la francia e le sicilie

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FRONTIERA D’EUROPA - STUDI E TESTI
I S T I T U T O I TA L I A N O P E R G L I S T U D I F I L O S O F I C I
LA FRANCIA E LE SICILIE
STATO E DISGREGAZIONE SOCIALE
NEL MEZZOGIORNO D’ITALIA
DA LUIGI XIV ALLA RIVOLUZIONE
R. TUFANO
LA FRANCIA E LE SICILIE
ROBERTO TUFANO
NELLA SEDE DELL’ISTITUTO
Esemplare
fuori commercio
2015
NAPOLI 2015
F R O N T I E R A D ’ E U R O PA
STUDI E TESTI
Nuova Serie
Collana diretta da Raffaele Ajello
4
Frontiera d’Europa - Studi e Testi
Il Mezzogiorno ha costituito, rispetto all’espandersi dell’Islam,
il piú tormentato confine tra due mondi, l’avamposto d’Europa,
un argine a difesa della civiltà occidentale. E tuttavia le popolazioni
meridionali, finite ai margini dell’orbita spagnola, furono disarmate dal governo centrale, che della nobiltà di spada non poteva
fidarsi, avendone sperimentato l’indipendenza. Infatti la sanguinosa rivoluzione che scoppiò a Napoli nel 1547 contro la violenta
autocrazia del viceré Pedro de Toledo indusse la corte spagnola ad
adottare verso i benestanti una mediazione politica fondata sull’incremento del debito pubblico, la cui amministrazione e tutela
fu affidata alle magistrature di toga e ai Seggi nobiliari di Napoli.
Ne nacque un modello di sviluppo ‘coloniale’, che esaltò la burocrazia, mortificando, con la gente d’armi, la tecnologia, la difesa
dei mercati e lo spirito imprenditoriale. Inoltre impedí che si superasse l’ambigua conciliazione medievale tra formalismo idealistico assoluto e dominio pratico dell’egoismo e del cinismo.
Il Sud d’Italia, pertanto, si ridusse, durante altri tre secoli, ad
oggetto passivo della produzione e del commercio altrui. Il naturale
processo d’introversione dei condizionamenti esterni ha favorito
caratteri culturali riflessivi, inclini all’umanitarismo, alle esperienze
giuridiche, letterarie, religiose, estetiche, e non al rigore sociale, che
è fonte della coesione e del benessere collettivo. Una fase reattiva
ebbe impulso dall’empirismo illuministico. Ma l’immagine disegnata nel secolo scorso dalla prevalente storiografia meridionale è
ancora del tutto interna alle ormai anacronistiche visioni soltanto
ideali: perciò ne è necessaria una profonda revisione.
Da queste esigenze scientifiche, politiche e culturali nacque
nel 1995 la rivista semestrale «Frontiera d’Europa. Società, economia, istituzioni, diritto del Mezzogiorno d’Italia». Dieci anni dopo,
in base ad una comune progettazione con l’Istituto Italiano per gli
Studi Filosofici, parve utile affiancare al periodico una collana di
studi e testi, espressione degli stessi orientamenti storiografici e
metodologici. Dal 2014 ha avuto inizio una nuova serie di questa
collana, che mette gratuitamente a disposizione i volumi on line,
sul sito “www.frontieradeuropa.it”, e ne pubblica a stampa soltanto
le copie destinate alle biblioteche ed agli omaggi.
ROBERTO TUFANO
LA FRANCIA E LE SICILIE
STATO E DISGREGAZIONE SOCIALE
NEL MEZZOGIORNO D'ITALIA
DA LUIGI XIV ALLA RIVOLUZIONE
NELLA SEDE DELL’ISTITUTO
NAPOLI 2015
La collana «Frontiera d’Europa - Studi e Testi»
fa parte delle attività editoriali e scientifiche
dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici
Direttore:
Raffaele Ajello
Condirettore:
Francesco Di Donato
Vicedirettore:
Raffaele Iovine
Comitato scientifico:
Orazio Abbamonte, Giorgia Alessi, Andrea Amatucci, Imma Ascione,
Gianfranco Borrelli, Nicola D'Antuono, Ileana Del Bagno, Robert Descimon, Vanda Fiorillo, José Maria Garcia Marín, Jacques Krynen,
Dario Luongo, Aldo Mazzacane, Renata Pilati, Albert Rigaudière, Andrea Romano, Mario Tedeschi, Roberto Tufano, Dale K. Van Kley, Ortensio Zecchino, Silvio Zotta
Comitato redazionale:
Giuseppe F. de Tiberiis, Saverio Di Franco, Rocco Giurato, Maria Luisa
Pisacane, Gerardo Ruggiero, Sonia Scognamiglio, Massimo Tita
56'"/0, RPCFSUP7FSTPMBHJVTUJ[JBQSPEVUUJWB6OhFTQFSJFO[BEJSJGPSNBOFMMFEVF4JDJMJF
Collana: Frontiera d’Europa - Studi e Testi, Nuova Serie, Napoli: Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, 20
56'"/0
, RPCFSUP
pp.
9**+26;
24 cm.
-B'SBODJBFMF4JDJMJF4UBUPFEJTHSFHB[JPOFTPDJBMFOFM.F[[PHJPSOPEh*UBMJB
ISBN
978-88-89946--
EB-VJHJ9*7BMMB3JWPMV[JPOF
Edizione
riveduta
e corretta
©
2015 Istituto
Italiano
per gli Studi Filosofici
Collana: Frontiera d’Europa - Studi e Testi, Nuova Serie, 4
Napoli: Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, 2015
pp. 9X+38; 24 cm.
Questo
libro è scaricabile gratuitamente dal sito “www.frontieradeuropa.it”. Ne sono state
ISBN 978-88-89946-1-1
stampate copie recanti la scritta “Fuori commercio”, destinate agliPNBHHJ
© 2015 Istituto Italiano per gli Studi Filosofici
Questo libro è scaricabile gratuitamente dal sito “www.frontieradeuropa.it”. Ne sono state
stampate copie recanti la scritta “Fuori commercio”, destinate agliPNBHHJ
a Saverio, ingegnere ``inglese'',
ad Emanuele, adolescente svagato
e calciatore ``cosmopolita'',
al piuÁ piccolo Tufano, ad oggi bimbo
``siciliano'' senza ancora un nome:
per un avvenire
di cittadini della ``globalitaÁ''.
SOMMARIO
Introduzione
Raffaele Ajello, Per una storia globale delle mentalitaÁ,
contro il pulviscolo dei meri fatti e degli astratti ideali
xi
Nota dell'autore
xvii
Abbreviazioni
xix
I - La nuova storiografia «aÁ part entieÁre»
1. Il superamento di ogni approccio nazionalistico
2. Il primato dello scontro tra `modelli' istituzionali, culturali, sociali
3. Nuovi significati complessivi della politica francese
4. Parametri storici e storiografici per la Successione in Italia
5. Il Re Sole: abuso ideologico della sua personalitaÁ
6. Nuovi punti di vista ed una storia inedita
1
5
12
17
23
30
II - La societaÁ meridionale dall'anomalia al collasso
Prostrazione della nobiltaÁ e parassitismo ministeriale a Napoli
1. Guerra di successione spagnola: modelli costituzionali a confronto
2. Profonde finalitaÁ politiche di Luigi XIV
3. I precedenti sociali ed istituzionali
4. La crisi della societaÁ meridionale nella sua fase estrema
5. La politica sociale del Re Sole: ostacoli esterni ed interni
6. Luigi XIV alla ricerca della (incerta) fedeltaÁ napoletana (1701)
7. La congiura contro i «gallispani» (1701)
8. «Non possono stare insieme Francesi - LibertaÁ - Repubblica»
9. Napoli, la repubblica togata si fonda sul debito pubblico
10. Rilancio del commercio e rinuncia alla difesa statica
11. Il disarmo mentale preclude la nascita dello Stato moderno
12. Un nobile descrive il quadro politico-cetuale napoletano
37
40
46
50
55
60
68
76
83
89
93
99
viii
sommario
13. Una nobiltaÁ incapace d'essere «ordine»
14. Conclusioni: dall'anomalia al collasso
108
118
III - La politica di Luigi XIV:
rilancio delle province e controllo della capitale
1. Inconfidenti della Spagna e cugini di Luigi XIV
2. Santo Buono indica i «rimedi»: giustizia e decentramento
3. Il tentativo di ridimensionare il Collaterale: l'azione di La TreÂmoõÈlle
4. Lo scontro con la chiesa romana e la censura francese
5. Propaganda ed opinione francofoba (1704)
6. FedeltaÁ politica e «raggioni economiche»
7. Conclusioni
121
131
136
143
150
159
163
IV - Tendenze di metaÁ secolo:
tentativi di adottare l'economicismo francese
1. Le difficili letture della politica tardomercantilista
2. Nuove prospettive di ricerca sul commercio settecentesco
3. Influenza commerciale francese in Spagna alla fine del Seicento
4. Il tardo colbertismo in Sicilia: Los BalbaseÁs (1707-1713)
5. Nuovo interesse per il commercio a Napoli in epoca austriaca
6. I problemi interni ed internazionali del nuovo Regno indipendente
7. Il breve governo degli afrancesados sulle Sicilie
8. Giunta di Commercio borbonica e scontro con la Francia (1735-56)
9. Conclusioni
165
168
173
179
189
194
199
204
211
V - Oltre la metaÁ del secolo:
la Francia dal dominio all'influenza politico-culturale
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
8.
9.
10.
Fallimento dell'unione di fatto tra le due corone borboniche (1715)
«InveÂteÂre antipathie» spagnola contro la Francia: cause profonde
Disprezzo delle ambiguitaÁ e falsificazioni togate
SocietaÁ francese: sintesi collaborativa, non esclusivismo sacerdotale
La ratio della Francia, come l'olio, sta sempre «en cima»
I `partiti' francesi: opposte valutazioni di politica estera
Il problema dell'influenza austriaca sulla Sicilia borbonica
Galiani e Tanucci: la Francia blocca l'economia delle Sicilie
Alle Sicilie era consentita soltanto la navigazione piu leggera
L'enorme dislivello tra le parti impedisce un equo commercio
217
221
225
234
237
241
245
249
253
261
sommario
11.
12.
13.
15.
Il contrabbando: punto critico del contrasto ed affare di Stato
Vergennes contro la giurisdizione napoletana di commercio
Il minuetto diplomatico dei francesi
Conclusioni: obbligati a non uscire dal medio evo
ix
265
271
279
283
VI - La corte di Napoli
Problemi e protagonisti degli anni Settanta
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
Breteuil a Napoli: l'inizio della diplomazia «libertina»
Due protagonisti, tra libertinismo e politica: Breteuil contro Tanucci
I pertinenti giudizi di Breteuil
Ferdinando secondo Breteuil: un'educazione mostruosa
Origini della crisi etica: l'influenza dei Castropignano (1746-1766)
Guerra dei sessi e potere nella cour de Naples: Maria Carolina
Tanucci: limiti dello statista e della corte, secondo Breteuil
287
295
301
306
310
315
323
VII - La caduta di Tanucci: Sicilie asburgiche?
Dalla rivolta di Palermo all'intrigo
1.
2.
3.
4.
5.
La «fiera guerra» siciliana diventa guerriglia urbana
Tanucci golpista?
Il disagio del sistema: segni di distacco di Tanucci dal `suo' Re
Il significato della caduta di Tanucci fu anche epocale?
Conclusioni: la Francia dominava sia nella tesi sia nell'antitesi
Indice dei nomi
333
337
342
346
352
361
xi
INTRODUZIONE
PER UNA STORIA GLOBALE DELLE MENTALITAÁ
CONTRO IL PULVISCOLO DEI MERI FATTI E DEGLI ASTRATTI IDEALI
La storia e la storiografia delle Sicilie sono state a lungo sotto
l'influenza di un sistema d'idee previe che fu tipico degli uomini di
toga: era una mentalitaÁ caratterizzata da una forte, ma falsa proiezione idealistica, da un apparente anelito verso valori etici superiori,
universali, non mondani che, all'atto pratico, fungevano da copertura
nel rendere piu facile l'esercizio del dominio di quel ceto. Le strutture mentali di ogni specie vivente sono formate dal sedimentarsi
delle esperienze vissute. PercioÁ eÁ credibile la tesi che nelle societaÁ
subalpine la tendenza a nascondere gli interessi reali dietro idealitaÁ
fittizie sia la conseguenza di uno squilibrato andamento storico dell'esperienza giuridica; eppure la forza della toga fu uno dei pochi
fattori comuni alle popolazioni italiane. Certo eÁ che esse, a differenza
di altre, solo molto tardi, dal Risorgimento in poi, hanno potuto
iniziare a correggere quella distorta formazione del super-io sociale.
Gli storici di antico regime, Pietro Giannone compreso, e poi
quelli dei secoli seguenti, sono stati quasi sempre condizionati, in
modo inavvertito ed intimo, da quella tendenza del pensiero. Era
una formula che si eÁ radicata a fondo nella memoria storica degli
intellettuali di cultura umanistica, ed ha riprodotto i caratteri essenziali delle societaÁ d'antico regime, rispecchiando l'assetto sociale, cetuale e culturale in cui si riconosceva la vita pubblica. Gli studiosi che
ancor oggi sono (piu o meno coscientemente) legati alle vecchie tradizioni nazionali cercano di oggettivare e di esorcizzare quelle formae
mentis; infatti essi sanno che il pensiero eÁ da secoli indirizzato in una
ben diversa direzione, ossia tende al realismo, alla critica razionale, a
xii
introduzione
dare spazio prevalente ai dati empirici, esistenziali, economici, ideologici. Ma l'operazione diretta ad immunizzare le menti da quel circuito vizioso non eÁ facile. Si perviene, percioÁ, ad involuzioni, complicazioni e contorcimenti quasi incredibili, eppur palesi, di cui un lungo
elenco si potrebbe esporre, e riguarderebbe molti ricercatori ancor
oggi in attivitaÁ; ma qui non eÁ possibile allargare troppo il discorso.
Basti un solo esempio, notevole perche relativo al piu illustre e
piu valido di quegli studiosi: Benedetto Croce. Egli sentõ il bisogno di
premettere alla sua Storia del regno di Napoli una lunga Introduzione
(circa quaranta pagine) interamente diretta a sviluppare un'esplicita
polemica con le manifestazioni, ancora molto attive ai tempi suoi, di
quel falso idealismo giuridico super partes. Lo storico-filosofo abruzzese vi racconta di essere stato portato nelle «latebre della storia
dell'Italia meridionale», quasi per mano, egli, novello Dante, da un
meno antico ed assai piu modesto Virgilio, il buon giurista Enrico
Cenni. A farla breve, Croce tenne a mettere in mostra che presto si
era sottratto alle forti suggestioni del suo Mentore. I misteri da lui
esaltati, le segrete profonditaÁ da lui idolatrate gli apparvero meri
strumenti del potere esercitato da un ceto professionale che faceva
i propri sacrosanti interessi, rivestendoli di finalitaÁ etiche universali.
Cenni aveva scritto che quella grande «nostra robusta e nazionale
scienza» giuridica «domandava solo di essere rammodernata»; e che
fu invece, nel secolo XIX, scalzata e «sostituita» da un'altra «scienza
superficiale e leggiera, importata da fuori»; in conseguenza noi meridionali diventammo «miserabili e servili copisti di Francia». Non a
torto Croce si domandoÁ: «Come mai tutta questa sublime storia
napoletana [...] non eÁ generalmente conosciuta, anzi eÁ generalmente
disconosciuta o negata?».
Tuttavia la sua Storia eÁ anch'essa una vicenda che si libra a
mezz'aria, intessuta di astratte visioni ideali, anche piu vaghe della
Jurisprudentia come scientia divinarum atque humanarum rerum. Poiche Croce avvertõ che a quelle res era indispensabile attribuire un
profilo corporeo, descrisse cosõÂ il protagonista della sua sintesi: «il
partito degli intellettuali». Non meglio identificato. Ma in questo
modo, egli continuoÁ a porsi fuori dal livello esistenziale, che si ma-
introduzione
xiii
nifesta sempre nello scontro effettivo, nella dialettica tra ben concrete pulsioni ed idee, fra corposi interessi.
Nell'antico regime di regola vinceva il partito della rinuncia e
dell'acquiescenza, che Genovesi indicoÁ come obbediente alla logica
«del non si puoÁ», secondo cui nulla va cambiato; ma, tra mille difficoltaÁ,
alcuni ardimentosi fecero sentire la loro voce sostenendo la necessitaÁ di
puntare con coraggio sulla produttivitaÁ materiale. Bisognava fare chiarezza, essere sinceri, superare la rassegnazione e difendere coraggiosamente l'economia. Notarono che era inutile costruire, intorno a Napoli, in un crescendo parossistico, dopo il primo palazzo reale, giaÁ
enorme, un secondo, poi un terzo, infine un quarto, immenso; bisognava rafforzare la flotta, proiettarsi sul mare, imparare a difendersi, e
cosõÂ progredire anche mentalmente. Questo pensavano gli uomini ``del
dissenso'', ancor oggi trascurati dagli storici. Prima Biscardi, poi Intieri
e Montealegre, infine Genovesi e la sua scuola imboccarono questa via.
La reazione contro lo status quo seguõÂ una linea critica che era nata da
Francesco D'Andrea. Intanto Vico si adoperava a teorizzare la ciclicitaÁ
perenne. Fraggianni assunse una posizione moderata, ma attiva. Tanucci, animato da eccessi di rivalitaÁ personale e di moralismo, non
seppe far altro che criticare. Tardi si rese conto che il suo atteggiamento
di iper-realismo machiavelliano significava abbandonare ogni spazio
della vita civile al potere (internazionale) della Francia e (interno) della
toga. EÁ un caso che la vecchia storiografia, da Schipa a Marongiu, non
ha saputo apprezzare l'audacia di Montealegre, e che ancor oggi si
preferisca Vico e G. P. Cirillo alla cultura del dissenso?
Per esorcizzare gli idealismi spettrali, rivestiti allora di toghe nere
o rosse, e poi tradotti nelle sintesi hegeliane che adottarono quegli
stessi colori, l'uno contro l'altro, non basta negare la loro realtaÁ, o
emettere un verdetto di condanna. Croce adoperoÁ a questo proposito
uno strumento di demolizione tipicamente idealistico: scrisse che
quelle idealitaÁ, non essendo vere, non esistevano. La sua fu una dichiarazione di fede: secondo lui, solo il Vero avrebbe Ragione di
essere, e percioÁ vincerebbe sempre. PuoÁ darsi. EÁ confortante sperarlo.
Sul piano dei fatti, eÁ vero che molti di quei fantasmi si sono dissolti;
xiv
introduzione
ma eÁ necessario valutarli quali furono per capire il passato. Di quegli
abbagli restano ancora, non solo nel subcosciente, forti tracce: conoscerle ci aiuta a giudicare il presente. Questo eÁ lo scopo della storiografia. La mente non cura i suoi malanni per decreto, ne grazie all'efficacia salvifica del pensiero di Croce o con l'esposizione liturgica
dell'omonimo simbolo; si libera solo se riesce a scire per causas l'origine
dei suoi errori, ragionando e sperimentando.
Di questo tipo eÁ l'operazione realizzata nel libro presente: il metodo adottato sviluppa la dialettica su molti piani, indicando aspetti
del tutto nuovi, mediante una mole amplissima di documenti inediti e
mai prima utilizzati, redatti dai diplomatici francesi durante l'intero
XVIII secolo. Quei tecnici avevano il pregio di vedere la dialettica
degli interessi e dei pensieri dall'alto di strutture mentali pubbliche e
``civili'' incomparabilmente piu mature di quelle che condizionavano
le diagnosi subalpine. Lungo il fiume della storia la pecora italiana
stava molto piu in basso, ma era accusata dai lupi parigini d'inquinare
l'acqua che essi, opportunamente, bevevano dalle sorgenti. La vita eÁ
fatta cosõÂ, chi eÁ martello colpisce e chi eÁ incudine subisce. Ma in questi
casi eÁ importante non dichiararsi a priori debole o forte; la pecora puoÁ
vincere se capisce la logica delle due immagini qui adoperate, lupo e
martello, e se non cade nell'illusione che facilmente si possa indurre
chi batte a trasformarsi in incudine.
Per rilanciare l'economia e per vendere a giusto prezzo i prodotti
dell'agricoltura bisognava spingersi sul mare, esperienza che eÁ stata
sempre scuola empirica di calcolato coraggio; ma ogni robusto tirocinio pratico sembra mancare nella storiografia idealistica, che (seguendo Hegel) diffida della sperimentazione. L'orgoglio di Tanucci
era tormentato dal fatto di dover incassare passivamente i colpi, e
pagare per i danni subõÂti dal martello. I Francesi e gli inglesi «peccano
contro tutto il genere umano nella loro crudele intrapresa di farsi
dispoticamente padroni [...] di tutto il commercio del mondo» (Epistolario, X, p. 501). Sono «falsi fratelli, che profittano» della nostra
debolezza sul mare (ivi, IX, p. 591); lo dominano, e «commercio
senza mare non si puoÁ avere». Nei circa quindici mesi successivi
alla partenza del re Carlo per la Spagna «10 sono stati li bastimenti»
introduzione
xv
delle Sicilie «presi dai corsari» provenienti dal Nordafrica (ivi, p.
480). La politica parigina «deve preferir l'amicizia degli algerini a
quella della Spagna e delle Sicilie», perche l'azione di quei corsari
«giova al commercio francese» piu che la fratellanza borbonica (ivi,
XIII, p. 41). Inglesi e francesi sono «li fomentatori di quei barbari e
forse li principali interessati di quegli armamenti» (ivi, X, p. 398).
«Quei bastimenti corsari» si riforniscono a Marsiglia e Tolone di
tutto il necessario per la (non dichiarata e continua) guerra sul
mare: eÁ ovvio che il commerciante protegga i suoi clienti, ma eÁ troppo
che le navi dei ``fratelli'' borbonici facciano le spie a favore di quei
predoni, o che, addirittura li «scortino» (ivi XIII, p. 44).
Quel sistema di segrete alleanze era il maggiore strumento di dominio delle economie forti sui mercati delle Sicilie. Esse erano costrette a
servirsi di legni molto leggeri, che navigavano lungo le coste con equipaggi abbondanti, per potersi salvare dalle tartane piratesche remando
di forza contro vento. I limiti che bloccavano l'economia delle Sicilie
erano questi: spese di manodopera e di assicurazioni molto alte, basso
prezzo delle merci. Ma ne era nato un danno ancora piu grave: la
psicologia dei meridionali era passiva, vincevano la rinuncia ed il disarmo, si eternavano le mentalitaÁ astratte ereditate dal medio evo.
Qui interviene un altro aspetto illuminante della ricerca di Tufano. Le carte estere del governo di Luigi XIV dimostrano ch'egli,
governando di fatto sul Mezzogiorno almeno dalla morte di Carlo II
fino all'arrivo a Napoli degli Austriaci, speroÁ di trasformare le strutture del ceto politico meridionale assimilandole a quelle francesi.
Oltralpe i togati erano diventati un ceto dominante giaÁ nel Trecento,
dopo le riforme di Filippo il Bello; ma la loro espansione era stata
contenuta dalla monarchia. A Napoli i nobili avevano subõÂto ripetute
sconfitte e prostrazioni; gli ecclesiastici resistevano, ma come nemici
della respublica. Bisognava restaurare un ordine costituzionale equilibrato e coeso. Le mire politiche di Luigi XIV misero, infatti, in luce
il contrasto tra due modelli di cultura: uno Stato moderno, basato su
una societaÁ tendente all'armonia e fiera di averla (in qualche modo)
raggiunta, si contrappose alla tirannia di un ceto che, per dominare, si
serviva dei fantasmi giuridici medievali. Serafino Biscardi si mostroÁ
xvi
introduzione
incerto tra le due soluzioni. Aperto verso la cultura del dissenso, egli
pensoÁ che il suo decisionismo personale avrebbe potuto riformare lo
status quo ministeriale di vecchio stampo; ma, nel 1711, la sua morte
decretoÁ, ancora una volta, la vittoria di quell'irrazionale coacervo.
SembroÁ che un certo dinamismo mentale potesse essere riavviato
tredici anni piu tardi, con l'arrivo a Napoli di un allievo di PatignÄo,
Jose de Montealegre. Egli subito protesse Grimaldi e si procuroÁ la
collaborazione degli intellettuali critici: Ventura, Contegna, Celestino
Galiani, Intieri, Genovesi, Gennaro Parrino, e molti altri che meriterebbero di essere meglio conosciuti. Ma non eÁ facile invertire un trend
piu che bisecolare. Il re non era in grado di percepire, e quindi di
valutare, un problema culturale cosõÂ complesso. Tanucci, che era stato
fino ad allora un campione del «non si puoÁ», incomincioÁ troppo tardi a
rinsavire. EÁ illuminante il fatto che, anche a distanza di tre decenni
dalla creazione delle magistrature di commercio nelle Sicilie, la diplomazia francese continuava a considerare i ruderi di quell'istituzione
come una diga posta allo straripare del suo dominio economico. La
conferma della linea politica suggerita da Giannone, Ventura, Contegna, venne, e contrario, dagli implacabili nemici esteri delle Sicilie.
Insomma, eÁ dall'alto dell'esperienza parigina che le vicende storiche italiane si possono capire: i francesi ne indicarono i punti d'intelligenza e di forza, oppure d'inerzia e di abiezione. Dalla rivolta di
Masaniello alla sconclusionata sovranitaÁ personale di Maria Carolina,
nessuna diagnosi sulla storia meridionale delle Sicilie fu sbagliata da
quegli osservatori. Il nazionalismo eÁ un sentimento, la storiografia,
invece, eÁ un esercizio della ragione. Forse, se ne puoÁ trarre una
morale: l'intelligenza non eÁ fatta di scaltrezza truffaldina, ma richiede
di poggiare su una solida base di onestaÁ sostanziale, ossia di disinteresse problematico, ma rigoroso e sincero. Sono queste le doti su cui si
eÁ basato il forte e lungo lavoro di ricerca, i cui frutti sono trasfusi nelle
pagine seguenti. E sono indicazioni che possono aiutare i giovani a
compiere un esercizio contrastato e difficile: a non coltivare pensieri
di dettaglio e di parte, ma ad incrementare l'ampiezza e la profonditaÁ
delle loro intelligenze.
Raffaele Ajello
xvii
NOTA DELL'AUTORE
I debiti contratti con il presente lavoro sono tanti, distribuiti su
di un'area geografica vasta quanto l'Europa meridionale. Mi eÁ grato
ricordare e ringraziare tutti coloro che ho avuto modo d'incrociare
durante questo scorcio della nostra esistenza: ad ognuno di loro sono
debitore di qualcosa, e, com'eÁ ovvio, mi dichiaro unico responsabile
dell'elaborazione personale che ho fatto dei loro contributi.
Nato a Napoli, cresciuto tra Parigi, Madrid e Simancas, questo
libro ha infine trovato forma matura sotto un pino puteolano di casa
Ajello nell'estate del 2009. Le idee qui espresse sono il frutto di un
dialogo iniziato in anni lontani con il professor Raffaele Ajello e con il
gruppo di ricerca creato e diretto da lui. Della cui infaticabile attivitaÁ
non trovo di meglio che citare cioÁ che di lui ha scritto Robert Descimon: il comune Maestro eÁ «un des penseurs du droit les plus
remarquables de notre sieÁcle». Ma anche un «professeur magicien»,
la cui magia, a mio modo di vedere, consiste nel connubio armonioso
tra scienza storica ed etica personale.
Desidero anche esprimere il mio ringraziamento a tutti i colleghi
della mia nuova FacoltaÁ di Scienze della Formazione, ed innanzi
tutto alla nostra Preside, Nella Elia, per il generoso, altruistico impegno che dedica alla vita accademica, proprio in un momento in cui
l'iniziativa individuale si disperde e si consuma entro un sistema
universitario nazionale che s'ispira a criteri molto lontani dalla comune razionalitaÁ occidentale: in attesa della riforma a venire, e sperando che essa riesca a rianimare le energie troppo spesso prostrate
dalle negative esperienze.
Se la piu tradizionale cultura italiana eÁ alla bancarotta, aliena e
lontana da meccanismi di potere oramai saldamente in mano ad
industriali, alla cui ideologia aziendalistica il Paese si eÁ rivolto per
essere guidato, sicuramente eÁ proprio questo il momento per i lette-
xviii
nota dell'autore
rati «umanisti» di cospargersi il capo di cenere. Tuttavia, da quel che
vedo e leggo, parecchi tra noi trovano il modo e la voglia di fare la
ruota con abbondante piumaggio di (spesso superficiali) scritti ed atti
di encomio. Quasi sempre, ed eÁ comprensibile, la politica premia chi
esalta lo status quo, non chi ne denuncia i limiti; ma la cultura critica
moderna, quella che eÁ nata negli ultimi tre secoli e che giaÁ si espande
nel terzo millennio, guarda al futuro. L'avvenire, in Italia, dall'Illuminismo in poi, eÁ sempre appartenuto a quanti hanno saputo adottare comportamenti di dissenso, ed hanno pagato il prezzo del loro
coraggio. La stessa orgogliosa indipendenza dimostrano i «precari»
italiani, generazioni private d'identitaÁ professionali, ma non di dignitaÁ. Per queste ragioni, oltre che per l'aiuto che ricevo quotidianamente da loro, ringrazio i miei piu giovani amici: Nino Di Giovanni,
Dario Maccarronello, Cinzia Recca, Francesco Scuderi.
A Valeria, il cui ventre lievita come una buona forma di pane di
casa, per l'amore che mi dona: eÁ questa la fetta piu importante del
mio esistere.
Pozzuoli, 30 agosto 2009
ABBREVIAZIONI
A.A.Eè. =
A.G.S. =
A.N. =
A.S.N. =
A.S.P. =
A.S.T. =
B.N.N. =
B.C.P. =
S.N.S.P. =
Archives du Ministe©re des Affaires Eètrange© res
Archivo General de Simancas
Archives Nationales-Paris
Archivio di Stato di Napoli
Archivio di Stato di Palermo
Archivio di Stato di Torino
Biblioteca Nazionale di Napoli
Biblioteca Comunale di Palermo
Societa© napoletana di Storia patria.
La parte finale di questa opera ha conosciuto una precedente versione, qui ampiamente integrata, dal titolo «Le renversement des alliances» europee e l'espulsione di Bernardo Tanucci dal governo delle Sicilie (1774-1776), in «Frontiera
d'Europa», a. 2003, n. 2, pp. 87-178.
1
I
LA NUOVA STORIOGRAFIA
«AÁ PART ENTIEÁRE»
1. Il superamento di ogni approccio nazionalistico
Nell'era contemporanea, caratterizzata dal mito e dalla realtaÁ
della globalizzazione, l'approccio storiografico di tipo «nazionalistico» non sembra piu sufficiente a comprendere appieno la realtaÁ politica dell'Antico Regime 1. Soprattutto nell'ultima decade, la comunitaÁ degli storici ha manifestato un sempre piu diffuso scetticismo nei
confronti della storia nazionale 2. Parecchi critici notano tra l'altro, e
spesso a ragion veduta, che le entitaÁ regionali, locali e periferiche
dell'Evo Moderno non possono essere ignorate dallo storico, percheÂ
cioÁ limiterebbe la possibilitaÁ di un'efficace analisi della reale dialettica socio-politica in atto. Queste osservazioni derivano direttamente
dal piano della riflessione intellettuale sulla specificitaÁ del «locale»,
che ha notevolmente contribuito ad affinare le conoscenze sul funzionamento differenziato delle societaÁ e delle culture 3. Si potrebbero
ancora elencare parecchie altre opinioni negative su una storia centrata esclusivamente sul binomio Stato-Nazione, ma eÁ certo che usare
questa coppia come punto focale di una ricerca storica, mentre inevitabilmente restringe la visuale, crea equivoci ed imprecisioni.
Ad esempio, sarebbe incongruo usare queste ed altre `categorie'
concettuali in riferimento a soggetti e ad epoche storiche in cui esse
non avevano avuto ancora realizzazione, erano prive di uso specifico
1
La letteratura sull'argomento eÁ vasta. Per una messa a fuoco dei problemi, cfr. il
dossier dal titolo Une histoire aÁ l'eÂchelle globale della rivista «Annales HSS», 56-1, 2001, pp.
3-123.
2
Per un'efficace sintesi di questi nuovi punti di vista storiografici, cfr. gli interventi
contenuti nel volume Comparaison and History. Europe in Cross-National Perspective, ed. by
Deborah Cohen and Maura O'Connor, Routledge, New York 2004.
3
Una buona premessa al problema, a partire da problematiche di ricerca tedesche, eÁ
offerta da U. Daniel, Kompendium Kulturgeschichte. Theorien, Praxis, SchluÈsselwoÈrter, Suhrkamp, Francfort 2001.
2
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
e quindi di realtaÁ giuridico-istituzionale. Qualificare come `italiano'
un suddito di Federico II di Svevia eÁ una forzatura non ammissibile
senza, almeno, corredarla di varie precisazioni. E se si opta per il
primato delle componenti linguistiche e culturali, bisogna riconoscere che Tommaso fu aquinate, ma fu anche francese, tanto quanto lo
fu piu tardi Marsilio da Padova, e forse anche di piuÂ: qualificarli
entrambi come `italiani', eÁ (come si suol dire) ``attaccare il carro
innanzi ai buoi''. Come vedremo, il sesto principe di Feroleto, Tommaso d'Aquino, discendente del filosofo, fu nominato da Carlo II nel
1699 Grande di Spagna, ma Luigi XIV tenne a precisare che il
principe discendeva da «aÃncetres» partigiani dei re Cristianissimi,
certo non dei «Roys Catholiques», che nel secolo XIII erano ancora
in mente Dei. Del resto la migliore storiografia internazionale (e,
tanto per fare due nomi, Cassirer e Senellart) colloca ben dentro lo
svolgimento del pensiero istituzionale francese, in una posizione di
estrema importanza, sia l'Aquinate sia il Padovano 4.
D'altra parte, a fronte dei cambiamenti politici intervenuti
dopo il 1989, che hanno segnato una svolta epocale, contraddistinta
dalla crescita dell'arbitrato internazionale, della interdipendenza
economica e della comunicazione di massa, la comunitaÁ degli storici
eÁ stata sollecitata a ripensare il passato nel rispetto di questo enorme allargamento delle prospettive umane. Per queste ragioni i dizionari storici della storiografia hanno recentemente visto crescere
le proprie pagine per nuove formule e vocaboli: «cross-national
history», «entagled history», «histoire croiseÂe», «new transnational
history», «connected and shared history». Questi nuovi vocaboli
sono ricchi di un'infinitaÁ di lemmi, tante quante sono le sfaccettature teoretiche e pratiche di tali ricerche storiche, per di piu rese
4
Come nota P. Elie, Exomorfism: Cultural Bias and the French Image of Spain From the
War of Succession to the Age of Voltaire, in «Eighteenth-Century Studies», vol. 9, në 3 (spring,
1976), pp. 375-89, ancora nel XVIII secolo non esiste una linea netta di demarcazione tra
entitaÁ politiche e la loro corrispondente parte linguistica e culturale: in Francia si parlava
indifferentemente di Spagnoli e di una nazione catalana o basca. Sull'importanza per la storia
culturale e socio-istituzionale della Francia di questi due intellettuali, pretesi italiani, cfr. ad
es. M. Senellart, Les arts de gouverner. Du regimen meÂdieÂval au concept de gouvernement, eÂd.
Du Seuil, Paris 1995, passim anche per i riferimenti bibliografici a Cassirer.
I. La nuova storiografia «aÁ part entieÁre»
3
complicate dalla «perenne», ambigua presenza delle «nazioni», del
loro incontrarsi e scontrarsi in diverse epoche della storia umana 5.
Si tratta dunque di un terreno irto di molteplici difficoltaÁ metodologiche e trappole epistemologiche. Non per questo esso non merita
d'essere percorso, soprattutto in considerazione dei successi mietuti, non molti anni orsono, dalla storia del colonialismo e dell'imperialismo, la cosiddetta cross-national history, che ha decisamente
allargata la conoscenza sulla cruciale esperienza delle nazioni europee e dei loro Stati. E che ha, accanto a cioÁ, mostrato la fragilitaÁ
della posizione dominante delle scienze sociali occidentali, accusate
d'imperialismo intellettuale.
Il risultato piu evidente raggiunto da queste operazioni culturali eÁ
che la prospettiva nazionale o eÁ stata resa geograficamente piu limitata
ad aree regionali e locali, oppure, ampliata fino a raggiungere l'estensione di una scala globale. Ad esempio, la storia dei «transfers culturels» praticata da Michel Espagne o da Michael Werner ha guardato
alle inter-relazioni esistenti tra due entitaÁ diverse, Francia e Germania, finendo con lo scoprire le intime contaminazioni esogene della
«cultura» francese 6. Attraverso lo strumento dello studio delle influenze reciproche tra entitaÁ nazionali (nazioni, regioni, cittaÁ od istituzioni), questo modo di ricostruire le vicende storiche tende a rimarcare
come, al di laÁ delle apparenze e dei luoghi comuni, esistano tra le nazioni profonde e forti somiglianze. PercioÁ questa nuova storiografia
accusa la vecchia storia «comparata», dall'antico e nobile pedigreÂe
(Marc Bloch, Henri Pirenne, Otto Hintze, tra i tanti nomi illustri che
l'hanno praticata), d'aver agito piuttosto sulle differenze, rimarcandole, esasperandole e finendo paradossalmente con il divenire un componente fondamentale del motore ideologico dei conflitti politici intra
5
Sulla contrapposizione tra «perennisti» e «modernisti» a proposito del concetto d'identitaÁ nazionale si vedano le considerazioni, oramai classiche, di A. Smith, The Ethnic
Origins of Nations, Basil Blackwell, Oxford 1986, piu di recente affinate in The problem of
national identity: ancient, medieval and modern?, in «Ethnic and Racial Studies», 17 (1994), 3,
pp. 375-99.
6
M. Espagne e M. Werner, eÂds., Transfers culturels. Les relations interculturelles dans
l'espace franco-allemand (XVII-XXe sieÁcles), Paris 1988 e M. Espagne, Le transfers culturels
franco-allemands, Paris 1999.
4
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
nazionali ed extra-múnia 7. Piu interessante il caso dell'«histoire croiseÂe», il cui metodo, cosõ come eÁ praticato da due storici dell'EHESS,
Werner e Zimmermann, assomiglia per alcuni aspetti a quello cui si
rifaÁ il presente volume. Per i due storici tale approccio, piu della comparazione, degli studi di transfert e della storia connected o shared, interroga i legami reali o semplicemente ideali tra differenti formazioni
sociali determinatesi storicamente. Trattando di oggetti e di problematiche specifiche, che generalmente sfuggono ai comparatisti ed agli
studiosi di transferts, la storia «incrociata» permetterebbe di scoprire
nuovi, inediti fenomeni all'interno di un quadro analitico rinnovato 8.
Dentro questo nuovo, complicato ed ambizioso clima culturale,
il presente volume si limita ad analizzare, in maniera (si spera) piuÂ
puntuale di quanto finora sia avvenuto, i rapporti politici tra la
Francia e le Sicilie durante il Settecento, allargando percioÁ il fuoco
dell'attenzione dalla Spagna alla sorella d'Oltralpe ed inquadrando le
loro azioni entro proposte istituzionali e sociali molto diverse. Come
vedremo, l'indirizzo generale di quelle relazioni prese corpo durante
la guerra di successione spagnola e fu reso concreto dalla presenza
molto forte di Luigi XIV. PercioÁ, nella formula adottata come sottotitolo di questo libro, quando ci si riferisce allo Stato, si distingue tra
il significato che il concetto aveva in quegli anni a Madrid, a Parigi ed
a Vienna. Proprio a causa delle nette differenze, la terza soluzione
(vicende militari a parte) finõ per prevalere, poiche rinviava a conte7
Sulle accuse rivolte ai «comparatisti», cfr. H. G. Haupt- J. Kocka, Comparative
History: Methods, Aims, Problems, nel volume citato alla nt. 2, pp. 23-40. Sulle «connected
histories» e sulla loro maggior valenza euristica rispetto alla storia comparata, cfr. S.
Subrahmanyam, Connected Histories: Notes Towards a reconfiguration of Early Modern Eurasia, in Beyond Binary Histories. Re-imagining Eurasia to C. 1830, ed. Victor Lieberman, The
University of Michigan Press, Ann Arbor, 1999, pp. 289-315. Ma histoire compareÂe ed
histoire croiseÂe possono risultare non solo compatibili ma persino integrabili secondo J.
Kocka, Comparison and Beyond, in «History and Theory», 42 (February 2003), pp. 39-44,
numero dedicato interamente al tema qui in discussione.
8
M. Werner-B. Zimmermann, Penser l'histoire croiseÂe: entre empirie et reÂflexiviteÂ, in
«Annales HSS», 2003-1 (58e anneÂe), pp. 7-36. Ma per una presentazione di quest'atteggiamento storiografico piu mirata ai problemi della storia transnazionale, cfr. dei due autori,
Vergleich, Transfer, Verflechtung. Der Ansatz der `Histoire croiseÂe' un die Herausforderung des
Transationalen, in «Geschichte und Gesellschaft», 28, 2002, pp. 607-36.
I. La nuova storiografia «aÁ part entieÁre»
5
nuti moderni, che tuttavia non erano legati ai pessimi precedenti
spagnoli, ne a quelli francesi, troppo impegnativi, e troppo sgraditi
alle forze del dominante sistema parassitario locale.
2. Il primato dello scontro tra `modelli' istituzionali, culturali, sociali
Naturalmente la specificitaÁ dell'oggetto qui studiato si lega ad
un'idea di globalitaÁ dei fenomeni naturali e dei nessi storici, la cui
coscienza eÁ tipica dell'attuale sensibilitaÁ. La prospettiva aperta si snoda lungo sette capitoli, che intendono mettere in rilievo l'importanza
delle «connessioni» multiple tra le storie di questi antichi Stati europei. Partendo da un episodio «rimosso» dalla storiografia sul Mezzogiorno d'Italia, relativo al breve governo di Luigi XIV sulle Sicilie
durante i primi anni della guerra di successione spagnola, si perviene
alla conclusione secondo cui durante tutto il secolo XVIII i percorsi
delle due nazioni non seguirono strade diverse, ma s'incrociarono a
piu riprese, tanto da apparire alla fine fortemente intrecciati.
Si trattava, nella sostanza, di approfondire alcuni peculiari aspetti di un indirizzo di ricerca su cui Raffaele Ajello ed il gruppo di
lavoro creatosi attorno a lui (tra cui lo scrivente) avevano lavorato a
lungo, fin da tempi abbastanza lontani, e con risultati solo in parte
noti alla cultura storica 9. Lo storico deve elaborare un certo numero
di essenziali semplificazioni dell'oggetto sia per comprendere meglio
la dialettica degli interessi sia per renderne fruibile l'interpretazione.
EÁ necessario superare il caleidoscopio dei fatti che si susseguono e
che si annullano senza rivelare la logica di quei movimenti, ed eÁ
sommamente incongruo cercare di riprodurre parte di quella fantasmagoria di eventi senza chiarire a se stessi ed ai lettori perche nella
narrazione eÁ stata scelta una sequenza e non mille altre. A questa
soluzione si perviene quando l'interesse prevalente non eÁ di capire,
ma di riempire le pagine, possibilmente da numerare a migliaia, al
9
I frutti di questo lungo percorso, ideato e diretto da Ajello, sono costituiti da circa
cento volumi, editi per le collane «Storia e Diritto», «Fridericiana Historia» e «Frontiera
d'Europa», oltre che dalla rivista, che dal 1995 eÁ edita semestralmente con questo ultimo
titolo, ora in collaborazione con l'Istituto Italiano per gli Studi Filosofici.
6
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
fine di mettere in mostra una quasi sovrumana competenza. Il dinamismo da mettere in luce non eÁ quello di fatti singoli e casuali, ma di
correnti agglomerate e significative, che siano diventate modelli interni ed internazionali di scelte teoretiche e di comportamenti politici, ossia di azioni rilevanti per l'intera umanitaÁ, e memorabili.
Operano in questa direzione, a proposito del nostro tema, il
generale insegnamento di un illustre patriarca degli studi sulle vicende meridionali, Benedetto Croce, e le indicazioni fornite in base alle
sue splendide ricerche in La Spagna nella vita italiana durante la Rinascenza. EÁ del tutto chiaro in quelle pagine che la forte e congiunta
presenza spagnola e francese nel governo delle Sicilie fu un fenomeno
strutturale, riguardante l'intera etaÁ moderna; e che il significato dell'impulso parigino fu progressivo, mentre l'abbraccio italo-spagnolo
fu di due corpi in decadenza, vicini alla catalessi 10. Quel rapporto,
uno e trino, assunse durante il secolo XVIII, anzi a partire dagli
ultimi decenni del Seicento, significati ancor piu caratterizzati nei
contenuti in gran parte diversi, ossia di radicale rinnovamento: moto
che fu diretto a rivoluzionare dopo pochi decenni l'idea di societaÁ e le
sue regole in tutt'Europa, ed oltre (si pensi alla rivoluzione americana). Ed eÁ ben noto che la stessa cultura spagnola piu dinamica manifestava segni d'indirizzi afrancesados, anche se costantemente e con
molta forza contrastati.
