello stesso marito, visto che la religione musulmana permette la poligamia,
pur se Maometto aveva detto che “è
sempre lodevole chi sposa una donna
sola”, benché egli ne avesse sposate parecchie. Alcune di loro, che hanno la
faccia più in vista, sorridono.
È proprio su questo aspetto che quasi 150 anni fa De Amicis concludeva
il suo reportage, notando dei cambiamenti positivi della società turca,
che però oggi sono in fase di regressione per l’intensa ripresa dell’Islam:
“C’è una gran cosa da dire a conforto
di tutti coloro che lamentano la sorte
della donna turca, ed è che la poligamia decade di giorno in giorno. Sono
pochi i turchi che sostengono la poligamia apertamente, più rari quelli che
l’approvino nella loro coscienza. Quasi
tutti ne comprendono l’ingiustizia e le
male conseguenze. Quattro quinti dei
turchi di Costantinopoli non sono più
poligami. Molti, è vero, non sposano
che una donna per la manìa d’imitar
gli europei; e molti altri, che hanno
una moglie sola, si rifanno colle oda-
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lische. Ma quella manìa d’imitazione
ha le sue prime radici in un sentimento
confuso della necessità d’un cangiamento nella società musulmana; e l’uso
delle odalische, apertamente biasimato
come vizio, non può che scemare col
restringersi del commercio, ancora tollerato, delle schiave, fin che si confonderà colla corruzione ordinaria di tutti
i paesi europei. Ne nascerà una corruzione maggiore? Questo è il fatto: che
la trasformazione europea della società
turca non è possibile senza la redenzione della donna, che la redenzione della
donna non si può compiere senza la caduta della poligamia”.
Aveva visto lungo il De Amicis, e certo
alla sua epoca la Turchia, con l’impero
ottomano ormai in disfacimento, stava
realmente avvicinandosi a forti passi
(molti più grandi ne avrebbe fatti nel
Novecento sotto Ataturk) all’Europa.
Eppure quello che si nota oggi, soltanto passeggiando per le vie di Istanbul,
sembra evidenziare piuttosto un ritorno alla poligamia e una crescente maggioranza di donne coperte.
t o trav el hopeful ly is a be t ter th i n g t h a n t o a r r i v e
Robert Louis Stevenson
Finito di stampare nel gennaio 2012
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