Intanto (volendo procedere per gradi), nella triade dei pretendenti alle Sicilie, la politica parigina, letta attraverso le carte interne e
segrete dell'Archivio parigino degli affari esteri, presenta un carattere singolare e specifico che merita una certa enfasi. L'azione di governo, diretta fortemente e personalmente dal Re Sole, obbediva ad
una logica tradizionale ed antica in quella sovranitaÁ: ossia era intesa
come manifestazione di una grande impresa, caratterizzata dalla sua
serietaÁ, attendibilitaÁ e religiositaÁ civile. Chi comanda obbedisce agli
interessi dei tre ceti che operano, per antica consuetudine e norma
`religiosa', concordemente nella stessa direzione. Questa logica ebbe
il merito, come vedremo, d'ispirare una serie di proposte di sovranitaÁ
10
Laterza, Bari 1917.
I. La nuova storiografia «aÁ part entieÁre»
7
`costituzionale' dirette ad estendere il metodo francese del governo e
della sovranitaÁ anche al Mezzogiorno, inteso non come una realtaÁ
estranea da sfruttare: tale, in effetti, era considerato prima di entrare
nell'orbita del re cristianissimo. In quella condizione, come vedremo,
ricadde presto. La ratio di tutto questo era stata elaborata nell'ultimo
millennio, le linee programmatiche erano nate da una storia piu che
millenaria e garantite ab inizio dalle glorie delle tre dinastie. Queste
doti sostanziali andavano oltre il dato di fatto del potere e del dominio militare, un fattore brutale che appare connesso ad altri valori,
assai pregnanti.
In particolare, nel Mezzogiorno continentale, dopo l'esito della
rivoluzione del 1647-1648, l'assetto istituzionale aveva recuperato
(come vedremo nel secondo capitolo) i suoi caratteri di ``anomalia'',
ossia di forte primato delle strutture giudiziarie ed amministrative;
ma la vittoria dei togati aveva ulteriormente attenuato e snervato
l'influenza esterna, e poi la patologica debolezza della Spagna durante il regno di Carlo II mise in luce che proprio il dominio della toga
frustrava la produttivitaÁ e finiva per dissolvere la consistenza sociale
del regno di Napoli. La formula di una comunitaÁ governata da un ceto
culturale che eÁ in primo luogo portatore d'interessi basati sull'intermediazione giuridica aveva reso dilagante, caratterizzante ed irreversibile il blocco dell'economia, aveva radicato nel profondo il parassitismo ed aveva generato (come fu da molti osservatori di varia provenienza analiticamente descritto e come vedremo) una quasi incredibile disgregazione sociale. In effetti, la popolazione era incapace di
badare a se stessa. PercioÁ ogni pressione esterna, ogni slittamento
verso la precarietaÁ del quadro internazionale, portava al collasso gli
equilibri interni, metteva in mostra le linee di una societaÁ frantumata
ed inconsistente, ne demoliva interamente l'immagine esterna. CioÁ
avveniva perche da troppi decenni essa era sotto una tutela patriarcale che, sia pure con le migliori intenzioni, soffocava tutte le iniziative imprenditoriali, tutte le energie economiche realmente produttive. Un finto e fallace benessere proveniva ai benestanti dalle rendite pubbliche, ossia dai proventi di uno Stato paralitico e, dal punto
di vista internazionale, inesistente: forte contro i deboli, privo di vita
8
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
contro i forti. Le comunitaÁ meridionali avevano perduto percioÁ ogni
credibilitaÁ, tanto da divenire oggetto e non soggetto di storia, e da
dare di seÂ, ai numerosi e concordi osservatori, quadri drammatici e
sorprendenti di caos asociale.
A questi caratteri, tipici della popolazione napoletana, numerosa e forte quanto anarchica, e le cui straripanti energie erano state
abbandonate a se stesse senza essere minimamente indirizzate a
mete comuni, si accompagnava un fatto internazionale nuovo: la
crisi radicale e generalizzata dei vecchi assetti istituzionali e dei
governi. Dopo l'esito della rivoluzione inglese si era aperto in Europa la fase dell'insegnamento lockiano. La coscienza di dover cambiare quasi tutto divenne generale. Si pensi, come fenomeno indicativo, alla crisi della polisinodia, ossia del governo mediante Consejos: organismi lenti, pletorici, schiavi delle tradizioni, e per definizione privi di responsabilitaÁ, insomma incapaci di assumere
decisioni rapide e nuove. Quelle strutture erano tipiche dell'impero
iberico, rappresentavano in parte un residuo del passato visigotopattizio, e furono riesumate e studiate dall'abbe di Saint-Pierre, il
prototipo degli idealisti utopisti. Ma i (fittizi) caratteri rappresentativi della polisinodia erano storicamente datati, si presentavano
oltremodo arretrati, giaÁ largamente fuori tempo massimo. La loro
esaltazione e riapparizione letteraria ebbe, peroÁ, un grande merito:
servõÂ a Rousseau per capire che quei residui archeologici nascondevano il problema di una legittimazione giuridica profondamente
invecchiata, perche diretta a tutelare un potere legale ispirato ad
ideali statici, deduttivi, patriarcali. La sovranitaÁ doveva esser posta
in termini totalmente diversi, sociali e non solo astrattamente ideali. Bisognava rimuovere quei vecchi arnesi, fantocci rivestiti di
mera forma e privi di doti sostanziali.
Non a caso, tra il 1707 ed il 1709, Serafino Biscardi elaboroÁ una
proposta orientata in una direzione che oggi diremmo `decisionista'
oltre che produttivistica e realistica, l'Idea del governo politico ed
economico del regno di Napoli. In base a quella visione nuova egli
ebbe a Barcellona carta bianca da Carlo III d'Asburgo ± in procinto
di diventare (a distanza di qualche anno) VI ed imperatore ±, e venne
I. La nuova storiografia «aÁ part entieÁre»
9
a Napoli a trasformare il Consiglio Collaterale, fingendo di correggerlo marginalmente e di svecchiarlo.
Questa vicenda porta a formulare una considerazione generale di
cui bisogna tener conto in seguito. La cultura giuridica napoletana,
agli inizi del Settecento, cosõÂ come poi nei cinque lustri austriaci, fece
sentire la sua presenza a largo raggio, e costituõÂ a Parigi, a Madrid
come a Barcellona, un fattore di rilevante influenza: si puoÁ dire che
ebbe forte credito (si pensi alla scuola di D'Andrea, a Biscardi, a
Gravina, a Giannone) in misura inversa rispetto all'inconsistenza
delle popolazioni meridionali.
Il punto terminale della dialettica franco-spagnola e del controllo
sulle Sicilie riporteraÁ alle soglie della Rivoluzione. Il punto di vista
parigino eÁ qui raccontato nei capitoli quinto, sesto e settimo ± i cui
contenuti erano giaÁ apparsi, in forma ridotta, in un saggio pubblicato
nella nostra rivista «Frontiera d'Europa» (2003, n. 2)±, dedicati all'estromissione di Bernardo Tanucci dal governo delle Sicilie. Una
lettura intrecciata della politica «ufficiale» francese, dei comportamenti devianti della stessa diplomazia e degli avvenimenti in corso,
dimostra che la caduta di Tanucci s'iscrisse in un trend di lunga
durata, iniziato nel 1739, quando si tentoÁ di avviare per le Sicilie
un'azione di recupero dell'imprenditoria commerciale, politica affidata alle cure del Supremo Magistrato del Commercio, istituzione
che si era esplicitamente ispirata a modelli francesi e che si avvalse
anche di personale giaÁ addestrato Oltralpe. Contro questa magistratura le forze a difesa dello status quo operarono fino a ridimensionarla, e (non a caso) questo risultato fu raggiunto nel 1746 grazie anche
ad un voto del Parlamento di Palermo, secondo una linea di opposizione che poi il «partito» siciliano esercitoÁ anche contro Tanucci e
che prevalse alla fine del 1776.
Tutto questo dimostra che il riferimento alla Francia ebbe ben
precisi, ma molto vari, contenuti culturali, istituzionali, sociali, programmatici. Diversificati nel tempo, spesso contraddittori, furono i
significati di volta in volta assunti dal `partito' spagnolo, che fu
presenza di corte ben piu che di societaÁ e di cultura. La diplomazia
internazionale, nel corso del secolo XVIII, si servõÂ delle fisionomie
10
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
storiche che le proposte politiche francese, spagnola ed austriaca
manifestavano e propagandavano. Dal cartesianismo, all'illuminismo, al romanticismo, alla ideÂologie crebbe fortemente il sostrato
socio-culturale delle scelte politiche: il carattere soltanto dinastico,
espresso in misura rilevante dalla politica di Elisabetta Farnese (come
rilevoÁ Meinecke), divenne uno dei segni persistenti e non piu giustificati di un passato vicino ad essere sconvolto 11. Londra dimostroÁ la
validitaÁ dei nuovi interessi.
Nel quadro delle potenze centrali europee, l'influenza diplomatica conseguõ nel Settecento risultati decisivi anche piu di quanto
non si realizzasse con gli interventi armati. A partire dal trattato di
Utrecht, il lemma «diplomazia» andraÁ assumendo un significato
radicalmente diverso rispetto al passato 12. CosõÂ, durante l'etaÁ dei
Lumi, l'Europa vedraÁ nascere una cultura degli affari esteri, che si
distingueraÁ per un'unitaria impostazione nella condotta della politica internazionale, scaturente dall'adozione comune di un solo
linguaggio, di attivitaÁ e pratiche istituzionali condivise e di un unico
cerimoniale 13. Il cambiamento semantico del vocabolo avverraÁ in
coincidenza con modificazioni strutturali nella condotta delle rela11
Da L'idea della ragion di Stato nella storia moderna, Vallecchi editore, Firenze 1942 (I
ediz. 1924), vol. II, p. 85: «ma i motivi, che spingevano all'azione la superba e intraprendente principessa, s'ispiravano ancora interamente allo spirito politico del Rinascimento e
del Barocco». Acuta intuizione confermata dalla storiografia successiva che ha meglio indagato sulle intime ragioni che portarono sul trono delle due Sicilie l'infante Carlo: R. Ajello,
La vita politica napoletana sotto Carlo di Borbone, nella misc. Storia di Napoli, vol. VII, Di
Mauro, Cava de' Tirreni 1972, e piu di recente, Carlo di Borbone, re di Napoli e di Sicilia
1734-1759, introduzione a Carlo di Borbone. Lettere ai re di spagna, Ministero dei Beni
culturali, Roma 2001. Di questa volitiva governante («es una reina muy hombre» era il
giudizio dei contemporanei) non esiste ancora uno studio metodico, molto probabilmente
per ragioni relative all'antico disprezzo franco-ispanico nei confronti della politica «italiana»
perseguita dalla Farnese e da Giulio Alberoni. Tali lacune sono colmate in parte da Pablo
VaÂzquez GeÂstal nella sua tesis doctoral (director: Carlos GoÂmez-CenturioÂn JimeÂnez, Departamento de Historia moderna - Universidad Complutense de Madrid, 2008) Corte, poder y
cultura polõÂtica en el reino de las dos Sicilias de Carlo de BorboÂn (1734-1759).
12
Al proposito cfr. la sintesi di H. Scott, Diplomatic culture in old regime Europe, in
Culture of Power in Europe during the Long Eighteenth Century, ed. by Hamish Scott and
Brendan Simms, Cambridge University Press, Cambridge 2007, pp. 58-85.
13
Cfr. le puntuali e belle osservazioni di L. BeÂly, Espions et ambassadeurs au temps de
Louis XIV, Fayard, Paris 1990.
I. La nuova storiografia «aÁ part entieÁre»
11
zioni tra gli Stati europei. Ogni scritto sulle relazioni internazionali
durante il «lungo secolo diciottesimo» eÁ stato dominato dal tema
della comparsa e della crescita di nuove entitaÁ statali. In seguito,
questa lettura eÁ divenuta un paradigma della storiografia, a partire
dall'apparizione, avvenuta nel 1833, del saggio di Leopold von
Ranke sulle grandi potenze 14. La nascita della pentarchia, il Great
Power System(composta dalle potenze Francia, Austria, Inghilterra,
Prussia e Russia), e la relativa rivalitaÁ che accompagnoÁ lo svolgersi
del secolo XVIII, aveva favorito la creazione di una nuova forma di
cultura politica 15.
Diretti risvolti di questo corso delle relazioni internazionali si
ebbero con l'azione del barone di Breteuil, ambasciatore francese a
Napoli negli anni 1773-1774 16. In predicato per ricoprire l'incarico
di ministro degli affari esteri, ogni sua azione presso la corte napoletana traeva ispirazione dal progetto degli choiseulistes d'appoggiare
le figlie dell'Imperatrice. Il vero obiettivo dell'azione del diplomatico
era quello di eliminare il primo ministro napoletano, unico ostacolo
alla presa del potere assoluto di Maria Carolina, sorella della futura
regina di Francia. Nella lunga storia dei rapporti franco-austriaci, gli
episodi dell'allontanamento di Giovanni Fogliani, vicere della Sicilia,
e di Tanucci sono strettamente correlati proprio con le nuove prospettive politiche offerte dalla contemporanea presenza di due donne
della famiglia degli Asburgo-Lorena sui troni di Versailles e di Napoli. L'una, Maria Antonietta, la «petite dauphine», appoggiata dalla
fazione di corte degli Choiseul, da sempre filo-austriaci; l'altra, Maria Carolina, sostenuta dal ``partito'' dei siciliani, che mirava a svin14
Una traduzione inglese del saggio di Leopold von Ranke si trova in The Theory and
Practice of History: Leopold von Ranke, eds. Georg G. Iggers and Konrad von Moltke,
Bobbs-Merril, Indianapolis-New York 1973, pp. 65-101.
15
Sull'argomento due recenti volumi di Scott, The Emergence of the Eastern Powers,
1756-1775, Cambridge University Press, Cambridge 2001 e The Birth of a Great Power
System, 1740-1815, Longman, London 2006.
16
Sulla figura e sulla centralitaÁ dell'azione politica di Breteuil nella Francia pre e postrivoluzionaria disponiamo di due belle monografie di Munro Price, The Comte de Vergennes
and the Baron de Breteuil: French politics and reform in the reign of Louis XVI, Cambridge
University Press, Cambridge 1989 e piu di recente The Fall of French Monarchy: Louis XVI,
Marie-Antoinette and the Baron de Breteuil, Macmillan, New York 2002.
12
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
colarsi dalla tutela spagnola, rappresentata a Napoli da Tanucci e a
Palermo da Fogliani. Fu proprio la rivolta palermitana del 1773, con
l'episodio della cacciata del vicereÂ, ad aprire una stagione di grave
emergenza, che impegneraÁ l'intera vita politica siciliana per tutto il
1774, e che chiuderaÁ il proprio ciclo solamente il 25 ottobre del 1776.
D'altronde, anche la diplomazia piemontese, molto attenta ai contesti internazionali, nella rovina di Tanucci aveva intravisto precise
responsabilitaÁ francesi. E Incisa di Camerana aveva laconicamente
commentato che «nella presente circostanza la Spagna nulla sa ricusare alla Francia». La «douce domination» della Francia sulla Spagna
eÁ un criterio generale che vale a spiegare molti degli avvenimenti
politici settecenteschi.
3. Nuovi significati complessivi della politica francese
Partiti da questo episodio che chiuse una fase importante dei
rapporti tra i regni borbonici d'Europa, si eÁ posto il problema di
andare a ritroso per meglio capire cosa fosse accaduto prima di quella
svolta tardo-settecentesca, dei Patti di Famiglia e del rovesciamento
delle alleanze franco-austriache. Il laboratorio piu influente fu quello
della guerra di successione spagnola, periodo che segnoÁ gli sviluppi
futuri dell'intero Continente. Quegli assetti aiutano a meglio comprendere mutamenti e permanenze nella cultura politica del «lungo»
e vario Settecento europeo.
La documentazione diplomatica specialmente parigina indica
subito un dato di fatto: Luigi XIV tentoÁ d'esercitare il suo governo
direttamente sulle Sicilie, oltre che sulla Spagna. L'idea era stata giaÁ
suggerita da Alfred Baudrillart, che resta il maggiore storico della
svolta successiva alla morte di Carlo II, ed i documenti studiati a
Parigi e a Simancas hanno convalidato l'ipotesi. Come aveva notato
un critico spagnolo, Antonio Ballesteros y Beretta, nei volumi dello
storico francese «el interlocutor franceÂs habla mucho y con detalle, el
espanÄol apena si contesta con monosõÂlabos». Ma cioÁ era pressoccheÂ
inevitabile nel clima nazionalistico dell'epoca in cui erano stati pubblicati i volumi del francese. Per fortuna nuove e diverse sensibilitaÁ
I. La nuova storiografia «aÁ part entieÁre»
13
contemporanee vanno modificando il quadro complessivo delle relazioni franco-spagnole e, con esse, tra le nazioni d'Europa. Se si vuol
comprendere il ruolo delle Sicilie (che per Broglie e Favier erano
ancora Appendici della Spagna negli anni Settanta) a queste aperture
eÁ necessario fare riferimento, ed in particolare alle opere di M. Zylbergberg, J.-F. Schaub e R. GarcõÂa CaÂrcel.
La presenza francese nel Mezzogiorno d'Italia durante il governo diretto e personale di Luigi XIV rivela una situazione nuova
qualitativamente (ossia nella sua logica e nella sua incidenza sostanziale) rispetto al trend abituale dei rapporti economici e commerciali
tra la Francia e le regioni meridionali. La congiuntura internazionale
attribuõ alla corte parigina un volto nuovo, molto diverso dal cliche di
autoritaria forza di pressione sul napoletano ai fini della difesa degli
interessi francesi. Si trattoÁ questa volta di un perfetto incrocio tra la
storia dei due regni, giacche il Re Sole governoÁ le Sicilie per qualche
anno, scoprendo e scontrandosi con una realtaÁ socio-politica dalle
dinamiche molto differenti da quelle francesi: in questo modo esse
vennero in luce secondo un'ottica esperta e diretta di cui non avevano mai potuto avvalersi prima. La ricetta del governo di Parigi funzionoÁ in Spagna, ma altrettanto successo non ebbe nell'Italia meridionale: eÁ vero il contrario. Tuttavia, durante gli anni della guerra di
successione spagnola, l'emergenza di una densa fase fiscale per esigenze militari, la diretta ingerenza francese negli affari politici piuÂ
delicati, il sottile gioco diplomatico, le interazioni istituzionali tra
Francia, Spagna e Sicilie, modificarono largamente i rapporti tra lo
Stato spagnolo e le istituzioni isolane. Ma non allontanarono la presenza iberica, che divenne pressante negli anni di Elisabetta Farnese,
finche la regina riuscõ a riunire le due Sicilie in un unico, nuovo
Regno, finalmente nazionale.
Come si eÁ accennato, non esiste alcun riscontro storiografico
delle dirette ingerenze francesi nella vita politica delle Sicilie durante
la guerra di successione: percioÁ occorreva comprendere i motivi di
questo lungo silenzio degli storici. Si eÁ cercato d'indicare qui i motivi
di questo lungo oblõÂo. La soluzione eÁ stata suggerita dalla storiografia
che ha meglio indagato sui rapporti tra Francia e Italia nel periodo
14
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
successivo alla Grande Rivoluzione 17. EÁ abbastanza noto che, giaÁ a
partire dal momento dell'unificazione della Penisola, si era imposta
una produzione storiografica sulla Rivoluzione francese dai tratti
marcatamente «gallofobici», che avrebbe a lungo dominato il quadro
culturale italiano e indelebilmente segnato sul versante delle prospettive politiche il percorso nazionale inaugurato dal Risorgimento. Di
questo complicato processo Antonio De Francesco coglie alcuni momenti fondamentali e, muovendosi tra testi storiografici e contesti
ideologici e politici, giunge a sfatare alcuni miti, a smentire non poche banalitaÁ e a correggere macroscopici errori d'impostazione storiografica. EÁ una soluzione che vale anche per i motivi indicati all'inizio
di questo capitolo e che coinvolge direttamente il giudizio sulla fortuna di Luigi XIV nella cultura italiana: la mistura di nazionalismo e
d'idealismo (non importa che fosse di destra o di sinistra), ha reso
«oggettivi» alcuni punti di vista, impedendo di valutarne altri. La
storia ad «incroci» fa, invece, emergere nuove prospettive ed inedite
vicende, come quella che raccontiamo nel capitolo secondo.
CosõÂ, al contrario di cioÁ che una parte della storiografia meridionale ritiene, la guerra di successione spagnola non rappresentoÁ l'epilogo dei rapporti tra Spagna e Sicilie, il «congedo dalla Spagna». Per
questa ragione non riteniamo che sia esistito un momento «aurorale»
di una nuova e diversa classe dirigente siciliana avvenuto per l'impulso del riformismo austriaco 18. Pensiamo piuttosto che gli anni del
17
A. De Francesco, Mito e storiografia della ``Grande rivoluzione''. La Rivoluzione
francese nella cultura politica italiana del '900, Guida, Napoli 2006.
18 Á
E una tesi tranchant alla quale non diamo molto credito sulla base di quanto ci
accingiamo a descrivere nelle pagine seguenti. Questo topos eÁ presente, ad esempio, nello
studio di F. Gallo, L'alba dei gattopardi. La formazione della classe dirigente nella Sicilia
austriaca (1719-1734), Meridiana, Catanzaro 1996. Il lavoro eÁ un'ottima ricostruzione di
quella vicenda, basata su una solida base documentaria. Tuttavia, non condividiamo una
delle tesi dell'autrice, relativa alla «formazione» ab imis fundamentis di una nuova classe
dirigente per contatto con il cameralismo austriaco. I personaggi principali degli anni austriaci (Longo, Perlongo, Frangipane, cioeÁ i leaders del ministero togato isolano) attorno i
quali ruota la tesi della Gallo, avevano giaÁ fatto la loro apparizione, si erano formati, ed
avevano svolto il loro apprendistato sulla scena politica della Sicilia ben prima della dominazione austriaca, cioeÁ durante il periodo della successione di Spagna. Nelle pagine seguenti
tenteremo di dimostrare che per l'intero ceto togato delle due Sicilie l'opzione austriaca
rispetto a quella francese e piemontese rappresentoÁ la scelta migliore per il ristabilimento del
I. La nuova storiografia «aÁ part entieÁre»
15
regno di Carlo II d'Austrias abbiano giaÁ rappresentato un discrimen
importante per la maturazione di una diversa mentalitaÁ, avvenuta
sostanzialmente per una radicale modificazione dei paradigmi culturali che condizionavano la vita politica europea. Prove in tal senso
sono state costruite con abbondanza dalla storiografia internazionale
che ha studiato il fenomeno del ricambio delle classi dirigenti in
diverse regioni dell'ex impero spagnolo. Piuttosto, tale trauma avvenne in corrispondenza di due precisi fenomeni, che agirono radicalmente sulle istituzioni europee e sulle mentalitaÁ sociali, modificando drasticamente i termini della secolare vicenda della dialettica
tra status: il rafforzamento della costruzione statale nei regni piuÂ
nuovi ed una modifica sostanziale nei paradigmi culturali dei governi
europei, di cui l'emersione della diplomazia rappresenta un fenomeno significativo. Fu sicuramente una modifica a tappe, di cui le
rivoluzioni atlantiche, che provocarono il crollo definitivo dell'Antico Regime, rappresentano la cuspide del fenomeno.
Per completare il quadro settecentesco dei rapporti tra i due
regni, rimaneva inesplorata tutta la parte relativa al periodo compreso tra il 1734, anno di fondazione del nuovo regno meridionale, e la
metaÁ degli anni cinquanta, quando con il rovesciamento delle alleanze franco-austriache e con il passaggio di Carlo al trono spagnolo
mutoÁ radicalmente la politica internazionale su scala planetaria. L'occasione di riflettere su questi temi ci eÁ stata offerta da Biagio Salvemini, impegnato a coordinare un gruppo di ricerca internazionale sul
tema dei rapporti commerciali tra Italia meridionale e Francia nell'etaÁ della «grande trasformazione» dell'economia mondiale. La sua
richiesta di collaborazione per la parte del contesto politico settecenpotere negoziale e di governo del ceto ministeriale. Inequivocabili segni di questo atteggiamento sono i comportamenti assunti da Serafino Biscardi e dai togati della Sicilia citra, che
racconteremo qui di seguito. Ricordiamo inoltre che il governo viennese viveva in una
contraddizione insanabile tra le idee mercantilistiche e produttivistiche e la visione politica
legata al vecchio costituzionalismo giuridico, dalla Catalogna trasferito a Vienna. Il giudizio
di Pietro Giannone su quel sistema, espresso dall'idea di trapiantare nella capitale austriaca i
vecchi Consigli spagnoli, fu particolarmente duro, giacche egli giustamente intuõ che quella
logica della continuitaÁ era irrazionale ed avrebbe bloccato ogni recupero della produttivitaÁ:
cfr. infra, p. 204 e nt. 56.
16
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
tesco, ci ha dato modo di pensare organicamente alle pratiche tardomercantilistiche dei due regni, che ci sono sembrate fortemente caratterizzanti di quegli anni, piu di qualunque altra forma di relazione
politica. I risultati, giaÁ in parte editi nel volume diretto da Salvemini,
sono qui presenti nel quarto capitolo 19.
Resta il rammarico di non aver trovato adeguate risposte ad
alcune molto pertinenti ed ineludibili domande che ci poneva l'amico
barese. Il suo intento era infatti quello di valutare il ruolo dei flussi
commerciali a lunga distanza sulla crescita complessiva dei soggetti
economici meno progrediti e piu deboli, nel quadro di una profonda
riconsiderazione delle linee di sviluppo dell'economia meridionale tra
XVIII e XIX secolo. Per la nostra parte ci siamo limitati a ricavare
notizie piu o meno dirette sulle macropolitiche da fonti poco esplorate, quelle della politica internazionale, al fine di verificare i «gradi
di libertaÁ nella determinazione dei propri percorsi evolutivi e le opportunitaÁ che le compagini sociali si danno», al fine di associarle al
«restringimento speculare che esse riescono ad indurre nelle opportunitaÁ di altre compagini» 20. La navigazione, il trasporto ed il commercio di generi di scarso valore intrinseco sono attivitaÁ normalmente estranee alle `cure' dei governi centrali, che da problemi ben piuÂ
gravi e consistenti sono `requisiti'. Contro questo disinteresse, che da
fenomeno storico diventa fatto storiografico, eÁ giusto illuminare i
settori del piccolo cabotaggio politico, ma di notevole consistenza
sul piano economico. EÁ bene fornire i segni di vita di un corpo che
trae dalla sua nativa e materiale energia le forze e le attivitaÁ per
sottrarsi alla catalessi e per adattarsi ai parametri violenti di un
quadro pubblico alienante. Ma, com'eÁ ovvio, eÁ assai stretta la connessione tra le relazioni internazionali da un lato e la libertaÁ dei
mercati dall'altro, cosõÂ come la dialettica dei modelli di governo e
di vita da un lato e la fenomenologia politica ed esistenziale dall'altro.
19
Lo spazio tirrenico nella `grande trasformazione'. Merci, uomini e istituzioni nel Settecento e nel primo Ottocento, Edipuglia, Bari 2009.
20
B. Salvemini-M. A. Visceglia, Marsiglia e il Mezzogiorno d'Italia (1710-1846). Flussi
commerciali e complementaritaÁ economiche. Prima parte, in MeÂlanges de l'EÂcole FrancËaise de
Rome. Italie et MeÂditerraneÂe, t. 103, a. 1991, 1, pp. 104.
I. La nuova storiografia «aÁ part entieÁre»
17
La creazione di strumenti e di fonti di guadagno ed il trasferimento
delle ricchezze sono attivitaÁ sempre fortemente condizionate da quadri sociali piu ampi, ideativi e culturali, che, oltretutto, caratterizzano il tono delle civiltaÁ, ed il loro evolversi.
4. Parametri storici e storiografici per la successione in Italia
Luigi XIV agõÂ in maniera diretta sulla vita politica delle Sicilie
giaÁ qualche anno prima che entrasse in vigore il testamento di Carlo
II d'Austrias, atto per il quale il giovane duca di AngioÁ divenne re di
Spagna con il nome di Filippo V. Nel 1707, con l'arrivo degli Austriaci nel regno continentale, l'intromissione francese ebbe termine;
mentre nell'isola l'azione del Re Sole si concluse due anni piu tardi.
Tuttavia l'ascendenza francese sulla vita politica isolana continuoÁ
ancora, seppur in maniera indiretta, sotto il governo del vicere afrancesado Los BalbaseÁs, fino alla cessione di quel regno ai Piemontesi,
avvenuta nel 1714 21. Per la Francia si trattoÁ di un grande salto di
qualitaÁ nei suoi rapporti con l'Italia meridionale rispetto al passato:
questa volta non si trattava di agire nell'ambiguitaÁ e di violare un
diritto delle genti, ostile, ma solo in linea di principio, alla collaborazione tra soggetti rivoltoÂsi ed il monarca di un'altra potenza, com'era spesso avvenuto per tutto il XVII secolo, tra il governo di
Richelieu e quello del Re Sole 22. PuoÁ apparire paradossale che i due
belligeranti, Francia e Spagna, durante il secolo dell'assolutismo monarchico utilizzassero l'aiuto inaspettato che veniva offerto da gruppi
sociali, da cittaÁ e province o da interi paesi contro il proprio legittimo
sovrano. Tuttavia, proprio allora i fatti avevano rotto gli argini delle
21
CioÁ risulta in maniera molto evidente e limpida nei documenti di parte francese:
A.A.EÂ., Correspondance politique, Naples, voll. 12, 13, 14, 15, 16, 17, 18, 19, 20, 21 e 22, e
MeÂmoires et documents, vol. 3, che citeremo in dettaglio assieme ad altre fonti di varia
provenienza nazionale nel corso della narrazione che segue.
22
Per J. BeÂrenger, Relations internationales et subversion: essai de typologie, in L'Europe, l'Alsace et la France, Strasbourg 1986, pp. 245-55 nel Seicento il diritto delle genti non
fu del tutto contrario a priori al fatto che un sovrano potesse allearsi con dei rivoltosi di altro
paese. Per una tipologia di queste rivolte, cfr. la sintesi di J. Cornette, Le roi de guerre. Essai
sur la souverainete dans la France du Grand SieÁcle, Payot, Paris 1993, pp. 146-9.
18
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
vecchie teorie giuridico-politiche. Questo era avvenuto con il processo d'indipendenza delle Province-Unite, dove in un primo momento i
rivoltoÂsi tentarono la carta di ottenere un principe straniero ± francese o inglese poco importava ± per mettere la loro piccola repubblica
sotto la tutela d'una superpotenza. Estremi furono il caso della Catalogna, con il trattato franco-catalano del gennaio 1641 che vide
Luigi XIII come conte di Barcellona, e quello di Messina, in aperta
rivolta filo-francese contro la Spagna dal 1674 al 1678. Eccezionale
fu in ultimo l'esempio inglese, quando i rivoluzionari offrirono il
trono a Guglielmo d'Orange, che da Statoldo delle Province-Unite
divenne Guglielmo III, re d'Inghilterra.
Ma insieme a molte novitaÁ agirono pure antiche permanenze. EÁ un
dato elementare per la storiografia il fatto che la civiltaÁ francese, nei
suoi molteplici aspetti, ha avuto un'enorme influenza sulla storia italiana, ed in particolare sul Mezzogiorno. Questa presenza costante va
ben al di laÁ sia dei prolungati domini politici angioino e napoleonico,
sia delle brevi escursioni durante la spedizione di Carlo VIII (1494-95)
e nel corso della tumultuosa guerra franco-spagnola combattuta per la
conquista del Mezzogiorno durante i primi tre decenni del Cinquecento. Anzi, se il quadro storico eÁ ampliato e se si guarda alle connessioni
inter-etniche che hanno caratterizzato l'evolversi della civiltaÁ europea
durante l'etaÁ medievale e moderna (tema qui sommariamente giaÁ enunciato), il modello organizzativo espresso dalla sintesi francese di Stato e
SocietaÁ agõÂ sulla cultura e sulle realtaÁ sociali ed istituzionali subalpine
ben oltre il diretto dominio politico e militare. L'influenza gallicofranca aveva operato nella Penisola subalpina in modo costante almeno
dall'epoca longobarda, con ripercussioni evidenti specialmente nella
sfera giuridico-istituzionale: si pensi alla tutela carolingia del pontificato romano, che creoÁ i precedenti dello Stato pontificio (tema illuminato dal pathos politico di Gioacchino Volpe) 23.
Dunque si puoÁ dire che mentre le due presenze, la francese e
l'ispanica, furono componenti strutturali della storia subalpina nel23
Si veda di Volpe Il Medio Evo, Sansoni, Firenze 1926, spec. le pp. 97-100 (ediz. del
1958). La stesura del libro comincioÁ a partire dal 1917.
I. La nuova storiografia «aÁ part entieÁre»
19
l'etaÁ moderna, la prima, la gallico-franca, aveva avuto giaÁ un significato di modello ideale, culturale, istituzionale fin dall'epoca dell'invasione longobarda. L'ovvio dato di fatto che la futura monarchia
francese si formoÁ e consolidoÁ in Europa circa un millennio prima di
quella ispanica, e che quest'ultima (ovviamente) non poteva agire
prima di nascere, nulla toglie alla validitaÁ della differenza, anzi la
giustifica e la rafforza. Infatti, eÁ calcolo elementare che il lasso di
tempo intercorso tra Clodoveo e Ferdinando il Cattolico corrisponde
a dieci secoli. Fu Carlomagno il primo grande mito ed eroe liberatore
delle popolazioni cisalpine galliche di origine celtica quando, nel 774775, uscirono verso la luce lasciandosi alle spalle la quasi trisecolare
notte longobarda. Il meccanismo istituzionale che l'imperatore creoÁ
per ``cingere'' la sua testa con quella corona offre un quadro eloquente delle mentalitaÁ e finzioni medievali, che attribuivano importanza
ai gesti prescindendo completamente dalla loro consistenza materiale: percioÁ il papato sommava in se un potere tanto in pratica nullo
quanto idealmente immenso 24. Forse di qui eÁ nata la tendenza italiana a considerare fittizie ed a discreditare in sostanza le idealitaÁ, ma a
tenerle continuamente in scena. E, volendo riprendere un filo logico
piu circoscritto, non a caso, durante la seguente storia peninsulare, la
stretta connessione tra avvenimenti politici locali e valori culturali ed
istituzionali francesi fu del tutto evidente in particolare nei momenti
di scosse, di svolte e di turbolenze sociali, proprio a conferma del
carattere istituzionale e strutturale del modello transalpino: basti
pensare alle rivoluzioni e sommosse del 1547, del 1647-1648, del
1674-1678, del 1701 e del 1799.
Tuttavia, nonostante questi abbondanti precedenti, non esiste
alcun riscontro storiografico del significato non solo potestativo, ma
24
Cfr. a tal proposito il giudizio di C. Fleury nella sua Histoire du droit francËais (1674 I
ediz., 1682 presso Estienne Loyson, Paris), sprezzante per cioÁ che era avvenuto a sud delle
Alpi a proposito dell'utilizzazione del Corpus Juris, distorta rispetto a quella che se ne fece in
Francia, dove quel diritto e, piu in generale tutto il modello statale romano, divenne invece
un elemento concreto della costruzione statuale nazionale. Su questo aspetto della critica al
mondo subalpino da parte del geniale giurista francese ha opportunamente richiamato
l'attenzione Ajello, EreditaÁ Medievali Paralisi Giudiziaria. Profilo storico di una patologia
italiana, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, Napoli 2009, p. 115.
20
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
anche ideale che ebbero le dirette ingerenze francesi nella vita politica delle Sicilie durante la guerra di successione, e non eÁ facile
comprendere i motivi di questo lungo silenzio degli storici. I contemporanei, invece, percepirono chiaramente il significato che
avrebbe avuto il governo francese sull'Italia meridionale, come dimostra Tiberio Carafa con il suo racconto della congiura aristocratica del 1701. Questo eÁ solo uno tra i tanti esempi che mostreremo
nelle pagine seguenti. Come spiegare questo appiattimento sulle
mere vicende militari? Si trattoÁ forse di un'operazione coscientemente attuata dai protagonisti di quelle vicende per una damnatio
memoriae di questo periodo della storia dell'Italia meridionale, e
che ebbe inizio proprio a partire con il viceregno austriaco? Fu una
sorta di senso di colpa e di pudor cioÁ che nascose i motivi delle
riserve contro la Francia, il cui modello di vita (come Benedetto
Croce in piu opere chiaramente riconobbe), diventava vincente sul
piano del progresso civile e del gusto, come confermava il diffondersi del conversare, del valorizzare il bel sesso e la femminilitaÁ e
del vestire ``alla francese''?
In realtaÁ, se la Francia rappresentava il faro del nuovo modo di
navigare verso il futuro, il passato premeva pesantemente, e del
parassitismo non era possibile disfarsi senza duri sacrifici, ovviamente sgraditi ai benestanti, ossia a quegli stessi che si atteggiavano
filofrancesi, e che in quel modo mostravano di voler vivere. Per
alcuni dei personaggi che incontreremo nelle pagine seguenti, sembrerebbe che sia andata proprio in questa maniera. EÁ il caso, ad
esempio, di Serafino Biscardi, il potente togato che alla morte di
Francesco D'Andrea gli era subentrato quale leader del ceto ministeriale, e che durante il periodo del viceregno austriaco verraÁ indicato
come il vero vicere di «fatto» per l'enorme potere che esercitava. Egli
era, comunque, uomo di toga. Ancor prima dell'accettazione da parte
francese del testamento di Carlo II, aveva intessuto con quel governo
stretti rapporti, alla cui riprova esiste una buona documentazione.
Poi, avendo compreso a sue spese che la volontaÁ francese era diretta a
restringere notevolmente i margini di potere del suo ceto d'origine,
I. La nuova storiografia «aÁ part entieÁre»
21
mutoÁ la sua fedeltaÁ al re di Spagna ed abbraccioÁ le ragioni politiche
dell'Impero austriaco.
Ma, per quanto importante sia l'esempio appena citato, esso
non basta a spiegare i motivi del fenomeno storiografico per cui del
governo di Luigi XIV sul Mezzogiorno si eÁ attenuata la memoria.
Ne il caso di Biscardi, ne quello del togato siciliano Giovanni Brancaccio ± filospagnolo ma non francofilo, ed anti-asburgico al punto
da emigrare in Spagna nel 1725, da dove in seguito ritornoÁ in patria
come segretario d'Azienda del neonato regno borbonico napoletano ± sono sufficienti per comprendere appieno le ragioni esistenziali della loro generazione 25. E neppure a tradurre integralmente la
complessitaÁ e la densitaÁ di atteggiamenti in apparenza contraddittori, ne a stabilire una perfetta tipologia delle attitudini politiche
delle classi dirigenti dell'Italia meridionale, nel contesto della crisi
profonda che fu aperta con la successione di Spagna e che mise in
luce le conseguenze di collasso sociale, provocate da circa sedici
decenni di governo togato.
Anche altre ragioni, meno apparenti, storiografiche piu che
storiche, furono alla base di quella situazione. Cercheremo d'indicarne alcune di carattere culturale ed ideologico che ci sembrano
rilevanti ai fini di una decifrazione del fenomeno. Compiremo in
sintesi questo chiarimento sviluppando alcune linee generali d'interpretazione che seguono il modello dell'opera di Antonino De
Francesco, cosõÂ come eÁ stato qui giaÁ anticipato 26. Tre risultati di
quella operazione interessano le presenti pagine. EÁ da tener conto
di un dato di fatto: il rigetto della stagione rivoluzionaria ha dominato gran parte della storiografia europea dell'Ottocento, e su di
esso alcuni storici italiani collocarono le fondamenta peculiari della
`nuova' nazione italiana. La «gallofobia» divenne cosõÂ una prova
degli «irreversibili destini» autoritari dell'Italia fascista. Ovviamente il carattere sociale rifiutato aveva origini ben piu lontane, da
25
R. Tufano, Giovanni Brancaccio in Sicilia: dalla memoria del giurista all'esperienza di
governo (1673-1720), in «Frontiera d'Europa», a. XII (2006), në 1, pp. 6-144.
26
De Francesco, op. cit. (nt. 17).
22
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
indagare a ritroso nel tempo, scavando in profonditaÁ nella storia
delle mentalitaÁ sociali europee. La generale incomprensione verso il
1789 nasceva dalla tentazione di uniformare la fervida stagione
rivoluzionaria all'esito napoleonico, che fu di estensione enorme
ma di significato ideale deludente. Il punto di vista storiografico
italiano si legoÁ alla critica delle tendenze egemoniche francesi, che
erano atte a nascondere pregi di socialitaÁ e di costituzionalismo da
non mettere in luce nel clima della Restaurazione. D'altra parte, la
gallofobia liberale e conservatrice veniva cosõÂ a saldarsi con un altro
e differente rifiuto, di ascendenza democratica, che, pur ritenendo
ferme le conquiste della Rivoluzione, tuttavia temeva che il modello
del governo francese facesse perdere ad esse parte del carattere
rivoluzionario 27.
EÁ forse utile, a questo punto, ribadire l'orientamento storiografico generale adottato in questo libro. Esso chiede che si ponga in
luce, quale oggetto di critica, la tendenza a ridurre nei termini di
mera conquista e di dominio militare la presenza e l'influenza della
grande tradizione francese, trascurando sul piano della sovranitaÁ il
significato sociale che il governo parigino portava con seÂ. La volontaÁ
di ridimensionare a problema di potere l'espressione di un progetto
sociale chiaramente legato ad una religiositaÁ non confessionale e non
romana eÁ una deformazione rovinosa sul piano storiografico ed ideale. In questo modo il modello anglo-francese, sia tardo-medievale sia
27
Come spiega Antonio De Francesco (ivi, pp. 34-5), «il rifiuto a livello europeo del
1789 nasce dalla tendenza ad uniformare l'intiera stagione rivoluzionaria sotto l'egida della
conclusione napoleonica ed eÁ pertanto l'Impero dei francesi ± sgraziato e violento imitatore
d'altra idea di potere universale ± il bersaglio polemico della storiografia europea sopra
ricordata, che v'intravvede la prova provata della volontaÁ egemonica di Francia e dunque
un monstrum politico al quale ostinatamente contrapporre ragioni e identitaÁ nazionali. Sotto
questo specifico profilo, diviene impossibile comprendere perche alla gallofobia di parte
liberale e conservatrice, che attraversa larga parte dell'Europa di secolo XIX, venga in
soccorso anche l'altra, d'ascendenza democratica, che sull'endiadi rivoluzionaria di Francia
± libertaÁ ed eguaglianza ± sempre, nella pratica politica, tenne invece fermo. E diviene
plausibile leggere le tante critiche alla Rivoluzione nell'Europa di secolo XIX sotto il segno
della preoccupazione che il modello di Francia ± declinato nei termini autoritari del II
Impero ± potesse travolgere, come a Parigi, quanto il 1848, non solo in chiave liberale ma
pure sotto il segno democratico, in tutta Europa aveva invece dischiuso».
I. La nuova storiografia «aÁ part entieÁre»
23
moderno, viene ad essere depotenziato a vantaggio di uno spiritualismo `verticale', antistorico, piu o meno «puro», che si ricopre di vesti
o pontificie o dell'idealismo tedesco. Quest'ultimo, antiplutocratico
ed antiebraico, moralistico al di laÁ delle apparenze, piu machiavellico
che intimamente machiavelliano, incline a sbocchi escatologici e messianici, eÁ la variante di origine luterana di uno spiritualismo ``assoluto'' che ha costituito, con i disastri prodotti nell'alto medio evo, il
problema centrale della civiltaÁ europea ed occidentale durante l'intero ultimo millennio.
5. Il Re Sole: abuso ideologico della sua personalitaÁ
Per tornare al nostro caso, occorre rimarcare che se la fortuna del
modello statale francese nella cultura italiana ha origini piu lontane
del 1789, tuttavia in seguito essa verraÁ inevitabilmente condizionata
proprio dall'evento rivoluzionario e dai suoi sviluppi, che s'incarneranno essenzialmente nei due Napoleone. E di cioÁ si deve tenere
debito conto, giaccheÂ, dall'Otto al Novecento, l'immagine del regno
di Luigi XIV subiva in Italia, per alcuni ma notevoli tratti, la sovrapposizione delle figure dei due Imperatori. Di suo, come un Giano
bifronte, egli sembrava diabolicamente esprimere due posizioni psicologiche e politiche antitetiche ed inconciliabili, che avrebbero inevitabilmente resi scontenti in Italia sia l'eterogeneo mondo liberale,
che rifiutava l'accentramento amministrativo e l'autoritarismo di
governo, sia quello radicale-democratico, cui repelleva l'idea di un
re della guerra, per di piu con la fissazione d'instaurare una monarchia universale e cattolica.
Esemplare di ambedue le posizioni la sintesi del regno di Luigi
XIV proposta nel 1939 da Ettore Rota, in un profilo in cui i due
torbidi aspetti del Re Sole venivano ``sapientemente'' fusi. Egli era
descritto simile ad un «avvoltoio» che «contemplava d'alto» l'Italia
dopo averne tradito nel 1678 i propositi indipendentistici e pre-risorgimentali a Messina, in attesa di rendere reale il «sogno che si era
infranto sugli scogli di Scilla e Cariddi, di fronte all'isola sempre
24
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
infedele», attraverso la successione di Spagna (avvenimento che,
peroÁ, Rota non nomina neppure) 28.
Quale era per Rota il modello di riferimento della politica «capricciosa, violenta e superba» del re di Francia? La risposta ch'egli
offre eÁ scontata e tradisce l'origine ideologica della sua tesi: «Roma, i
Romani antichi, l'universalitaÁ della Chiesa cattolica, ossia l'Italia,
centro dell'Impero e del Papato» 29. In sintesi, Rota attribuisce a
Luigi fantasticherie tipicamente italiane: ed eÁ ``normale'' che sia cosõÂ,
poicheÂ, essendo esse ``universali``, non potevano che albergare anche
nella mente del Re Sole, e nessuna prova in contrario puoÁ valere,
documentarsi eÁ pleonastico. E quando, durante la successione di
Spagna, il re francese ambiraÁ a fare del Piemonte una «preda», saranno i prodromi del Risorgimento in Piemonte 30.
Com'eÁ facile notare, Luigi XIV, Napoleone I ed il III nella
ricostruzione di Rota sono immagini sovrapponibili che delineano i
contorni di una nazione nata «sorella» e tuttavia cresciuta ostile, e
che, per uno dei tanti paradossi della storia, avrebbe innescato il
processo di una via nazionale al rinnovamento politico dell'Italia.
Non eÁ difficile riconoscere nel veloce profilo del re di Francia alcune
delle idee di Jules Michelet, da dove poi nasceraÁ l'impietosa analisi di
28
E. Rota, Italia e Francia davanti alla storia. Il mito della sorella latina, Istituto per gli
studi di politica internazionale, Industrie grafiche A. Nicola & C., Milano 1939, pp. 179-81.
«Senza l'opera prudente e duratura di Mazarino, Luigi XIV non avrebbe aspirato ad un'egemonia incontestabile, ne avrebbe resistito lungamente in una politica capricciosa, violenta, superba, quale fece per tutti gli anni del suo regno. [...] Luigi XIV era convinto di
avere diritto al primato e poteva anche osare. Ma se tiroÁ colpi all'impazzata di qua e di laÁ,
contro tutti, da tutte le finestre di Versailles, provocando una coalizione europea, senza
incorrere nel pericolo di rimanere schiacciato sotto un cumulo di macerie, cioÁ gli fu possibile
per la salda costruzione su cui poggioÁ la sua politica di avventure: e tale fu sempre la politica
del Re Sole, specie in relazione con l'Italia. Il cambiamento nella natura dei poteri, fu
sensibile fin dal primo giorno in cui la macchina dello Stato passoÁ nelle sue mani, appena
scomparve il Mazarino. Ai segretari di Stato annuncioÁ in termini precisi quale era il nuovo
carattere del governo: ``Io saroÁ d'ora innanzi il mio primo ministro; voi mi verrete incontro
coi vostri consigli quando ve li chiederoÁ''. Per un cinquantennio di regno, dal 1661 al 1713, il
pensiero fisso fu il dominio in Italia. Nessun'altra ambizione avrebbe soddisfatto piu profondamente il suo mistico orgoglio di vicario di Dio, e di capo naturale di tutto il popolo
cristiano, unico ed indivisibile come il punto geometrico [...]».
29
Ivi, p. 180.
30
Ivi, p. 181.
I. La nuova storiografia «aÁ part entieÁre»
25
Ernest Lavisse: Luigi XIV non eÁ un politico, ma un devoto, dunque
un pessimo francese. «Dieu-donne naquit pour cela, pour la croisade
protestante de l'Hollande (et d'Angleterre), et pour la croisade inteÂrieure contre nos protestants de France. Sauf le court moment du
Tartuffe [...], ou le parti deÂvot s'attaque aux múurs du roi, il fut
toujours docile aÁ ce parti» 31. Sull'idea di crociata del re si sofferma
anche Rota, che spiega come un bisogno di esercitare un «protettorato
quasi universale», per apparire come il «supremo difensore della CristianitaÁ» 32. Che tutto questo potesse nascondere un'abile strategia,
tipica dell'astuto e non bigotto uomo di governo, non eÁ contemplato.
Ma il repubblicano Michelet non eÁ il solo riferimento dello storico
italiano, che guarda, seppure in piccola parte, alla tradizione storiografica liberale, che tendeva ad isolare l'opera politica ed amministrativa del re e mirava a scongiurare il pericolo che il XVII secolo, con il
suo razionalismo e con il suo empirismo, fosse posto in collegamento
con Montaigne e con l'esperienza delle guerre di Religione 33.
Ovviamente, nel duro clima presente alla vigilia del secondo
conflitto mondiale, dei due volti di Luigi lo storico italiano esaltava
solo il primo. Il discredito della storia francese e del suo significato
ideale aveva avuto inizio con le critiche a Carlo Magno, accuse che
sono presenti nella storiografia tedesca del Settecento da MoÈser,
attraverso Herder fino a Fichte, nel quadro della Lotta contro la
ragione (Carlo Antoni) 34. Questo fu un precedente che divenne un
topos culturale cui bisogna guardare per sciogliere il groviglio cui la
storiografia ha ridotto le vicende europee, volendo obbedire alle
esperienze ideologiche della Restaurazione. In questa fase la Francia,
31
J. Michelet, Histoire de France, t. XIII, Louis XIV et la reÂvocation de l'eÂdit de Nantes,
1661-1685, Lacroix et Cie, Paris 1860, p. 127.
32
Rota, Italia e Francia, cit. (nt. 28), p. 180.
33
La bibliografia sull'argomento eÁ vasta, sebbene ruoti sempre attorno a due assi: la
lettura a forte connotazione neo-cattolica e quella liberale. Nel caso delle fonti di Rota
conviene qui citare, come esempio della seconda interpretazione del regno del Re Sole
(quella liberale), un autore di grande successo, J.-B. Capefigue, che diffuse la doxa di
Voltaire e gettoÁ un solido ponte tra il SieÁcle de Louis XIV e il Tocqueville dell'Ancien ReÂgime
et la ReÂvolution, cfr. Richelieu, Mazarin, la Fronde et le reÁgne de Louis XIV, Louis Hauman et
Cie, Bruxelles 1835-1836, voll. 5.
34
La lotta contro la ragione, Sansoni, Firenze 1942.
26
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
con la sua tradizione di governo costituzionale fondato sulla sovranitaÁ
popolare (sacrale e religiosa) venne a costituire per la cultura italiana
un problema quasi insuperabile. Di qui la tendenza a svalutare l'opera
di Napoleone e di ridurla a mera espressione di aggressivitaÁ; di qui le
proiezioni del giudizio negativo verso il passato ed a vedere in Luigi
XIV un precursore di una serie di fenomeni ottocenteschi deteriori. E
in questo florilegio di amenitaÁ non manca chi, piu di recente, ha
voluto vedere nel volontarismo legislativo di Napoleone la conseguenza diretta di una colpa indelebile, che, secondo una logica imitativa
creata dal ``peccato originale'', eÁ da attribuire al pater, al filosofo piuÂ
amato dai francesi: a Montaigne 35.
35
L'idea di un Montaigne ispiratore del volontarismo giuridico e ``prepositivista'' puoÁ
venire in mente a chi abbia poggiato lo sguardo solo sulla copertina degli Essais. Se cosõÂ non
fosse, dovremmo piuttosto pensare che questa critica alla modernitaÁ (di cui lo scettico francese
fu uno dei patriarchi e Napoleone uno dei suoi criminali esecutori), tragga fondamento, non
giaÁ da una visione razionale e scientifica del dato storico, ma che piuttosto si nutra di gravi preconcetti verso la cultura occidentale, in particolare quella che si sviluppoÁ dopo l'anno Mille.
Pregiudizi dietro i quali si nasconde certamente un atteggiamento pre-moderno (e non post,
come si vuol far credere per graziosa e scaltra concessione alla moda culturale: ma su di cioÁ cfr.
una nostra piu articolata discussione in Illuminismo tradito o traditore. Il Settecento nella
storiografia italiana del diritto e delle istituzioni, in «Frontiera d'Europa», a. XI, 2005, n. 1,
pp. 212-34) che con ogni evidenza trae la sua intima ragione d'essere da una religiositaÁ
integralista, della quale il talebanismo rappresenta la faccia «orientale» del nostro pianeta.
Discutiamo qui delle tesi di Paolo Grossi, eminente accademico del diritto, e per questa
ragione insignito di alte onoreficenze dal mondo universitario e politico: cursus honorum
giunto al punto ch'egli oggi ricopre uno dei ruoli piu delicati dell'assetto repubblicano italiano,
quello cioeÁ di giudice costituzionale. Per documentare le nostre affermazioni relative alle tesi
storiche di costui citiamo a caso da una sua opera (Mitologie giuridiche della modernitaÁ, GiuffreÁ
Editore, Milano 2001) quello che appare come il leit-motiv che attraversa l'intera sua produzione letteraria: «la visione pessimistica ± che Montaigne, esperto di diritto, contempla con i
suoi occhi venati di un corrosivo scetticismo ± si traduce in una diagnosi puntuale di che cosa
sia diventata la loy in Francia nella seconda metaÁ del Cinquecento: una norma che si autolegittima come legge, cioeÁ come volizione di un soggetto sovrano. L'organismo politico, ormai
assestatosi in una robusta ± sempre piu robusta ± struttura autenticamente statuale, ha necessitaÁ di uno strumento normativo capace di contenere il fenomeno giuridico e di vincolarlo
strettamente al detentore del potere, strumento indiscutibile e incontrollabile, che permetta
di sbarazzarsi finalmente delle vecchie salvaguardie che parlavano, con un linguaggio sempre
piu irricevibile dalla Monarchia, di accettazione da parte del popolo o di organismi giudiziarii
e corporativi. La legge diventa una pura forma, cioeÁ un atto senza contenuto, cioeÁ ± per
spiegarci meglio ± un atto cui non saraÁ mai un determinato contenuto a conferire il crisma
della legalitaÁ, ma sempre e soltanto la provenienza dall'unico soggetto sovrano. Il quale si
identifica sempre piu in un legislatore, in un legislatore ingombrante, congiungendo strettis-
I. La nuova storiografia «aÁ part entieÁre»
27
In seguito, in un Italia oramai repubblicana, a testimoniare la
durevole fortuna della doppiezza enigmatica del re di Francia (da una
parte, il devoto, pio, timorato all'eccesso di Dio e preoccupato della
vita Eterna; dall'altra il libertino, l'autoritario ma fortemente innovativo uomo di governo) penseranno gli altoparlanti delle radio. Negli anni '50 del Novecento, in una trasmissione radiofonica di successo, uno scrittore d'eccezione, Carlo Emilio Gadda, racconteraÁ di
simamente la propria persona e la sua supremazia alla qualitaÁ della sua creatura normativa. E
nasce quella pesante ipoteca della civiltaÁ giuridica moderna che eÁ la mistica della legge, la
mistica della legge in quanto legge, una ereditaÁ dell'assolutismo regio che la Rivoluzione di
fine Settecento accoglieraÁ senza battere ciglio, intensificandola e irrigidendola rispetto alle
sussistenti aperture dell'antico regime sotto l'ammantamento di simulacri democratici. E, in
un clima di conquistata e ostentata secolarizzazione, sacra saraÁ la legge intrinsecamente
ingiusta, e sacra saraÁ la legge redatta e promulgata da un sovrano sciocco, per far nostro
l'esempio offerto dallo stesso Montaigne» (p. 32-3). L'autore considera dunque una disgrazia
la codificazione (p. 37) e, collegandola direttamente allo scetticismo di Montaigne, dimostra
di credere nella possibilitaÁ che il diritto esprima senza dubbi e senza oscillazioni una veritaÁ
ontologica, che soltanto i giuristi come casta (e non il legislatore, espressione della volontaÁ
generale) sarebbero in grado di far emergere. Dunque nessuna sensibilitaÁ per la certezza
giuridica, quale condizione esistenziale che richiede libertaÁ e dialettica delle idee. Si puoÁ
dire ancora che il primato del Medioevo cui Grossi fa riferimento esclude tutto il filone
eminente del pensiero logico parigino da Abelardo a Tommaso d'Aquino e Giovanni da Parigi,
ed immagina al centro di quel sistema il mos italicus (nella sostanza giustificazione del particolarismo e dell'arbitrio), che fu presto rimosso dal mos gallicus e rifiutato dallo stesso Alciato.
E, per portarci ai giorni nostri, valga un'ultima osservazione: la nostra Costituzione nacque,
come sappiamo, dalla dialettica delle idee e della politica frutto della lotta al nazi-fascismo,
sconfitto dall'unione di tutte le forze democratiche dei popoli del mondo civile. Tutte queste
componenti politiche si ispiravano, e continuano a farlo, in egual misura (ovviamente con
diverse declinazioni politiche ed ideologiche) ai risultati culturali ed ideologici del millenario
percorso compiuto dalla civiltaÁ europea: la piu evoluta dell'intera storia dell'umanitaÁ. La
genesi della modernitaÁ occidentale ± ed anche questo eÁ un dato di fatto arcinoto molto
difficilmente contestabile (e nessuno si sogna di farlo, ad eccezione dei terroristi e dei papi,
che seppure in tempi molto recenti hanno ``riabilitato`` l'eterodosso Galileo, continuano a
boicottare i tanti, copiosi frutti di quella eresia, tra cui l'uso delle cellule staminali per la cura
dei tumori e l'utilizzo di preservativi per la lotta all'AIDS) ± affonda le sue radici nella critica
ai ``fantasmi'' ed alle ``fantasmagorie'' del mondo medievale-antico: stadio della nostra civiltaÁ
superato abbondamente grazie ai risultati della critica alla legge della predestinazione. Alla
luce di tutto cioÁ, mi sia concesso ancora di esprimere un personale dubbio: ma non vi pare
esservi una forte, inequivocabile contraddizione, insomma un'insanabile dissidio tra lo storico
Grossi, che si professa nemico delle leggi parlamentari, ed il Grossi giudice costituzionale, che
ne dovrebbe essere invece garante dentro il quadro costituzionale? Il suo «dire» del diritto
italiano in sede costituzionale riusciraÁ a neutralizzare il suo scrivere ed insegnare ex-cathedra
contro l'intero diritto positivo, si tradurraÁ a vantaggio e nell'interesse della nostra Repubblica,
che fortunatamente non s'ispira piu al quasi magico spiritualismo medievale?
28
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
un re giovane, vittima dell'oggetto del suo libertinaggio, e poi di un
Luigi maturo, sempre piu azzannato nella coscienza dalla paura di cioÁ
che lo avrebbe atteso dopo il momento del Santissimo Sacramento.
Ma pur sempre un re lucido statista, che, ventitreenne al momento
della morte di Mazzarino (per i francesi Mazarin), rispose ai suoi alti
funzionari d'inviare a lui tutti i loro rapporti, e ancor piu dio della
guerra: «tre piu sette piu otto piu dodici, complessivamente, trenta
annetti di guerra su quarantaquattro di regno. Guerre per vero dire
non tutte imputabili alla Francia: ma Luigi e la Francia e la diplomazia francese per qualche verso c'entrarono pure» 36.
I due piani diversi della presenza francese, uno di dominio e
l'altro di progetto sociale ed istituzionale, divennero particolarmente
evidenti durante la guerra di successione spagnola, perche entrambi i
contendenti si posero in netto contrasto con gli assetti tradizionali,
nobiliari e feudali sia iberici sia del Mezzogiorno italiano. Infatti,
l'intero contesto occidentale, in cui si collocava la scena siciliana che
descriveremo nelle pagine seguenti, registroÁ proprio in quegli anni
grandi rivolgimenti: i decenni a cavallo tra XVII e XVIII secolo
furono talmente cruciali per lo svolgimento della storia dell'Europa
e del mondo intero che Paul Hazard li individuoÁ ed indicoÁ come gli
anni della «crisi della coscienza europea». Prese forma allora, dopo la
fine della rivoluzione inglese ed in un clima giaÁ lockiano, il tentativo
d'imporre ad una materia sociale e culturale estremamente fluida una
nuova «civilizzazione», fatta di ordine e d'intellegibilitaÁ 37.
A prescindere dai rilievi critici che sono stati mossi alla periodizzazione usata in quell'opera magistrale, tuttavia essa spiega bene e
con dovizia di dettagli come dentro quella temperie di straordinaria
intensitaÁ venne a costruirsi un'idea del vecchio Continente quale
spazio circonscritto di un specifico patrimonio di conoscenze e di una
36
C. E. Gadda, I Luigi di Francia, Garzanti, Milano 1964, pp. 55-92. Le trasmissioni
andarono in onda sul Terzo programma della RAI, nella serie Serate a soggetto ed il 21 ed il 23
di luglio del 1952 fu la volta del Luigi XIV: cfr. L'ingegnere e la Rai 1950-1955, a cura di
Giulio Ungarelli, Nuova Eri, 1993 e S. Casini, I Luigi di Francia, in «The Edinburgh Journal
of Gadda Studies», 2002, n. 2.
37
P. Hazard, La crise de la conscience europeÂenne, Fayard, Paris 1961 (I ed. 1935).
I. La nuova storiografia «aÁ part entieÁre»
29
peculiare mentalitaÁ 38. Per Hazard l'idea di Europa si costruõÂ come
somma di un complesso di nazioni e di culture che, seppur possedevano dei tratti distintivi straordinariamente comuni, tuttavia si collocavano dentro la cornice di una struttura fortemente gerarchizzata.
Come Marcello Verga spiega, in questo nuovo luogo identitario ± e
come tale alla ricerca di cioÁ che si poteva riconoscere come «altro» da
se ± il motivo della «decadenza» dell'Italia (e della Spagna) non rappresentava altro che la ricerca di un «confine» tra due aree differenti:
una sviluppata, l'altra meno dello stesso Continente 39. E non fu facile
per gli italiani del Settecento accettare un ruolo marginale nella gerarchia socio-politico-economica e nella scala di valori culturali che, a
partire dalla «querelle des anciens et des modernes», gli altri popoli
d'Europa elaboravano intorno ai concetti di politesse e civilisation 40.
Il fatto rilevante emerso da quell'esperienza fu che la nuova idea
d'Europa avrebbe inevitabilmente subõÂto forti condizionamenti etnocentrici: essi si celavano tra le pieghe delle diverse tradizioni sto38
Sulla validitaÁ della periodizzazione creata da Hazard, cfr. ad es. le notazioni di P.
VernieÁre, Peut on parler d'une crise de la conscience europeÂenne, in Aa.Vv., L'etaÁ dei Lumi.
Studi storici sul Settecento europeo in onore di Franco Venturi, vol. I, Jovene, Napoli 1985, pp.
57-78. Su cioÁ, cfr. S. Zoli, Dall'Europa libertina all'Europa Illuminista. Alle origini del
laicismo e dell'illuminismo, Nardini, Firenze 1997, pp. 18-20.
39
M. Verga, La Spagna e il paradigma della decadenza italiana tra Seicento e Settecento, in
Alle origini di una nazione. Antispagnolismo e identitaÁ nazionale, a cura di Aurelio Musi,
Guerini, Milano 2002: «un confine che per i francesi o per gli svizzeri segna la linea sottile
dell'esprit e della politesse, quel confine che Muratori tradurraÁ nella formula del ``buon
gusto''; e che per gli olandesi e gli inglesi segue invece la linea piu marcata e decisa dell'appartenza confessionale [...]. E sono questi i confini ± linee nette di inclusione-esclusione ± sui quali si va costruendo tra Seicento e Settecento ± in Inghilterra come in Francia,
in Olanda, in Svizzera o nella stessa Italia ± l'idea di Europa: di uno spazio cioeÁ che in pieno
Settecento eÁ diviso tra un'Europa del nord e un'Europa mediterranea, ed insieme tra
un'Europa vera e propria ed un'Europa meno Europa, per indicare la quale s'``inventoÁ''
la definizione d'Europa orientale» (p. 51). Alle pp. di Verga rimandiamo per una chiara
sintesi del problema accennato e per la bibliografia. Ancora: Id., Decadenza italiana e idea
d'Europa (XVII-XVIII secc.), in «Storica», 2001, n. 22.
40
Un chiaro esempio di reazione italiana alle gerarchie delle nazioni europee che si
erano consolidate nel corso del XVIII eÁ quello dello Sbozzo politico d'Europa (1771) dell'illuminista napoletano Michele Torcia, studiato da chi scrive (Michele Torcia. Cultura e politica nel secondo Settecento napoletano, Jovene, Napoli 2000) e da Anna Maria Rao, Un
letterato faticatore nell'Europa del Settecento: Michele Torcia (1736-1808), in «Rivista Storica
Italiana», CVII (1995), pp. 647-726.
30
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
riografiche nazionali in corso di rievocazione 41. In effetti, l'impegno
diretto a delineare i complessi processi culturali che in quei decenni
ridisegnarono i «caratteri nazionali» dell'uomo europeo portoÁ ad elaborare un'idea di nazione che fosse coerente con i valori «moderni».
Tuttavia la nuova nazionalitaÁ subalpina rappresentava uno scarto
rispetto alla lunga tradizione culturale che aveva invece lavorato
intorno ai caratteri e costumi dei vari popoli europei 42. Infatti, giaÁ
nell'ereditaÁ trasmessa dal Sette e dall'Ottocento al secolo successivo
erano presenti alcuni impedimenti alla corretta valutazione dei «nessi», degli «incroci» e degli «intrecci» tra la storia d'Italia e quelle di
altre nazioni europee. Come si sa, l'influenza del punto di vista nella
selezione dei fatti eÁ determinante per ricostruire e descrivere una
vicenda: ma essa, con il passare da storico in storico, da opera in
opera, finisce per perdere la sua natura squisitamente «soggettiva» e
acquisisce valenza «oggettiva», spesso acriticamente accettata dai
paradigmi storiografici successivi.
6. Nuovi punti di vista ed una storia inedita
Come abbiamo avuto modo di notare in precedenza, la storiografia italiana del secondo Ottocento sottostimoÁ volutamente la condizione di fragilitaÁ e di debolezza dei principati italiani ed indulse ad
accuse moralistiche contro le potenze che seppero approfittarne.
Altre incertezze di giudizio nacquero dalla recezione dell'hegelismo
di destra e di sinistra e da una tendenza allo spiritualismo che ostacolava le diagnosi sulle ragioni politiche ed economiche del ritardo e
del sottosviluppo italiano. Di fatto l'analisi severa dell'inferioritaÁ
La bibliografia sul rapporto tra etnõÁa e nazione eÁ cresciuta vistosamente negli ultimi
decenni, per cui ci limitiano a citare due letture classiche nel settore delle scienze sociali: E.
Gellner, Nations and Nationalism, Basil Blackwell, Oxford 1983; A. Smith, Le origini
etniche delle nazioni, Il Mulino, Bologna 1992 (I ed. inglese 1986 cit., nt. 5). Un buon
esempio storiografico di come furono «inventate» due diversamente declinate tradizioni
europee, una interamente civilizzata, l'altra half-barbarian e half-civilized eÁ offerto da L.
Wolff, Inventing Eastern Europe. The Map of Civilization on the Mind of the Enlightenment,
Stanford University Press, Stanford 1994.
42
Su questo aspetto richiama l'attenzione la citata (nt. 39) penetrante analisi di Marcello Verga.
41
I. La nuova storiografia «aÁ part entieÁre»
31
subalpina, sviluppata e documentata dalla letteratura illuministica, fu
sostituita dalla condanna della superioritaÁ transalpina. Sulle conseguenze italiane di questo fenomeno culturale, nato dalla persistenza
di metafisiche medievali ridotte a mera apparenza ed a sterile copertura del particolarismo, da sempre insiste Raffaele Ajello, del quale
ricordiamo due recenti contributi di storia della storiografia giuridica
e delle mentalitaÁ italiane 43.
Occorre sottolineare a tal proposito che lo scontro ideologico e
politico tra Illuminismo ed anti-Illuminismo non eÁ affatto una peculiaritaÁ italiana. Recentemente un importante studioso del pensiero
politico moderno, l'ebreo Zeev Sternhell, eÁ tornato in uno scritto
divulgativo ± sicuramente non privo di forzature polemiche, che tuttavia si giustificano per la serietaÁ e gravitaÁ dell'argomento ± sulle
tracce di chi ha rifiutato i valori guida dell'Illuminismo, costruendo
un percorso opposto ed antitetico; si produce cosõÂ una serie di errori
prospettici, causa di disastri per l'intera umanitaÁ. Nelle pagine dedicate alla cultura italiana del Novecento, con molta chiarezza Sternhell
sostiene che occorrerebbe sgomberare il campo da giustificazioni tortuose ed attribuire al maggiore filosofo idealista del Novecento, Benedetto Croce, la pesante accusa di «aver contribuito all'ascesa al
potere di Mussolini». Questa durezza poggia su un'altra valutazione
della personalitaÁ di Croce. Egli fu «una figura emblematica dell'Europa del Novecento e, se si vogliono capire le grandi ambiguitaÁ del
liberalismo antilluminista, bisogna rivolgere lo sguardo a lui [...]. Sotto
molti aspetti Croce interpreta in Italia il ruolo di Renan e di Taine
nella Francia dell'ultimo terzo dell'Ottocento e quello di Meinecke
nella Germania weimeriana» 44.
EÁ certo che, per quanto si possa sfumare il tono della polemica e
scegliere un approccio analitico e piu sereno, la linea di demarcazione
tra Lumi ed anti-Lumi eÁ stata nel passato, e continua ad essere nel
43
Il collasso di Astrea. AmbiguitaÁ della storiografia giuridica italiana moderna e medievale,
Jovene, Napoli 2002, ed in ultimo EreditaÁ Medievale Paralisi giudiziaria. Profilo storico di una
patologia italiana, cit. (nt. 24).
44
Zeev Sternhell, Contro l'Illuminismo. Dal XVIII secolo alla Guerra fredda, Baldini
Castoldi Dalai, Milano 2007, pp. 495-507.
32
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
presente, un problema eminentemente concreto e non un mero gioco
intellettuale privo di conseguenze sostanziali. Anche se si adottano i
toni pacati di uno storico valente come Jonathan I. Israel, la sostanza
non cambia: le sue motivate accuse a Gertrude Himmelfarb (contro
l'appiattire il fenomeno dei Lumi dentro la cornice accomodante,
antiegualitaria, non repubblicana ed antidemocratica dell'Illuminismo
inglese, negando l'importanza radicale dell'alto illuminismo francese e
la sua fondazione epistemologica in gran misura non newtoniana), a
John Gray, ad Alasdair MacIntyre e Charles Taylor (per i quali «i
fondamenti dell'umanesimo cristiano ed illuministico sono ora del
tutto erosi») sono qui accomunate a quelle di Ajello e di Sternhell:
poiche le basi della novecentesca Encyclopedia and Unified Science
(sperimentali), da Dewey a Bohr, Neurath, Russell, Carnap eÁ coerente
con la loro esigenza di rivendicare ai Lumi il carattere critico, quale
conseguenza dello scetticismo montaignano, secondo cui nessun ordine stabilito puoÁ trarre legittimazione per il solo fatto di esistere 45.
A causa di questo potente influsso idealistico, la storiografia
italiana meno recente ha spesso trascurato di porre a fuoco le cause
strutturali delle difficoltaÁ subalpine, offrendo nuovi alibi alle giustificazioni nazionalistiche. Eppure, le fonti d'archivio francesi, spagnole, napoletane, palermitane, e le testimonianze dei contemporanei ci offrono dati sconcertanti sulle condizioni dell'inferioritaÁ italiana. Il fallimento ed il ritardo dello sviluppo peninsulare non possono essere colti e studiati con serietaÁ, se non ci si sforza di
riannodare i fili sparsi delle varie storie nazionali, sistema che costituisce una trama condizionata dalle economie piu forti 46.
45
V. la recente voce di Jonathan I. Israel, Radicalismo e conservazione da lui scritta
per il volume curato da Gianni Paganini ed Edoardo Tortarolo, Illuminismo. Un vademecum,
Bollati Boringhieri, Torino 2008, pp. 196-208. Per il rinvio alla Encyclopedia cfr. Neopositivismo e unitaÁ della scienza, Valentino Bompiani, Milano 1973, spec. le pp. 7, 16, 27 (di Otto
Neurath sull'alto valore per la costruzione delle scienze contemporanee dell'Illuminismo,
sulle barriere antiscientifiche poste da Kant e dall'idealismo e sul modello scettico ed antimetafisico, integratore delle diversitaÁ rappresentato dal progetto dell'EncyclopeÂdie), p. 171
ss. (di J. Jùergensen sulla verificabilitaÁ) e pp. 177-9 (sul fisicalismo del Circolo di Vienna).
46
Sulle «connected histories» e sulla loro maggior valenza euristica rispetto alla storia
comparata, cfr. Subrahmanyam, Connected Histories, cit. (nt. 7).
I. La nuova storiografia «aÁ part entieÁre»
33
Com'eÁ stato giaÁ accennato, in tempi recenti in Europa si eÁ imposta una nuova sensibilitaÁ storiografica, che ha fatto passi notevoli
per l'abbattimento delle frontiere culturali nazionalistiche. CosõÂ, solo
per citare qualche esempio che si confaÁ al presente lavoro, due recenti
letture dei rapporti tra due grandi potenze dell'Europa meridionale,
la Francia e la Spagna, hanno dimostrato che, nei secoli del loro
passaggio da monarchie a Stati nazionali, esse si presentavano come
organismi politici aperti alle reciproche influenze, oltre che legate da
una miriade di reti finanziarie e commerciali, il cui forte ascendente
sui quadri generali lo storico non puoÁ sottovalutare. Un libro in particolare ha rivelato come l'influsso reciproco dei due regni avesse
origini molto piu antiche della fine del Seicento e che esso fosse continuo e di tipo osmotico. CosõÂ, dismesse le lenti ideologiche interposte
dalla storiografia francese dell'Otto e del Novecento, oggi eÁ possibile
affermare che com'eÁ esistita una Spagna francese (a partire dall'accesso al trono di Filippo V per giungere a Napoleone), ancor prima,
cioeÁ nei secoli XVI-XVII secolo, era apparsa una Francia spagnola 47.
Per quanto concerne i rapporti italiani con l'Oltrealpe, eÁ da
segnalare un recente contributo di De Francesco sul significato da
attribuire alla breve, ma fondamentale, esperienza napoletana delle
repubbliche «sorelle» 48. In dura polemica contro la vulgata che aveva
creato «una dimensione civile italiana tutta declinata sul versante
culturale e niente affatto su quello politico», lo storico respinge l'interpretazione moderata ± anche questa derivata direttamente da
Croce ± dell'esperimento napoletano come rivelazione di una nuova
identitaÁ italiana fondata sulla contrapposizione giacobinismo/sanfedismo. Anche qui, una volta tolte le lenti ideologiche della storiografia precedente, gli eventi assumono nel loro concatenarsi un nuovo
aspetto. Trovano cosõÂ spazio centrale l'influenza dei servizi di spionaggio ± carsica eppure possente nella sua capacitaÁ di destabilizzare il
terreno politico ±, la circolazione delle idee in quanto strumento di
47
Cfr., per il primo esempio, M. Zylbergberg, Une si douce domination. Les milieux
d'affaires francËais et l'Espagne vers 1780-1808, Paris 1993, mentre per il secondo, J.-F.
Schaub, La France espagnole. Les racines hispaniques de l'absolutisme francËais, Paris 2003.
48
A. De Francesco, 1799. Una storia d'Italia, Guerini e Associati, Milano 2004.
34
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
propaganda, la cultura non solamente come dinamismo di meri pensieri ma come espressione di una dialettica di strutture mentali profonde, che si manifesta in molte forme ed a vari livelli, fortemente
interdipendenti. La storia politica riassume in se il primato di ampi e
molteplici interessi teoretici, religiosi, ideologici, economici, individuali e sociali, ora convergenti ora contrastanti. Questa nuova ricostruzione svela gli arcana sottesi alla durevole persistenza di un paradigma interpretativo che aveva a lungo letto il repubblicanesimo
meridionale con qualche compiacimento per le versioni letterarie e
libresche, e mostra l'intrinseca fragilitaÁ di questo modo di vedere,
aprendo la porta ad interpretazioni orientate a studiare la societaÁ
meridionale nei suoi, che sono ben piu complessi, modi materiali di
essere. Insomma, si eÁ in presenza dello spostarsi del punto di vista
dalla centralitaÁ delle impalpabili e spesso retoriche idealitaÁ, fortemente caratterizzate dallo spiritualismo astratto di ascendenza hegeliana, alla valutazione concreta di ben piu corposi fenomeni globali,
ricostruiti e valutati sperimentalmente.
Lo stesso metodo eÁ qui usato per analizzare i grandi cambiamenti
in corso nei decenni di transizione tra Sei e Settecento. L'azione di
Luigi XIV sulle Sicilie procedette parallelamente alle dirette interferenze sul governo spagnolo e sulla corte di Filippo V, vicenda quest'ultima conosciuta e ben studiata da tempo 49. Alfred Baudrillart, il
49
Sulle difficilmente comprensibili logiche intime che spinsero il Re Sole a scatenare
un conflitto europeo per la successione di Spagna si sofferma R. Mandrou, Louis XIV en son
temps. 1661-1715, Presses Universitaires de France, Paris 1973, pp. 506-7: «les historiens
apreÂs lui cherchent les raisons de l'acharnement mis en 1700 aÁ braver l'Europe, aÁ choisir
encore la voie la plus difficile, comme si aÁ ses yeux la premieÂre place en Europe lui appartenait toujours; d'aucuns ont preÂtendu que toute la diplomatie du reÁgne avait eÂte axeÂe sur cette
heÂritage espagnol, dont il entend s'emparer, par l'intermeÂdiaire du duc d'Anjou en 1700.
Vue abusive, sans doute, mais qu'il faut seulement tempeÂrer [...]». Tuttavia la risposta piuÂ
soddisfacente va cercata dentro il complesso sistema di relazioni politiche nella corte, nel
paese e in Spagna ai primi del Settecento, delle quali ci ha lasciato un'eccezionale testimonianza il duca di Saint-Simon nelle sue memorie, sulle quali cfr. ora la fine analisi di E. Le
Roy Ladurie, Saint-Simon, ou le systeÁme de la Cour, avec la collaboration de Jean-FrancËois
Fitou, Fayard, Paris 1997. L'approccio di questo lavoro rivitalizza le «cabale» all'interno del
dominante partito di Versailles: ciascuno degli abitanti di Versailles non solamente organizza la propria esistenza secondo il rapporto amico-nemico, ma anche in accordo con il
lealismo parentale, le predilezioni religiose, lo status sociale e professionale, l'amicizia ed il
I. La nuova storiografia «aÁ part entieÁre»
35
maggiore storico di queste vicende, aveva giaÁ notato che il re di
Francia conosceva tutto il personale amministrativo spagnolo, siccheÂ
nessun trasferimento, promozione o nomina all'interno dei vasti domini spagnoli poteva avvenire senza il volere regale del giglio di
Francia. Lo storico francese costruisce la sua trama narrativa su
questi continui e fluenti dialoghi politici tra i gabinetti parigino e
madrileno. E per quanto ci concerne, egli cita, tra l'altro, una lettera
del re Cristianissimo al nipote, documento riguardante due personaggi che incontreremo piu avanti come vicere di Sicilia: «laissez le
marquis de Bedmar en Flandre, et choisissez, s'il est possible, un
bon sujet pour la Sicile. Le cardinal del Judice ne peut y demeurer.
Il vous servira bien, mais je le crois neÂcessaire aÁ Rome» 50. Le consulte
del Consejo de Estado erano comunicate a Luigi XIV per essere da lui
esaminate o trasmesse al ministro Torci e al duca d'Harcourt. A sua
volta, le risposte francesi sugli argomenti e gli ordini sulle materie che
vi erano trattate venivano poi lette nel Despacho. CosõÂ, anche l'attivitaÁ dei Consejos provinciali veniva attentamente seguita e coordinata in Francia, al punto che il conte Marcin dalla Spagna riferiva che
«nous attendons sur toutes choses la deÂcision du Roy, qui est regardeÂe ici comme un ordre absolu aussi bien qu'en France» 51.
punto di vista ideologico. Si tratta non solo di una complicazione del sistema cortuense
ideato da Norbert Elias e di una sua «animazione» rispetto alla mera «meccanica» adesione
alla regalitaÁ di Francia, ma anche di un notevole arricchimento del povero concetto di
«cabala». Per quel che riguarda i «partiti» durante gli anni della guerra di successione, cfr.
spec. le p. 181 ss. Oltre a quest'opera, a conferma della testimonianza di Saint-Simon sugli
interessi «militari» dell'influentissimo clan Pontchartrain, si veda la recente monografia di
S. Chapman, Private Ambition and Political Alliances: The PheÂlypeaux de Pontchartrain Family and Louis XIV's Government, 1615-1715, Rochester, NY 2004; mentre sui legami tra
politica e guerra in Francia negli anni che precedono e che preparano la successione di
Spagna, cfr. il lavoro di Guy Rowlands, dall'eloquente titolo: The Dynastic State and the
Army under Louis XIV. Royal Service and Private Interest, 1661-1701, Cambridge University
Press, Cambridge 2002, dal quale emerge finalmente una corretta visione storica del coacervo di interessi finanziari che legava una parte del ceto dirigente francese all'esercito e
all'ideologia dell'espansionismo.
50
A. Baudrillart, Philippe V et la cour de France, Paris 1890, vol. I, p. 119 e ss., p.
121 per la citazione.
51
Ivi, pp. 120-1.
37
II
LA SOCIETAÁ MERIDIONALE
DALL'ANOMALIA AL COLLASSO
Á
PROSTRAZIONE DELLA NOBILTA
E PARASSITISMO MINISTERIALE A NAPOLI
1. Guerra di successione spagnola: modelli costituzionali a confronto
I meccanismi mediante cui Luigi XIV durante la successione di
Carlo II condizionoÁ la vita politica della Spagna e delle Sicilie agivano
in due modi, uno diretto, l'altro meno, ma altrettanto efficace. Il
primo si esprimeva con precise pressioni sul governo centrale spagnolo, sui vicere di Napoli e di Palermo (che venivano scelti dallo
stesso regnante francese) e sul ceto ministeriale delle due Sicilie;
l'altro si manifestava attraverso le riforme istituzionali della Spagna,
che ovviamente esercitavano la loro azione anche nelle province
esterne alla penisola iberica. In queste ultime si tendeva ad un'utilizzazione massiccia delle giurisdizioni straordinarie, come il sindacato, per meglio fronteggiare le esigenze impellenti e indifferibili della
finanza di guerra 1. CosõÂ, durante gli anni della guerra di successione
spagnola, per far fronte alle spese militari ed agli straordinari prelievi
fiscali, la diretta ingerenza francese negli affari politici piu delicati e
le interazioni istituzionali tra Francia, Spagna e Sicilie, assunsero
varie forme e imposero sensibili cambiamenti nei rapporti tra lo Stato
spagnolo e le istituzioni dei due regni italiani.
Tuttavia, al di laÁ delle prevedibili e quasi ovvie conseguenze
congiunturali, eÁ da rilevare un fatto che eÁ sfuggito alla storiografia,
ma che eÁ suffragato dalla documentazione parigina degli affari esteri:
come vedremo, comparvero chiaramente all'orizzonte, quale meta
ambita personalmente da Luigi XIV, alcune novitaÁ molto importanti,
non di mera gestione, ma di notevole ampiezza e che possono dirsi di
1
Tufano, Giovanni Brancaccio in Sicilia: dalla memoria del giurista all'esperienza di
governo (1673-1720), cit. (cap. I, nt. 25), p. 115. Diverso il caso siciliano, su cui ivi, le pp. ss.
38
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
carattere strutturale, anzi costituzionale. EÁ certo che esisteva ed era
ben concreto un costituzionalismo d'Antico Regime, mentre parte
della storiografia recalcitra ad ammetterlo. Quelle regole non scritte e
consuetudinarie erano sentite come vincoli forti, dotati di autoritaÁ e
di prestigio soltanto nelle compagini statali piu adulte, piu consolidate, perche piu antiche; ma anche le comunitaÁ piu slabbrate raramente erano caratterizzate da uno sfascio completo. Nei momenti di
crisi, dovuti all'impatto internazionale di un determinato assetto nei
confronti di altri, una popolazione puoÁ rivelare la debolezza e l'inconsistenza delle strutture elaborate dai ceti al potere: ma questo
fallimento, ossia lo sfaldarsi del contenitore al primo urto, non significa che esso non esisteva, ma che era fragile. Ad esempio, neanche il
feudalesimo puoÁ essere squalificato come asistematico, poiche obbediva a statuti ben precisi.
Le vicende di cui ci occuperemo in questo capitolo posero a
confronto quattro assetti, due subalpini e due transalpini, e tutti e
quattro possono dirsi (in senso lato) costituzionali. EÁ il caso di farne
cenno, perche costituiscono strumenti indispensabili di semplificazione, ossia animano (per usare un linguaggio crociano) la dialettica
dei distinti, ed aiutano a capire.
Il modello napoletano era fondato sul potere e sulla cultura di un
solo ceto, il togato (altrove robins, golillas), che aveva il vertice del suo
potere nella Capitale, era colto, ma esclusivista e patriarcale, e dunque incapace di far crescere la base sociale, in particolare l'economia
ed il benessere. Il siciliano, di carattere ancora prevalentemente feudale, percioÁ policentrico, fortemente agglomerato intorno ad alcuni
centri di potere in continuo latente conflitto; ad essi si aggiungevano
i vertici delle grandi magistrature, ossia i togati, che aspiravano a
realizzare nell'Isola una soluzione simile alla `continentale', e vi riuscivano solo in parte, dando vita ad oscillazioni che ci capiteraÁ di
documentare specialmente quando esamineremo gli sviluppi piu tardi
di queste vicende. Alle incertezze ed alla complessiva immaturitaÁ
della situazione isolana eÁ molto probabilmente da addebitare una
semplificazione eccessiva compiuta dal governo francese, che privilegioÁ quali punti di riferimento i giuristi napoletani: percioÁ negli
II. La societaÁ meridionale dall'anomalia al collasso
39
archivi parigini eÁ piu abbondante la documentazione relativa al regno
di Napoli, mentre scarseggia quella siciliana.
L'assetto dei poteri e delle autoritaÁ in Francia era giaÁ ad un
livello eccezionalmente adulto ed anzi si collocava tra i due piu maturi e razionali d'Europa: nelle pagine seguenti saraÁ tra i maggiori
protagonisti, perche durante la successione spagnola, quando i quattro modelli entrarono in dialettica ed in simbiosi, esso era impersonato da un'autoritaÁ eminente e considerevole, per non dire geniale,
come il Re Sole, oltre che da apparati diplomatici, militari, culturali,
economici superefficienti e, in primo luogo, molto coesi. Lo spagnolo, che aveva raggiunto un notevole livello di stabilitaÁ, era peroÁ
fondato su idee tradizionali ancora largamente acritiche ed era tenuto insieme da un'istituzione feroce e primitiva, come il Tribunale del
Sant'Uffizio. Soluzione, quest'ultima, che era sua e specifica, mentre
era inconcepibile in Francia, fortemente avversata a Napoli, ed adattata, quasi addomesticata, a Palermo, in modo da servire piu agli
interessi dei ceti privilegiati e feudali, che ad una casta di sacerdotes
dogmatici ed intolleranti. EÁ da notare che alla fine del Seicento e nel
Settecento la compattezza e stabilitaÁ del modello spagnolo era entrato in crisi a seguito delle influenze francesi, che divennero ancora piuÂ
forti sul piano istituzionale durante il regno di Filippo V 2. A questa
corrente sono ascrivibili Elisabetta Farnese, anche per la sua disinvoltura e per il suo personale temperamento volitivo, coraggioso,
intraprendente, e specialmente Jose PatinÄo, per le sue idee sviluppate
durante i suoi studi e la sua formazione padana 3.
Questo quadro schematico e sommario giaÁ mostra una scala di
valori: selezione riprovata da alcuni storici, che inclinano ad atteggiarsi come super-imparziali e non si rendono conto dell'errore in cui
cadono. Il loro asettico ed insincero ``purismo'' nasconde l'obbedienza ai dettami dell'ultima moda, un velo di problematicismo e di
agnosticismo che copre l'assenza delle idee o il crollo totale di posi2
Sul processo di nazionalizzazione della Spagna, cfr. l'importante contributo di Ricardo GarcõÂa CaÂrcel cit. in infra, p. 233, nt. 6.
3
I. Pulido Bueno, Jose PatinÄo: el inicio del gobierno politico-economico en EspanÄa,
Huelva 1998.
40
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
zioni a lungo acriticamente accolte: si tende a dichiararle ipotetiche,
ma non a condannarle, come sarebbe utile fare, mediante una sincera
autocritica. Dichiarare sinceramente la propria diagnosi personale
non solo eÁ necessario quale segno di libertaÁ, ma eÁ indispensabile per
manifestare con i fatti un deciso rifiuto dei conformismi, che abbondano nella cultura italiana, e di cui eÁ difficile dire quali siano piuÂ
dannosi, i vecchi o i nuovi. La filosofia moderna si fonda sul dubbio e
su una serie d'inflessibili autoanalisi critiche, il cui risultato eÁ la
sfiducia nei confronti di ogni sicurezza apodittica, le proprie e le
altrui. Il crollo della predestinazione dopo la fine del primo millennio, gli scismi, lo scetticismo cinquecentesco, le guerre di religione,
ed il primato per un verso dello sperimentalismo scientifico e per un
altro verso della libertaÁ di pensiero e di stampa sono fenomeni che si
sono accompagnati alla constatazione di una norma quasi certa: lo
scambio delle idee, anzi la loro appassionata ma pacifica contrapposizione, costituiscono l'unico metodo capace di mettere in crisi le
certezze non razionali, ma interessate e pigre. Tutto questo puoÁ
essere indicato con una parola e con un'idealitaÁ: la dialettica quale
deontologia; il suo primato, ossia la necessitaÁ che la trasmissione del
pensiero operi con la massima libertaÁ ed intensitaÁ. Dove questo risultato manca, il progresso muore. La dialettica eÁ figlia della scepsi
razionale e metodologica, ed eÁ meccanismo sociale e non tecnica
soltanto individuale e solipsistica della mente. EÁ la parte centrale
della logica e corrisponde ad una luminosa epoca del pensiero teoretico occidentale, quella aurorale.
2. Profonde finalitaÁ politiche di Luigi XIV
Durante la guerra di successione spagnola, sfortunatamente per
il Mezzogiorno, la piega in parte casuale degli avvenimenti, l'andamento delle complesse strategie europee, ed infine le comprensibili
resistenze del ceto politico meridionale, impedirono che si pervenisse
a sostanziali riforme. EÁ constatazione di fatto che l'ambizioso e
radicale progetto auspicato dal Re Sole fallõÂ miseramente. Per fortuna
esso era stato preparato da una serie d'inchieste a largo raggio, molto
II. La societaÁ meridionale dall'anomalia al collasso
41
intelligenti e penetranti, sulle condizioni sociali, politiche ed istituzionali del Mezzogiorno, di cui sono rimaste tracce precise specialmente negli archivi parigini. La natura del tentativo, che illumina la
ratio della politica di Luigi XIV, ed i motivi del fallimento sono il
tema principale di questo capitolo.
La presenza francese nel Mezzogiorno d'Italia, studiata finora
come autoritaria forza di pressione sulla corte e sul governo napoletano ai fini della difesa degli interessi economici e commerciali della
grande monarchia transalpina, ci mostra cosõÂ un volto inaspettato.
Esso eÁ evidente in molti casi, ad esempio quando fu palese l'intromissione parigina nel processo portato avanti dal Collaterale contro
l'ingerenza papale nel regno di Napoli, di cui diremo piu avanti 4.
L'azione politica di Luigi XIV verso la Spagna e verso le sue «Appendici» mediterranee (secondo il nomignolo attribuito dagli uomini
degli affari esteri francesi alle due Sicilie) obbediva ad una visione
tipica della monarchia francese, radicata nel culto della sua antica
origine, collaudata dalle tre dinastie: dunque una concezione ben piuÂ
pregnante ed idealmente significativa di quanto fu valutata dal giudizio posteriore, basato sui suoi effetti pratici 5. Come prima accennato tali opinioni erano state fortemente condizionate dall'irrazionalismo passionale romanico che contaminoÁ la ragione empirica e prudente: ne nacque una Estasi della ragione che molto raramente fu
conforme al programma metodologico del primo Illuminismo 6.
Questo fondamentale movimento, punto di arrivo del problematicismo moderno, avviato in quella direzione giaÁ nel pieno del medio
evo francese ed inglese, era razionalista in senso «prudente» e «sperimentale», secondo gli insegnamenti del riconosciuto ``patriarca''
Locke. Del resto, la stessa ``morale provvisoria'' di Descartes (fondata
sull'avvertimento secondo cui eÁ folle chi demolisce la propria casa,
4
Cfr. su questa importante vicenda giurisdizionalistica D. Luongo, Serafino Biscardi.
Mediazione ministeriale e ideologia economica, Jovene, Napoli 1993, mentre sulle dirette
ingerenze di Luigi XIV qualche cenno in Tufano, Giovanni Brancaccio in Sicilia: dalla
memoria del giurista all'esperienza di governo (1673-1720), cit. (nt. 1), passim.
5
Ivi, pp. 121-3; infra, cap. I.
6
Su questa importante fase relativa al passaggio dall'Illuminismo al Romanticismo,
cfr. Ajello, L'estasi della ragione, in Formalismo medievale e moderno, Jovene, Napoli 1990.
42
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
vecchia e scomoda, prima di averne costruita un'altra, e sul famoso e
largamente diffuso suo consiglio ai lettori ed ascoltatori, affincheÂ
diffidassero di tutto e di tutti, anche delle sue personali conclusioni)
era segno del problematicismo scettico che lui stesso, Locke, e, prima
di loro, Francis Bacon, avevano ereditato da Montaigne. Insomma, il
pensiero di Descartes, anche se di necessitaÁ fu molto piu ambiguo di
quello dei suoi piu fortunati e liberi seguaci, preludeva giaÁ alla linea
sperimentale dell'illuminismo, come dimostrarono Fontenelle, D'Alembert, Diderot, l'EnyclopeÂdie, ed in Italia specialmente Antonio
Genovesi 7.
Uno dei punti centrali del progetto di re Luigi fu il tentativo di
risvegliare le ambizioni dei baronaggi locali spagnoli ed italiani attraverso l'equiparazione con la nobiltaÁ di Francia e ammettendo la pari
dignitaÁ tra Duchi e Grandi e quindi analoghi vantaggi 8. Non si trattoÁ,
come a prima vista si puoÁ pensare, di una strategia diretta a conseguire un sostegno alla sua politica di riforme in Spagna e nei possedimenti del re cattolico: fu una prospettiva ben piu ambiziosa e di
larghe vedute, anche se si riveloÁ impossibile da realizzare, sia in
Spagna, sia, ancor piuÂ, nelle Sicilie. Ma eÁ da notare (ed eÁ un particolare di non lieve importanza, come ricordoÁ Voltaire nel SieÁcle de Louis
XIV) la volontaÁ del grande sovrano di attribuire le Sicilie al Delfino (e
quindi, in realtaÁ, a se stesso, ossia all'area metropolitana della Francia): questa fu una precisa richiesta del Re Sole, formulata tra l'ottobre 1698 ed il marzo 1700. Conseguimento cui egli mostrava di tenere
7
Questa linea interpretativa riguarda ancora l'attualitaÁ e va ribadita contro quella
difesa con tenacia `metafisica' da gran parte del pensiero italiano. Per il caso dell'abate
salernitano disponiamo della biografia intellettuale di E. Pii, Antonio Genovesi dalla politica
economica alla «politica civile», Olschki, Firenze 1984, mentre sulle attualitaÁ del pensiero
genovesiano si rinvia ad Ajello, AttualitaÁ di Antonio Genovesi: sintesi globale della natura e
critica della societaÁ italiana, in «Frontiera d'Europa», a. X, 2004, në 2, pp. 5-245.
8
Secondo Baudrillart, Philippe V, cit. (cap. I, nt. 50), p. 122 ss. «Louis XIV avait
entrepris d'eÂtablir une union plus parfaite entre l'aristocratie des deux peuples par un
eÂchange d'honneurs et de deÂcorations; c'est ainsi qu'il avait entendu que les grandes d'Espagne jouiraient en France du meÃme rang et des meÃmes distinctions que les ducs francËais, et
que ceux-qui seraient en Espagne mis sur le meÃme pied que les grands». Tuttavia, le reazioni
della nobiltaÁ interessata furono di segno negativo e il malumore trovoÁ espressione anche a
Napoli, in coincidenza del viaggio di Filippo V; cfr. ivi, pp. 123-4.
II. La societaÁ meridionale dall'anomalia al collasso
43
molto 9. Troppo chiara eÁ la ratio della pretesa francese, perche sia
necessario insistere su questo particolare: mediante l'incorporazione
delle Sicilie, le gelose comunicazioni marittime e commerciali con
l'Oriente avrebbero goduto di una serie di porti e di tappe sicure e
protette, d'importanza enorme, annullando il pericolo che s'interponesse ai piedi dello Stivale un ostacolo a quella necessaria circumnavigazione.
Se questa fu la comprensibile, quasi ovvia meta sperata, l'operazione politica diretta a realizzarla adottoÁ metodi ed assunse caratteri e
significati di eccezionale rilievo, la cui logica fu di per se una novitaÁ
importante per l'intera storia italiana. In sintesi, si puoÁ dire che il re
Luigi provoÁ ad estendere al Mezzogiorno la ratio del suo governo e
dunque a sottoporla alle tecniche che avevano reso possibile portare,
sotto di lui, la civilisation francese ad uno stadio di autoritaÁ internazionale e di successo mondiale, tanto da farne un punto di arrivo del
grand sieÁcle e della grande Francia. Vero eÁ che, se quella direttiva fosse
stata attuata, l'ordinamento delle Sicilie sarebbe stato trasformato,
adeguandosi, almeno in parte, ai due piu alti e consolidati modelli
politici, costituzionali e sociali che erano giaÁ maturi in Europa in quel
momento, l'inglese ed il francese; la cui dialettica, mentre si andava
verso il tramonto dell'antico regime, non si era ancora conclusa con la
vittoria di uno dei due. Per queste ragioni il Re Sole aveva la sensazione esaltante di rafforzare ed esportare quel modello rappresentato
ed incarnato dalla sua persona, nell'interesse non soltanto della sua
patria ma del mondo civile. Fu questa aspirazione la carica ideale che i
suoi nemici e detrattori hanno volgarizzato, attribuendole la veste
9
Voltaire, Il secolo di Luigi XIV, con introduzione di Ernesto Sestan, Einaudi,
Torino 1951, pp. 185-6. Per il philosophe (che disponeva della testimonianza diretta di
uno degli attori principali di quella scena, il marchese di Torci) il tentativo di trattato di
spartizione della Spagna, con la promessa firmata di pugno dal re di Francia e dal Delfino
(ottobre 1698), venne vanificato dalle disposizioni testamentarie del re moribondo, che
nominava unico erede il principe di Baviera (novembre 1698). L'operazione di assicurare
alla propria Casa le Sicilie fu poi ritentata da Luigi XIV (con l'accordo dell'Inghilterra e
dell'Olanda) nel marzo del 1700. Ma la Spagna rifiutoÁ la spartizione dei suoi territori e da cioÁ
le conseguenze che ne scaturirono.
44
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
meno nobile dell'imperialismo, mentre alcuni hanno voluto vederla
addirittura come effetto di pulsioni ecclesiastiche e bigotte.
La struttura costituzionale della monarchia cristianissima era fondata sulla concorde collaborazione dei tre ordini (chi prega, chi combatte e chi lavora). Questa triade, studiata a fondo specialmente da tre
illustri storici, due francesi (Duby e Mousnier) e piu di recente da uno
tedesco (Otto Gehrard Oexle) e dalle loro scuole, era stata formulata
fin dal secolo XI (Adalberone di Laon e Gerardo da Cambray), ed era
pervenuta a costituire, insieme al mito dei Rois thaumaturges, la deontologia ufficiale della sovranitaÁ francese 10. EÁ da notare che essa era
stata creata ad opera degli statisti piu ecclesiastici che regi, ed era
ancora intesa quale espressione di una perfetta armonia sociale. Tracce
di quella griglia interpretativa erano state presenti anche a Napoli per
influenza angioina, com'eÁ stato documentato dai noti studi di Kantorowicz 11. Ma nel Mezzogiorno una novitaÁ socio-istituzionale era intervenuta durante il primo mezzo secolo del dominio spagnolo a contraddire e cancellare quella visione, trasformando ab imis fundamentis
l'idea francese e medievale della societaÁ unita e diversificata nei tre
ceti, tanto diversamente produttivi quanto fortemente collaborativi.
L'immagine della triade sociale degli ordini o degli status era
espressione religiosa e civile di un'armonia nello stesso tempo divina
e sociale, metafisica ed empirica, e non a caso (come dimostroÁ Duby)
era stata creata ed elaborata, sulla base dell'organicismo aristotelico,
dagli ecclesiastici francesi giaÁ durante il primo secolo dopo il Mille.
Ma per iniziativa di Pedro de Toledo, sancita da Carlo V, i residui di
quella struttura orizzontale della societaÁ si trasformarono a Napoli
rapidamente in uno schema verticale, per cui il compito di accertare e
formulare gli interessi collettivi sociali era attribuito ai ministri di
10
Per Mousnier la bibliografia eÁ vasta, percioÁ rimandiamo all'ottima antologia dei suoi
scritti finalmente in italiano, curata ed introdotta da Francesco Di Donato, La costituzione
dello Stato assoluto: Diritto, societaÁ, istituzioni in Francia dal Cinquecento al Settecento, ESI,
Napoli 2002; G. Duby, Les trois ordres ou l'imaginaire du feÂodalisme, Gallimard, Paris 1978;
O. G. Oexle, Paradigmi del sociale. Adalberone di Laon e la societaÁ tripartita del Medioevo,
trad. ital., a cura e con introduzione di Roberto Delle Donne, Carlone, Salerno 2000.
11
Per le numerose ricerche di Kantorowicz, si rinvia ad Ajello, op. cit. in cap. I, nt.
24.
II. La societaÁ meridionale dall'anomalia al collasso
45
toga, che si presentavano per un verso come tecnici del diritto e per
un altro verso come sacerdotes juris 12. Essi erano capaci di ricevere,
grazie alla loro scienza, ispirazioni misteriose su quanto eÁ da valutare
come bene e su cioÁ che eÁ il male, sul giusto e sull'ingiusto. La logica
della loro legittimazione si poneva percioÁ in parallelo a quella dei
sacerdotes ecclesiae, anche se era in pratica con quest'ultima molto
spesso in frontale conflitto. Il metodo sociologico della legittimazione sociale era sostituito cosõÂ da ragionamenti e giustificazioni di
scienza e di razionalismo astratto. Dunque s'instaurava in apparenza
un sistema giuridico di livello ideale nettamente superiore ad ogni
infame materialitaÁ mondana. Atteggiamento giaÁ di per se equivoco,
poiche disumano. In realtaÁ il carattere prettamente mentale e spirituale della legittimazione, rendendo impossibile il collaudo delle volontaÁ espresse dai togati, era anche uno strumento molto facile e
molto produttivo a loro vantaggio affinche realizzassero e facessero
prevalere inconfessabili interessi materiali, personali o di ceto 13.
Questa riforma, che fu precedente circa un secolo e mezzo gli
avvenimenti di fine Seicento, costituõÂ di essi una premessa logica, e
richiede percioÁ accennare meno fugacemente alle sue ragioni originarie, al suo successo cinquecentesco, al tentativo di annullarla nel
1647, alla sua piena restaurazione dopo l'esito della rivolta detta di
Masaniello, ed alle profonde conseguenze subõÂte dalla vita sociale del
Mezzogiorno continentale. Quegli effetti vennero in piena luce nelle
12
Su questa fondamentale vicenda politica e le conseguenze che ne derivarono per il
regno di Napoli, a causa degli «anomali» futuri sviluppi della societaÁ e delle istituzioni
meridionali, rispetto alle altre «vie» di formazione dello Stato moderno nell'Europa occidentale, ha per primo richiamato l'attenzione R. Ajello, Una societaÁ anomala. Il programma
e la sconfitta della nobiltaÁ napoletana in due memoriali cinquecenteschi, ESI, Napoli 1996, che
rimane un modello insuperato di realistica interpretazione, a cui si rinvia per approfondimenti sugli aspetti qui sinteticamente richiamati. Ad esso si aggiungono recenti conferme ed
ulteriori sviluppi di quelle tesi, dei quali daremo conto nei paragrafi seguenti.
13
L'analisi delle strutture fondamentali dell'ideologia giuridica dell'antico regime non
costituisce piu un capitolo inedito della vicenda dello Stato moderno, giacche ai celebri,
pioneristici lavori di Roland Mousnier, di Raffaele Ajello, di Denis Richet, ricchi di spunti,
d'indicazioni metodologiche e di significative prove, si sono aggiunti in questi ultimi anni
parecchi altri studi di varia provenienza disciplinare, dalla storia delle dottrine e delle
istituzioni politiche, alla sociologia storica ed alla storia del diritto comparato europeocontinentale.
46
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
inchieste attivate dal Re Sole per accertare su quale tronco sociale si
sarebbero dovute innestare le sue riforme. Infatti il dominio dei
togati ed i loro metodi di governo, coerenti con gli interessi fiscali
spagnoli, avevano creato connessioni e tendenze fortemente influenti
sulle popolazioni meridionali, in particolare sulle condizioni materiali
dell'economia e sulle strutture mentali e culturali piu diffuse. Sono
realtaÁ storiche che eÁ necessario rievocare in quanto, pur essendo state
individuate, abbondantemente documentate, descritte e divulgate in
una serie di ricerche originali e di studi (da quelli di Renata Pilati ai
contributi ed alle sintesi di Raffaele Ajello) nel decennio tra il 1986
ed il 1996, ancora stentano ad essere pienamente accolte dalla storiografia meridionale, che si dimostra ancor oggi spesso bloccata da
posizioni formalistiche e neoidealistiche difficili da correggere.
3. I precedenti sociali ed istituzionali
Il regno di Napoli era stato governato fin dal 1542 da un gruppo
di potere che aveva origine, assetto e caratteri specifici; quella forma
politico-istituzionale, voluta da Pedro de Toledo per contrastare la
riottositaÁ e le pretese d'indipendenza della nobiltaÁ antica, rappresentava un'anomalia rispetto a tutte le societaÁ feudali e signorili subalpine e transalpine e recepiva le esigenze di accentramento tecnico
realizzate in Francia da Filippo il Bello agli inizi del '300. Il governo
dei togati era padrone della politica interna ed anche delle relazioni
esterne con lo Stato pontificio, poiche il caotico regime giuridico
vigente lasciava spazio ad arbõÂtrii interpretativi illimitati. I vicereÂ,
stranieri impegnati ad arricchirsi, erano incompetenti dei meccanismi tecnici vigenti nel Regno, che i giuristi erano interessati a complicare e ad elevare oltre le cime dell'Olimpo. La massima eccezione
alla regola dei vicere inerti fu rappresentata dal Toledo, uomo geniale
ed energico, che impresse sulla struttura istituzionale napoletana il
sigillo di una riforma capace di darle una nuova fisionomia.
I nobili di spada e di Seggio rifuggivano per tradizione da studi
severi e da assumere funzioni che non fossero marziali o di alto e
prestigioso governo. Il ceto aristocratico operava a vantaggio della
II. La societaÁ meridionale dall'anomalia al collasso
47
feudalitaÁ, di cui era estrazione, e la sua coesione interna, radicata
nelle vicende del passato medievale, tendeva a porsi come un contropotere autoritario rispetto alle esigenze della monarchia spagnola:
essa aveva come sue esigenze principali il controllo totale del territorio ed un prelievo fiscale il piu alto possibile. In sintesi, per rimuovere questi ostacoli e per realizzare questi fini, il vicere Toledo nel
1542 espulse i rappresentanti dei nobili di spada dal suo Consiglio
centrale ed istituzionale (il Collaterale) e si riservoÁ di convocarli per
sentire il loro parere solo su questioni militari e solo in caso di necessitaÁ. In effetti, argomenti di quel genere erano trattati a Madrid,
ed in modo segreto ed esclusivo dai comandi militari. PercioÁ, non a
torto, la nobiltaÁ di spada si sentõÂ esclusa dalle decisioni politiche,
amministrative, giuridiche di qualche importanza: anzi tradita.
La particolaritaÁ («anomalia») del governo napoletano divenne la
seguente: che ad impersonarlo rimasero i vertici di un solo ceto,
quello ministeriale e togato, che era una componente sociale, ma
negava di esserlo, per fingere di operare fuori da quella logica, super
partes. Quei `parrucconi' ottennero nel 1542 da Toledo un potere
quasi esclusivo. Dalle maggiori magistrature del Regno (il Consiglio
Collaterale, il Sacro Regio Consiglio e la Regia Camera della Sommaria) la concezione preburocratica e ministeriale si diramava all'intero
ceto forense, pletorico, famelico, parassitario, tendente a complicare
i propri compiti di mediazione tecnico-giuridica ed a prolungarli
all'infinito per incrementare proventi e poteri. Il ministero togato
di estrazione non aristocratica impersonoÁ dunque la politica giudiziaria ed amministrativa (intesa in senso molto lato), quale gruppo
egemone dal 1542 al 1735, ossia fino a poco dopo l'avvento del
governo borbonico, che impiegoÁ circa un anno a realizzare una moderata riforma del sistema vigente ed il (molto) parziale ridimensionamento dello strapotere ministeriale e del suo arbitrio.
Per comprendere il significato di quella lunga gestione e le sue
conseguenze bisogna aver chiare le specifiche concezioni esistenziali,
politiche e culturali dei togati. Essi erano esponenti di un personale
tecnico portatore di mentalitaÁ decisamente non marziali e di visioni
ideali in gran parte libresche, pregne di un giustizialismo e moralismo
48
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
apparente che serviva a coprire enormi interessi materiali. La soluzione realizzata nel 1542 influõÂ, dunque, fortemente nel caratterizzare il
modo comune di pensare, le opinioni dominanti. La spiritualitaÁ dei
dotti e dei semidotti, strutturata in direzione verticale, tra scienza
juris, religione, magia, tutelata dal segreto e dalla chiusura verso l'esterno degli addetti ai lavori, era posta fuori ogni corrispondenza con la
composizione sociale, e quindi era estranea all'idea francese dell'equilibrio e dell'armonia funzionale dei ceti. Questa fu una differenza profonda e sostanziale, che indebolõÂ il significato sociale e collaborativo
delle regole giuridiche, ne rafforzoÁ la matrice metafisica, esaltoÁ le subtilitates juris, squalificoÁ il metodo sperimentale sul piano sia sociologico
sia economico, depresse la moderna, razionale ed illuministica tendenza al pragmatismo. La mentalitaÁ dei sacerdotes juris e la logica della loro
legittimazione era parallela a quella dei sacerdotes ecclesiae, anche se si
poneva con questa in posizioni spesso decisamente conflittuali.
La soluzione di puntare per il governo del Regno sulla toga
contro la spada era stata suggerita a Carlo V dal vicere Toledo, fu
dopo alcuni mesi, nel 1542, accolta dall'Imperatore, ottenne poi la
piena conferma da Filippo II e si radicoÁ in un nuovo assetto istituzionale. A seguito di quella riforma il primato sacerdotale dei togati si
rafforzoÁ al punto di sostituirsi all'autoritaÁ, oltre che degli apparati
feudale e nobiliare di spada, anche dei vicere spagnoli: trasmise alla
societaÁ concezioni parassitarie, fondate sulla gestione e sul commercio dei beni pubblici, delle rendite e degli uffici, e non sulla produttivitaÁ reale. Gli impieghi di rischio furono svalutati dalla concorrenza
d'investimenti piu comodi, sicuri, mobili, vincenti: collocare capitali
e risparmi nella gestione del patrimonio statale.
Presto i togati si erano resi conto peroÁ che non era possibile
procedere all'infinito nella vendita di beni pubblici ai capitalisti e
redditieri privati (ossia spesso a loro stessi) per soddisfare le insaziabili esigenze fiscali della corte madrilena. Emerse la necessitaÁ di porre
limiti alla politica di alienazione di quel patrimonio, perche i gestori
privati, spogliati dalla crescente concorrenza creata da ulteriori vendite di uffici fittizi e privi di funzioni reali, si sentivano autorizzati a
realizzare, mediante la prassi generalizzata delle estorsioni, il `giusto'
II. La societaÁ meridionale dall'anomalia al collasso
49
reddito del capitale anticipato. Di conseguenza la corruzione era
diventata regola di Stato, e per le magistrature centrali era irrealizzabile conservare un qualsiasi controllo del sistema. L'alienazione dei
beni pubblici avveniva in molte forme, ad esempio, con l'infeudazione delle UniversitaÁ e dei casali, oppure con la vendita delle giurisdizioni e di ogni genere di uffici, per una o per piu vite. Il loro numero fu
accresciuto ben oltre le reali esigenze funzionali, soltanto per ricavarne il capitale in anticipo e non il reddito graduale. La capitalizzazione
del reddito presunto di ciascuna e di tutte le rendite fiscali e la loro
attribuzione ai privati, previo anticipo del gettito previsto, imponeva
al governo di trovare entrate fiscali sempre nuove, il cui reddito
potesse essere capitalizzato ed alienato.
Gli effetti di quella politica di creazione illimitata del debito
pubblico, il cui gettito era in gran parte trasferito ed esportato verso
lo Stato dominante, generava effetti che erano per il ministero togato
preoccupanti da due punti di vista. Quello interno, perche si dava
modo al sistema feudale di estendere la sua sfera d'influenza fino a
stringere d'assedio le grandi cittaÁ demaniali e persino la capitale. Inoltre, guardando alla scena internazionale, l'alienazione dei vecchi capisaldi strategici piu delicati esponeva le coste alle scorrerie nemiche e ad
eventuali invasioni, previo accordo con i titolari dei diritti su quelle
terre: ossia pregiudicava a priori la difesa del Regno, ed attribuiva alla
grande feudalitaÁ una capacitaÁ di contrattazione internazionale, inversamente proporzionale alla loro mortificazione interna, e da quest'ultima animata per rivalsa. Quest'ultimo particolare serve anche a fornire motivi concreti ad una particolaritaÁ che fu da molti analisti notata:
la popolazione del regno di Napoli era sempre alleata dei nemici dello
stesso Regno, pronta a schierarsi contro chi cercava di difenderlo.
Tutto questo eÁ palese nelle eloquenti trattazioni, per ovvi motivi
quasi sempre anonime, richieste dal governo parigino a numerosi
esperti, e ben conservate nell'archivio degli Affari esteri. L'immagine
che ne ricava eÁ di una societaÁ dissennata, che non si regge in piedi, un
mucchio di pietre senza architettura, che neppure crede ad un eventuale costruttore capace di metterle l'una sull'altra in modo da rappresentare qualcosa di diverso da un mero ammasso di rovine. In
50
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
realtaÁ, questa valutazione eÁ in netto contrasto con quanto qui eÁ stato
anticipato sui modelli costituzionali: il collasso sociale fu il preciso
risvolto del progetto togato, patriarcale, spirituale, in realtaÁ compromissorio ed insincero, ossia del tutto inaffidabile. I togati apparivano
gli strumenti del potere straniero. Quello dominante era giudicato
tanto rapinatore ed indifferente alle sorti del Mezzogiorno da non
poter essere peggiore di qualunque altro nuovo, che quanto meno
godeva di un pregio: la novitaÁ. La societaÁ era disprezzata dal togato
perche incolta e superstiziosa, irrazionale: eÁ ovvio che essa reagisse
odiando non solo i rappresentanti dello Stato, ma la stessa istituzione.
4. La crisi della societaÁ meridionale nella sua fase estrema
Lo sfacelo ideale testimoniato in modo incontrovertibile dai
documenti inviati dalle Sicilie a Parigi in vista della successione
spagnola, redatti dagli osservatori francesi o da esperti di loro fiducia, dimostra che quella crisi era, rispetto all'intera Europa, anomala
ben piu di quanto fosse stato giaÁ singolare ed anomalo il sistema
costituzionale del Regno di Napoli, le cui linee essenziali sono state
descritte all'inizio di questo capitolo. Tra le due anomalie appare
chiaro un nesso logico di causa e di effetti. Vari segni mostrano che
il livello di disgregazione raggiunto negli ultimi decenni, era la conseguenza di un assetto che, stabilizzato ed ulteriormente rafforzato
dopo l'esito fallimentare della rivoluzione del 1647-1648, ormai non
offriva ne possibilitaÁ di redenzione, ne speranza di riscatto. Di fronte
al monotono ripetersi e riprodursi dell'abiezione, la societaÁ meridionale vedeva come uno sbocco ambito ogni tipo di novitaÁ: una situazione peggiore dell'attuale appariva irrealistica, e dunque era razionale e concreta la prospettiva di passare da una servitu ad un'altra,
forse meno pesante, comunque nuova. Non eÁ possibile documentare
largamente questa diagnosi, che comporta un confronto tra le testimonianze tardoseicentesche ed il diverso clima sociale vigente alcuni
decenni prima: ma non eÁ questo il luogo per esaminare la storia della
societaÁ meridionale aldilaÁ dei limiti cronologici entro cui procediamo.
Valga soltanto il richiamo di alcuni episodi e segni molto chiari.
II. La societaÁ meridionale dall'anomalia al collasso
51
Il precedente di maggior rilievo eÁ nella rivoluzione esplosa dal
febbraio all'agosto del 1547 contro gli spagnoli ed in particolare contro
Pedro de Toledo: per le strade si era gridato da alcuni «Francia, Francia» e da altri, piu moderati, «morte al Vicere e viva Carlo V» 14. La
sommossa popolare assunse allora caratteri di estrema violenza ed
energia, e fu segretamente sobillata dalla nobiltaÁ di spada che da cinque anni era stata espulsa dal Collaterale e mordeva il freno per ritornare in corsa nella gestione del potere politico. La scintilla piu folgorante nacque dall'odio degli aristocratici contro il vicere e contro il
ministero togato, responsabili del nuovo corso politico che li aveva
emarginati. La volontaÁ e capacitaÁ di lottare fu il segno di un carattere
ben diverso rispetto all'inerzia testimoniata dal popolo napoletano nei
decenni finali del Seicento ed anche nella rivolta del 1701, detta di
Macchia. Gli scontri del 1547 costarono circa duemila vite ai militari
spagnoli residenti a Napoli ed alle loro famiglie, ed i rivoltosi si abbandonarono ad atti di una barbarie primitiva, inconsueta in popolazioni
che erano cristiane (sia pure in modo epidermico e tradizionale), ma in
primo luogo fondamentalmente scettiche e profondamente disilluse.
Vero eÁ che in quel caso ed in altri agõÂ, come spinta alla violenza, la
superstizione pilotata dai monaci e dai preti, portatori di mentalitaÁ
omogenee con i miti, le fantasie e le tendenze irrazionali della popolazione. Presso di essa quei chierici godevano di un credito illimitato e
temevano l'Inquisizione spagnola come strumento diretto a sindacare
le loro libertaÁ ed i loro costumi, sempre profondamente `sregolati' e
spesso tutt'altro che irreprensibili. Piu tardi analoga fu la violenza
EÁ da notare che nella Storia di Napoli, vol. V, 1, Napoli 1972, pp. 3-179, la narrazione della rivolta del 1547 occupa lo spazio di poche righe, dove (tra l'altro) si sostiene
l'assurda ipotesi che Toledo intendesse introdurre a Napoli l'inquisizione romana, mentre il
pericolo (giustamente) temuto era che quel tribunale fosse «ad uso di Spagna»: soltanto in
questo caso il sistema costituzionale del Regno sarebbe stato privo di difese, mentre contro
gli atti provenienti da Roma o da autoritaÁ estranee alla monarchia cattolica avrebbe sempre
potuto agire il filtro dell'exequatur. L'importanza e complessitaÁ della rivolta ha raggiunto un
ben altro livello di coscienza critica negli studi piu recenti, specialmente di Aurelio Cernigliaro e della Pilati, e di quest'ultima eÁ imminente la pubblicazione di un'ampia analisi sui
motivi e sugli sviluppi di quell'episodio.
14
52
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
manifestata dal popolo persino contro il suo Eletto Storace: segno di
una reattivitaÁ che i documenti di fine Seicento dimostrano spenta.
Nel 1547 (come poi nel 1701) la cultura del governo, caratterizzata da un colorito giuridico prevalentemente tradizionale e medievale, non poteva appoggiare Toledo, contro cui era comprensibile l'ampio sospetto che volesse perfezionare il nuovo sistema costituzionale di
toga, da lui ideato, assicurandosi con il Sant'Uffizio ad uso di Spagna
la gestione di uno strumento di controllo terrificante, e da rivolgere
(come avveniva nel sistema costituzionale della monarchia cattolica)
contro tutti, compresi gli stessi magistrati del re. Uomo temerario, don
Pedro commise l'errore di sottovalutare la forza dell'odio generale
contro l'Inquisizione, descritta dai `santoni' e percioÁ vista dal popolo
come una specie di mostro, come una magia demoniaca, piu che come
un tribunale. Contro cui era ovvia l'ostilitaÁ degli intellettuali. Da parte
loro, i nobili temevano che Toledo, dopo aver sottratto al loro ceto il
potere, volesse appropriarsi anche dei loro beni: le accuse di eresia,
segrete ed anche palesemente infondate, erano seguite dal sequestro
dei beni e spesso avevano questo fine.
Neppure in occasione degli avvenimenti che generarono la rivoluzione del 1647-1648 la popolazione meridionale mostroÁ tendenze
alla debolezza ed alla remissivitaÁ. Essa anche allora fu usata come
strumento e come massa di manovra dai leaders dei gruppi sociali
egemoni, e questa volta non dalla nobiltaÁ, bensõÂ dai togati. Nei decenni seguenti la riforma del 1542, la Cancelleria, ossia i reggenti
togati del Collaterale (che erano quasi tutti di estrazione borghese)
avevano maturato un buon livello di responsabilitaÁ nel governo e si
erano mostrati poco inclini ad accrescere il ritmo dello sfruttamento
fiscale, ossia erano favorevoli a selezionare le partite fiscali da alienare
e le gabelle da imporre e restii ad incrementare ulteriormente la svendita di quei cespiti. Ad esempio, come ha dimostrato Silvio Zotta, si
erano opposti decisamente ad istituire la gabella della frutta, poicheÂ
avevano previsto quali effetti la nuova imposta avrebbe avuto 15. I
15
S. Zotta, Napoli e Venezia al tempo dell'interdetto, in «Ape ingegnosa», 2002, në 1,
pp. 145-212, e në 2, pp. 143-234.
II. La societaÁ meridionale dall'anomalia al collasso
53
nobili dei Seggi, invece, si dimostravano disposti a qualunque soluzione pur di recuperare le vecchie posizioni politiche egemoni nel
governo centrale napoletano, perdute nel 1542. Cercarono percioÁ di
riguadagnarsi con ogni mezzo l'appoggio della corte spagnola, che
ottennero. In conseguenza della fiducia spagnola un numero crescente
di giovani dottori, rampolli dell'aristocrazia di Seggio (i cosiddetti
``togati con spadino'' 16) fu gradualmente inserito nel Collaterale, al
posto dei giuristi piu indipendenti e piu rigorosi. Infatti nei primi
decenni del Seicento fu registrata (nei fascicoli ancor oggi conservati
del Collegio dei Dottori) una maggiore percentuale di laureati di ceto
aristocratico 17. Quando nel Consiglio i nuovi cancellieri di provenienza nobiliare, proni alle decisioni spagnole, raggiunsero una netta prevalenza, la gabella sulla frutta fu creata e la rivoluzione esplose. I
togati di provenienza borghese, inaspriti dalla chiusura dei loro sbocchi professionali, avevano aspettato che la svolta maturasse ed avevano impresso una spinta alla protesta popolare, che comunque si dimostroÁ vigile, attiva, estremamente energica.
Tuttavia nel 1648 l'esito della rivoluzione, con la cosiddetta
datio in solutum delle rendite fiscali (ossia con il provvedimento che
privatizzoÁ la gestione degli arrendamenti), sancõÂ la vittoria del parassitismo economico e statale togato. Come scrisse negli Avvertimenti ai
nipoti Francesco D'Andrea, da allora in poi i dottori provenienti dalla
nobiltaÁ di Seggio e ad essa obbedienti quasi scomparvero dalla composizione del Collaterale, e furono messi comunque in netta minoranza. Come ha dimostrato Imma Ascione, i reggenti borghesi in piuÂ
occasioni fecero balenare contro il governo madrileno la minaccia di
scatenare una rivolta simile a quella del 1647 18. In definitiva, a pace
16
S. Di Franco, Alle origini di una rivolta. Linguaggio politico e scontro sociale a Napoli
in un memoriale manoscritto del 1640, in «Frontiera d'Europa», a. VII, 2002, në 1, pp. 42114. Bibliografia sul tema, infra, nt. 151: fondamentale la sintesi di Rovito.
17
I. Del Bagno, Legum doctores. La formazione del ceto giuridico a Napoli tra Cinque e
Seicento, Jovene, Napoli 1994, ed inoltre Ead., Il collegio napoletano dei dottori. Privilegi,
decreti, decisioni, Jovene, Napoli 2000.
18
I. Ascione, Introduzione all'edizione degli Avvertimenti ai Nipoti di Francesco D'Andrea, Jovene, Napoli 1990, per le minacce del ceto togato al governo spagnolo. Di assoluta
evidenza eÁ la descrizione del D'Andrea, per il quale dal 1648 in poi «tra lo spazio di 48 anni,
54
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
ristabilita, il dominio del ministero togato si rafforzoÁ nettamente e
divenne totale. Fu la vittoria del parassitismo, risultato che pesoÁ
anche sulla cultura giuridica progressista. Francesco D'Andrea, nominato Avvocato Fiscale della Sommaria dal vicere Santisteban, rimase in carica ben poco: fu indotto a dimettersi avendo constatato
che era impossibile riformare lo status quo parassitario, difeso dagli
stessi suoi colleghi di toga 19. E poco mancoÁ che il geniale giurista non
fosse coinvolto nel processo contro i cosiddetti ateisti, macchina
processuale che costituõÂ il segno della vittoria degli ecclesiastici piuÂ
retrivi, interessati a depurare il fronte togato perseguitandone ed
espungendone i giuristi critici di cultura e di vita etica sociale ``moderna''. Il risultato fu che cinque anni d'ingiusta prigione furono
imposti a Giacinto De Cristofaro, un togato onesto, rigoroso, intellettuale eclettico e `moderno', d'indirizzo galileiano e cartesiano.
Egli faceva l'avvocato per vivere: ma era un'autoritaÁ nelle ricerche
in campo matematico 20.
Il quadro che si eÁ cercato di tracciare in questo paragrafo ha
l'intento di fare da sfondo alle testimonianze sull'inerzia, sull'abulia, sulla quasi incredibile indifferenza manifestata dal popolo napoletano in vista della successione (prima) spagnola (poi polacca), e
degli avvenimenti tumultuosi che piu volte portarono eserciti stranieri alle porte della CittaÁ ed imposero cambiamenti di dinastie. A
mostrare qualche interesse per le vicende internazionali furono i
nobili di spada nel 1701, ed i togati con ripetuti interventi letterari
nelle polemiche di diritto pubblico. La messe maggiore di testimonianze eÁ nelle memorie anonime che sono conservate a Parigi e di
cui alcune saranno esaminate qui di seguito. GiaÁ la pubblicazione da
parte di Marco Miletti, nel 1996, di una di esse, conservata in
Vaticano, aveva mostrato l'importanza di questa crisi di fine Seiveggiamo non essere stati occupati piu di cinque soli [posti] da cavalieri di piazza», percheÂ
essi «si viddero chiusa quella strada per la quale stimavano li spagnoli avessero bisogno di
loro»: ivi, pp. 155-6.
19
Ascione, Il governo della prassi. L'esperienza ministeriale di Francesco d'Andrea, Jovene, Napoli 1994.
20
Sui tempi qui indicati, L. Osbat, L'Inquisizione a Napoli. Il processo agli ateisti (16881697), Ediz. Storia e letteratura, Roma 1974: riguardano De Cristofaro le pp. 165-246.
II. La societaÁ meridionale dall'anomalia al collasso
55
cento 21. Il fenomeno, tuttavia, acquista ora una consistenza diversa, perche s'inquadra nell'azione diplomatica promossa da Luigi
XIV, diretta a realizzare una netta inversione nella politica dominante. La strategia cetuale francese riveloÁ l'intento di pervenire ad
una revisione del dominio togato e dei suoi metodi, a demolirne il
significato patriarcale ed esclusivistico. Ripristinare le rappresentanze sociali era segno della necessitaÁ di riconoscere i caratteri
dialettici e complessi della societaÁ e significava dunque condannare
come sostanzialmente passiva e parassitaria l'inerzia tirannica dei
togati, specialmente in campo economico: a parte la loro capacitaÁ di
contrastare (sul piano di una diversa, ma egualmente `deduttiva',
razionalitaÁ) l'invadenza romana. Il potere del Collaterale, rafforzato e reso ancor piu sicuro di se dopo l'esito della rivoluzione del
1647-48, appariva responsabile sia della prostrazione nobiliare, sia
del comportamento popolare neghittoso e passivo, inconsueto nella
storia meno recente di quella comunitaÁ.
5. La politica sociale del Re Sole: ostacoli esterni ed interni
Su questa condizione di difficoltaÁ e d'inerzia della parte popolare
ed indirettamente dell'intera societaÁ delle Sicilie operoÁ l'impatto
della politica francese, diretta a ristabilire un meno sperequato equilibrio tra i ceti e quindi ad infondere coraggio alla nobiltaÁ di spada,
collegandone la dignitaÁ e le sorti ai valori espressi dall'aristocrazia
francese. Come vedremo, questo carattere totalmente francese della
Successione, e le conseguenze non tutte lusinghiere per la nobiltaÁ
napoletana, furono ben chiare a Tiberio Carafa, uomo orientato
nettamente verso la soluzione imperiale viennese. Certo, anch'egli
sperava che gli avvenimenti determinati dalla morte di Carlo II
avrebbero cambiato l'assetto sociale e costituzionale del potere togato nel regno di Napoli: e fu infine disilluso. EÁ facile immaginare
quanto la mortificazione del potere ministeriale fosse sgradita agli
21
M.N. Miletti, «Per scuotersi il giogo ispano». La nobiltaÁ napoletana chiamata alla
rivolta da un memoriale del 1688, in «Frontiera d'Europa», a. II (1996), në 2, pp. 151-243.
56
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
uomini di toga, che avevano creato quel regime sotto il governo di
Pedro di Toledo nel 1542 e l'avevano restaurato con la rivoluzione
del 1647-48 contro il (per altro dissennato) tentativo spagnolo di
ritornare al primato della nobiltaÁ feudale. Nella parte continentale
delle Sicilie, a differenza che a Parigi, la nobiltaÁ di spada, era stata fin
dal 1542 espulsa dai centri decisionali politico-giuridici (in primo
luogo dal Consiglio Collaterale), ed in seguito a quell'emarginazione
era stata prostrata e snervata durante oltre dodici decenni, tanto da
presentarsi divisa al suo interno, e da essere mero strumento della
struttura giudiziaria ed amministrativa di toga, usato e messo in moto
solo quando essa trovava utile servirsene 22. L'idea francese di una
nobiltaÁ di spada ancora pienamente adeguata alla dignitaÁ, al prestigio
ed alle funzioni militari dei milites era fumo negli occhi dei togati.
Infatti, le notizie fornite dagli espions francesi nel regno meridionale continentale non assicuravano al re di Francia il successo dell'iniziativa a favore del baronaggio, di fronte al problema della capitale
napoletana, dove ± affermavano tutti concordemente ± il ceto togato
governava appieno. Lo strapotere dei ministeriali sulla debole nobiltaÁ
feudale eÁ infatti al centro di ogni diagnosi francese ed italiana sulle
condizioni del regno continentale presente nella documentazione
francese 23. In questo quadro eÁ ovvio che gli interlocutori napoletani
22
Cfr. a tal proposito la testimonianza del vicere von Althann in R. Ajello, Il vicereÂ
dimezzato. Parassitismo economico e costituzionalismo d'antico regime nelle lettere di M.F. von
Althann, in «Frontiera d'Europa», a. I, 1995, në 1, pp. 122-220. Da parte loro, i nobili
rifiutavano persino di partecipare alla difesa costiera.
23
Temi giaÁ presenti in Tufano, Giovanni Brancaccio, cit. cap. I, nt. 25, ma qui
sviluppati piu ampiamente. Tuttavia nessun cenno eÁ fatto alle condizioni dell'isola nella
documentazione presente negli archivi degli esteri francesi. Questa mancanza d'interesse
per la Sicilia anzi lascia intendere la diagnosi seguente: che la conquista di Napoli portasse
come ricaduta inevitabile l'acquisizione della Sicilia. L'apparenza sembra dimostrare una
mancanza totale di sensibilitaÁ politica riguardo la questione isolana. Sicuramente durante la
guerra di successione spagnola la scelta parigina dell'interlocutore togato napoletano fece da
barriera ai rapporti diretti di Luigi XIV con la Sicilia. Ma il corso del Settecento mostreraÁ
alla classe politica francese una diversa realtaÁ: dietro un'apparente somiglianza delle istituzioni giuridiche centrali delle due parti del regno, parecchi decenni di governo spagnolo
avevano permesso lo svilupparsi di dinamiche socio-politiche molto differenti (sulle quali la
storiografia sulla Sicilia ci ha finora detto molto poco) che alla fine produrranno una situazione conflittuale tra Napoli e Sicilia, giaÁ presente in maniera notevole a partire dagli anni
'30. E di questi contrasti sapraÁ fare tesoro la diplomazia francese del secondo Settecento.
II. La societaÁ meridionale dall'anomalia al collasso
57
tendessero a conservare in modo esclusivo il loro primato nei rapporti
con Parigi, ed a ridurre al minimo gli interventi della nobiltaÁ siciliana,
testimone di un assetto del potere centrale che nell'isola dava spazio
anche agli ecclesiastici nel Parlamento generale palermitano, che era
ancora funzionante, a differenza di quello napoletano non piu convocato dopo il 1642.
Per governare questi due regni il re di Francia puntava decisamente verso il rafforzamento dell'esecutivo ed alla collaborazione della
feudalitaÁ, ch'egli intendeva conquistare restaurando e ridefinendo le
gerarchie ed i ranghi delle nobiltaÁ franco-ispano-italiane, entro un
ambito geografico vasto quanto l'intera Europa meridionale. I segni
dell'integrazione delle tre nobiltaÁ venivano trasmessi nelle Sicilie con
la regale corrispondenza che s'intrecciava in quegli anni tra Versailles
ed il regno meridionale: mon cousin sono chiamati il principe di Santo
Buono, il duca di Giovinazzo (fratello del cardinale Del Giudice), il
principe di Castiglione, il principe di Bisignano, il principe di Poggioreale, il duca di Sessa, il principe di Avellino, il duca d'Atri, il principe
di Piombino. Secondo le intenzioni del re di Francia, la dismissione
dell'uso del titolo formale avrebbe permesso al nobile-feudatario siciliano di sentirsi parente prossimo del Re Sole, quasi membro della
Maison Royale: come fosse il portatore, in partibus infidelium, del prezioso sangue dinastico della Francia 24. EÁ chiaro l'intento politico-soInfatti, proprio sulla spaccatura della classe dirigente meridionale e sulle divisioni «nazionali» tra regno continentale ed insulare, una parte dell'apparato degli affari esteri francesi
lavoroÁ per destabilizzare il governo napoletano e sganciarlo dalla tutela spagnola, come
abbiamo cercato di dimostrare infra, capp. IV (§ 8), VI e VII. Cfr. anche i volumi
XXXII-XXXIII di B. Tanucci, Epistolario, a cura di Roberto Tufano e Valeria Sapienza,
SocietaÁ napoletana di Storia Patria, in preparazione.
24
V. la corrispondenza tra il re di Francia e la nobiltaÁ siciliana in A.A.EÂ., Correspondance politique, Naples, vol. 13, passim. «Un roi (ou regent) de France n'utilise, en dialoguant, les termes de treÁs proche parente (mon oncle, mon freÁre, mon neveau) que dans le cadre
d'une consanguinite treÁs proche (freÁres, fils de freÁres, cousins germains); cela permet aÁ Sa
Majeste de mettre aÁ part les porteurs du plus preÂcieux sang dynastique de la France (la
``Couronne''), par contraste avec les parents plus eÂloigneÂs (princes du sang), auxquels le roi
s'adresse en les titrant, et qui font seulement partie de la ``maison reÂgnante''. Le fin du fin
du titre serait donc dans ce cas, pour personnage treÁs haut placeÂ, de n'en pas avoir, et d'eÃtre
simplement, vis-aÁ-vis du roi, mon oncle ou ma cousine»: Le Roy Ladurie, Saint-Simon, cit.
cap. I, nt. 49, p. 86. La nobiltaÁ francese, come nota G. Chaussinand-Nogaret, La noblesse
58
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
ciale di Luigi XIV: reso esperto dai brucianti avvenimenti della Fronda, quando i togati avevano «oltrepassato il segno» delle loro funzioni e
dei loro poteri «fino a straordinari eccessi», il Re Sole indicoÁ «pour
l'instruction du Dauphin» il criterio che il re «appartiene al popolo»,
ossia ai tre ceti senza esclusioni, come «il popolo appartiene al re» 25.
EÁ difficile immaginare il regno di Luigi XIV senza la presenza di
un'ideologia delle divisioni sociali che ponesse in maniera enfatica il
problema del rango, considerato un elemento fondamentale nella ricerca di stabilitaÁ sociale 26. L'ideologia nobiliare delle gerarchie e ranghi giocava anche un ruolo fondamentale nella creazione delle cabale:
cioÁ avrebbe potuto comportare di ricomporre e ridistribuire su un
territorio geografico piu ampio il significato sociale e rappresentativo
sia della monarchia francese sia dei gruppi d'interesse che la impersonavano e rendevano vincente. Era tale, per il Re Sole, l'antico ideale
franco e francese espresso dalla costituzione parigina, certo non la sua
esigenza di estendere il dominio personale. Versailles sarebbe allora
divenuta la vera holding di tutta la serie di cabale delle corti dominanti
sulle regioni acquisite con la Successione e la centrale ideologica della
nobiltaÁ dell'Europa meridionale. Per il Re Sole si trattava nella pratica
di allargare su una scala geografica piu vasta, che comprendeva la
Spagna ed i suoi domini, la politica di «nazionalizzazione» delle gerarchie, giaÁ sperimentata con molto successo dall'avo Luigi XIII, aggiungendo ad essa la consolidata pratica politica spagnola verso il feudaleau XVIIIe sieÁcle, EÂdition Complexe, Bruxelles 2000, p. 11, era innanzi tutto nazionalista
anche se non chiusa: tendeva a riconoscere quella delle province annesse (Corsica e Lorena),
assimilava anche elementi stranieri (Svedesi, Tedeschi, Polacchi, Svizzeri e gli emigrati
giacobiti), ma per fare di tutti dei regnicoli.
25
Cfr. i MeÂmoires de Louis XIV pour l'instruction du Dauphin (1661-1668), disponibili in
varie edizioni (ad es. Jean Longnon, Paris 1927), dove queste idee sono espresse nel lib. II,
anno 1661, sez. 2.
26
Cfr., oltre gli autori citati nella nota sub 24, le acute osservazioni sull'argomento di
D. Parker, Class and State in Ancien ReÂgime France. The road of modernity?, Routledge,
London-New York 1996, passim, ma spec. le pp. 136-73. Sull'enfasi posta dal Re Sole al
riguardo delle distinzioni di rango, cfr. anche R. A. Jackson, Peers of France and princes of the
blood, in «French Historical Studies», vol. 7 (1971), pp. 43-44, J.-P. Labatut, Les ducs et
pairs de France au dix-septieÁme sieÁcle: eÁtude sociale, PUF, Paris 1972 e H. A. Ellis, Boulainvilliers and the French Monarchy: Aristocratic Politics in Early Eighteenth-Century France,
Cornell University Press, Ithaca 1988.
II. La societaÁ meridionale dall'anomalia al collasso
59
simo, il cui ordinamento «s'inseriva in uno Stato patrimoniale e prebendale, come forma strutturale di una parte di amministrazione» 27.
Il re di Francia mostroÁ una notevole presunzione di fronte alla
natura complessa delle identitaÁ nobiliari ed alla forza del ceto togato napoletano, e cioÁ determinoÁ in parte il fallimento del suo
progetto nell'Italia del sud. A tal riguardo eÁ significativa la posizione di Saint-Simon che si mostroÁ in netto disaccordo con il proprio
signore. Nell'affermare la superioritaÁ della corte di Versailles sulla
madrilena, il duca rifiutava l'idea di una contaminazione di sangue:
i rozzi nobili spagnoli, differentemente dai francesi, ad esempio,
«n'observent entre eux aucun rang d'anciennete ni de classe [...]
ainsi ils se rangent les uns apreÁs les autres comme le hasard les fait se
rencontrer» 28. Dietro le insolenze del prolifico memorialista alla
nobiltaÁ estera stava una visione del secondo ordine come universo
fluido che contemplava un'infinita varietaÁ di distinzioni interne di
livello e grado, tutto il contrario di cioÁ che invece pensava il teorico
progressista Boulainvilliers, per il quale la nobiltaÁ francese era invece un blocco unico, cioeÁ una sostanza, ragione per la quale egli
arrivava a proporre la perfetta eguaglianza dei nobili tra di loro 29.
Il fallimento della politica di Luigi XIV volta a favorire le aperture
internazionali dei reseaux aristocratici francesi sembra smentire la
27
La citazione eÁ di M. Weber, Economia e societaÁ, IV, Sociologia politica, Milano
1980, p. 175, cui fa riferimento A. Musi, Il feudalismo nell'Europa moderna, Il Mulino,
Bologna 2007, p. 65 e ss., che spiega bene il ruolo giocato dal feudo come collante del
complesso reticolo di relazioni fra realtaÁ statuali entro il sistema imperiale spagnolo tra
XVI e XVII sec. Sulle origini spagnole del difficile rapporto instauratosi nel regno di Napoli
tra la feudalitaÁ e l'apparato statuale capitolino, alla cui base stava il fenomeno politico della
mediazione ministeriale, cfr. A. Cernigliaro, SovranitaÁ e feudo nel Regno di Napoli (15051557), Napoli 1983, Ajello, Una societaÁ anomala, cit. (nt. 12) e i suoi numerosi lavori
successivi diretti a ricostruire anche le ripercussioni di quella novitaÁ cetuale nei secoli
seguenti. Un buon esempio di «nazionalizzazione» delle gerarchie ci eÁ offerto dalle nomine
a vescovo fatte da questo regnante, su di cui v. M. PeÂronnet, Les EÃveques de l'ancienne
France, EÂditions de l'Universite de Lille-III, Lille 1977, vol. I, p. 513, il quale ha notato che
«Louis XIII vise aÁ briser les solidariteÂs geÂographique, et cela aboutit aÁ faire de l'eÂpiscopat un
corps national, aÁ l'aire de recrutement nationale».
28
Cfr. MeÂmoires, cit. infra, nt. 35, t. II, p. 124 ss..
29
Cfr. su costui i primi capitoli del volume di G. Chaussinand-Nogaret, Le Citoyen
des LumieÁres, Complexe, Bruxelles 1994, e F. Furet, L'Atelier de l'histoire, Paris 1982,
p. 175.
60
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
possibilitaÁ di pensare le relazioni internazionali d'antico regime sul
modello d'una teoria generale dell'economia. In effetti, come abbiamo
notato dalla reazione di Saint-Simon (e come c'insegnano, tra gli altri,
Max Weber e Raymond Aron) il collocarsi dell'osservatore dentro i
limiti della ZweckrationalitaÈt non deve comportare la negazione del
ruolo delle passioni e delle condotte apparentemente non razionali.
Tuttavia, la politica internazionale d'Antico Regime dovrebbe essere
considerata in termini meno di «valori» e piu di «funzioni», giaccheÂ
prima della nascita e dello sviluppo della societaÁ industriali, la guerra
era considerata come il solo mezzo di crescita della ricchezza nazionale, attraverso la rapina armata dello spazio, degli uomini e delle risorse.
Solo con il secolo dei Lumi l'idea di progresso venne a legarsi a quella
di produttivitaÁ, di sfruttamento intensivo delle risorse, di organizzazione razionale del sistema delle decisioni, dell'amministrazione e del
potere esecutivo. La testimonianza di Claude LeÂvi-Strauss sul tema
della guerra e della pace comparate con altre civiltaÁ situate oltre i
«parapetti» dell'Occidente eÁ esemplare a tal proposito 30.
6. Luigi XIV alla ricerca della (incerta) fedeltaÁ napoletana (1701)
Il 1701 fu un anno intenso per l'azione politica del re Cristianissimo alla ricerca della fedeltaÁ siciliana per il nipote, oramai re di
Spagna. Per il governo francese il vicere napoletano, Luis Francisco
de Lacerda duca di Medina-Celi, aveva dimostrato nell'occasione del
passaggio dinastico notevole sagacia politica, assieme ad «esprit et
grandeur d'aÃme». In effetti, secondo la testimonianza oculare di una
spia francese residente a Napoli, nobiltaÁ e popolo s'erano sottomessi
«aÁ la domination d'un prince francËois, sans emotion, sans reccolte et
sans aucun mouvement», sebbene per due secoli gli spagnoli avessero
aspramente criticato il governo francese ed istigato odio nella popolazione verso quella nazione 31. Eppure, due anni prima, un'altra relazione anonima proveniente da Napoli aveva offerto del duca Medi30
31
G. Charbonnier, Entretiens avec LeÂvi-Strauss, Paris 1961.
A.A.EÂ., Correspondance politique, Naples, vol. 13, f. 58r.
II. La societaÁ meridionale dall'anomalia al collasso
61
na-Celi un ritratto non proprio lusinghiero. Il vicere spagnolo vi eÁ
descritto come un «homme vain», «prodigue sans eÃtre vraiment genereux», dedito esclusivamente alla soddisfazione del proprio piacere ed
assolutamente soggiogato dalla sua amante, una cantante svedese di
nome Georgine. Per queste sue caratteristiche psicologiche egli sembrava piu spinto alla difesa d'interessi personali che a quelli generali
della politica nazionale spagnola, per cui, «on le doit regarder comme
un bon espagnol qui ne fera rien pour la France», almeno fino a
quando egli fosse riuscito a coniugare gli affari della «patria» spagnola
con i suoi privati 32.
Il connubio tra il vicere e la Francia nacque puntuale con la successione al trono di Spagna: a partire dall'11 gennaio del 1701 Medina-Celi inizioÁ un carteggio riservato su materie di Stato con Luigi
XIV, che lo fece riconfermare a Napoli per altri tre anni, nonostante
lo spagnolo aspirasse alla carica di presidente del Consiglio d'Italia 33.
Malgrado lo zelo mostrato dal Medina-Celi nel concordare con il governo francese tutte le iniziative politiche da prendere a Napoli, quell'idillio non fu duraturo, anzi dopo l'evento della congiura di Macchia
egli venne rimosso e sostituito con il duca di Escalona, in quel momento vicere di Sicilia 34. La Corte parigina applicoÁ per la sua carriera
la logica del promoveatur ut amoveatur, offrendogli la «place treÁs lucrative» del Consiglio delle Indie, anzicche la presidenza del Consiglio
d'Italia, carica alla quale il duca aspirava da lungo tempo, avendola
richiesta a piu riprese direttamente a Luigi XIV. Sulla via del ritorno
in patria, Medina-Celi passoÁ da Parigi «pour faire la reÂveÂrence au
Roi», incontroÁ Torci e fece tutti i nomi degli aristocratici coinvolti
nella congiura 35. Il solito agente segreto della capitale (dal nome in
codice 214.19 e la cui identitaÁ non ci eÁ riuscito di svelare) aveva a piuÂ
32
Ivi, ff. 189-201. Su questa relazione torneremo piu avanti.
Ivi, ff. 4r-5v e lettera di Medina-Celi a Luigi XIV del 2 agosto 1701, cfr anche voll.
13, 14 passim.
34
Ivi, ff. 179r-85v.
35
Saint-Simon, MeÂmoires (1701-1707), vol. II, eÂdition eÂtablie par Yves Coirault, Gallimard, Paris 1983, p. 227, che racconta dell'arresto di parecchi esponenti della nobiltaÁ
napoletana anche a seguito del racconto che Medina-Celi fece a Torci: obiettivo dei rivoltosi
era innanzitutto la presa del bastione del Carmine, avvenimenti su cui cfr. infra, p. 63.
33
62
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
riprese avvertito il proprio governo dell'incapacitaÁ politica del Medina-Celi e della sua mancanza di consensi tra le fila della nobiltaÁ
napoletana, chiedendone la rimozione; tali accuse venivano rincarate
dall'espion cavaliere di Graville, in missione tra la Sicilia ed il regno
continentale per ottenere informazioni sui vari baroni di quelle province 36. Finalmente, il 21 dicembre di quell'anno egli poteva esprimere al proprio monarca soddisfazione per l'allontanamento dello
spagnolo, complimentarsi per la scelta del nuovo vicere e, considerata
l'affidabilitaÁ del duca Escalona, chiedere il permesso di allontanarsi
dalla capitale per continuare le sue missioni nelle province feudali 37.
Questi giudizi sull'inaffidabilitaÁ politica del duca saranno ribaditi nel
1705 dall'ambasciatore francese a Madrid, Antoine Charles duca di
Gramont, in un ironico profilo di poche righe, talmente efficace da
sembrare un cammeo: «Medina-Celi a la gloire de Lucifer, la teÃte
pleine de vent et d'ideÂes chimeÂriques. De son merite, je n'en parle
pas, j'en laisse le soin aux historiens de Naples. Il se dit attache au Roi
et aÁ la France; mais sa conduite tous les jours le deÂment» 38. Ma i noti
vizi privati e pubblici del vicere non tolgono che anche i suoi piuÂ
accaniti nemici, tra cui Tiberio Carafa, avevano notato la sua astuta
regia nel traghettamento del Regnum da una dinastia all'altra 39. ProQuella fortificazione, in quanto nodo centrale del controllo urbano anti-sommossa, viene
spesso evocata nelle relazioni che provengono da Napoli.
36
Ivi, f. 287r-v (il nome in codice di Graville era invece 118.127.239.204). I codici degli
agenti ivi, vol. 15, rispettivamente ai ff. 7r (lettera del 1 gennaio del 1702, ma l'agente era
stato inviato a Napoli con ordine di Torci del 6 ottobre dell'anno precedente) e 19v (lettera
di Graville sullo stato delle truppe e delle galere napoletane del 3 gennaio 1702).
37
Ivi, passim. Si tratta di lettere tutte in cifra. Del cavaliere di Graville non abbiamo
trovato negli archivi francesi alcun dossier relativo alla missione in Italia, ma dalle sue lettere
si evince ch'egli arrivoÁ nelle Sicilie dopo il giugno del 1701. Con ogni probabilitaÁ si tratta di
Jean-Baptiste de Poussemothe de l'Estoile, chevalier de Graville, indicato da L. BeÂly,
Espions et ambassadeurs au temps de Louis XIV, cit. cap. I, nt. 13, ad indicem, anche se,
come avverte lo storico francese, «la nature du document et le secret rendent compte de
l'identite incertaine des corrispondants, qui, dans la plupart des cas, changent de nom dans
la vie de tous les jours et surtout dans leurs lettres [...] l'espion est par nature ambigu,
eÂquivoque, et volontiers ubiquiste: il est ici et ailleurs» (p. 96).
38
A.A.EÂ., Correspondance politique, Espagne, vol. 146, f. 235r.
39
Memorie di Tiberio Carafa, principe di Chiusano, riproduzione in fac-simile, con decorazioni e vedute dei luoghi, a cura di Antonietta Pizzo, Napoli 2005, pp. 207-22.
II. La societaÁ meridionale dall'anomalia al collasso
63
viamo a seguire piu da vicino il filo della narrazione degli avvenimenti, incrociando alcune testimonianze dirette.
Il 19 novembre del 1700, era giunto nella cittaÁ partenopea un
corriere straordinario del duca di Uceda, l'ambasciatore spagnolo
presso la S. Sede, con la notizia clamorosa ± trasmessa rapidamente
dalla Francia per la via di Firenze e Roma ± della morte del re Carlo
II, ultimo erede della sua famiglia 40. In una cittaÁ come Napoli il
mantenimento dell'ordine pubblico era la principale preoccupazione
di quel momento. Dietro suggerimento di due fedelissimi, il principe
di Ottajano ed il duca di Popoli, Medina-Celi convocoÁ dapprima i
reggenti del Collaterale ed i principali magistrati dei tribunali e con
loro preparoÁ saggiamente i ceti della cittaÁ prima della divulgazione
della notizia 41. CosõÂ diede incarico a Pietro Paolo Mastellone, l'Eletto
del popolo, di contattare i capi delle ottine per fare in modo che la
plebe venisse predisposta al cambio di dinastia con rassicurazioni
precise relativamente all'abbondanza dell'annona ed al mantenimento
del solito regime fiscale indiretto. Non mancoÁ la raccomandazione ±
racconta Carafa ± di ammonire la plebe napoletana che «in caso di
renitenza e disordine dall'alta formidabil potenza del Re di Francia e
dalla vendicatrice pronta ed armata sua mano il bombardamento della
CittaÁ, la perdita dei Privileggii, e il guasto e depredamento universale
in sollecita risposta attendessero» 42. Inoltre, venne preparato e subito
emanato un editto per evitare che i banchi napoletani fossero presi
d'assalto dai creditori in preda al panico 43. Notevoli misure di polizia
furono nel frattempo prese con il rafforzamento delle guarnigioni e la
40
Ivi, p. 206-7. Il vicere di Napoli chiuse il circuito d'informazioni, trasmettendo la
notizia a quello di Sicilia.
41
Ivi, pp. 207-8.
42
A.A.EÂ., Correspondance politique, Naples, vol. 13, f. 61r, dove si elogiano con Mastellone, il principe di Ottajano ed il Console dei mercanti per essere riusciti a mantenere
l'ordine pubblico in quel frangente. Al vicere va attribuito inoltre il merito di aver amministrato saggiamente l'annona napoletana. Su Mastellone, cfr. anche Memorie di Tiberio Carafa, principe di Chiusano, op. cit. (nt. 39), pp. 209-10, per il quale l'Eletto ammonõ la plebe
della punizione francese.
43
Sulle provvidenze prese per i Banchi, «ad impedir poi dei pubblici banchi il natural
fallimento, qualora ciascun de' creditori con frettolosa inopportuna esazzione avesse voluto
riscuotere prontamente tutto il suo credito», cfr. ivi, pp. 210-1.
64
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
fornitura di bastevoli munizioni alle fortezze della cittaÁ, soprattutto
per il famoso Torrione del Carmine che dominava la popolosa e plebea
piazza del Mercato, tradizionale punto di partenza di ogni ribellione
sociale. Preparata cosõÂ la capitale, senza particolari clamori e con fare
sommesso, la mattina del giorno seguente nella sede del governo
furono «convocati gli Eletti della CittaÁ e tutti i Baroni parteggiani
[sic] et aderenti, ed ancora tutti quelli che di costoro erano amici o
congionti [sic]»: lõ il vicere riveloÁ la notizia della morte dell'ultimo
erede della dinastia spagnola e le disposizioni testamentarie del defunto. Queste ultime egli «esagerava magnificandole come legittime,
come pietose e come a' Popoli sommamente confacevoli» 44.
Quando, alcune ore dopo, arrivarono gli ordini regi francesi susseguenti l'accettazione del testamento con la conferma della fiducia a
Medina-Celi quale vicere di Napoli, i membri del «partito patrizio»
filo-austriaco, una delle fazioni che divideva l'incerta aristocrazia
napoletana, rimasero «storditi». I rivoltosi decisero allora di aspettare l'evolvere del quadro internazionale, poiche «fu giudicato convenevole e necessario di attendere dal tempo e da movimenti degli altri
Principi d'Europa l'occasione a' loro disegni favorevole, sicuri che
l'Imperatore, l'Inghilterra e l'Olanda troppo interessati e troppo
offesi non lascierebbero [sic] lungo tempo la Francia godere in pace
di quella mal rapita e giaÁ tracannata preda e ben soverchia al potersi
senza danno diggerire [sic] da un solo» 45. In effetti la congiura antifrancese venne a maturazione dopo circa un anno rispetto al passaggio dei poteri ed il fronte della nobiltaÁ napoletana appariva tutt'altro
che compatto nella scelta della fedeltaÁ. Una spiegazione di questo
ritardo nelle scelte di campo della nobiltaÁ partenopea eÁ stata offerta
da Giuseppe Ricuperati, che utilizza le testimonianze di alcuni intellettuali vicini all'ambiente della corte viceregia: Paolo Mattia Doria,
Pietro Giannone e Giambattista Vico 46.
Lo storico torinese cita una lettera indirizzata allo zio Carlo Sa44
45
46
Ivi, pp. 211-3.
Ivi, p. 214.
Ricuperati, L'immagine di Napoli, cit., cap. I, nt. 39, pp. 83-111.
II. La societaÁ meridionale dall'anomalia al collasso
65
batelli dal giovanissimo Pietro Giannone, che abitava nella capitale per
compiere il suo corso di studi e che era solito frequentare l'Accademia
del Vicere 47. Nell'esporre le opinioni prevalenti tra gli aristocratici,
Giannone sosteneva che essi in un primo momento temevano fortemente un rifiuto del re di Francia ad accettare il testamento di Carlo
II, allo scopo e con la conseguenza di voler «incorporare alla monarchia di Francia li regni di Napoli, Sicilia e Sardegna», poiche «il far
monarcha di Spagna il duca di AngioÁ non importa niente alla Francia,
perche questo arrivato in Spagna non saraÁ piu francese, ma spagnolo;
e s'havraÁ come se Carlo II havesse fatto un figlio». Ma questo timore
della nobiltaÁ napoletana ebbe termine nel volgere di tre giorni, non
appena giunse la notizia dell'accettazione del testamento.
La testimonianza di Giannone lascia intendere che, almeno in un
primo momento, nobiltaÁ e societaÁ civile si erano strette attorno al
vicereÂ, nella speranza che questa fedeltaÁ fosse ricompensata. Per
Ricuperati «la scelta del Giannone eÁ per molti versi simile a quella
di Vico e dello stesso Doria: la Spagna assicurava una concordia
ordinum che era pericoloso toccare. I mutamenti possibili dovevano
venire da una monarchia riformatrice e legata ad un modello di
continuitaÁ e non dall'esterno» 48. I mesi seguenti avrebbero peroÁ modificato il quadro, innanzitutto con la congiura di Macchia, che «rimetteva bruscamente in discussione quella conclamata fedeltaÁ della
nobiltaÁ e del popolo al regime [...] in questo senso si tratta di un
episodio significativo, anche se delimitato nella storia dell'antispagnolismo, perche vede emergere un programma politico, alcuni tratti
del quale diventeranno ipotesi per il futuro» 49.
La scelta di fedeltaÁ del primo momento avvenne comunque attraverso lo sforzo del governo francese di creare un «double» legame
di attaccamento alle «deux courones» di Francia e di Spagna, come
testimonia la corrispondenza di Luigi XIV con i grandati napoletani.
Di cioÁ si aveva contezza nella capitale e vari memoriali gli venivano
47
P. Giannone, Epistolario, a cura di P. Minervini, Fasano di Puglia 1984, pp. 31-4,
lettera del 27 novembre 1700 allo zio Carlo Sabatelli.
48
Ricuperati, op. cit. (nt. 46), p. 91.
49
Ibidem.
66
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
indirizzati, qualcuno recante nel mittente la dicitura «a sua MaestaÁ
Reale di Francia e di Spagna» 50. Anche secondo un espion residente
nella capitale la nobiltaÁ confidava nell'intercessione di Luigi XIV per
ottenere riconoscimenti e favori dal re di Spagna. Per l'anonima spia
una buona mossa sarebbe stata quella di legare quella nobiltaÁ con una
doppia fedeltaÁ alla monarchia di Francia ed a quella di Spagna. Ed in
effetti, ad iniziare dai primi di gennaio, una parte dell'aristocrazia
napoletana intreccioÁ una corrispondenza con il monarca di Francia,
avente ad oggetto questo legame doppio con lui e con la Corona
spagnola, oramai borbonica: il principe di Castiglione 51, il duca di
Calabria, il principe d'Avellino 52, il principe di Ottajano 53, il duca di
A.A.EÂ., Correspondance politique, Naples, vol. 13, cfr. ad esempio la lettera del 5
gennaio del 1701, ff. 5r-7v.
51
Ivi, 7 gennaio 1701, il principe di Castiglione a Luigi XIV (f. 4r) e minuta della
relativa risposta s.d. (f. 9); altra lettera del 1 aprile del principe al re con dichiarazione di
fedeltaÁ esclusiva alla casa dei Borbone, e relativa risposta in minuta del 21 aprile, dove si
riscontra un curioso lapsus calami subito corretto nella frase: «Mon cousin, je ne doute pas
que vos aÃncetres ont toujours temoigne pour les Roys Catholiques (...)» dove l'aggettivo dei
reali di Spagna viene sostituito con quello dei re di Francia. Per Saint-Simon, MeÂmoires
(1721-1723), vol. VIII, eÂdition eÂtablie par Yves Coirault, Gallimard, Paris 1988, p. 137,
Tommaso d'Aquino, sesto principe di Castiglione, di Feroleto e di San Mango, duca di
Nicastro e conte di Martirano, fu nominato da Carlo II Grande di Spagna nel 1699. Il suo
nome ricorre nella Lista de' Grandati di Spagna nel Regno di Napoli datata 1703 in A.A.EÂ.,
Correspondance politique, Naples, vol. 18, f. 117r.
52
Marino III, Francesco Marino, principe di Avellino, nato il 16 luglio 1668, aveva
sposato una sorella di Filippo Antonio Spinola, marchese di Los BalbaseÁs, uno degli uomini
piu importanti del governo spagnolo (fu capitano generale, ambasciatore, vicere di Sicilia e
nel 1715 consigliere di Stato). Nella relazione anonima pubblicata da Miletti (op. cit. (nt.
21), pp. 210-212) eÁ scritto: «(...) ostenta una sopraffina spagnolagine, anche perche la
duchessa di Terranova gli eÁ nonna (...) Possiede in perpetuo uno delli sette ufficij, ch'eÁ il
Gran Cammerlangato del Regno, e teme, che da un nuovo dominio gli possa essere levato.
Tolti simiglianti rispetti siegue col genio la rettitudine del governo di Francia, et ha detto piuÂ
volte, che se Napoli havesse un re, che vi risiedesse, non vi sarebbe ne regno, ne vassallaggio
piu felice. (...) Conosce che il Regno non puol durare in mano de' Spagnoli, e supponendo
che il marchese de los Valuases troppo interessato nella Spagna e come genovese potesse
restar privo del ducato del Sesto et altre terre, che nell'istesso Regno possiede, onde si daÁ a
credere, che la Francia potesse investirne i suoi figli a causa della moglie figlia del marchese
Spinola». La sua famiglia aspirava al Grandato, che peroÁ ottenne solo nel 1707 con l'arrivo
degli Austriaci. Il principe Marino III s'era infatti messo alla testa del partito imperiale, per
vendicarsi dell'ingratitudine degli Spagnoli, «al fianco dei quali si era schierato nella congiura di Macchia ed aveva combattuto in Lombardia»: Miletti, ivi, p. 211, nt. 59.
53
A.A.EÂ., Correspondance politique, Naples, vol. 13, 29 marzo 1701, il principe di
50
II. La societaÁ meridionale dall'anomalia al collasso
67
Giovinazzo 54, il principe di Bisignano 55, la famiglia Montesarchio 56,
il principe di Poggioreale, il duca di Sessa 57, la duchessa di Monteleone 58, il duca d'Atri, il principe di Piombino, il principe di Santo
Ottajano a Luigi XIV (f. 19). Si tratta di Giuseppe de' Medici, la cui famiglia era stata
aggregata al seggio di Capuana nel 1686: D. Confuorto, Giornali di Napoli dal 1679 al 1699,
a cura di Nicola Nicolini, vol. I, presso Luigi Lubrano, Napoli 1930, p. 166. Nella relazione
anonima pubblicata da Miletti di lui eÁ scritto: «il prencipe [...] disgustato dalli Spagnoli in
piu guise, et ultimamente per li denari, che gli levoÁ il marchese del Carpio, a causa di haver
maltrattato un dipendente del duca di Madalone [sull'episodio v. la ricostruzione di Miletti,
op. cit. (nt. 21), p. 213, nt. 72], nudrisce nel seno non troppo sinceri talenti, pure come quello
che fa del parente al Gran duca di Toscana si regolarebbe secondo che le cose d'Italia
vedesse regolare quella potenza. Egli non eÁ grandemente ricco, ma eÁ splendido et eÁ considerabile per qualche buona sequela di nobiltaÁ e per havere il vassallaggio prossimo alla
marina di Napoli». Contrariamente a quanto affermato da G. Galasso, Napoli Spagnola
dopo Masaniello. Politica Cultura SocietaÁ, Sansoni, Firenze 1982, pp. 595 e 630 e da Miletti,
op. cit. (nt. 21), p. 214, nt. 73, che lo vogliono fedele alla monarchia di Spagna, almeno in
questa fase il principe si dimostra filo-francese ed il suo atteggiamento ambiguo denunciato
dall'anonimo trova anche riscontro diretto nei documenti di parte francese (cfr. A.A.EÂ.,
Correspondance politique, Naples, vol. 13, f. 60) ed indiretto nelle feroci critiche del Carafa
nelle sue Memorie di Tiberio Carafa, principe di Chiusano, op. cit. (nt. 39), pp. 209-10.
54
10 marzo 1701, Luigi XIV al duca di Giovinazzo a proposito dell'intercessione a suo
favore del cardinale del Giudice, suo fratello (f. 17).
55
Carlo Maria Sanseverino (1644-1704), ottavo principe di Bisignano, del Seggio di
Nido (A.S.N., Manoscritti genealogici Livio Serra di Gerace, vol. I, f. 1218) viene ricordato da
Francesco D'Andrea (Avvertimenti ai nipoti, a cura di Imma Ascione, Jovene, Napoli 1990,
p. 277) come valente avvocato, benche «primo barone del regno e grande di Spagna». Nella
relazione anonima pubblicata da Miletti di lui eÁ scritto: «inimico giurato delli Spagnoli sin da
Carlo V, che gli diede sõÂ gran persecutioni, e che tolse alla sua casa il prencipato di Salerno
essendo stato ridotto al verde di tempo in tempo desidera novitaÁ ansiosamente con sicura
speranza di riassumere l'antico splendore, o almeno di godersi in pace quello che gl'eÁ restato»
(p. 233). Sui feudi calabresi dei principi di Bisignano, cfr. G. Galasso, Economia e societaÁ
nella Calabria del Cinquecento, L'Arte Tipografica, Napoli 1967, pp. 7-11.
56
Il principe di Montesarchio era stato protagonista di una congiura che mirava a
rendere il regno autonomo con don Giovanni d'Austria come re. Con lui furono arrestati
l'Avalos, il fratello, principe di Troia, Gregorio Carafa, priore della Roccella: cfr. M.
Schipa, La congiura del principe di Montesarchio, in «Archivio storico per le province napoletane», III-IV, 1918, pp. 271-96, V, 1919, pp. 191-226; VI, 1920, pp. 251-79.
57
Per Gramont (supra, nt. 38, f. 235v) «le duc de Sessa est un bon homme treÂs eloigneÂ
de deÂchiffrer l'Apocalypse, mais rempli de bonnes intentions pour la France et deÂsiderant la
meÃme chose que Villafranca pour la conservation de cette monarchie; du reste il est propre aÁ
eÃtre capitaine des gardes du corps comme je le suis aÁ faire la fonction de moufti».
58
Cfr. A.A.EÂ., Correspondance politique, Naples, vol. 13, f. 59. Giovanna Pignatelli
(1648-1723), figlia del defunto duca di Monteleone, Andrea Fabrizio Pignatelli, sposoÁ in
seconde nozze il prozio NiccoloÁ Pignatelli (A.S.N., Manoscritti genealogici Livio Serra di
Gerace, vol. I, f. 235.
68
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
Buono 59. Luigi XIV aveva giaÁ nel 1697 ricevuto molte lettere in cifra
dal principe d'Acquaviva. Questi si dichiarava disposto alla morte del
re di Spagna ad assumere l'incarico di guidare il partito filofrancese
per occupare il Regno. L'attacco sarebbe avvenuto attraverso le Puglie e, come fu suggerito anche in altri casi, la conquista manu militari
del regno di Napoli poteva avvenire esclusivamente attraverso uno
sbarco sulle coste adriatiche. Il nobile mostrava un grande odio verso
l'«onnipotenza» dei genovesi, padroni del Regnum grazie alle notevoli vendite del patrimonio demaniale 60.
Dopo la congiura di Macchia il punto di vista francese sulla
Successione di Spagna ± o almeno quello che il governo d'Oltrealpe
voleva far credere alla classe dirigente spagnola ± appare con chiarezza in una lunga lettera datata 1702 del ministro Torci al vicere di
Napoli, il duca di Medina-Celi, che era apparso subito come il maggior garante dell'obbedienza del Regno. Nello spiegare le «veÂritables
intentions du roi aÁ l'eÂgard de l'Espagne» al governante napoletano,
Torci insisteva sul vero problema politico che occorreva affrontare,
cioeÁ riuscire a congiungere il bene della monarchia spagnola senza
ledere gli interessi francesi 61.
7. La congiura contro i «gallispani» (1701)
Nel 1701, mentre la guerra di successione spagnola iniziava ad
incendiare l'intero continente europeo, nella capitale del regno di
Napoli, una congiura aristocratica filo-austriaca, che prese il nome
dal principe di Macchia, colonnello di un reggimento napoletano di
stanza a Barcellona, veniva ordita contro il nuovo re di sangue borbonico, Filippo V. Tiberio Carafa, principe di Chiusano, che di quella vicenda rivoltosa fu, oltre che uno dei protagonisti, un preciso e
59
Ivi, vol. 15, dove si trova un interessante memoriale sul regno di Napoli del principe
alla corte di Francia ai ff. 117r-34r, sul quale torneremo piu avanti.
60
Cfr. A.A.EÂ., Correspondance politique, Naples, vol. 12, ff. 132 e ss. tutti cifrati dal
titolo Eclairessement sur les familles du Royaume de Naples.
61
Torci aÁ Medina-Celi, 18 luglio 1702, in A.A.EÂ., Correspondance politique, Espagne,
vol. 106, f. 6.
II. La societaÁ meridionale dall'anomalia al collasso
69
fine cronista, definõÂ il nuovo ordine politico della monarchia di Spagna con il neologismo di «gallispanico» 62. Per il Carafa, con il duca di
AngioÁ sul trono di Madrid, «Galli» ed «Ispani» avevano infatti incrociato, non giaÁ il ferro delle armi come era stato fino a quel tempo,
ma i destini dei due regni, rimettendo drammaticamente in discussione il lealismo dei ceti sociali napoletani al regime spagnolo: a
Napoli, infatti, «tutti vedevano chiaro che dalla Francia gli ordini
per allora dovevano gli Spagnoli ricevere» 63. Quest'ultima osservazione desta un particolare interesse, perche descrive la molla che
azionoÁ il meccanismo rivoltoso degli aristocratici napoletani capitanati dal Macchia: era il controllo francese che li preoccupava e che
risvegliava in loro i mai sopiti odii contro gli «angioini».
Il tema dello sfruttamento del Mezzogiorno d'Italia ad opera degli
Spagnoli costituiva un solido topos nella pubblicistica del secondo
Seicento e numerose testimonianze attestano la diffusa insoddisfazione verso il «giogo ispano» 64. Ma se essa era generale e dominava
trasversalmente la nobiltaÁ napoletana, purtuttavia l'aristocrazia era
divisa nella scelta del miglior «medico straniero» chiamato a fungere
da «ristoro della patria» 65. CosõÂ sentimenti ed atteggiamenti lealisti,
«gallispanici» o «austriacanti» si confondevano tra le fila della scontenta nobiltaÁ sul terreno dei comportamenti concreti e della singola
storia dei suoi esponenti. Emblematica di queste oscillazioni politiche
eÁ la biografia di Restaino Cantelmo. Nel novembre 1700 il duca fu
inviato a Madrid per porgere gli omaggi ufficiali del Regno al nuovo
monarca, nonostante la forte contestazione di buona parte della nobiltaÁ per tale scelta, scatenata dai noti sentimenti filofrancesi della
62
Ora edite mediante riproduzione in fac-simile dello splendido esemplare manoscritto
conservato presso la Biblioteca dell'Archivio di Stato di Napoli: Memorie di Tiberio Carafa,
principe di Chiusano, riproduzione a cura di Antonietta Pizzo, cit. supra nt. 39. Sul Carafa,
cfr. l'omonima voce curata da C. Russo nel Dizionario biografico degli Italiani, Istituto
dell'Enciclopedia italiana, XIX, 1976, pp. 607-611.
63
Ivi, p. 223.
64
Cfr. G. Galasso, Napoli spagnola dopo Masaniello. Politica Cultura SocietaÁ, Sansoni,
Firenze 1982, p. 207.
65
La metafora medica eÁ usata nell'anonima relazione, conservata nella Biblioteca
Apostolica Vaticana e pubblicata con ampio ed accurato commento da Miletti, op. cit.
(supra nt. 21), pp. 151-243.
70
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
famiglia e per via della posizione del fratello, il cardinale Giacomo, che
da tempo perseguiva l'obiettivo del controllo inquisitoriale romano
sulla vita politica del Regno, alleandosi coi gesuiti nella lotta contro
i «filosofi moderni». Durante la congiura di Macchia, i due fratelli
assunsero poi una posizione lealista e filospagnola, al punto che Restaino guidoÁ la repressione militare contro i ribelli, peraltro tenendo
un comportamento abbastanza mite. Ma subito dopo, nel 1703, il
duca venne accusato di tessere le fila di un complotto a favore della
Francia: fu costretto ad espatriare e morõÂ esule a Barcellona 66.
Testimonianze seicentesche sono concordi nell'individuare nella
societaÁ napoletana una forte riluttanza nei confronti di Luigi XIV,
per la preoccupazione che la superpotenza transalpina cancellasse
ogni margine d'autonomia e comprimesse ogni residuo della sovranitaÁ limitata che derivava dalla composita struttura imperiale spagnola
su cui si reggevano gli equilibri istituzionali del Mezzogiorno d'Italia.
Tra i tanti possibili esempi ne citiamo due abbastanza noti. La formula adottata dalla propaganda filo-spagnola subito dopo la rivolta di
Masaniello, «non possono stare insieme nel Regno di Napoli Francesi
e LibertaÁ, Francesi e Repubblica», trovava ancora eco un trentennio
dopo in un pamphlet scritto da Francesco D'Andrea, il piu autorevole
esponente del ceto ministeriale napoletano in quegli anni. Egli dimostroÁ la pericolositaÁ della politica accentratrice di Luigi XIV per gli
equilibri sociali su cui si fondava il regno meridionale: «come il desiderio di libertaÁ possa invitare i siciliani a levarsi dal dominio degli
spagnuoli, per darsi a quello de' francesi? LibertaÁ e dominio non
possono stare insieme. E si eÁ stimata asserzione troppo ridicola chiamar libertaÁ il dominio de' francesi e giogo quello degli spagnoli» 67.
66
Ivi, pp. 190-1. Sul duca cfr. A. Musi, Cantelmo Restaino, voce del Dizionario biografico degli Italiani, Fondazione Giovanni Treccani, Istituto dell'Enciclopedia italiana,
XVIII, 1975. Sul cardinale cfr. V. I. Comparato, Cantelmo Giacomo, in ivi, p. 266 e S.
Mastellone, Pensiero politico e vita culturale a Napoli nella seconda metaÁ del Seicento,
D'Anna, Messina 1965, pp. 144-5.
67
La formula in Larcando Laco, Risposta al manifesto del Christianissimo Re di Francia,
nel quale espone le raggioni delle sue armi incaminate al Regno di Napoli, impresso in Parigi a 26
d'Aprile 1648, per Domenico Maccarano, Napoli 1648, p. 69. L'opericciola di D'Andrea eÁ la
Copia di una lettera scritta da Roma ad un Amico in Napoli, nella quale si daÁ giudizio della
II. La societaÁ meridionale dall'anomalia al collasso
71
L'immagine della Francia si era ulteriormente incupita dopo il marzo
del 1678 a seguito della drammatica conclusione dell'assedio di Messina, quando, dopo la stipula del trattato di Nimega, i sessantamila
esuli della cittaÁ dello Stretto, in preda alla disperazione per essere
stati abbandonati dal re Cristianissimo, arrivarono a pensare che
sarebbe stato meglio consegnarsi ai Turchi che subire le ritorsioni
del governo spagnolo 68.
Non mancano tuttavia alcune testimonianze di carattere opposto
che provano l'esistenza di un partito filo-francese. A Napoli, ancora
durante la rivolta di Masaniello, come Pietro Giannone spiegoÁ nella
Istoria civile, «[essendosi] alternato piu volte il dominio tra le due case
d'Aragona e d'AngioÁ, restavano ancora le reliquie delle antiche fazioni per cioÁ vacillanti, onde avveniva che la Francia nutrisse sempre
l'intelligenza con alcuni Baroni» 69. Nel 1688, secondo un memoriale
anonimo, una parte dell'aristocrazia napoletana, nel caso non fosse
stato possibile ottenere un re «residente a Napoli», avrebbe di buon
grado «rassegnato» se stessa al re Cristianissimo: «per la facilitaÁ di
essere ammessi a' suoi reali piedi senza annui retardi in ogni loro
congiontura, per la sicurezza che quel monarca fa de' i ministri ubedire gl'ordini suoi a differenza del re di Spagna, per il saggio che
hanno della rettissima giustizia di Sua MaestaÁ, per il rispetto che
conseguirebbero i napoletani sotto ogni clima ove gli occorresse di
negoziare come vassalli di un re cosõÂ glorioso e temuto» 70.
In questa citazione possiamo facilmente individuare quelli che
dichiarazione pubblicata in nome de Re Cristianissimo di voler dare un Principe del suo sangue per
ReÁ alla Sicilia, in B.N.N., ms. XI.C.25, f. 164r-7v. Sull'attribuzione al D'Andrea di questo
scritto v. S. Mastellone, Francesco D'Andrea politico e giurista (1648-1698). L'ascesa del ceto
civile, Olschki, Firenze 1969, p. 62.
68
Cfr. J. Reinach, Du role politique de la France dans l'Histoire d'Italie nell'introduzione a Recueil des instructions donneÂes aux ambassadeurs et ministres de France depuis les traiteÂs
de Westphalie jusqu' a la ReÂvolution FrancËaise. Naples et Parme, FeÂlix Alcan Editeur, Paris
1893, p. CLI. Sulla rivolta di Messina e per un'ampia bibliografia si rimanda a L.A. Ribot
GarcõÂa, La revuelta antiespanÄola de Mesina. Causa y antecedentes (1591-1674), Valladolid
1982 e MonarquõÂa de EspanÄa y la guerra de Mesina (1674-1678), Actas Historia, Madrid 2002.
69
P. Giannone, Istoria civile del regno di Napoli, presso NiccoloÁ Naso, Napoli 1723,
voll. 4, IV, p. 375.
70
CosõÂ l'anonimo cit. da Miletti, op. cit. (nt. 21), p. 153.
72
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
per il memorialista erano i punti di forza del sistema politico francese. Tuttavia essi ci appaiono molto confusi dentro una singolare ed
anacronistica mescolanza di temi vecchi e cari all'ideologia di una
riscossa baronale e nuove sensibilitaÁ che maturavano nella comparazione con un mondo che mutava profondamente sotto il profilo economico e commerciale. In effetti, l'autore sperava innanzitutto di
trovare nel monarca francese un interlocutore privilegiato, al fine di
riscattare la perduta possibilitaÁ di «capitular» (Benedetto Croce ha
tradotto questo vocabolo in «firmare patti da potenza a potenza»,
insomma di trattare con il monarca da pari a pari), negata definitivamente da Carlo V a Ferrante Sanseverino d'Aragona, primo barone del regno di Napoli e ultimo principe di Salerno 71. Viene subito
dopo il riconoscimento dell'alto livello di governabilitaÁ della Francia,
affrancata dalle potenti interferenze del ministero togato e della
Chiesa. Il tema di una giustizia regale piu certa, «incorrotibile e
soda», si lega direttamente alla possibilitaÁ d'intraprendere una politica mercantilistica di potenza sotto la protezione della bandiera
francese. Insomma qui troviamo confusi l'esaltazione della piu dirigistica ed accentrata monarchia europea assieme al desiderio di ritornare ad un nostalgico, «baldanzoso» Medioevo, tempo in cui i baroni
godevano di un potere politico in grado di patteggiare con il monarca.
Atteggiamenti di questo genere sono anche rivelatori della composizione sociale altamente eterogeÂnea dei «partiti» napoletani tra
Sei e Settecento. La fusione di tutti questi elementi spiega bene
l'incoerenza della classe politica napoletana negli ultimi decenni del
secolo barocco: l'assenza di scelte univoche andava al passo con l'incerta rotta tracciata dal governo spagnolo e con le indeterminatezze
del sistema politico internazionale. Questa irresolutezza precipitava
nei momenti di peggior crisi e se ne possono trovare esempi poco
edificanti nel racconto di Carafa della congiura. Per esempio, quando
scoppioÁ il tumulto, si raccolsero attorno al vicere «gallispani», «molti
de' togati ministri» e «molti del popolo civile», ma accanto a costoro
71
B. Croce, Storia del Regno di Napoli, a cura di Giuseppe Galasso, Adelphi, Milano
1992, p. 141.
II. La societaÁ meridionale dall'anomalia al collasso
73
si scorgono anche alcuni grandi nobili, da tempo compromessi e
clienti della casa d'Austria 72.
Sebbene da un'altra prospettiva e con una sensibilitaÁ diversa, le
cause di questa confusione pressocche generale erano state descritte e
spiegate al re Luigi XIV da Serafino Biscardi, in una relazione del
1700. Il togato, che subentreraÁ ben presto a Francesco D'Andrea
quale leader del ceto ministeriale e che nel 1709 fu indicato come il
vero vicere di «fatto», con molto acume segnalava che l'infedeltaÁ era
la radice politica comune ai tre ordini della societaÁ napoletana, dove
il numero dei mauvais austriacanti era superiore a quello dei bons
borbonici. Per non dire della stragrande maggioranza degli indiferens,
che dimoravano in uno stato di sorniona irrisolutezza, piu che per
imbecilliteÂ, «pour se reserver le droit d'embrasser l'un des deux partis
suivant les occasions » 73. In una capitale, dove era permesso parlare
con una «liberte treÂs prejudiciable» della nuova dinastia e dove l'intero ceto ministeriale era diviso «sur le point de la fidelite aÁ leur
Roy», la rivalitaÁ tra gruppi opposti era ancor piu fomentata dalle
antiche memorie delle divisioni tra i partigiani della casa di Svevia
e degli Angioini, degli Angioini e degli Aragonesi, dei Francesi e degli
Spagnoli 74. Fu proprio il togato a condurre le indagini sulla congiura
antifrancese del 1701, presenziando all'interrogatorio di tale Francesco Chassignet, indicato in un verbale come «consigliere della Camera Aulica Imperiale». In quell'interrogatorio, la cui relazione fu inviata da Biscardi in Francia il 19 maggio 1702, lo Chassignet svelava
le intenzioni dell'imperatore austriaco, che, per il tramite del suo
ambasciatore a Roma ed il cardinale Grimani, gli aveva fornito le
credenziali per Eugenio di Savoia e lettere di cambio per quindicimila scudi romani. I nomi dei congiurati erano: Tiberio Carafa, il
duca della Castellaccia, Carlo di Sangro e Giuseppe Capece 75.
Nel caso di Tiberio Carafa, la gallofobia stimolava il risveglio del
72
Memorie di Tiberio Carafa, principe di Chiusano, cit. (nt. 39), pp. 318-22.
A.A.EÂ., Correspondance politique, Naples, vol. 12, ff. 232r-61r, spec. i ff. 232r-4v.
Torneremo poco piu avanti su questa inedita ed interessante relazione di Biscardi.
74
Ivi, f. 233r.
75
A.A.EÂ., Correspondance politique, Naples, vol. 13, ff. 163r-7v.
73
74
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
sopito antispagnolismo: i due fenomeni, peroÁ, non si sommavano
semplicemente, piuttosto producevano una moltiplicazione indefinita delle ansie nobiliari. Un episodio autobiografico c'indica chiaramente l'evoluzione futura del suo percorso esistenziale, ideologico e
politico, da lealista conformista ad «austriacante». Anni prima, regnante ancora Carlo II, Fabrizio Carafa, padre di Tiberio, aveva
implorato il figlio di non prestare servizio militare per la Spagna,
anzi di fuggire dalla morsa della fedeltaÁ a quel regno. «Pazzo, pazzo
se il credi», lo rimbrottoÁ il principe Fabrizio: gli «Spagnoli per natura
e per interesse sono e saranno sempre nostri nemici». E gli elencoÁ una
lunga serie di famiglie napoletane rovinate dal servizio per la monarchia cattolica: i marchesi di Torrecuso, i duchi di Popoli, i marchesi
di Montenero, i duchi di Nocera, i principi di San Giorgio, la casa
Brancaccio, i duchi d'Arigliano, i principi di Montesarchio 76. Meglio
un'occupazione negli eserciti austriaci, carriera che gli sarebbe stata
enormemente facilitata dal conveniente matrimonio con la duchessa
di Campolieto, cugina del maresciallo Antonio Carafa, comandante
delle truppe dell'imperatore in Italia 77.
Di lõÂ a qualche anno l'antispagnolismo ereditato dal padre troveraÁ nella successione del monarca l'occasione propizia per lo strappo
irrimediabile con la Spagna e per l'adesione del principe di Chiusano
al «partito patriottico». Scopo dei «patrioti» doveva essere di «assumere con la forza e con la persuasione, e poi trasferire nel corpo della
CittaÁ, il Governo del Regno o, almeno, la libertaÁ di eliggersi un Re
giusto e legittimo, prima, che lor malgrado fossero obbligati a riceverlo» 78. Se l'obiettivo massimo dei rivoltosi era di trasformare il
regno di Napoli in una repubblica oligarchica, il minimo era di avere
un re «elettivo» e residente.
Purtuttavia, almeno Carafa risolveva in modo chiaro l'ambiguitaÁ
tra l'ipotesi di un «regno nazionale» ed il destino non facilmente
mutabile della dimensione di provincia dell'Italia meridionale: incer76
77
78
Memorie di Tiberio Carafa, principe di Chiusano, cit. (nt. 39), p. 59.
Ivi, p. 57.
Ivi, pp. 184-5.
II. La societaÁ meridionale dall'anomalia al collasso
75
tezza che invece contraddistingueva la riflessione e la prassi politica
di quegli anni 79.
La risposta al perche egli avesse scelto in misura estrema la strada
della resistenza al nuovo governo «gallispano» dev'essere cercata
dentro le complesse e varie dinamiche che regolavano il rapporto
dialettico tra lo Stato ed i ceti in etaÁ moderna. Carafa eÁ un esempio
limite delle notevoli difficoltaÁ di scelta che dovevano essere maturate
dal ceto nobiliare napoletano a fronte dell'opzione di un proprio travaso dall'identitaÁ sociale e condizione politico-economica di «vassallo»
del re Cattolico a quella di «suddito» della casa dei Borbone. Si trattava
di un passaggio molto ambiguo, reso ancora piu difficile dalla contemporanea presenza nelle mentalitaÁ sociali dell'idea di una dipendenza
naturale che discendeva necessariamente dalla mera condizione di appartenenza al Regnum 80.
A differenza del re Cristianissimo, l'imperatore Leopoldo aveva
scelto come «sua favorita massima» che «il separare gl'interessi del
Principe da quei degli Stati» era come promuovere la rovina di entrambi, venendo meno lo stesso legame di dipendenza, uguale per tutti
i sudditi, a cui si daÁ il nome di naturalitaÁ. Fin qui siamo di fronte ad un
ideale di coesione intorno ad una causa comune, fattore basilare di
ogni impresa statale, coefficiente la cui mancanza ha reso per secoli
fallimentari gran parte delle energie e delle imprese subalpine. Ma, a
differenza che per il Re Sole, per Leopoldo la forza unitaria della causa
statale passava non attraverso la partecipazione dei ceti e dei singoli,
ma attraverso la sintesi di altre strutture statali di minor consistenza, e
dunque l'unione era interpretabile come un'evoluzione del sistema
79
Ricuperati, L'immagine di Napoli, cit., cap. I, nt. 46, p. 100.
Il riferimento eÁ a J. A. Maravall, Stato moderno e mentalitaÁ sociale, Il Mulino,
Bologna 1991, p. 490: «di fronte al carattere individuale e personale del contratto vassallatico di tipo feudale, secondo il quale ognuno era legato al suo signore direttamente nei
termini del contratto stipulato singolarmente, si riconosce nella mera condizione di appartenenza ad un regno uno stesso legame di dipendenza, uguale per tutti, a cui si daÁ il nome di
naturalitaÁ». Importanti le considerazioni di Musi sul valore di questo storico spagnolo che,
con Roland Mousnier, ha affrontato sistematicamente lo spinoso tema del passaggio dalla
«misura» sociale feudale a quella della sovranitaÁ assoluta. Cfr., sul tema, Musi, Il feudalesimo
nell'Europa moderna, cit., nt. 27, passim.
80
76
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
feudale. Infatti l'imperatore aveva assecondato il «giusto accrescimento» delle «potenze private» dei suoi vassalli. Legiferando in tal senso
Leopoldo aveva gettato le fondamenta per «quel gran equilibrio che nel
tempo del suo regnare s'era imposto tra il potere di tutto il corpo
dell'Imperio e tra quello degli Stati ereditari della sua Casa» 81.
Carafa mostra una mentalitaÁ in bilico tra vecchi e nuovi modelli di
organizzazione sociale ed un atteggiamento politico alla ricerca di un
difficile equilibrio (il vocabolo eÁ a tal proposito utilizzato da Carafa)
tra patrimonialismo, feudalesimo e sovranitaÁ imperiale. Il ricordo
della sua dura opposizione al tentativo del tribunale regio di sottrarre
un reo di fraticidio alla giurisdizione del feudo di Campolieto eÁ esemplare a tal proposito. In quell'occasione gli «fu d'uopo [far uso] di tutto
il suo valore ed applicazione e di piu anco di tutta la sua larghezza per
corroborare con la forza dell'oro e col coraggio l'inefficacia in quei
tempi della sola ragione e della giustizia, le quali chi le possedeva sole,
possedeva spesso poca cosa».
Considerare insufficiente il binomio ragione-giustizia era tutto
un programma: l'una e l'altra sono vuote senza il potere che le tenga in
piedi. Proprio perche fingevano di voler rispettare soltanto la sintesi
di quei due valori, i ministri dei tribunali regi spregiavano la giurisdizione baronale e quando trovano feudatari «deboli» riuscivano
facilmente a «distornare con artificio per attirare ai loro tribunali i
giudizi», al fine di «isnervare per quanto possono» la nobiltaÁ del
Regno 82. E le richieste all'Imperatore che il partito austriaco aveva
affidate a Giuseppe Capece, fratello del marchese di Rofrano ed
ambasciatore presso la corte di Vienna, si concentrarono tutte sul
tema di un re, di una costituzione, di un Parlamento e di uffici tutti
«naturali», cioeÁ «napoletani o regnicoli».
8. «Non possono stare insieme Francesi - LibertaÁ - Repubblica»
In effetti Tiberio ed i suoi compagni non sbagliavano al riguardo
delle interferenze francesi nella vita politica napoletana. E se essi le
81
82
Memorie di Tiberio Carafa, principe di Chiusano, cit. (nt. 39), pp. 34-5.
Ivi, pp. 75-6. Corsivo aggiunto.
II. La societaÁ meridionale dall'anomalia al collasso
77
avevano intercettate molto precocemente, tuttavia avevano agito
troppo prematuramente, dacche nel 1701 gli altri ceti sociali, tra cui
i potenti togati (come testimonia la posizione di Biscardi), non avevano ancora maturato una scelta di campo precisa. Tantomeno sul
fronte internazionale l'Austria era pronta ad un intervento diretto
manu militari nel Mezzogiorno. Anzi (com'eÁ stato giaÁ accennato), nel
novembre dell'anno precedente, a sentire ancora il giovanissimo
Giannone, la preoccupazione maggiore a Napoli sembrava essere
quella che il re di Francia non accettasse il testamento a favore del
nipote, «ma che volesse stare alla divisione e volesse incorporare alla
monarchia di Francia li regni di Napoli, Sicilia e Sardegna» 83.
Giannone scriveva allo zio che era contento dello scampato pericolo: la minaccia di «mutazioni, turbolenze, sedizioni, guerre e
ruine» che avrebbe colpito il mondo cattolico pareva svanire con
l'accettazione da parte francese del testamento del defunto Carlo
II. Filippo V sarebbe divenuto ben presto spagnolo, come un figlio
naturale di quella monarchia, e l'Imperatore, troppo debole militarmente, si sarebbe guardato bene di attaccare briga con il gigante
francese. La sua testimonianza lascia intendere che, almeno in un
primo momento, nobiltaÁ e societaÁ civile si fossero strette attorno al
vicereÂ, il duca di Medina-Celi, nella speranza che questa fedeltaÁ fosse
ricompensata. Per Giuseppe Ricuperati la scelta del Giannone era
per molti versi simile a quella di Vico e dello stesso Doria: la Spagna
assicurava una concordia ordinum che era pericoloso toccare e i mutamenti possibili dovevano venire da una monarchia riformatrice
legata ad un modello di continuitaÁ e non dall'esterno 84.
EÁ da ricordare che Giannone frequentava l'ambiente dell'accademia del duca Luis de la Cerda, la cui composizione sociale mette in
rilievo due fatti molto importanti: i partecipanti erano gli eredi diretti dell'accademia degli Investiganti, dunque di una cultura influenzata profondamente dal pensiero francese; di essi alcuni erano
membri dell'alta aristocrazia napoletana, e formeranno i quadri sta83
84
Giannone, Epistolario, cit. (nt. 47), p. 33.
Ricuperati, L'immagine di Napoli, cit. (nt. 46), p. 91.
78
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
tali della nuova monarchia spagnola, mentre altri diverranno i futuri
componenti del ceto togato asburgico 85.
Come aveva notato Tiberio Carafa, Luigi XIV aveva iniziato ad
intervenire direttamente sulla vita politica delle Sicilie anche prima
dell'accettazione del testamento di Carlo II d'Austrias. E dalle ricostruzioni di quelle reazioni nobiliari emergono progetti politici che
fondano le proprie ragioni su un patriottismo napoletano, tendente
alla costruzione di un «regno nazionale» armato in proprio. Come
abbiamo prima segnalato, questo patriottismo strideva notevolmente
con una delle coordinate politiche centrali nel mondo e nel pensiero
politico dell'Antico Regime, con un valore posto a fondamento sia
del rapporto monarchia-nazione sia dello Stato moderno: la fedeltaÁ
dei sudditi, cioeÁ il dovere di lealtaÁ, d'obbedienza e di sostegno nei
confronti del sovrano di Spagna.
Dell'aggettivo «gallispano» coniato dal Carafa non v'ha traccia
alcuna nel Grande Dizionario della lingua italiana della casa editrice
Utet, mentre sono invece presenti i lemmi composti «galloitalico» e
«galloromano». Il primo eÁ utilizzato da Ottavio Mazzoni Toselli,
autore ottocentesco di un Dizionario gallo-italico (Bologna 1831).
Lo stesso filologo in un altro suo scritto, dal titolo Origine della lingua
italiana, sosteneva la tesi di un'unica discendenza, la gallica, della
lingua italiana 86. Sembra scontato che dietro questa sua idea fosse
85
I testi dell'accademia sono ora disponibili nell'edizione curata da Michele Rak,
Lezioni dell'accademia di palazzo del duca di Medinaceli, Istituto Italiano per gli studi filosofici, Napoli 2000-2005, voll. 5. Sull'accademia, cfr. Ricuperati, L'esperienza civile e religiosa
di Pietro Giannone, Napoli 1970, pp. 3-78 e S. Suppa, L'accademia di Medinacoeli fra tradizione investigante e nuova scienza civile, Napoli 1971.
86
Tipografia della Volpe, Bologna 1831. La tesi di fondo dell'autore eÁ la seguente: «La
lingua illustre italiana, al riferir di Dante, eÁ composta dei vari dialetti o sia delle varie antiche
lingue italiane. Le principali erano la latina, l'etrusca e la gallica. Gli Etruschi non hanno
parte nella formazione della nostra lingua illustre, percioccheÁ ne anche un solo vocabolo
etrusco vi si conserva. Dunque la lingua illustre italiana saraÁ composta di gallico e di latino.
Ma se proveremo che i Toscani sostituirono alle voci etrusche le galliche, e che la lingua
latina non fu mai parlata popolarmente da quel Popolo, ne da quelli di Romagna, di Lombardia, dello Stato Veneto, dovremmo affermar che la lingua gallica molto piu che la latina si
diffuse in Toscana, e che la lingua illustre italiana eÁ composta per la maggior parte di celtico o
gallico. [...] EÁ incontrastabile che la lingua degli Etruschi eÁ affatto spenta; com'eÁ fuor di
dubbio che la gallica si conserva in gran parte dell'Italia. Se la cagione perche si spense il
II. La societaÁ meridionale dall'anomalia al collasso
79
presente in maniera evidente l'opzione culturale e politica della generazione neoclassica e napoleonica che non aveva ancora maturato il
passaggio del testimone a quella romantica. CosõÂ, un recensore di
quei lavori, Giuseppe Ignazio Montanari, stroncava quelle fatiche
sulle pagine dell'Antologia di Viesseux: tali questioni linguistiche
«non offrono in fondo vera utilitaÁ nazionale», fruttando «onore» solo
presso gli eruditi 87.
Per l'altro aggettivo composto, «galloromano», il dizionario ritiene ch'esso «si riferisce, [a cioÁ] che eÁ proprio della Gallia o dei suoi
abitanti, dalla conquista romana fino all'insediamento dei Franchi;
[dunque a cioÁ] che discende da antenati galli e romani insieme; che eÁ
di sangue misto gallo e romano». Il dizionario cita il solo poeta Carducci, tuttavia sarebbe interessante capire l'origine di questo aggettivo. Come il precedente, esso eÁ infatti la combinazione di due voci,
di due connotazioni nazionali, un ``incrocio'' di attributi originari di
ciascun popolo che moltiplica, aggiungendo nuovi a vecchi stereotipi.
Sicuramente l'uso politico ed il recupero in senso positivo dell'aggettivo «galloromano» avvenne grazie al SieyeÁs dell'Essai sur les privileÁges
e del Qu'est-ce que le tiers eÂtat, due pamphlets che divennero immediatamente dopo la pubblicazione, tra il novembre del 1788 ed il
gennaio dell'anno seguente, formidabili macchine da guerra contro
la nobiltaÁ. Le tesi dell'abate sono arcinote, ma la sua celebre tirata
contro la nobiltaÁ francese va qui ricordata perche rappresenta il
capovolgimento paradigmatico della pretesa superioritaÁ dell'aristocrazia franca, in ragione d'una superiore civiltaÁ rispetto alle popolazioni indigene dell'antica Gallia. I nobili si dicono discendenti dei
favellare etrusco fosse stata l'intromissione della lingua latina, in pari modo si sarebbe
spenta la gallica. Ma siccome ne' dialetti lombardi conosciamo le medesime lingue degli
antichi Gallo-italici, tranne pochissima alterazione, e chiaramente apparisce che tutte le voci
non aventi origine latina, ma bensõÂ gallica o celtica sono comuni in oggi ai popoli di etrusca
derivazione, ne conseÁguita che la lingua gallica, o almeno i gallici vocaboli, subentrarono in
luogo degli Etruschi; e se alle voci etrusche i Toscani sostituirono le galliche, eÁ da credere che
in simil modo i Romani sostituissero le galliche alle latine. Si conservano forse le terminazioni latine in Roma, come si conservano le galliche in Lombardia? Laonde mi sembra di
poter concludere che la nostra lingua italiana abbia origine celtica o gallica anziche latina».
87
In Antologia. Giornale di scienze, lettere e arti, vol. XVI, maggio 1832, tip. Luigi
Perrati, Firenze 1832, p. 25.
80
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
Franchi vincitori delle antiche popolazioni galliche e romane, percioÁ
pretendono di aver ereditato i diritti dei conquistatori sui vinti. Ma
l'antichitaÁ del Terzo Stato, gallo e romano, vale tanto quella dei
«Sicambres, des Welches» e di altri «sauvages» usciti dai boschi e
dai «marais de l'ancienne Germanie»: «Eh bien! Il faut la faire repasser de l'autre coÃte et le tiers deviendra conqueÂrant aÁ son tour» 88.
Come nota Baczko, l'intento di ricacciare i nobili nei boschi della
Franconia non era solamente una mera metafora ironica, percheÂ
quest'immagine possedeva in se la capacitaÁ di suscitare nel terzo stato
grandi sentimenti, cioe speranza, rivalsa ed odio, che, composti tra di
loro, divennero la miscela rivoluzionaria che capovolse il mondo fino
ad allora conosciuto 89.
Per Carafa i «gallispani» erano il frutto di un'alchimia dinastica
mal riuscita, perche i due popoli mal si accoppiavano. Fatto rimarchevole: tale convinzione era condivisa sia dai napoletani sia dagli
spagnoli, almeno quelli lõÂ residenti.
«Accresceva intanto al Partito Patrizio l'ardire e la confidenza [con]
l'osservare quasi universalmente cosõÂ negli animi de' Napoletani, come
degli Spagnoli stessi che erano in Napoli, quel naturale affetto verso la
casa d'Austria e quell'avversione verso i Francesi, che dall'utero delle
loro madri traendoli l'avevano poscia insieme con il latte dello loro
nutrici succhiati e con l'educazione stabiliti ne' loro cuori. E conciosiacheÂ, dall'odio all'amore e dall'amore all'odio in un momento difficilmente si passa. Per tanto questi due troppo imperiosi contrari affetti
non si lasciarono dagli altrui cenni dar legge. La spagnuola alterigia mal
s'accordava ad obedire a' Francesi. E tutti vedevano chiaro che dalla
Francia gli ordini, per allora, dovevano i Francesi ricevere. Quegli
Spagnoli, che erano in Napoli ne fremevano e pubblicamente e con
Napoletani stessi ne mormoravano. E, quando avevano a nominar i
Francesi, ben con quello sprezzevole ingiurioso nome, onde erano in
prima usati, gli nominavano gauaccios, o pure boraccios, che uno ubriachi e l'altro forfanti suonavano nella nostra italiana favella» 90.
88
12-3.
89
90
Cit. da B. Baczko, Politiques de la ReÂvolution francËaise, Gallimard, Paris 2008, pp.
Ivi, pp. 11-7.
Memorie di Tiberio Carafa, principe di Chiusano, cit. (nt. 39), pp. 222-3.
II. La societaÁ meridionale dall'anomalia al collasso
81
Il neologismo volle allora definire il nuovo governo regale originato
dal passaggio dinastico, ma incurante del reale e diffuso sentimento
spagnolo e napoletano. La gallofobia pre-esistente e l'antispagnolismo riemergente avrebbero offerto alla nobiltaÁ napoletana la possibilitaÁ di riscattare la propria indipendenza, che dava la possibilitaÁ di
scegliere tra Spagna e Francia un terza possibilitaÁ. Ricordiamo,
inoltre, che la preferenza per la voce «Galli», anziche «Franchi» o
«Francesi», faceva sicuramente riferimento alla teoria della nobiltaÁ
ereditaria per diritto di conquista, elaborata dal pensiero giuridico
francese cinquecentesco, cioeÁ da autori come EÂtienne Pasquier, FrancËois Hotman e Charles Loyseau, per citarne alcuni dei piu noti.
Secondo essi «i nobili sono i discendenti dei conquistatori Franchi,
mentre i non nobili [roturiers] sono i discendenti dei Galli, vinti ed
assoggettati dai primi» 91. EÁ da notare che anche dalla elaborazione
della dialettica tra gli status nacque in Francia, giaÁ nel '500, una forte
coscienza di quanto fosse socialmente complesso il problema della
sovranitaÁ (Montaigne, Hotman).
CosõÂ i primi tre libri dell'opera di Tiberio Carafa sono dedicati
ad illustrare una scelta che rompeva un antico meccanismo di fedeltaÁ
e sceglieva un nuovo sistema di riferimenti.
Nel primo libro l'autore offre un eloquente esempio della corruzione cui era pervenuta la nobiltaÁ napoletana, degenerazione la cui
responsabilitaÁ era del modello spagnolo, che aveva spostato l'interesse dalle armi e dalle incombenze politiche verso l'apparenza e la
preminenza delle feste, sempre piu sontuose, che si celebravano a
Napoli «non solo per i carnevali, ma anche per avvenimenti connessi
con le vicende della corte e della capitale lontana» 92. La sensazione
diffusa della profonda ed irreversibile crisi della monarchia spagnola
emerge per contrappunto alle fastose feste barocche:
«Nella CittaÁ le Feste doveansi celebrare con magnificenza uniforme al
gran fasto spagnolo, ancorche allora inopportuno a' riguardo del compassionevole stato della Monarchia delle Spagne. Questa, ancorcheÂ
91
92
Mousnier, La costituzione nello Stato assoluto, cit. (nt. 10), p. 53.
Ricuperati, L'immagine di Napoli nel primo Settecento, cit. (nt. 46), p. 94.
82
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
assai grande, purtuttavia come vecchia ed inferma e che si consumava
sempre piu da giorno in giorno dall'alterazione e dissonanza de' suoi
mali umori al di dentro, dimostrava al di fuori chiaramente che dal suo
peso e da suoi propri interni malori, senza alcuno sforzo d'estraneo
nemico ben presto al rovinare sarebbe stata costretta» 93.
Ancora Carafa nota che la classe dirigente spagnola «credeva rimedio e ristori contro la vergogna ed il danno la vanitaÁ ed i fumi de'
piaceri festivi, che estraeva dall'oro de' suoi vassalli di qua de'
monti». Testimone egli stesso delle feste ordinate dall'allora vicereÂ,
conte di Santostefano, durante le quali suo padre, per «spirito della
vanagloria [che] si succhiava da Napoletani quasi insieme con il latte
dello loro nutrici», aveva investito somme notevoli affinche il figlio
divenisse capo di una delle quadriglie di cavalieri 94. Insomma, l'«apparenza» era lo stratagemma, l'«artificio» con cui governava la Spagna in provincia. L'immagine dominava sulla sostanza, meccanismo
e primato possibile solo se l'oggetto eÁ stabile, non se eÁ dinamico.
Ma quali erano le origini della decadenza spagnola e cosa aveva
prodotto questo modo di reggere la provincia? Sappiamo che le rappresentazioni che furono prodotte a Napoli della Spagna, cioeÁ lo spagnolismo e l'antispagnolismo, frutto del governo imperiale su scala
mondiale, cioeÁ del rapporto stabilito dalla monarchia asburgica con i
suoi reinos, fanno parte della cultura politica generale e sono dei «banchi di prova su cui verificare valori e limiti delle categorie costruite dal
pensiero politico nell'Europa moderna» 95. In questo caso l'analisi del
Carafa si centra su tre motivi: la crisi delle finanze statali, la «memoria
de' Spagnoli odiosa in tutto il resto d'Europa», ossia la «legenda negra» e, last but not least, le origini stesse dell'impero spagnolo, «quasi
appena combinatosi da piu regni unitisi in uno per retaggio» 96.
93
Memorie di Tiberio Carafa, principe di Chiusano, cit. (nt. 39), p. 25.
Ivi, p. 25 ed ancora a p. 49: «era antico uso del ministro spagnolo quegli uomini e
quelle case che o per l'abilitaÁ personale o per la magnificenza delle spese nelle feste reali piuÂ
si distinguessero, distinguerli ancora i vicere con le rimunerazioni o degli impieghi militari o
dei politici».
95
Musi, Prefazione a Alle origini di una nazione, cit. (cap. I, nt. 39), p. 9.
96
Memorie di Tiberio Carafa, principe di Chiusano, cit. (nt. 39), pp. 25-6.
94
II. La societaÁ meridionale dall'anomalia al collasso
83
L'attacco era feroce: se gli spagnoli hanno fondato la loro fortuna sull'espoliazione delle colonie, la loro crisi eÁ dovuta agli investimenti di guerra per il mantenimento di altre colonie. CioeÁ, quel
che hanno rapinato dalle Americhe e dalle Sicilie hanno investito
nell'Europa del nord, vuotando le casse dello Stato. Inoltre, hanno
creato intorno a seÁ una cortina di diffidenza perche i loro metodi di
governo avevano puntato nel Mezzogiorno d'Italia ad un processo
di smilitarizzazione della nobiltaÁ feudale ed il conseguente trasferimento di quelle funzioni di difesa all'aristocrazia spagnola ed
all'alleato genovese.
9. Napoli, la repubblica togata, si fonda sul debito pubblico
Una testimonianza acuta delle condizioni socio-istituzionali del
regno meridionale si trova in una relazione anonima, inviata da Napoli
al re di Francia, che possiamo con sicurezza attribuire a Serafino
Biscardi 97. Grazie alla notevole e ben documentata ricerca di Dario
Luongo, ci sono note le vicende biografiche del personaggio, morto
prematuramente nel 1711 98. Il giurista di Altomonte, che divenne alla
morte di Francesco D'Andrea il leader del ceto ministeriale napoletano,
venne indicato da piu fonti come il vero vicere di «fatto» del periodo
austriaco, a dimostrazione del rilievo eminente che assunse per le sue
capacitaÁ d'influenza politica. Abbiamo giaÁ notato come egli avesse
segnalato ai francesi che l'infedeltaÁ era il denominatore comune ai tre
ordini della societaÁ napoletana, dove il numero dei mauvais austriacanti
superava quello dei bons borbonici. Accanto ai due partiti si collocava
una stragrande maggioranza di indiferens, che dimoravano in uno stato
di sorniona irrisolutezza, non tanto per imbecilliteÂ, ma per procurarsi
una maggiore libertaÁ di scelta fino all'ultimo momento 99.
Freddo nello stile e rigorosamente ragionato nei contenuti, il
A.A.EÂ., Correspondance politique, Naples, vol. 12, ms. cit. (nt. 73), ff. 232r-261r. La
data segnata dall'archivista francese (1700) eÁ sicuramente errata, poiche parecchi elementi
lasciano chiaramente intendere ch'essa fu redatta poco dopo la congiura di Macchia.
98
Luongo, op. cit. (nt. 4).
99
A.A.EÂ., Correspondance politique, Naples, vol. 12, ms. cit. (nt. 73), spec. i ff. 232r234v.
97
84
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
documento ci mostra una mentalitaÁ molto diversa rispetto quella del
nobile Tiberio Carafa, e si presenta come una preziosa testimonianza
di un altro modo di affrontare la fase del delicato passaggio dinastico.
Come eÁ stato notato da Ajello e da Luongo, l'azione e le idee del
togato erano caratterizzate da una mobilitaÁ, volubilitaÁ e da un tatticismo talmente estremi, che sembrano a volte sfiorare la contraddizione e l'incoerenza. Ma sono limiti solo apparenti, perche la biografia di Biscardi dimostra che gli strumenti intellettuali piu consoni alla
difesa degli interessi personali e di ceto, cioeÁ il dogmatismo, il dottrinarismo, l'aspirazione aprioristica alla conoscenza scientifica e il
formalismo giuridico, non furono strumenti statici, limitativi ed imbriglianti dell'azione pratica, come molto spesso si ritiene al riguardo
dei giuristi di mestiere. Anzi, l'uso intelligente e disinvolto che di essi
si faceva rese possibile il raggiungimento di un elevato grado di
concretezza, quindi di successo politico. La condotta del giurista non
rappresentava di certo un'eccezione, visto che l'intera strategia dei
togati durante lo svolgersi della storia costituzionale del viceregno
spagnolo fu scandita dalla continua ascesa di quel ceto e dal perfezionarsi del compromesso autonomistico tra la Corte ed i gruppi
dirigenti napoletani, a partire dai primi decenni del XVI secolo.
SiccheÂ, lo Stato meridionale si configuroÁ come una vera e propria
«monarchia giurisprudenziale», fondata sul peso della mediazione
ministeriale e regolata dal potente meccanismo del debito pubblico
meridionale 100.
Le posizioni tattiche dei primi anni del nuovo secolo sono la
dimostrazione delle profonde ambiguitaÁ del Biscardi, che si mosse
dapprima a difesa degli interessi di ceto in una prospettiva filoangioina, come dimostrano il documento citato e l'Epistola pro Augusto
100
Sul debito pubblico a Napoli in etaÁ moderna cfr. la recente sintesi di G. Sabatini, Il
debito pubblico degli Stati regionali italiani in etaÁ moderna nella piu recente storiografia, in La
storiografia italiana. Un bilancio degli studi piu recenti in etaÁ moderna e contemporanea, a cura di
A. Moioli, F. Piola Caselli, UniversitaÁ degli Studi di Cassino, Cassino 2004, pp. 103-14, che
rappresenta il punto d'arrivo di ricerche (condotte, tra gli altri, da Giovanni Muto, Roberto
Mantelli, Ilaria Zilli) che prendono avvio dall'ormai classico L. De Rosa, Studi sugli arrendamenti: aspetti della distribuzione della richezza mobiliare nel Mezzogiorno continentale: 16491806, L'Arte tipografica, Napoli 1958.
II. La societaÁ meridionale dall'anomalia al collasso
85
Hispaniarum monarcha Philippo V, opera pubblicata nel 1703 101. Al di
laÁ della difesa scontata del diritto alla successione del duca di AngioÁ, in
quest'ultimo scritto sono presenti una serie di ambiguitaÁ formalistiche
per sostenere tesi politiche marcatamente anti-assolutistiche sulle quali ritorneremo piu avanti. Biscardi percepiva che la successione di
Filippo V nella Corona spagnola metteva in gioco l'esistenza stessa
del vigente sistema del potere togato, in primo luogo sul piano del
primato che godeva il ceto ministeriale, ma anche perche il nuovo
governo madrileno avrebbe potuto non riconoscere le partite del debito pubblico prodotte dal precedente. Era prevedibile che entrambe
le novitaÁ fossero coerenti con l'influenza francese. Nella relazione egli
dimostra che l'interesse dei ceti privilegiati e l'equilibrio nella dialettica tra status corrispondeva in gran parte con l'assetto costituzionale
del Paese. Eppure il primo argomento affrontato da Biscardi eÁ relativo
al necessario riordino delle finanze statali, «sans les quelles on ne
sauroit rien entreprendre del bon e de durable» 102.
Egli segnalava lo svilimento del valore d'investimento dei beni
demaniali, al punto che non si riusciva di trovare compratori, con grave
101
...qua et ius ei assertum successionis universae monarchiae et omnia confutantur, quae
pro investitura Regni Neapolitani et quo pro coeteris regnis a Germanis scripta sunt.
102
A.A.EÂ., Correspondance politique, Naples, vol. 12, ms. cit. (nt. 73), ff. 234 e ss.:
[/235r] «les gens ont cruà qu'il ne fasoit pas bon acquerir ces sortes des biens, qui portent eux
seuls touttes les chaÃrges de l'EÂtat, et qu'on a mieux aime emploier son argent aÁ acheter des
vignes, des fermes et d'autres biens dans la campagne: les gens du Roy ont eu beau offrir aÁ
bas prix les biens domaniaux, personne ne s'est presente pour les acheter, et le Roy s'est
trouve dans l'impuissance d'avoir de l'argent dans un besoin pressent: on a peine aÁ comprendre les motifs qui ont fait agir les gens du Roy d'une maniere qui lui est si prejudiciable. On
pourroit croire qu'ils n'ont eu en veuÈe que d'affranchir les biens qu'ils possedent, et ils n'en
possedent point de domaniaux, ou treÂs peu. Mais pour ne pas leur [/236r] attribuer des veuÈes
si interesseÂes et si indignes, ont peut croire que ce qui leur fait prendre ce parti, ca ete la
facilite d'exiger sur les biens domaniaux les sommes dont on avoit besoin, facilite que'on
n'avoit pas dans les biens de campagne, [de se] servir de l'argent et du catastre voieÂs qui ont
paru trop longues et trop embarassant et c'est ce qui leur a fait preferer la toutte [sic]
prejudiciables aux veritables interesses du Roy». Ci pare una testimonianza tutta tesa a
dimostrare la sfiducia pressoche totale verso ulteriori investimenti nel debito pubblico,
anche da parte degli uomini dell'apparato. Dunque mancava la fiducia nello Stato e nella
sua capacitaÁ di mantenere gli impegni. EÁ notevole che Biscardi enfatizzi il particolare
dell'alta percentuale d'intermediazione pretesa dai Seggi (10-15%, ivi, f. 236v), fattore
che era chiaramente marginale rispetto all'ostacolo principale: la sfiducia nella controparte
pubblica.
86
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
nocumento per il funzionamento dell'apparato statale e militare durante la delicata fase della successione. La proprietaÁ allodiale era infatti
sottoposta a meccanismi giurisdizionali che ne rendevano difficili e
rischiosi la conservazione ed il godimento, mentre le enormi vendite
delle partite di fiscali e di arredamenti, avvenute in molti decenni di
viceregno, avevano svilito il valore degli investimenti mobiliari. Secondo il giurista, cioÁ avveniva per due ordini di motivi: il «timore
panico» conseguente alle incertezze del cambiamento dinastico aveva
bloccato qualunque nuova politica di vendita, perche i «benestanti»
ritenevano piu opportuno investire in proprietaÁ immobiliari; le Piazze
(che egli non cita espressamente, preferendo parlare di «gens du Roy»),
che curavano tradizionalmente la collocazione sul mercato di partite di
fiscali e di arrendamenti (con la consueta possibilitaÁ di lucrare un consistente surplus di aggi e di tangenti), avevano operato in maniera incomprensibile per far fallire l'iniziativa, alzando a dismisura il livello di
tassazione alla fonte, raggiungendo la percentuale del dieci/quindici
per cento 103. Intento della memoria era mostrare la scarsa collaborazione dei nobili di Seggio o addirittura il loro intento ostile.
Il primo ordine di motivi mostra come ci si trovasse in presenza di
un momento economico in cui s'innescava un processo d'incremento
degli investimenti nella proprietaÁ terriera, nonostante che le proprietaÁ
immobiliari rendessero intorno al due per cento (cioeÁ un terzo dei tassi
medi d'interesse del debito pubblico), e che solo il proprietario capace
di un buon inserimento nell'establishment poteva contare sul potere
necessario a rendere sicuri i suoi diritti. Era la feudalitaÁ provinciale il
ceto in grado di trasformare in lucro e profitto la proprietaÁ immobiliare, a patto di occuparsene in loco personalmente, poiche esisteva
una precisa norma di economia del feudo secondo la quale «o il barone
103
Nella Idea del governo politico ed economico del Regno di Napoli, edita in appendice
al vol. cit. (nt. 4) di Luongo, sub voce «da chi si abbiano a prendere gli espedienti», Biscardi
richiamava l'attenzione su a chi spettasse il diritto d'imporre nuove tasse tra VicereÂ, Piazze e
Parlamento, «poiche vi sono esempij che tutti e tre l'habbiano imposte»: cosõÂ, «nell'83
cominciarono le Piazze della CittaÁ di Napoli ad estendere la sua autoritaÁ fuori la CittaÁ ed
imposero tre impositioni sopra il sale per tutto il Regno per refezione della moneta». Il
consiglio di Biscardi al governo austriaco eÁ che «piu sicuro partito che non s'impongano dal
VicereÂ, ma che s'imponghino dall'uno o dall'altro publico» (p. 372).
II. La societaÁ meridionale dall'anomalia al collasso
87
eÁ tiranno dei vassalli o viceversa» (Francesco D'Andrea). Qualora la
notizia fornita dal Biscardi fosse del tutto attendibile e non pretestuosamente addotta per lo sviluppo dei ragionamenti seguenti, essa conferma che, quando ci si trovava in fasi d'incertezze politiche, la nobiltaÁ napoletana preferiva cambiare investimenti e stile di vita, spostandosi in provincia. Lo stesso Tiberio Carafa, negli anni immediatamente precedenti la preparazione della congiura, scelse di abitare
nei suoi feudi di Campomarino e Campolieto, in coincidenza di due
avvenimenti: il matrimonio e lo stato di salute, minato probabilmente
dalla tubercolosi 104. Egli ci testimonia inoltre la particolare attenzione
che pose nell'esercizio del mero e misto impero ed i successi ottenuti
nell'allevamento di cavalli, dove investõÂ tempo e notevoli somme di
denaro per la creazione di nuove razze. La sua vita provinciale s'improntava anche a piacevoli momenti di socialitaÁ di ceto: Carafa «coltivoÁ la buona corrispondenza con tutti i baroni suoi vicini, e con essi i
piaceri delle caccie, delle commedie e delle boscareccie danze, in
quella provincia [il Molise] molto costumate» 105.
A fronte della crisi delle partite di fiscali e di arrendamenti,
Biscardi proponeva al re di Francia di limitare al massimo l'inflazione di quei titoli mediante due operazioni. In primo luogo, occorreva elevare il loro valore restringendone il mercato. In secondo
luogo, bisognava ricomprare la maggior parte di essi, perche erano
stati venduti ad un prezzo vile mentre il capitale ricavato avrebbe
rappresentato un peso perpetuo per la monarchia. Su tale proposito
il giurista ritorneraÁ qualche anno dopo, raccomandando alla corte
di Vienna la ricompra dei fiscali al medesimo prezzo della vendita,
onde «verrebbe a far acquisto d'una grandissima rendita, la quale
s'esiggerebbe intieramente dalla Corte» 106. Tuttavia, Biscardi si
mostra molto prudente su questo aspetto del rapporto tra fiscalitaÁ
104
passim.
Sulla sua emottisi, cfr. Memorie di Tiberio Carafa, principe di Chiusano, cit. (nt. 39),
105
Ivi, p. 69 ss.: «fra questi furono il duca e la duchessa di Castropignano, Tiberio
Brancaccio con la sua moglie, e tutta la casa de' marchesi di Pietracatella; e de' piu vicini e
piu frequenti, il giovane duca di Termoli, il duca di Celenza ed il principe di San Severo»
(pp. 73-4).
106
Idea del governo politico ed economico del Regno di Napoli, cit. (nt. 103), p. 371.
88
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
statale e societaÁ napoletana, poiche «les possesseurs de ces sortes de
biens doivent eÃtre bien regardeÂs comme des gens attacheÂs par interest propre au gouvernement present»; infatti «ce Roiaume ne
scauroit changer de Maitre, sans qu'ils courrent risque de perdre ce
biens». D'altronde, la storia del Regno meridionale aveva dimostrato in due precise circostanze, le «revolutions» del 1647 e le
«troubles» del 1701, che «toute la bourgeosie et les honnetes gens»
avevano sempre sostenuto la politica spagnola d'incremento del
gettito fiscale: sulle nuove gabelle, «cette bourgeoisie fut ferme
dans son devoir» di fedeltaÁ al monarca, perche proprio di lõ essa
traeva le sue «principales subsistences». PercioÁ, per motivi piuÂ
politici che economici, «ces biens» dovranno essere affrancati «des
charges de l'EÂtat» e non potranno essere rimessi in discussione se
non quando i tempi lo permetteranno 107.
Dal denunciato complesso di circostanze esterne e di condizioni
sociali interne dipendeva il circolo dell'economia parassitaria meridionale, che aveva creato un ceto di redditieri, la cui propensione era
rivolta ad investire i propri capitali nell'acquisto delle attivitaÁ statali,
favorendo la crescita del debito pubblico. Si creava cosõÂ un vincolo
che, sotto il profilo politico, assicurava una forma di lealismo ai
poteri e che avrebbe assicurato la perpetuazione del sistema. Per
questi motivi e per altri, legati alla logica di un diverso equilibrio nel
rapporto capitale/province, Biscardi sosteneva la necessitaÁ d'aumentare la pressione fiscale sui «biens de campagne». In questo caso,
sarebbe stata prudente una decisione regale senza mediazione dei
corpi intermedi, attraverso l'utilizzazione dello jus prohibendi, cosõÂ
107
A.A.EÂ., Correspondance politique, Naples, vol. 12, ms. cit. (nt. 73), ff. 237v-238r. Qui
si accenna ad una difficoltaÁ in cui si vennero a trovare gli ispiratori togati della rivolta: essi,
per colpire la politica dei nuovi «togati con spadino» e per assicurarsi l'appoggio popolare,
erano indotti ad utilizzare appieno la protesta contro l'incremento dei pesi fiscali, fenomeno
che colpiva il popolo come soggetto passivo dell'imposta ed anche i precedenti redditieri,
poiche svalutava, con la concorrenza di nuove gabelle, il reddito delle esistenti; ma, contemporaneamente, mentre il popolo pretendeva che i vecchi pesi fossero aboliti, i redditieri
avevano interesse che fossero mantenuti. L'accordo dei due ceti valeva solo contro le gabelle
nuove, non contro le vecchie. L'andamento della rivolta mise in luce subito questa frattura.
L'eliminazione di Masaniello ebbe origine da questo contrasto. E tra le richieste provenienti
dal fronte dei rivoltosi ve ne fu anche una altrimenti incomprensibile: ridateci le nostre gabelle.
II. La societaÁ meridionale dall'anomalia al collasso
89
com'era stato praticato nel caso della gabella sull'acquavite. Tra i
beni indicati dal togato come piu facilmente tassabili v'era il sale,
su cui egli torneraÁ qualche tempo dopo nella Idea del governo politico
ed economico del Regno di Napoli 108.
10. Rilancio del commercio e rinuncia alla difesa statica
Il peso notevole esercitato sull'intera economia nazionale dal
rifornimento di vettovaglie dalla campagna alla capitale rappresentava per Biscardi il nodo piu difficile da sciogliere per il raggiungimento
di un minimo di efficienza commerciale del Regno. Fatta eccezione
per il grano, la cui abbondanza nell'annona capitolina rappresentava
una necessitaÁ legata al mantenimento dell'ordine pubblico, sarebbe
stato necessario liberare dalle restrizioni all'esportazione tutti gli
altri generi alimentari che largheggiavano nelle province e non erano
di grande consumo a Napoli 109. Ma il tema del rilancio commerciale
viene strettamente collegato da Biscardi sia alla necessaria emancipazione di energie finanziarie tradizionalmente legate al parassitismo
economico, sia al delicato argomento del passaggio da una difesa
militare statica ad una attiva.
Il giurista offre una descrizione delle pessime condizioni della
marina militare, non solamente per l'inferioritaÁ numerica delle navi,
ma anche per il sistema di gestione che condizionava pesantemente la
sua efficienza. I costi per il personale erano ingiustificatamente alti e
l'intero apparato sembrava rispondere piu ad esigenze clientelari che a
criteri di efficienza. Nella darsena era occupato un personale in gran
parte «inutile»: «il y a des avantagiati, qui ne servent point les galeres et
108
«L'espediente piu giusto e meno sensibile e quello che tocca tutti i sudditi s'eÁ
stimato che fosse il sale, che tocca il Regno universalmente e coglie anco gl'ecclesiastici.
A questo espediente sta inclinata piu che ogn'altro la CittaÁ di Napoli, e di fatto nell'anno
1683, per la refezione della moneta, pose prima quindici grana per tomolo di sale, e percheÂ
non bastoÁ questa prima imposizione, pose altre grana quindici e poi altre grana sette e
mezzo: riuscõÂ con quiete. Vi si puoÁ aggiungere altra somma, la quale faraÁ un gran capitale,
tanto piu che in nessuna parte del mondo il sale va a minor prezzo che in questo regno»: Idea
del governo politico ed economico del Regno di Napoli, cit. (nt. 103), p. 378.
109
A.A.EÂ., Correspondance politique, Naples, vol. 12, ms. cit. (nt. 73), ff. 239r-42v.
90
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
qui ont solde» e degli entratenidos, «qui sont des jeunes qui ont, qui
cent ecus par mois et qui 200 pour ne rien faire» 110. Lo stesso discorso
vale per il sistema statico della difesa, poiche esistono nel regno «nombre de chateaux inutiles», la cui conservazione «ne semble, que pour
avoir occasion de placer des gouverneurs pourquoi ne pas les abandoner et epagner ce que leur entretien couÃte au Roy» 111. Qualche anno
dopo, al di laÁ del Faro, un'identica preoccupazione impegnoÁ, per lungo
tempo e senza successo, l'afrancesado vicere Los BalbaseÁs, che ricorse
anche all'aiuto degli esperti Cavalieri di Malta per progettare una
valida soluzione al sistema degli approvvigionamenti per la marina
militare siciliana, fonte di sprechi per il bilancio statale, ma di lucrosi
guadagni per gli appaltatori 112. La differenza con l'apparato militare
francese era abissale, soprattutto sotto l'aspetto della capacitaÁ di quella nobiltaÁ di partecipare a pieno titolo anche nella gestione logistica e
amministrativa della guerra, avvantaggiandosi di questa via per ulteriori conquiste di potere economico e di posizioni sociali. Inoltre (come poi notoÁ Tocqueville per la nobiltaÁ francese), il servizio militare
rivestiva un ruolo gratuito ed obbligatorio, che soddisfaceva piu che
l'ambizione di acquisire beni, considerazione o potere, il senso del
dovere inerente allo status aristocratico della nascita, condizione che
attribuiva giaÁ di per se grandi vantaggi sociali. Nella mentalitaÁ dei
giovani aristocratici francesi il prestare servizio nelle armate del re
aveva quindi il valore esclusivo d'impiegare in maniera onorevole gli
anni della gioventuÂ, anche per beneficiare poi a lungo del piacere di
possedere «souvenirs honorables de la vie militaire» 113.
Al di laÁ delle Alpi l'affare della guerra eÁ sembrato alla storiografia
piu recente in grado di saldare armoniosamente gli interessi privati
delle classi dirigenti con quelli piu generali, o meglio «patrimoniali»,
della monarchia borbonica 114. Ma la pratica generalizzata di nomina di
110
Ivi, ff. 243v-4r.
Ivi, ff. 245r e v. Analoga critica era stata formulata nel 1554 da Giulio Cesare
Caracciolo, nel suo Discorso, su cui infra nt. 151.
112
Cfr. infra, cap. IV, par. 4.
113
A. de Tocqueville, De la deÂmocratie en AmeÂrique, Michel LeÂvy, Paris 1864, t. III,
chap. 22, p. 433.
114
Cfr. Rowlands, The Dynastic State and the Army, cit. (cap. I, nt. 49).
111
II. La societaÁ meridionale dall'anomalia al collasso
91
intendants aux armeÂes, commissari direttamente responsabili davanti al
re, faceva in modo di controllare senza intermediari il comando aristocratico e di centralizzare e rendere statale l'esercito 115. Tale connubio tra interessi divergenti avvenne soprattutto nel rispetto dell'ordine, dell'obbedienza alle gerarchie e del buon servizio al monarca, che
furono le fondamenta piu solide per la costruzione dell'esercito francese, «gigante» del secolo XVII 116. Il segreto del successo di Luigi XIV
non eÁ da vedere solamente nella perfetta politica di accomodamento
degli interessi dei capi militari, ma anche nella tutela della piccola
nobiltaÁ che militava nei ranghi piu bassi del corpo degli ufficiali.
L'ordre du tableau emanato nel 1675 tentoÁ di regolare il delicato problema della promozione sociale e nobiliare attraverso il servizio militare. In effetti, come poi segnaloÁ Tocqueville, nelle armate francesi i
limiti di rango erano posti non solamente al semplice soldato, ma
anche alle ambizioni degli ufficiali, perche un corpo aristocratico non
solo faceva parte d'una gerarchia, ma conteneva nel proprio seno
un'altra sotto-gerarchia all'interno della quale i membri si disponevano per convenzione. CosõÂ c'era chi dalla nascita era chiamato a divenire per meriti comandante di reggimento e chi invece poteva aspirare
al massimo a governare una compagnia 117.
La riprova della lungimiranza del sistema francese eÁ nella tranquillitaÁ raggiunta durante gli anni della minoritaÁ di Luigi XV: Filippo
d'OrleÂans pote gestire al meglio le turbolenze di quel periodo grazie
all'esercito ereditato dal secolo precedente. I riflessi della potenza di
quella macchina bellica baluginavano a Napoli: se «smoderata» appariva al Carafa l'ambizione francese di una monarchia universale,
tuttavia essa era commisurata alla sua «spaventevole potenza» militare, che le permetteva riporre ogni «malafede ne' trattati» interna115
Cfr. Cornette, Le roi de guerre. Essai sur la souverainete dans la France du Grand
SieÁcle, cit. (cap. I, nt. 22), pp. 65-97 e per il periodo precedente D. Parrot, Strategy and
Tactics in the Thirty Yars' War: The ``Military Revolution'', in «MilitaÈrgeschichtliche Mitteilungen», 38, 1985, pp. 7-25 e Richelieu's Army. War, Governement and Society in France,
1624-1642, Cambridge Univeristy Press, Cambridge 1991.
116
J. A. Lynn, Giant of the Grand SieÁcle: The French Army, 1610-1715, Cambridge
University Press, Cambridge 1997.
117
Tocqueville, De la deÂmocratie en AmeÂrique, cit. (nt. 113), t. III, chap. 22, p. 432.
92
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
zionali, avendo «avilito» la monarchia spagnola con l'alimentare il
«furore de' Turchi» e con «l'oppressione dell'Italia», mentre al nord
d'Europa aveva «devastato» il Palatinato, «invaso» l'Olanda e favorito «la caduta del Re Giacomo dal Trono d'Inghilterra» 118.
L'aspetto della debolezza militare dei due regni meridionali, fenomeno che ha esercitato un'invincibile forza coercitiva sullo sviluppo
delle societaÁ ed economie dei regni ultra e citra Pharum, eÁ abbastanza
noto alla storiografia sul regno di Napoli 119. Sul piano delle spese militari sostenute dal sud per i possedimenti del nord d'Italia, persino
alcuni vicere spagnoli, come il marchese di Villafranca e il duca d'Alba,
avevano ammonito rispettivamente Carlo V e Filippo II delle gravi
conseguenze relative allo spostamento di risorse verso il ducato di
Milano: fenomeno che tuttavia si riprodusse con regolaritaÁ costante
dal quarto decennio del Cinquecento a tutto il Seicento, compreso il
periodo della guerra di Successione. Se Siena, Genova e Milano corre118
Memorie di Tiberio Carafa, principe di Chiusano, cit. (nt. 39), pp. 33-4.
Sul complesso problema del ruolo dei domini italiani per la difesa dei territori della
 lvarez, EspanÄoles y italianos en el Quinientos: el
monarchia spagnola, cfr. M. FernaÂndez A
gobierno del Milasenado, in Pueblos, naciones y estados en la historia ± Cuartas jornadas de
Estudios HistoÂricos organizadas por el Departemento de Historia Medieval, Moderna y Contemporanea de la Universidad de Salamanca, Universidad de Salamanca, Salamanca 1994, pp. 5776. Sulla destinazione di gran parte del prelievo fiscale verso la Lombardia, cfr. R. Villari,
La rivolta antispagnola a Napoli (1585-1647), Laterza, Roma-Bari 1976, pp. 126-32 e G.
Galasso, Milano spagnola nella prospettiva napoletana, in Id. Alla periferia dell'impero. Il
Regno di Napoli nel periodo spagnolo (secoli XVI-XVII), Einaudi, Torino 1994, pp. 157-84.
Sul rapporto tra finanza ed impegno militare nel regno continentale, cfr. G. Fenicia, Il regno
di Napoli e la difesa del Mediterraneo nell'etaÁ di Filippo II (1556-1598). Organizzazione e
finanziamento, Cacucci, Bari 2003, mentre per la Lombardia cfr. M. Rizzo, Competizione
politico-militare, geopolitica e mobilitazione delle risorse nell'Europa cinquecentesca. Lo Stato di
Milano nell'etaÁ di Filippo II, in La Lombardia spagnola. Nuovi indirizzi di ricerca, a cura di
Elena Brambilla e Giovanni Muto, Unicopli, Milano, 1997, pp. 371-387; Id., Milano e le
forze del Principe. Agenti, relazioni e risorse per la difesa dell'impero di Filippo II, in Felipe II
(1527-1598). Europa y la Monarquia CatoÂlica, Editorial Parteluz, Madrid 1998, vol. I, El
gobierno de la monarquia (Corte y Reynos), a cura di M. Rivero RodrõÂguez, t. II, pp. 731-66;
D. Maffi, Guerra ed economia: spese belliche e appaltatori militari nella Lombardia spagnola,
«Storia economica», III (2000), n. 3, pp. 489-527; Id. Milano in guerra. La mobilitazione delle
risorse in una provincia della Monarchia, in Le forze del Principe. Recursos, instrumentos y
limites en la practica del poder soberano en los territorios de la Monarquia Hispanica, a cura
di M. Rizzo, J.J. RuõÂz IbanÄez, G. Sabatini, ColecioÁn Cuadernos del Seminario ``Floridablanca'', n. 5, Universidad de Murcia, Murcia 2003, vol. I, pp. 345-408.
119
II. La societaÁ meridionale dall'anomalia al collasso
93
vano il rischio di essere facile preda delle mire espansionistiche francesi, tuttavia il loro inserimento geografico dentro l'Europa centrale e la
lontananza dalle coste a rischio della pressione turca e magrebina riuscivano a garantire loro una maggiore produttivitaÁ e migliori possibilitaÁ
di successo nell'adesione a resaux commerciali internazionali. CosõÂ, la
condizione geografica e politica in cui era collocato il Mezzogiorno fu
ritenuta concausa della politica estera spagnola. Sul piano degli equilibri internazionali tra le due superpotenze europee, Francia e Spagna,
«la minaccia turca faceva il gioco del Re Cattolico: egli si poneva come
difensore della CristianitaÁ anche contro il re Cristianissimo» 120.
Di tutto questo si era reso conto Fernand Braudel nel giudizio
espresso sulla politica spagnola nel Mediterraneo a proposito dell'apparente irrazionalitaÁ della spesa militare per la costruzione e manutenzione di strutture difensive statiche lungo le coste esposte al pericolo delle scorrerie turche e piratesche. Questi giudizi sulla Spagna
imperiale, come ricordava recentemente Aurelio Musi a proposito
della tesi di Gabriele Pepe sul Mezzogiorno come «provincia-frontiera», avevano un fondamento in teoria giusto, ma non in pratica.
Insomma, gli Spagnoli avevano sviluppato una logica statica della
difesa imperiale per la quale le coste piu esterne dovevano proteggere
le province piu interne, e cosõ la Sicilia e il Napoletano difendevano
se stesse e la Spagna dai Turchi 121. Ma il sostegno armato spagnolo
era precario, e costituiva pretesto per il torchiamento fiscale, mentre
la difesa statica, costosa e poco utile, esponeva il traffico marittimo
alla pirateria nordafricana e dalmata e lo paralizzava.
11. Il disarmo mentale preclude la nascita dello Stato moderno
Le crude osservazioni di Biscardi sulla disorganizzazione della
macchina bellica del Mezzogiorno continentale c'impongono di appro120
Ajello, Toga e parassitismo: per un'analisi del costituzionalismo d'antico regime, presentazione a C. M. Spadaro, I conti della CittaÁ. Il Tribunale napoletano della Revisione (15421802), Jovene, Napoli 2003, p. 80.
121
Musi, Prefazione a Alle origini di una nazione. Antispagnolismo e identitaÁ italiana, op.
cit. (cap. I, nt. 39), p. 38.
94
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
fondire proprio questo aspetto, partendo da un'anonima relazione
molto ben informata sull'argomento inviata al re di Francia nel 1689.
Molto tempo prima che il testamento di Carlo II d'Austrias fosse
accettato, esponenti del corpo diplomatico, viaggiatori del Gran tour o
de cabinet (come preferivano definirsi gli eÂspions nelle relazioni inviate
al proprio governo, la cui letteratura meriterebbe maggiore attenzione), alcuni «regnicoli», la cui analisi sociologica dimostra un ventaglio
ampio di appartenenze ed identitaÁ sociali, inviavano al ministero francese informazioni sul regno meridionale intorno allo «stato presente»
della capacitaÁ militare, del governo e dell'economia 122. Da parte sua
l'apparato degli affari esteri francesi mostrava di rifiutare ogni determinismo culturale e sembrava capace di accettare l'alteritaÁ: la veridicitaÁ dei dati forniti dall'anonimo memorialista eÁ puntualizzata dalle
secche osservazioni a margine apposte dai francesi. Quelle statistiche
erano corroborate da altre relazioni, soprattutto quelle degli agenti
segreti francesi (tra cui alcune del mitico Poussin, la cui presenza eÁ
segnalata fin dal tempo della guerra di Messina), la cui attivitaÁ nei
regni meridionali si intensificoÁ a ridosso degli anni della Successione.
Dall'insieme del materiale documentario, che inaugura la serie dei
meÂmoires e documents degli Archives du MinisteÁre des Affaires EÂtrangeÁres,
eÁ possibile trarre una serie d'informazioni preziose, soprattutto percheÂ
manifestano due distinti modi di guardare al regno meridionale: dalle
Sicilie e dalla Francia. Per quanto concerne i documenti redatti dai
francesi, essi testimoniano un modello interpretativo lontano dallo
stile adoperato da quella diplomazia a partire dagli anni trenta del
Settecento, che, come avremo modo di dimostrare piu avanti, diverraÁ
meno attenta ai problemi sociali e molto piu interessata al mondo del
governo e della Corte napoletana. Essa saraÁ descritta attraverso l'uso
dell'histoire-cabale e dell'histoire-portrait, simile nel metodo ai diari di
Louis de Rouvroy, duca di Saint-Simon.
Questo mondo di osservatori che agivano tra Sei e Settecento si
122
La documentazione si trova presso l'A.A.EÂ., Correspondance politique, Naples, voll.
12, 13, 14, 15, 17, 18, 19, 20 e 21. Il primo documento della serie eÁ datato 1689, l'ultimo
1708.
II. La societaÁ meridionale dall'anomalia al collasso
95
presenta eterogeneo e variegato, tuttavia compatto nel costruire sul
sistema socio-politico-economico napoletano alcuni topoi che resisteranno a lungo negli ambienti governativi francesi. La nostra relazione,
primo documento presente negli archivi del ministero degli esteri
francesi, s'intitola Dello stato presente, forze e governo, e qualitaÁ del Regno di Napoli; e circa la facilitaÁ, con la quale le armi di V.M. ne farebbono
l'acquisto 123. Il memoriale tendeva a dimostrare che il Regno, «governato secondo il prudentissimo e felicissimo metodo della M.V. e de'
suoi savi e fedelissimi ministri», avrebbe dato «da se tutto il necessario
per qualsivoglia occorso per la sua conservazione, in modo che l'erario
di V.M. non sarebbe obbligato a diffondersi per mantenerlo» 124. Un
invito dunque alla conquista del regno meridionale da parte della
Francia, una preda «facile» in considerazione del pessimo stato della
difesa militare. L'anonimo autore era un regnicolo e di sicuro apparteneva al ceto nobiliare e mostrava notevoli attitudini militari. Il
memoriale eÁ accompagnato da una lettera cifrata anonima, rivolta
direttamente al re di Francia: «je prins la liberte de faire ce memoire
a votre Maieste sur la reponse des personnes etre alleÂes a Naples, au
suiet des propositions qui m'avoient este fuiteÂs ». L'anonimo estensore del memoriale si dichiarava fedelissimo del re di Francia, «come fin
da quattordici anni sono confirmai al cardinal d'Utre». Altre notizie
biografiche sono sparse all'interno del memoriale: «nato sotto il dominio de' spagnoli, e perseguitato da medesimi cosõÂ lunghi e lunghi
anni sono stato privo di quelli impieghi, spedienti e fatti che avrebbono vantaggiato la mia condizione». La relazione inizia con il titolo:
Notizia Primiera. Delle forze e fortezze de' spagnoli nel regno di Napoli:
«Non hanno gli Spagnoli in tutto un cosõÂ vasto regno, altro che seimila
soldati dentro la propria cittaÁ di Napoli, e da novecento altri sparsi per il
rimanente regno. Gli altri novecento sparsi per il regno, piu che non eÁ
credibile sono quasi tutti o zoppi, o stroppi d'altro, e per lo piu hanno
mogli e figli ne' luoghi dove sono. Fatti giaÁ quasi che paesani totalmente
inabili, et affatto inconsapevoli del mestiere della guerra. Gli seimila di
123
124
Ivi, Naples, Correspondance politique, vol. 12, f. 34r e ss.
Ibidem.
96
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
Napoli, che sono tutti spagnoli, eccetto certa poca cavalleria, che costa di
Borgognoni et Alemanni, quasi italianati, a pena bastano al Governo
spagnolo, per far paura a quel popolo, che benche numeroso di poco
meno di settecentomila anime, eÁ il piu vile che abbia il mondo verso la
milizia, per l'assuefazione cosõÂ incredibile et incomparabile alla vita
comoda, et a darsi buon tempo. Tanto che in questo non vi eÁ altri che
l'avanzi» 125.
In un'altra importante relazione, anch'essa anonima, sono confermati i dati contenuti nel documento fin qui esaminato relativi alla
potenza militare ispanica nel Regno. Questa ulteriore testimonianza
eÁ conservata nella Biblioteca Apostolica Vaticana ed eÁ stata pubblicata con pregevole commento da Marco Miletti. Questo ben informato anonimo segnalava in dettaglio il carattere di malversazione
con il quale i vicere e l'apparato militare governavano la parte
continentale del meridione d'Italia, lucrando sulle paghe dell'esercito spagnolo di cui si gonfiava la consistenza numerica di duemila
unitaÁ: «nella Regia Scrivania di Ratione fanno con tutto cioÁ apparire tra i soldati spagnoli e torchini italiani con tutta la cavallaria in
numero di ottomila combattenti sopra le compaghe delle duemila
mancanti, si approvecciano i vicere suoi cortegiani et offitiali di
guerra, et anche i ministri dell'istessa Scrivania» 126.
L'esercito spagnolo inurbato («e di questi [soldati] non eÁ da farne, ne il piu minimo conto, poiche non bastano con effetto a guarnire
le fortezze e castelli, che sono nella cittaÁ medesima, nonche a fornire
per la difesa dell'aperto, et ampio giro della cittaÁ») svolgeva esclusivamente funzioni di ordine pubblico, perche «se mancasse in Napoli
per due soli giorni il pane fresco, la neve e la verza, che diconsi foglia,
succederebbe certo qualche tumulto, e lapidamento de' Spagnoli».
125
Ibidem.
Nella cit. relazione anonima, pubblicata da Miletti, «Per scuotersi il giogo ispano»,
cit. (cap. II, nt. 21) sono confermati i dati contenuti relativi alla potenza militare ispanica nel
Regno della nostra relazione. Tuttavia, l'anonimo segnala questa singolaritaÁ che sembra
dimostrare il carattere di rapina con il quale i vicere governavano la parte continentale
del meridione d'Italia (p. 193). Il dislivello tra il piano dei pagamenti in teoria erogati e
quello delle presenze militari era ben noto.
126
II. La societaÁ meridionale dall'anomalia al collasso
97
All'incontro «il popolo tutto soffrisce e tolera, senza nemmeno aprir
bocca, le maggiori ingiustizie, gli affronti e le crudeltaÁ piu tiranne et
ingiuriose, che a pena sono imaginabili, con danni e maltrattamenti
fino all'ultimo segno». I quadri dirigenti dell'esercito «sono tutti
paggi e servidori delli VicereÂ, e gente di nessuna qualitaÁ».
Per quel che riguarda il sistema di difesa nelle province del
regno, il quadro fornito eÁ estremamente dettagliato, sia degli uomini
che dei mezzi della difesa statica, di cui si quantificano in dettaglio
persino le bocche da fuoco e lo stato delle fortezze:
«Hanno gli spagnoli nel regno di Napoli le milizie, cosõÂ di fanteria,
come di cavalleria de' medesimi regnicoli, che si dicono del Battaglione.
Questa milizia del battaglione eÁ lo stesso che un puro niente. Prima:
perche son tutti contadini villani, che in tempo di vita loro non hanno
veduto ne guerra, ne armi [...]. Seconda: [...] sono tutti huomini ligati
all'amore delle mogli e figlioli, et alla coltura delle loro possessioni et
averi, e sono scritti in quel libro a discretione de' medesimi paesani
reggenti delle medesime terre, o cittaÁ che siano» 127.[...] «Non mi nieco
di dir francamente a V. M. che tal sorte di castelli e torri, tra' quali
manca ogni fortificazione esteriore, ogni ben intesa struttura, ogni
sorte di munizione, ogni necessaria provvisione, ne' quali non eÁ artiglieria necessaria, non chi sappia maneggiar quella che vi eÁ, non milizia e neÂ
castellano o ufficiale che sia soldato, mi pare ragionevolmente impossibile che possa nessuno di essi castelli e fortezze far difesa alcuna» 128.
Quanto alle forze marittime, «eÁ notorio che non hanno altro che
quelle sette miserabili galere mal provvedute, e con soldati inabili
[...]. In nessuna parte del regno vi eÁ arsenale, e quel che dicono di
Napoli ha bisogno due anni di tempo per costruere una galera [...]» 129.
Considerazioni molto simili verranno formulate negli anni seguenti, e non riportano discrepanze con quella analizzata le altre
relazioni dedicate allo stato della difesa militare, neppure quelle
scritte da autori di diversa estrazione sociale: ad esempio, tre anni
127
128
129
Naples, Correspondance politique, vol. 12, f. 34 e ss.
Ibidem.
Ibidem.
98
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
dopo, da tale Domenico Godevini, un avventuriero contattato dal
cardinale de Janson, che dirigeva la politica francese nella corte papalina e che controllava tutta la corrispondenza in partenza per la
Francia. Ma Godevini ± del quale non ci eÁ dato capire per quale
motivo fosse stato condannato all'esilio dal regno di Napoli ± desideroso di riprendere i propri beni sequestrati dalle autoritaÁ spagnole,
metteva a punto un piano di conquista dall'Adriatico e si dichiarava
disponibile a guidare l'occupazione dell'Italia meridionale 130.
Anche la relazione dell'anonimo contiene un minuto piano strategico per la conquista militare del Regno da parte francese, progetto
che dimostra una fine cultura militare. Per le ragioni esposte, appariva sconveniente sperare alcunche dalla nobiltaÁ del Regno e infruttuoso sarebbe risultato il tentativo di unire i baroni per organizzare
un fronte interno anti-spagnolo. L'unico modo di conquistare il regno sarebbe consistito nel portarvi un esercito, che neppure avrebbe
avuto da combattere 131. Prima lo sbarco sulle coste pugliesi (con
11.000 fanti, 500 cavalieri, 12 cannoni etc.), poi la marcia verso
Napoli; giunti a destinazione, sarebbe bastato all'esercito francese
attendere la reazione popolare all'assedio, giaccheÂ, stanco ed affamato, il feroce popolo napoletano avrebbe annientato i 6000 spagnoli di
stanza nella cittaÁ 132.
CosõÂ, giaÁ nei primi anni Novanta del XVII secolo la consapevolezza di una successione borbonica era maturata a Napoli e sostituiva
la sensazione d'inutile attesa dell'erede al trono di Spagna. Nella
maggioranza dei casi gli autori dei memoriali ± membri della nobiltaÁ,
del ceto ministeriale e della borghesia ± convergevano nelle critiche
verso la forma di governo che gli spagnoli avevano voluto per le due
Sicilie, e in primo luogo verso il sistema dei consigli: che «la multiplicidad de los Consejos fue la major y mas necesaria planta en EspanÄa». La svalutazione del sistema polisinodale e dei consejos fu accolta
anche da Biscardi. Egli, dopo esser passato dal partito borbonico
130
131
132
Ivi, vol. 12, messaggio cifrato al f. 78 e ss, con data 30 dicembre 1692.
Ivi, f. 56r e s.
Ibidem.
II. La societaÁ meridionale dall'anomalia al collasso
99
all'asburgico, e dopo aver dimostrato di essere il migliore esponente
sia dell'uno sia dell'altro, realizzoÁ una sostanziale riforma della Cancelleria napoletana, instaurando un sistema che ruotava intorno al
primato di un solo reggente: prima lui stesso, cui seguõÂ Gaetano
Argento, ed infine Francesco Ventura. Alcune delle relazioni parigine spiccano per le lucide diagnosi dei mali che affliggevano il Regno e
per l'esattezza delle cure e delle prognosi, anticipando temi che apparterranno alla matura critica illuminista della societaÁ meridionale.
CosiccheÂ, attraverso di esse, eÁ possibile far qualche luce su uno dei
periodi piu umbratili della storia meridionale.
Una strana singolaritaÁ che emerge dalla lettura dei documenti
riguardava la Sicilia, alla quale si pensava nei termini di una mera
«appendice» del regno di Napoli. Questo modo di vedere il rapporto
ed il peso specifico dei due regni ultra e citra Pharum nasceva dal fatto
che l'apparato napoletano, essendo dotato di maggiore evidenza storica, aveva costituito il primo e privilegiato interlocutore della diplomazia francese. In conseguenza, il ceto ministeriale capitolino aveva,
per ben precise ragioni, cercato di mettere in ombra l'apparato politico isolano, in cui il peso specifico dell'aristocrazia feudale era incomparabilmente maggiore. Quest'ultima condizione avrebbe potuto
rivelarsi piu omogenea al programma di Luigi XIV, diretto a ristabilire l'armonia triadica dei ceti. Non c'eÁ dubbio che, fino al regno di
Carlo II, la Sicilia era stata governata attraverso il controllo politico
di Napoli. Il calcolo strategico-militare, secondo cui nella capitale
partenopea si sarebbe arrivati piu facilmente manu militari attraverso
l'Adriatico, si fondava sulla condizione di minor sorveglianza e di
sostanziale abbandono di quelle coste: si pensi all'assurditaÁ di rinunziare, lasciandolo insabbiare, ad un porto naturale ampio e splendido
come quello di Brindisi, tale da ospitare grandi flotte senza richiedere
continua manutenzione; ma si temeva che fosse utilizzato dai nemici.
Il tragitto da Trieste a Bari divenne, invece, il piu importante nel
seguente periodo austriaco, mentre il Tirreno era e rimase la via
obbligata del traffico francese.
100
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
12. Un nobile descrive il quadro politico-cetuale napoletano
Le considerazioni sullo stato di disordine militare e di estrema
inefficienza bellica napoletana sono solo una parte delle osservazioni
che l'anonimo collega all'ostracismo centenario realizzato contro l'aristocrazia di Seggio dai togati padroni della res publica, e rientrano
nell'appassionato dibattito sull'incertezza del destino spagnolo a
fronte delle precarie condizioni di salute del suo re ed alle prospettive
incognite legate alla sua successione. Ma le puntuali e corrosive accuse alla disorganizzazione delle Sicilie e del loro governo non erano
solamente le rappresentative spie dello sconforto per la sconfitta
della nobiltaÁ napoletana e per il parassitismo dell'imbelle e corrotto
ceto togato, ma anche il segno di prospettive ideali nuove e della
cultura politica mercantilistica di una certa parte della classe dirigente meridionale.
La possibilitaÁ che la morte di Carlo II apriva all'aristocrazia
regnicola di rientrare nell'agone politico mutava di molto i termini
dello sfruttamento di Napoli ad opera della Spagna, ossia gli argomenti che avevano contraddistinto la pubblicistica del secondo Seicento. Subito dopo la rivolta di Masaniello, la Spagna, attraverso il
vicere InÄigo Velez de Guevara, conte di OnÄate, si trovoÁ nella necessitaÁ di ripristinare l'alleanza con i togati, di fingere che quel ceto
dirigente fosse stato fedele a fronte delle ambiguitaÁ della vecchia
aristocrazia, d'incolpare i Seggi napoletani di un'operazione di ricambio, anzi di ribaltamento filonobiliare. Azioni politiche che invece
proprio Madrid aveva voluto e portato a maturazione nel 1647,
sperando di avere via libera nel realizzare ritmi ancora piu intesi di
sfruttamento del Regno. Il particolare dell'imposta sulla frutta eÁ la
conferma lampante di questo andamento. L'istituzione di quell'imposta era stata sempre combattuta dal Collaterale togato: alla metaÁ di
luglio del 1606 i Seggi erano riusciti a crearne ed ad alienarne per
ottantamila ducati una prima sezione, approfittando della morte di
Giovan Francesco De Ponte, della debolezza del Consiglio, da lui
dominato, e di una specie d'intervallo, fino all'imporsi del reggente
Fulvio di Costanzo, che ne riprese e continuoÁ la politica di rigore. Poi
II. La societaÁ meridionale dall'anomalia al collasso
101
il 29 agosto 1622 lo stesso Collaterale bloccoÁ «un analoga gravosa
imposizione, che era stata richiesta dai seggi, sullo stesso commestibile» 133. Naturalmente, questa diga contro l'avventurismo dei Seggi
crolloÁ quando, nel 1647, i «togati con spadino», nominati reggenti,
presero il sopravvento nel maggior organo politico del Regno: l'imposta fu istituita, e subito esplose la reazione popolare. Essa era stata
prevista dai togati «senza spadino», ossia la componente borghese del
ceto ministeriale, era stata da loro a lungo scongiurata, ed infine dagli
stessi auspicata e promossa, al fine di coglierne i frutti antiaristocratici ed antispagnoli.
La rivoluzione era nata contro il ripristino del primato nobiliare,
ottenuto dai Seggi grazie all'incremento della pressione fiscale, da
loro promesso agli spagnoli in modo incauto e dissennato. La formidabile prova di forza che i rivoltosi popolari, istigati dai ministri
borghesi, avevano dato, e l'eccezionale abilitaÁ di previsione e di
manovra dimostrata dai togati, gente colta ed esperta, erano fenomeni eloquenti, che imponevano di ristabilire lo status quo vigente
prima del tentativo di restaurare il primato della nobiltaÁ. Nel 1647,
essa era ormai da oltre un secolo inesperta delle nuove tecniche
gestionali, digiuna della scienza amministrativa, ignara di come pilotare il potere, il consenso ed il dinamismo sociale. Era, percioÁ, miseramente fallita l'operazione opportunistica che aveva fatto nascere
due illusioni: la speranza madrilena di un ulteriore incremento del
prelievo fiscale in una realtaÁ giaÁ quasi al limite del collasso, e l'illusione aristocratica di riacquistare la gestione della res publica, perduta
nel 1542 e durante circa un secolo saldamente in pugno dei togati.
Fu realizzata allora l'abile strategia (che oggi diremmo mediatica,
molto ben descritta da Pier Luigi Rovito), secondo cui il governo
spagnolo, costretto a ritornare sui suoi passi, ossia a ripristinare la
133
Le due fasi, del 1606 e del 1622, molto eloquenti, sono state sintetizzate da Saverio
di Franco, giovane storico dotato di eccezionale talento, in un saggio molto efficace (cit.
cap. II, nt. 16), che utilizza per il primo episodio una puntuale e (come sempre) ben documentata ricerca di Silvio Zotta (cit. cap. II, nt. 15), e per il secondo indicazioni di Michelangelo Schipa: cfr. Studi Masanielliani, a cura di Giuseppe Galasso, Soc. nap. di storia
Patria, Napoli 1997, p. 327 e passim.
102
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
vecchia alleanza con i togati, incolpoÁ della rivolta l'alleato aristocratico, che aveva contribuito a realizzare quella svolta. Il governo di
Madrid fu costretto a punire la nobiltaÁ, mentre, in senso inverso, fece
buon viso al cattivo gioco dei vincenti avversari togati, e li premioÁ.
Essi, non appena la nuova e piu disinvolta strategia ispano-nobiliare
aveva avuto inizio con l'imposizione sulla frutta, dapprima avevano
impedito che essa potesse prendere piede, e dopo avevano scatenato
il popolo alla rivolta. Solo dopo lunghe traversie e trattative, avevano
infine accettato di ripristinare il dominio spagnolo (piu blando del
francese), a condizione di ritornare ad essere essi stessi l'asse portante del sistema. L'abile regia dei togati si trovoÁ, pertanto, ad essere
premiata proprio dagli spagnoli che erano stati costretti, ignominiosamente, a subirla. La sostanza era tuttavia salva, perche i togati non
volevano far altro che ripristinare il parassitismo di cui erano stati i
sacerdotes, sia pure senza superare i limiti della decenza, e senza porsi
contro l'incontenibile forza popolare. I nobili, per essere stati piuÂ
ispanizzanti degli stessi spagnoli, furono universalmente qualificati
come ribelli; e per essersi sostituiti ai togati nell'alleanza con Madrid
furono costretti a ritornare nell'ombra. Dopo la conclusione essi non
trovarono altra ragion d'essere, che tramare per vendicarsi di un
comportamento di cui loro stessi erano i responsabili. Il tentativo
di aumento del gettito fiscale era stato irrazionale, incapace di prevedere il reale andamento del trend economico, e si era tradotto in
un'operazione dissennata, temeraria, anche se compiuta d'accordo
con il governo di Madrid in nome di un comune interesse. La rabbia
per aver sbagliato quasi tutto, la disillusione ed il senso di aver subito
un feroce tradimento, resero forte la tendenza nobiliare a sottrarsi
comunque ai doveri della lealtaÁ verso la Corona.
OnÄate procedette subito al riassetto delle contribuzioni fisse che
le comunitaÁ corrispondevano al fisco sulla base della consistenza dei
nuclei familiari, mentre, con la promulgazione della Prammatica
XXII De vectigalibus et gabellis, puntoÁ alla riforma degli arrendamenti
attraverso il principio della riscossione in solutum et pro soluto, che
peroÁ concedeva agli assegnatari e consegnatari l'assoluto controllo
della gestione delle dogane e delle gabelle. Il provvedimento fu dun-
II. La societaÁ meridionale dall'anomalia al collasso
103
que la prova della vittoria dei togati, che da allora in poi, assunsero
l'aministrazione delle loro rendite, grazie ad organismi privati ma
parastatali, da essi stessi diretti 134.
La politica antiaristocratica che ne era scaturita aveva duramente colpito un ceto sociale verso il quale gli spagnoli incrementarono la
loro diffidenza, temendolo vicino a Luigi XIV, e comunque sempre
disposto a varcare, con estrema disinvoltura, i limiti posti dalla fedeltaÁ: «se sommiamo infatti ai non pochi aristocratici coinvolti nelle
congiure filofrancesi degli anni quaranta e nei tentativi di Tommaso
di Savoia, il ristretto numero che si schieroÁ apertamente per la rivolta, i molti che assunsero un atteggiamento di attesa e di temporeggiamento, quelli che si strinsero attorno a Filomarino, quelli che
trattarono o spalleggiarono Guisa, quelli che vagheggiarono la venuta
di Conde e infine i protagonisti delle congiure successive, il risultato
eÁ che i sospetti spagnoli fossero fondati» 135. EÁ naturale che il crollo
della trama ispano-nobiliare emersa in piena luce nel 1647 e stroncata
da Masaniello, creoÁ nell'aristocrazia un clima di sbandamento. Il suo
fallimento nel 1648 confermoÁ la sconfitta del 1542.
Il memoriale di cui si tratta fu scritto a ridosso di tre episodi che
avevano acuõÂto i timori sull'aggressivo espansionismo della monarchia del Re Sole e delle sue mire verso il Mediterraneo: il bombardamento di Genova, avvenuto nel 1684 al rifiuto della cittaÁ italiana di
sospendere la costruzione di alcune galere destinate alla flotta spagnola 136; l'incidente di mare, avvenuto nel 1688, tra navi spagnole
salpate da Napoli e navi transalpine; la congiura ordita nel 1688 ad
Orbetello per consegnare a Luigi XIV il Presidio, considerato dagli
134
Sul governo di OnÄate a Napoli (1648-1653), cfr. G. Galasso, Napoli spagnola dopo
Masaniello: politica, cultura e societaÁ, Sansoni, Firenze 1982, vol. I, pp. 17-26. Sulla politica
finanziaria, cfr. L. De Rosa, Conflitti e squilibri nel Mezzogiorno tra Cinque e Ottocento,
Laterza, Roma-Bari, 1999, p. 159 e ss., e G. Sabatini, La spesa militare nel contesto della
finanza pubblica napoletana del XVII secolo, in Mediterraneo in armi (secc. XV-XVIII), a cura di
Rossella Cancila, Palermo 2007, p. 603.
135
F. Benigno, Specchi della rivoluzione. Conflitto e identitaÁ politica nell'Europa moderna, Donzelli, Roma 1999, pp. 256-7.
136
E. Lavisse, Louis XIV. Histoire d'un grand reÂgne 1634-1715, Robert Laffont, Paris
1989, p. 737.
104
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
spagnoli l'antimurale per la difesa dell'intera Italia spagnola 137. Si
aggiunga a questi episodi un altro, bellico, contro Algeri, avvenuto
nei primi giorni di luglio del 1688, che aveva inquietato massimamente le altre potenze marittime del Mediterraneo 138. Era evidente
che in quegli anni mutavano velocemente gli scenari internazionali e
l'idea della loro immobilitaÁ, due concause grazie alle quali gli spagnoli
per secoli erano stati «franchi nella possessione del Regno, bencheÂ
senz'armi e senza forze» 139. Per il memorialista l'equilibrio italiano
dei secoli XVI e XVII si era fondato nei fatti sull'acquiescenza dell'Austria e dell'Inghilterra al dominio spagnolo nel Mezzogiorno,
diretto ad arginare la «grandezza invitta» del Re Sole e la sua «potenza insuperabile», atteggiamento che si sommava alla simile politica perseguita dalle repubbliche di Genova e di Venezia, dal granducato di Toscana e, piu di chiunque altro, dalla Santa Sede 140. Il
Vaticano era divenuto infatti estremamente diffidente nei confronti
della Francia di Luigi XIV, di cui aveva dovuto fronteggiare il gallicanesimo ed il cesaropapismo 141. Inoltre, il Regnum era ritenuto
dalla curia papale un feudo concesso ai re Cattolici a difesa temporale
dell'ortodossia, un'opinione che continuava a persistere ancora nel
Settecento maturo. Tuttavia, dopo gli scontri duri che avevano caratterizzato le relazioni tra Benedetto Odescalchi, papa Innocenzo
XI, ed il re di Francia, nei primi dell'anno 1689 i rapporti tra i due
Stati assunsero toni piu rilassati, che sarebbero migliorati dopo l'elezione di Pietro Ottoboni, papa Alessandro VIII 142. Se poi alla resa
dei fatti, quest'ultimo papa non si dimostroÁ filo-francese, tuttavia la
Santa Sede riuscõÂ ad influenzare in negativo la politica di Luigi XIV
137
G. Galasso, op. cit. (nt. 134), p. 322.
Lavisse, op. cit. (nt. 136), p. 737.
139
Naples, Correspondance politique, vol. 12, f. 44r. La rilettura critica dei dati di
bilancio del regno di Napoli in termini di spesa militare nel corso del XVII secolo proposta
da Sabatini, op. cit. (nt. 134), dimostra in maniera inequivocabile che il regno mantenne
durante tutto il periodo il ruolo di grande motore della spesa militare della monarchia
spagnola.
140
Ibidem.
141
Cfr. L. von Pastor, Storia dei papi dalla fine del medioevo, vol. XIV, parte II,
DescleÂe & C. Editori Pontifici, Roma 1932, pp. 180-6.
142
Miletti, op. cit. (cap. II, nt. 21), p. 186 e nt.
138
II. La societaÁ meridionale dall'anomalia al collasso
105
nel regno di Napoli, che si mosse a difesa del Vaticano contro l'attacco giurisdizionalistico sferrato dal Collaterale a partire dall'anno
della successione al trono di Spagna 143. Questo atteggiamento alienoÁ
alla Francia l'alleanza con il ministero napoletano, giaÁ resa problematica da altri seri motivi d'interesse cetuale.
Per avere una precisa idea dei sentimenti nutriti dalla nobiltaÁ
napoletana contro la res publica creata dal dominio spagnolo, che
abbiamo visto efficacemente descritta da Serafino Biscardi come
«borghese» e togata, basta seguire il filo del discorso seguito dal
nostro anonimo nella seconda parte della sua relazione, intitolata Del
governo e trattamento de' Spagnoli nel Regno di Napoli. D'altronde, le
sue osservazioni sono talmente precise e puntuali, che sarebbe una
perdita di efficacia esplicativa il volerle sostituire con un'altra narrazione:
«1ë Hanno venduto [gli spagnoli] quasi tutto il patrimonio regio, per
farsi tanti interessati a loro favore in tali compre. Questi interessati
peroÁ sono tutti uomini di negozio e di penna, niente abili alle armi, e
tutti si riducono dentro il ristretto di Napoli, in modo che il resto del
Regno non ha che fare in questo interesse.
2ë Han permesso finora la tosatura e falsificazione della moneta
pubblicamente. Disorte che in diece scudi d'argento di quella moneta
non ve n'erano quattro di valore intrinseco e reale; e adesso presentemente, che l'hanno fatta di nuovo ci hanno posto piu liga del consueto,
e cresciutala di prezzo per tenere cosõÂ sempre distrutto il regno.
3ë Hanno proibito, ad ultimo esterminio de regno, tutto l'uso de'
navilii da quelli che servono per la pesca in poi, e per piccoli trasporti,
et hanno bandito l'uso delle negotiature. In modo che essi Spagnoli
non hanno da potersi valere in tutto il regno nemmeno d'un minimo
legno ne' bisogni. E tutti nel regno percioÁ li hanno in odio immenso.
4ë Han fatto finta e mostra di non risentirsi de' delitti et eccessi de'
nobili e titolati, ma solamente di contentarsi del denaro in pena. Con
che hanno spogliato, rovinato et annichilito tutti li nobili, tutti gli
titoli, fino all'ultima miseria, calamitaÁ et esterminio.
5ë Con la permissione di tanti delitti et eccessi hanno introdotto un
143
Cfr. infra, cap. III, par. 4.
106
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
odio implacabile tra la nobiltaÁ et il popolo, et un'inimicizia capitalissima tra gli vassalli e li baroni loro padroni. LoccheÂ, con effetto si vide
nella sollevazione di Napoli di trent'anni sono, che fu assai piu contro
la nobiltaÁ e titolati, che contro li propii spagnoli.
6ë Hanno preso a proteggere gli sudditi villani contro gli nobili
titolati, padroni di quelli. Facendo ad istanza d'ogni plebeo e contadino gl'insulti piu affrontosi e le ingiustizie piu pungenti, con danni
notabilissimi et incessanti alli nobili titolati. Dal che eÁ nato et eÁ presentemente in quel Regno che il vassallo non fa conto del padrone, e
l'inferisce danni a suo piacere, e che il padrone attenda continuamente,
o ad uccidere il suo suddito, o a scorticarlo et annientarlo; onde li
Spagnoli, benche odiati dal popolo et abborriti da nobili tutti, per le
riferite calamitaÁ si mantengono, cosõÂ come dicono dalla Cassa di Maometto.
7ë Hanno pervertito la giustizia facendo che il creditore non arrivi
mai ad esser pagato dal debitore, e che qual si voglia litigio non habbia
mai fine, con che tengono tutti gli titolati soggetti et avviliti. E conseguiscono che il resto del denaro si spenda nelle liti. Che un fratello sia
inimico con l'altro e cosõÂ tutti da mano in mano, e financo il figlio
inimico del padre o madre; e di tenere piu di centomila uomini della
cittaÁ effettivi storditi, immersi, involti e fatui ne' Tribunali e Consigli.
8ë Oltre il fomentare la perpetua inimicizia tra il popolo e nobiltaÁ,
han procurato annullare la dignitaÁ e carattere de' titoli vendendoli per
poche centinaia di ducati a persone di bassissima condizione. Per lo
che il baronaggio napolitano non eÁ mai unibile concordemente.
9ë Han permerso avanzarsi il pretismo a numero cosõÂ stravagante
che eccede ogni credenza. Poiche in un villaggio, per esempio, che a
pena faraÁ cinquecento anime si contano almeno cento preti e clerici.
Han fatto questo supponendo di spogliare maggiormente quei popoli e
di gente, perche i preti non s'accasassero, e di spirito, perche gli preti
non s'applicano all'armi» 144.
Questo eÁ il quadro crudo e spietato, tutto antimercantilistico, delle
condizioni in cui il regno napoletano continentale si trovava, e che
la Francia di Louis XIV intendeva recuperare, rigenerandolo profondamente, in base ad idee ed ideali diametralmente opposti a
quelli lõÂ dominanti, che ci appaiono invece come impaludati e me144
Ivi, ff. 42r-5r.
II. La societaÁ meridionale dall'anomalia al collasso
107
fitici. Nella parte analitica delle condizioni della dialettica tra status
nel Regno questa relazione non differisce da tanti altri memoriali.
La nobiltaÁ ± una volta, al tempo dei re di Napoli, «torbidissima» e
di «molte forze», percioÁ «dedita a fazioni che tenevano la Regia
autoritaÁ in continuo moto» ± era ora ridotta a misera cosa 145. La
stasi si era sostituita al dinamismo del cavallo rampante: fino al
punto che, il baronaggio, «non applicato alla virtu», eÁ «incapace
della piu minima politica», ed eÁ arrivato al punto «che discorrerne
tra di essi di politica cagionarebbe derisione» 146.
Le cause del degrado nobiliare sono indicate in quattro fenomeni: 1) l'inflazione dei titoli nobiliari, causata dal fenomeno della
venalitaÁ spagnola; 2) l'«altura insopportabile» dei togati, «che calpestano e disprezzano la nobiltaÁ, con una desistimazione, la piuÂ
affrontata che possa supponersi». Essi accrescono i propri patrimoni, facendo «quasi per forza li migliori matrimoni che sono nella
cittaÁ»; 3) l'estrema divisione politica all'interno dello stesso ceto
nobiliare, con fratture di senso sia verticale sia territoriale; 4) la
forza di pressione della carica disciplinante esercitata dagli spagnoli
che sono stati indotti dalle vicende di metaÁ secolo ad inimicarsi,
senza speranza di recupero, la nobiltaÁ del regno 147.
In questa cupa descrizione, la societaÁ meridionale eÁ solamente il
brullo terreno dello scontro di ceti tra l'antica nobiltaÁ, distinta in
«prima e seconda di rendita e stato», la nuova, formata dai genovesi e
da gente giunta di recente, ed ancora i togati, i borghesi ed il popolo.
Il risultato della dialettica sociale eÁ che solo il ceto ministeriale guadagna dall'alleanza con la Spagna posizioni di governo e di ricchezza,
mentre le altre componenti pagano all'accordo tra conquistatori ed
apparato giuridico l'altissimo e comune prezzo del sottosviluppo generale. In questa filiera, tutt'altro che virtuosa, la finanza pubblica eÁ
presentata come l'unico settore attivo di un'economia da tempo immemorabile in declino: essa assorbe tutte le risorse dal circuito com145
146
147
Ivi, f. 45r.
Ivi, f. 46v.
Ivi, passim.
108
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
merciale e produttivo a vantaggio esclusivo di un sistema di potere,
composto da «uomini di penna e di negozio», che approfittano delle
opportunitaÁ speculative offerte dal sistema statale messo all'asta. Un
vuoto assoluto aveva preso il posto della componente militare, che
idealisticamente era giudicata dai sacerdotes ecclesiae et juris qualcosa
di violento e di volgare, mentre altrove serviva a rinsaldare l'unitaÁ
patriottica della comunitaÁ, ad indurla a coltivare i valori del coraggio,
della concretezza e del rigore, ed a disprezzare le finzioni, le ipocrisie
ed i formalismi. Ma la netta contrapposizione tra questi due ultimi
ceti, untuosi ed in realtaÁ inclini all'affarismo parassitario, da un lato,
la nobiltaÁ feudale ed il patriziato urbano, dall'altro, appare troppo
schematica, perche non spiega i rapporti che legavano la finanza
statale al patriziato napoletano, sprovvisto di entrate feudali e pertanto attratto ed impegnato nelle speculazioni finanziarie ruotanti
intorno alla corte viceregia: le Piazze ricavavano grandi profitti dalla
gestione dei donativi e dalla trasformazione delle gabelle in partite
fiscali, come aveva denunciato Serafino Biscardi nella sua relazione 148. Dunque uscire dal parassitismo sarebbe stato come pretendere
che una sanguisuga si trasformasse in farfalla.
13. Una nobiltaÁ incapace d'essere «ordine»
L'esempio storico addotto dall'autore del memoriale per dimostrare la decadenza dell'aristocrazia eÁ quello della rivoluzione del
1647, un evento talmente traumatico per la societaÁ napoletana che
l'interpretazione di quei fatti fu travisata dalla storiografia sincrona e
dalla pubblicistica che seguõÂ. PercioÁ l'autore vuole smentire chiunque
sostenga la tesi della lealtaÁ nobiliare verso la Corona spagnola, recando le prove della falsitaÁ di una spiegazione diffusa negli ambienti
aristocratici: ossia che «nell'ultima sollevazione di Napoli il baronaggio fu quello che reprime' [represse] coll'armi il popolo e restituõÂ li
Spagnoli nel Regno» 149. La confutazione ch'egli offre contro chi vo148
Su questo aspetto cfr. infra cap. III, § 4, pp. 146-50.
Ivi, f. 45r. Sul «destino curioso» della vicenda del 1647-48 a Napoli e nel Mezzogiorno a causa del prevalere della soggettivitaÁ di chi scrisse sulla spiegazione delle cause, cfr.
149
II. La societaÁ meridionale dall'anomalia al collasso
109
leva sostenere il lealismo nobiliare non fornisce alcun nuovo elemento di discussione sulla rivolta, ma sembra confermare, con l'importanza esclusiva attribuita al ruolo della componente economico-sociale, la natura di conflitto di classe dell'evento, cosõÂ come alcune
ricostruzioni storiche hanno sostenuto a partire dal tardo Ottocento,
soprattutto quella di Michelangelo Schipa 150. Ma, seppure in maniera
indiretta, l'anonimo fornisce alcuni elementi di valutazione che collimano coi risultati raggiunti dalla storiografia che ha collocato la
rivoluzione napoletana nel contesto del costituzionalismo secentesco,
ponendola percioÁ in parallelo con la rivolta catalana e con la Fronda 151. Innanzitutto il baronaggio «si mosse contro il popolo per difesa
sua propria, atteso [che] per tutto il Regno il popolo si rivoltoÁ assai
piu contro gli Titolati che contro gli Spagnoli». Di fronte alla rivoluzione di popolo antiaristocratica, la nobiltaÁ fu costretta ad intervenire per autodifesa, ma solo a seguito di una serie di circostanze
fortuite le riuscõÂ di restituire il regno agli Spagnoli: come a dire che
essa fece di una mera «necessitaÁ» esistenziale una falsa «virtu» di
lealtaÁ, mentre risponde piuttosto al vero che «tutto il Baronaggio e
A. Musi, La rivolta di Masaniello nella scena politica barocca, Napoli 1989. Cfr. sulla storiografia contemporanea alla rivolta, S. D'Alessio, Ordo naturalis e infrazione. Per una metaforologia della rivolta maselliana, in «Filosofia politica», XII, 1988, fasc. 2, pp. 249-82. Una
lettura critica che fa luce sui «dilemmi irrisolti di una stratificata tradizione interpretativa»
che hanno finito con il rendere enigmatico quell'episodio della storia napoletana eÁ in Benigno, Specchi della rivoluzione, cit. (nt. 135), pp. 199-285.
150
Su questa linea anche Musi (op. cit., nt. 149) per il quale eÁ possibile individuare una
precisa direzione antinobiliare negli obiettivi e nella prassi originaria dei rivoltosi.
151
Per l'approccio storiografico costituzionalista, si v. di P.L. Rovito, La rivoluzione
costituzionale di Napoli (1647-8), in «Rivista storica Italiana», XCVIII, 1986, fasc. 2, pp.
367-462 e La rivolta dei notabili. Ordinamenti municipali e dialettica dei ceti in Calabria citra
1647-1650, Jovene, Napoli 1989, le cui tesi s'inseriscono nei quadri piu generali della storia
di Napoli costruiti da Raffaele Ajello e dalla sua eÂquipe. Il punto di partenza di questa
ricostruzione eÁ determinato dalla perdita del potere politico della nobiltaÁ napoletana, a
partire dal viceregno di don Pedro de Toledo con la espulsione dei membri laici dalla
Cancelleria (1542): cfr. R. Pilati, Officia Principis. Politica e amministrazione a Napoli nel
Cinquecento, Jovene, Napoli 1994, spec. le pp. 243-4, mentre sull'importanza costituzionale
della Cancelleria nella prima metaÁ del Cinquecento, v. Cernigliaro, SovranitaÁ, cit. in nt. 27,
p. 99. Una sintesi organica di queste vicende in Ajello, Una societaÁ, cit. (nt. 12): vi eÁ
pubblicato in Appendice il Discorso sopra il regno di Napoli, 1554-1558, pp. 261-381, che
eÁ il programma politico, militare ed economico della napoletana nobiltaÁ di spada. Per una
bibliografia ragionata sull'argomento si rimanda a Benigno, op. cit. (nt. 135), pp. 199-285.
110
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
NobiltaÁ conservano odio ben inimico verso gli Spagnoli» 152. In realtaÁ
il popolo ed i togati si rivolsero contro la nobiltaÁ di Seggio perche fu
evidente, documentata e particolarmente oscena la sua intenzione di
svendere ulteriormente e senza freni il Regno agli spagnoli, pur di
recuperare il potere assegnato da Pedro de Toledo agli uomini di
toga. Lo scrivente, difensore dell'aristocrazia di spada, non poteva
di certo rievocare quella bassezza.
Infatti la evita accuratamente. A questo scopo la sua analisi rifugge da riferimenti espliciti alle situazioni che innescarono la miccia
rivoluzionaria, ossia al problema delle imposte indirette ed alla loro
escalation, che fu massima negli anni 1642-47, a seguito dell'accordo
tra l'aristocrazia delle Piazze e i magistrati regi (ma, ben intesi, ormai
in gran maggioranza «con spadino») per creare nuove gabelle e per
venderne ai privati la rendita futura, fenomeno molto evidente e giaÁ
denunciato dal vicere Ossuna a Filippo III fin dal settembre del
1619 153. Ma eÁ presente solo un'affermazione generica, tuttavia sufficiente ad indicare, oltre che l'esistenza di una frattura al vertice della
classe dirigente, sulla quale l'autore insiste a piu riprese, uno scontro di
classe in atto nel Seicento napoletano: «detti Titolati per non essere
impiegati da' Spagnoli ne nel Politico, ne nel Militare [...], non attendono ad altro che a strapazzare gli loro vassalli, torgli la robba e molte
volte la vita: perlocheÂ, essi hanno acquistato l'odio irreconciliabile de'
152
Ivi, f. 45r. e ss.: «che il baronaggio e nobiltaÁ si moverono contro il popolo, per difesa
loro propria. Atteso per tutto il regno il popolo si rivoltoÁ assai piu contro gli titolati, che
contro gli spagnoli: conche quei pochi sforzi de' titolati furono allora come per causa propria.
Averono che fare gli titolati con un popolo vile, e cosõÂ non eÁ molto, che tra due quasi ciechi,
vinca chi ci vede qualche piccolo tantinuccio. Oltre che erano agli nobili uniti li spagnoli, che
allora erano con poco soldati, come adesso non ci sono niente, ne sono per esserci. Perche il
baronaggio in detta occasione, con tanto stimolo che aveva, non arrivoÁ mai ad unire nelle
vicinanze di Napoli il numero di tremila uomini, e stiede sempre sulla fuga, com'eÁ noto. E
poi la cosa si accomodoÁ per accordo». A f. 48r la citazione riportata nel testo.
153
Cfr. su questo aspetto le tesi di R. Colapietra, Il governo spagnolo nell'Italia
meridionale (Napoli dal 1580 al 1648), in Storia di Napoli, vol. V, t. I, Napoli 1972, pp.
163-278, che ritiene importante, ai fini della spiegazione della rivolta del 1647-48, la frattura creatasi tra l'oligarchia affaristica della Capitale ed il baronaggio, oltre al contrasto tra il
«partito genovese» (che tendeva ad aumentare la pressione fiscale sulla borghesia provinciale
ed urbana) e l'aristocrazia finanziaria di Seggio, timorosa di perdere il controllo del sistema
fiscale-finanziario.
II. La societaÁ meridionale dall'anomalia al collasso
111
Vassalli» 154. Dunque gli spagnoli, riducendo il peso pubblico dell'aristocrazia, le fecero perdere esperienza e senso del concreto, ma per di
piu crearono le condizioni che la snervarono, immiserirono e traviarono intimamente. Ma l'anonimo non fa riferimento a forme di rendita
nobiliare diverse da quella ricavata unicamente dallo sfruttamento
della proprietaÁ terriera, «perche stante la probizione d'ogni negoziatura e trafico, tutte le rendite de' Titolati del Regno consistono in terre
seminatorie, industrie di animali commestibili e di cavalli e di altre
simili cose di campagna: di sorte che se perdessero queste entrade e tali
sorte di rendita resterebbero di colpo privi affatto dal modo di potersi
mantenere». La conseguenza era che il sistema fiscale, voluto dalla
Corona spagnola ed ampiamente sfruttato dagli uomini «di penna e
di negozio», riusciva a saldare gli interessi di tutti i «benestanti» a
danno del popolo, perche gravava esclusivamente e in misura sempre
piu crescente sulla ricchezza mobiliare, sui trasferimenti e sui consumi.
I nobili erano infatti esenti dal pagamento delle gabelle e, per usare le
parole di Camillo Tutini e di Marino Verde, «con la loro potenza»
potevano introdurre nella cittaÁ «oglio, seta, farina, sale, carne salata,
cascio, vino e mill'altre cose senza pagar datio, et ne empivano le loro
case sembrando tanti fondachi e magazzini, vendendogli poi a prezzi
esorbitanti» 155.
Dopo aver indicato questo grave problema in poche righe, l'anonimo poneva al lettore una domanda retorica: cosa sarebbe stato
del dominio spagnolo nel Regno qualora il baronaggio fosse stato
guidato da un vero spirito di rivalsa e d'indipendenza e avesse posseduta una vera forza militare, anziche i tre mila soldati «villici», e si
fosse con cosciente spirito strategico «riunito» al popolo? Invece, gli
avvenimenti conclusivi della rivolta si volsero casualmente verso la
154
Naples, Correspondance politique, vol. 12, f. 48r.
Tutini e Verde, Racconto della sollevazione di Napoli accaduta nell'anno MDCXLVII,
a cura di Pietro Messina, Istituto Storico Italiano per l'EtaÁ Moderna e Contemporanea,
Roma 1997, p. 8. Il manoscritto, coevo ai fatti rivoluzionari, eÁ conservato nella biblioteca
della SocietaÁ napoletana di Storia Patria e fu utilizzato da Michelangelo Schipa nella sua
indagine sulle radici storiche del conflitto sociale nei termini di scontro di classe: cfr. la
penetrante analisi di Benigno, op. cit. (nt. 135), pp. 211-14 anche per la bibliografia.
155
112
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
fine dello scontro, soprattutto a seguito di un accidente che servõÂ a
chiudere la rivoluzione napoletana:
«Se la incostanza del popolo, guidato da uomini di bassa condizione,
non avesse operato la casual prigionia del fu duca di Ghisa, fra pochi
altri giorni, la nobiltaÁ, giaÁ stracca, e senza mai essere venuta a combattimento e fatto d'armi alcuno, si sarebbe unita al popolo, e discacciati gli spagnoli» 156.
La spontanea rivolta fu un'occasione perduta per un radicale mutamento del sistema di governo. Il popolo «incostante», «guidato da
uomini di bassa condizione», e la nobiltaÁ inconfidente, ma priva di
una vera coscienza cetuale e quindi incapace di esprimere un progetto politico alternativo, inducevano l'autore ad una diagnosi significativa: la cittaÁ ed il regno di Napoli vivono sotto un regime
repubblicano (la vera «Real Repubblica Napolitana»), fondato sul
forte accordo tra Spagna e ceto togato che, emissione della «borgeoisie», assicura la stabilitaÁ di quel patto, garantendo l'interesse di
entrambe le parti mediante i vincoli creati dal debito pubblico. Tre
decenni piu tardi il vicere von Althann noteraÁ anch'egli che all'assetto politico del Regno mancava soltanto il nome di repubblica,
mentre quelle condizioni di fatto esistevano giaÁ 157. Come abbiamo
avuto modo di notare, anche per il ministeriale Biscardi la storia del
Regno meridionale aveva dimostrato durante la «reÂvolution» del
1647 e poi nelle «troubles» del 1701, che «toute la bourgeosie et
les honneÁtes gens» furono «ferme dans ses devoir» di fedeltaÁ al re
Cattolico, mantenendo il regno alla Spagna, perche proprio da quell'accordo essi traevano le loro «principales subsistences». PercioÁ
«ces biens» non dovranno mai essere esatti ed affrancati «des charges de l'EÂtat» e non potranno essere rimessi in discussione se non
quando i tempi lo permetteranno 158.
Ma, mentre nel documento piu antico nessun cenno diretto era
fatto alla possibilitaÁ che la protagonista della sommossa, la plebe,
156
157
158
Ivi, f. 45v.
Lettere di Althann a Rialp, in Ajello, Il vicere dimezzato, cit. (nt. 22), passim.
Cfr. infra, cap. III, § 4, pp. 146-50.
II. La societaÁ meridionale dall'anomalia al collasso
113
potesse essere strumentalizzata da altri gruppi sociali, piu esplicita fu
la ricostruzione del giurista d'Altomonte, per il quale l'unico ceto
sociale del regno in grado d'essere classe dirigente era quello cui egli
stesso apparteneva, anche se «on se plaint aussi beaucoup des magistrats, et peut eÃtre a bon raison sur quelques uns; mais on leur doit la
justice d'advouÈer, qu'il n'y a parmi eux aucune marque de venaliteÂ
sensible et apparente» 159. E rivelava la ratio togata delle sue idee
mediante due proposte molto coerenti: per un verso chiedeva maggior rigore nello studio del diritto, onde evitare l'ascesa tra i ministeriali di gente dalla preparazione dubbia (forse un'allusione ad
``dottori con spadino?''), e di rendere «plus difficile le doctorat», con
l'obbligare gli studenti alla frequenza universitaria, con il «prevenir
les fraudes qui peuvent se commetre pour le tems destine aux eÂtudes», e con il «faire subir des examens rigoreux aux pretendans», per
un altro verso il magistrato suggeriva al re di Francia di rivedere ogni
titolo di concessione della patente di nobiltaÁ, limitandola ai casi sicuri
non solo di «naissance», ma anche di «meÂrite» 160.
Prima di analizzare la sua proposta di riforma della nobiltaÁ feudale in nobiltaÁ di servizio, secondo criteri squisitamente meritocratici, ritorniamo al documento del 1689 per continuare ad illustrare i
motivi endogeni ed esogeni che l'anonimo riteneva fossero alla base
della profonda crisi nobiliare che aveva colpito il Mezzogiorno d'Italia. Vi sono riconoscibili alcuni aspetti delle dinamiche complesse
che regolavano il rapporto tra la monarchia di Spagna ed i ceti napoletani durante l'etaÁ moderna, oggetto di lungo e vario dibattito
storiografico di recente concentratosi attorno alle funzioni di integrazione, rappresentanza e resistenza tra Stato ed ordini, per il quale
rimandiano alle puntuali osservazioni di Aurelio Musi 161.
I punti salienti indicati dall'anonimo insistevano sul tema di una
159
Correspondance politique, Naples, vol. 12, ff. 252v-3r.
Ivi, f. 259r-60r per la riforma degli studi universitari di diritto, f. 260r e v per la
medicina; 250r-3v per la riforma delle patenti di nobiltaÁ.
161
Cfr. A. Musi, L'Italia dei vicereÂ. Integrazione e resistenza nel sistema imperiale spagnolo, Cava de' Tirreni 2000; Id., L'impero spagnolo, in «Filosofia politica», XVI, 2002, pp.
37 ss.; Id., L'Europa moderna fra imperi e stati, Milano 2006.
160
114
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
nobiltaÁ non integrata nelle logiche del potere centrale, senza alcuna
capacitaÁ di esprimere una forza economica e sociale e soprattutto
lontana dall'aver preso parte a quel processo di trasformazione in
classe dirigente attraverso i servizi nell'esercito, nella burocrazia e
nella diplomazia, ma capace solamente di una resistenza passiva del
tutto priva di una progettualitaÁ:
1) «perche tutti i Titolati e NobiltaÁ sono spogliati affatto d'ogni
studio, esercizio e prattica militare, eccetto che quattro o cinque di
essi, li quali si sono aspagnolati e fatti inesperti nell'ozio, bencheÂ
havessero qualche piccola habilitaÁ»;
2) «perche eÁ un baronaggio non applicato alle virtuÂ, incapace della
piu minima politica, a segno che discorrerne tra' di essi cagionerebbe
derisione»;
3) «perche la gente del regno eÁ affatto lontana e remotissima del
mestiero militare col genio, con l'animo e fin'anco co' ricordi: in modo
che, benche gli Titoli potessero armare gli loro sudditi, questi non gli
seguirebbono certamente; e quando volessero seguitarli, per due anni
al meno non servirebbono fazione alcuna»;
4) «perche stanno tutti senza denari, scorticati e rovinati da' Spagnoli, privi di negoziatura e d'ogni altro lucro».
A questi motivi si aggiungono le resistenze mentali (acquisite per
abitudine e non per natura) e l'incapacitaÁ di riuscire ad essere un
blocco compatto, un «ordine» fondato sul primato sociale riconosciuto al mestiere delle armi e caratterizzato da ranghi fissi, da gerarchie
costanti, da privilegi e da segni distintivi della dignitaÁ e dell'onore.
Alla base del processo dell'estrema frammentazione dell'«ordine» avevano contribuito alcune cause esogene di origine spagnola,
innanzitutto il sovvertimento della logica degli status con l'anteporre
nel regimen i togati alla nobiltaÁ di spada, ed endogene, come quelle
relative alla pretesa grandezza della nobiltaÁ residente nella Capitale
rispetto quella delle altre cittaÁ del Regnum. Le fratture in seno alla
nobiltaÁ di spada erano multiple, orizzontali e verticali:
«questa discordia [cioeÁ quella accennata in precedenza e causata dalla
divisione di carattere economico della nobiltaÁ, anch'essa di carattere
endogeno] eÁ ben piu crudele tra' i Titolati di garbo e la nobiltaÁ privata:
II. La societaÁ meridionale dall'anomalia al collasso
115
poiche questa, per il supposto di portar le medesime famiglie, non
tratta quelli, ne con la piu piccola distinzione o altra sorte di Titolo,
anzi con mostrarne disprezzo: ond'eÁ che questa resta senza appoggio e
quelli senza ombra di seguito». Inoltre «la nobiltaÁ delle cittaÁ, [ossia i]
nobili del Regno, eÁ capitalissima inimica e con odio giurato della nobiltaÁ napolitana, nella quale consiste tutto il Baronaggio, [...] perche la
nobiltaÁ napolitana non vuole riconoscere per nobili suoi pari gl'altri
nobili delle CittaÁ cospicue del Regno, chiamandoli Gentil'huomini di
fari; et essi [soli] si dicono Cavalieri e Signori Napolitani» 162.
In conclusione, per il nostro anonimo la realtaÁ del Regnum vedeva
sovvertita nella pratica quotidiana l'opinione del tempo piu diffusa
nell'inconscio collettivo europeo, cioe che l'«ordine» per eccellenza
fosse da cercare nello statuto della nobiltaÁ. Come avremo modo di
notare qui di seguito, nei giudizi sull'aristocrazia napoletana gli
investigatori francesi utilizzavano tre soli criteri: la forza delle
armi, il peso della ricchezza ed il grado di affidabilitaÁ. In una societaÁ
nella quale vigeva una mentalitaÁ che organizzava le relazioni tra i
propri membri secondo un principio di classificazioni per «ordini» e
status in base al tipo e carattere delle funzioni svolte a vantaggio del
corpo sociale (ad imitazione dell'antica concezione organica), il nobile era essenzialmente l'uomo di armi, il guerriero. Ne discendeva
che l'imperio fosse l'essenza dell'attivitaÁ militare e nei fatti un esercito era una gerarchia di comandi organizzati tra di loro. Altra
conseguenza legata a questa vedeva nel nobile l'intrinseca attitudine
a svolgere in tempo di pace altre attivitaÁ implicanti un potere di
comando: governare le province e le cittaÁ, rendere la giustizia nei
feudi, presidiare le fortezze, detenere signorie. A Napoli la dialettica
tra gli status era stata corrotta dalla demilitarizzazione dei nobili non
soltanto di parte angioina: l'opzione di Toledo a favore dei sacerdotes
juris aveva fatto sõ che il sistema gerarchico funzionasse quasi all'incontrario. Occorse qualche tempo perche i francesi se ne rendessero
conto: cosõÂ solo nel 1698 fu notato che i Seggi erano altrettante
«ReÂpubliques dans la ReÂpublique», in funzione del fatto che la mo162
Correspondance politique, Naples, vol. 12, ms. cit. (nt. 154), ff. 46r-8v.
116
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
narchia spagnola aveva favorito lo sviluppo delle funzioni politiche
della Capitale, affidando ai Seggi il governo metropolitano ed al ceto
togato la centralizzazione delle decisioni politico-amministrative 163.
Le esperienze incrociate della Rivoluzione inglese, della Fronda e
la nascita delle Province Unite facevano emergere a metaÁ del XVII
secolo una prima etaÁ repubblicana, che sicuramente obbligava i membri degli affari esteri francesi a constatare la presenza di una vistosa
crepa nei modelli di monarchia assoluta e di porsi dunque la prioritaÁ di
forgiare nuovi semantemi per il vocabolo. Sembra tuttavia che il vocabolo res publica mantenesse ancora in Francia una polisemõÂa derivata
dai secoli XVI e XVII 164. Da parte nostra notiamo che nel linguaggio
della diplomazia il significato piu adatto a definire la realtaÁ politica del
regno di Napoli era quello di un regime politico con strutture istituzionali non monarchiche, tuttavia subordinate al re e da lui dipendenti. In generale potremmo sostenere che il lemma in uso tra quei diplomatici prescindeva dal fatto che tali strutture operassero in regimi
monarchici, oligarchici, di democrazie o di forme miste e che vi fosse
concorrenza tra reÂpublique e monarchie, anzi confusione e disturbo
nell'azione di governo. Aggiungiamo che la questione del repubblicanesimo urbano, che Napoli aveva drammaticamente sperimentato durante gli avvenimenti inaugurati dalla brevissima ascesa di Masaniello
e ad essa seguõÂti, avraÁ pure contribuito a trasformare il linguaggio della
politica in uso nel vasto dibattito sulla legittimitaÁ del potere della
composita monarchia spagnola: purtuttavia l'atto solenne di proclamazione della «Real Republica Napolitana» che richiedeva la protezione
di Luigi XIV, non puoÁ essere interpretato diversamente dal bisogno di
conciliare la necessitaÁ di una riforma politica con il sentimento monarchico diffuso tra le popolazioni del Mezzogiorno, sicuramente alla
ricerca di una fedeltaÁ meglio riposta 165 di quella verso il re di Spagna,
ormai intimamente compromessa e paurosamente oscillante.
163
Ivi, f. 189r.
Per l'evoluzione del termine nel vocabolario francese, cfr. E. Gojosso, Le concept
de reÂpublique en France (XVIe-XVIIIe sieÁcle), Presses Universitaires d'Aix-Marseille, Aix-enProvence 1998, al quale si rimanda per la bibliografia.
165 Á
E il risultato condivisibile cui perviene Musi nelle sue osservazioni su valori e
164
II. La societaÁ meridionale dall'anomalia al collasso
117
E nelle province siciliane, dove la nobiltaÁ deteneva le proprie
signorie, come andavano le cose? EÁ lõÂ che gli osservatori francesi si
sposteranno alla ricerca di notizie sulle tre qualitaÁ capitali (armi,
denaro, genio) di quella classe dirigente. Essi troveranno conferma
del notevole accrescimento della sfera giurisdizionale della feudalitaÁ
e del fatto che il compromesso tra la monarchia spagnola e il baronaggio, fondato sul riconoscimento della sovranitaÁ in cambio dell'ampliamento della giurisdizione feudale, aveva esaurito la sua capacitaÁ
di rendere fedeli i baroni meridionali alla Spagna. Inoltre, i meccanismi d'integrazione messi in atto dalla monarchia spagnola avevano
incontrato la resistenza posta dall'idea di un'identitaÁ nobiliare «nazionale», pronta a contrastare l'inserimento dei genovesi nel Mezzogiorno con la loro trasformazione in eÂlite locale e ferma nella gelosa
difesa dell'autonomia ai fini della conservazione e dell'allargamento
della sfera dei privilegi a discapito delle comunitaÁ locali e dei beni
demaniali. La storiografia sul Mezzogiorno moderno converge sulla
periodizzazione della tendenza della colonia genovese presente nelle
Sicilie all'infeudamento: se a metaÁ del Cinquecento la penetrazione
feudale dei liguri non era ancora importante e diretta, tra il XVI e il
XVII secolo s'attuava il massiccio insediamento di appartenenti a
quel ceto mercantile nella feudalitaÁ locale e, in qualche caso, si assistette all'ascrizione ad uno dei seggi nobili della Capitale come coronamento della piena integrazione sociale 166.
Quando guardava fuori da Napoli l'osservatore perdeva di vista
la fisionomia e l'unitaÁ del gruppo sociale e politico dei nobili residenti
nella capitale e sceglieva di narrare dei «luoghi antropologici», dove
interagivano pesantemente le parentele e la politica. Seguendolo in
contenuti del concetto di «fedeltaÁ» al re nelle popolazioni dell'Italia meridionale durante
l'etaÁ spagnola: L'Italia dei vicereÂ, cit. nt. 161, pp. 149-64. Qui la formula «meglio riposta» va
intesa come ben diversa dal punto di vista critico e qualitativo.
166
Cfr. Galasso, Economia e societaÁ nella Calabria, cit. (nt. 55); F. Cozzetto, Lo Stato
di Aiello. Feudo, istituzioni e societaÁ nel Mezzogiorno moderno, Napoli 2001; M.A. Visceglia,
Territorio, feudo e potere locale. Terra d'Otranto tra medioevo ed etaÁ moderna, Napoli 1988;
Ead., Un groupe social ambigu: organization, strateÂgie et repreÂsentation de la noblesse napolitaine
entre XVIe-XVIIIe sieÁcles, in «Annales ESC», 6, 1993 ed in ultimo A. Musi, FeudalitaÁ e
genovesi nel Regno di Napoli: l'etaÁ spagnola, in corso di stampa.
118
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
quella descrizione e forzando la sua analisi con l'incrocio di altre fonti
al fine di aggiungere qualche elemento prosopografico, ci eÁ forse
possibile passare da un approccio rigido ad uno che privilegi la mobilitaÁ delle configurazioni politiche.
14. Conclusioni: dall'anomalia al collasso
Questo capitolo eÁ stato dedicato al complesso delle valutazioni
elaborate dai numerosi ed acuti osservatori politici, francesi o italiani, che erano stati messi in attivitaÁ dalla diplomazia parigina, in vista
della successione spagnola. Per concludere su questo tema, si puoÁ dire
che essi ± sia pure con qualche differenza di accenti dovuta alle loro
diverse condizioni cetuali e funzionali, di milites o di robins ± furono
d'accordo nel tracciare un quadro drammatico della situazione socioistituzionale napoletana. La preoccupazione e l'evidente rammarico
di quegli analisti era che la profonda crisi creava una distanza enorme
tra le nuove aperture derivanti nel Mezzogiorno dalla svolta dinastica
spagnola e l'incapacitaÁ delle popolazioni di avvantaggiarsene: condizioni di paralisi costruite dagli assetti sociali, politici ed istituzionali
presenti nella capitale del Regno. Le speranze non esattamente prevedibili, ma ampie, e le possibilitaÁ d'inserimento internazionale di
cui avrebbero goduto le societaÁ meridionali dopo la morte di Carlo II
contrastavano non solo con la forza invincibile di quelle strutture, ma
anche con l'andamento abulico, quasi inerte, passivo, del corpo sociale napoletano.
Le analisi fin qui esaminate si lasciavano fortemente condizionare dalla crisi della comunitaÁ napoletana, e dalla particolare natura
di quell'involuzione, che puoÁ essere indicata cosõÂ: la forza dominante
era costituita da un parassitismo che paralizzava l'economia e condizionava ogni aspetto della vita sociale, perche coinvolgeva tutti i ceti:
borghesi, togati, nobili, ecclesiastici, opere pie, tutti interessati ad
investire i loro risparmi nelle rendite statali. Quei cespiti erano offerti a tasso vantaggioso e presentavano doti incomparabili di sicurezza e di eventuale rapido recupero degli enormi capitali erogati per
assicurarsene il godimento. Di modo che i benestanti vivevano a
II. La societaÁ meridionale dall'anomalia al collasso
119
carico dei meno fortunati e delle province, e sottraevano capitali
eventualmente e necessariamente diretti a sovvenzionare le imprese
di rischio. Ne nasceva un blocco infrangibile, un circolo vizioso non
redimibile.
EÁ possibile individuare i creatori di quel sistema, i tutori e gli
arbitri del suo riprodursi all'infinito, negli uomini di toga, la cui
autoritaÁ era per altro garantita sia da un alto livello di cultura, sia
da una lungamente collaudata esperienza gestionale, sia dal modo
arbitrario e segreto con cui in quasi tutta l'Europa (Inghilterra a
parte) i magistrati realizzavano le loro operazioni amministrative e
di giustizia. Vedremo subito dopo che, invece, le indagini sulle
situazioni delle province sembravano lasciare maggiori margini di
manovra alla politica francese: aspettativa anch'essa fallimentare,
perche quella soluzione avrebbe delegittimato le magistrature centrali.
EÁ chiaro che la trappola napoletana e centrale era stata l'effetto di una causa lontana, la riforma del 1542, da cui era nata l'anomalia istituzionale. Di questo nesso s'individuavano gli effetti e le
cause, ma non se ne aveva coscienza storica precisa e ben distinta.
Certo eÁ che una considerazione sintetica emerge da tutte le relazioni: il meccanismo di dominio inventato da Pedro de Toledo, e da
lui piu o meno consapevolmente realizzato, poteva essere espresso
sinteticamente mediante la ben nota e bella immagine che pochi
decenni piu tardi, nel 1723, Pietro Giannone creoÁ e pubblicoÁ per
descrivere quel dramma: gli spagnoli avevano esaltato gli uomini di
toga contro i milites, avevano cosõÂ mortificato e quasi spento le
attitudini marziali della nobiltaÁ e della popolazione; contemporaneamente, per tenere avvinti i benestanti del Mezzogiorno alla
patria spagnola, non solo li avevano incatenati facendoli partecipi
degli interessi economici dello Stato dominante, ma avevano «indotto i napoletani a comprarsi le proprie catene, perche non potessero disciorsene» 167. Si era creata cosõ una saldatura degli inte167
Istoria civile del regno di Napoli di Pietro Giannone, nella stamperia di Giovanni
Gravier, Napoli 1770, p. 243.
120
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
ressi tra dominati e dominanti: meccanismo drammatico, ideato da
Pedro de Toledo ed ulteriormente rafforzato e stabilizzato a seguito della rivolta del 1647-1648. La vera e propria restaurazione della
toga ai vertici della pubblica amministrazione aveva dimostrato
che quel cancro alimentava se stesso. L'anomalia aveva generato
il collasso.
121
III
LA POLITICA DI LUIGI XIV
RILANCIO DELLE PROVINCE
CONTROLLO DELLA CAPITALE
1. Inconfidenti della Spagna e cugini di Luigi XIV
In una relazione inviata da Napoli alla corte di Francia, datata 15
febbraio 1693, un informatore francese assicurava il proprio governo
che alla morte del re di Spagna la nobiltaÁ avrebbe desiderato un re
proprio, ancora meglio se straniero, al fine di «se mettre en reÂpublique»: opzione senz'altro preferibile al dover sottostare a «la cour de
Rome». Dunque, com'eÁ evidente, secondo l'analista i politici del
Regno erano stressati da una sindrome continua: essere assoggettati
alla corte di Roma. Questa preoccupazione si aggiungeva ad un'altra,
ugualmente debilitante ma inevitabile: la dipendenza da un secondo
(anzi un primo) potere esterno, ossia dalla nazione dominante. Il
vocabolo reÂpublique accentuava l'aspirazione alla duplice indipendenza ed era qui usato per porre in rilievo la singolaritaÁ di quella realtaÁ
politica, che registrava nella memoria sociale l'esistenza di una tripla
identitaÁ: Regno, Viceregno e feudo della Chiesa. Quest'ultima era
complicata dal dato di fatto che non esprimeva soltanto una condizione di vassallaggio, piu o meno legalmente fondata, ma richiamava
il primato dello spirito sulla materia. Significava, quindi, diretta
dipendenza dalla organizzazione mondana della vita ultraterrena,
di cui, all'interno dello Stato, erano agenti e testimoni viventi gli
ecclesiastici, che si sentivano sudditi di un'altra autoritaÁ. La mancata
concentrazione del Super Ego istituzionale e sociale in un'immagine
unitaria di patria, ossia del pater, in Italia, ed in particolare nel Mezzogiorno, portava ad un'intima frantumazione della persona pubblica, disagio profondo che si cercava di esorcizzare usando abbondantemente il termine respublica. I riflessi di questa condizione storica,
che in Italia si eÁ protratta fino all'altro ieri, hanno inciso ed incidono
negativamente sulla soliditaÁ psicologica ed integritaÁ morale del `cit-
122
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
tadino' (nell'accezione rousseauviana), sul suo equilibrio etico e sulla
sua condizione morale.
Una profonda e multipla schizofrenia politica eÁ stata per oltre un
millennio e mezzo la condizione in cui hanno vissuto le popolazioni
subalpine. LõÂ risiedeva la vera ragione per cui gli spagnoli nutrivano
malcelati sospetti sul lealismo della nobiltaÁ napoletana, soprattutto
nella considerazione del forte «esprit de meÂcotentement et de revolte» che la dominava: cioÁ aveva sempre obbligato i vicere spagnoli ad
attenersi alla pratica di «mettre tout en usage pour semer de la jalousie et de la discorde entre le principales Maison de Naples, pour les
porter au faste et aÁ la deÂpense, pour abaisser et ruiner celles qui
veuillent trop s'eÂlever, pour animer le peuple contre la noblesse, pour
les diviser tous», cosõÂ da raggiungere lo scopo di «la tenir dans un
respect aveugle aux volonteÂs du Roy» 1.
Molte altre fonti insistono invece sull'inclinazione filofrancese
della nobiltaÁ napoletana, che si dichiarava disposta ad accettare un re
d'Oltrealpe, subordinando quella novitaÁ alla condizione necessaria
che nulla venisse mutato nell'ordine costituzionale del Regnum. Ma i
giudizi sull'aristocrazia siciliana erano tutt'altro che lusinghieri, anzi
talvolta spregevoli: «mais toute cette noblesse, et particulierement
celle qui n'est jamais sortie du royaume, est d'une ignorance, une
superstition et d'une vanite inconcevable» 2. Le voci interne al regno
insistevano invece sulla totale incapacitaÁ militare dell'aristocrazia
locale, sulla discordia e la grande disunione che regnava tra le grandi
Case, tutti fattori che non avrebbero affatto giovato alla Francia nel
caso in cui si fosse imposta la necessitaÁ di una conquista manu militari
di Napoli: «detti Titolati poi e Nobili e Popolo mai et il mai grande si
moveranno da per essi contro gli Spagnoli, ne verranno a risoluzione
o partito alcuno, ancorche fussero piu che riaffrontati e rioppressi:
[...] come perche con effetto uno non si daÁ caso che si fidi dell'altro:
[...] di sorte che, in materia di Stato, un fratello sicurissimamente
accuserebbe l'altro, atteso che sentisse la proposta dubitarebbe im1
2
A.A.EÂ., Correspondance politique, Naples, vol. 12, ff. 86v-87r.
Ivi, f. 194v.
III. La politica di Luigi XIV
123
mediatamente esser quella artificiosa, perloche correrebbe alla rivelazione per liberarsi dal dubbio, o per far danno al parente e vantaggiar le proprie pretenzioni in qualche litigio, che assolutamente a
nessun manca» 3. Com'eÁ evidente, la critica dell'anonimo travalicava
i confini della materia politica e si portava sul piano antropologico,
dove perveniva ad una condanna radicale della condizione non solo
civile, ma umana. Eppure non si puoÁ dire che quella feroce severitaÁ
fosse infondata: come Rousseau avrebbe poi osservato, l'idea di un'umanitaÁ globale nasce non dalla metafisica, ma dall'estendersi dell'esperienza civile, ossia sociale, oltre i limiti della famiglia, del clan, ed
infine dello Stato. L'uomo sente veramente come propri innanzi
tutto gli impulsi che nascono dall'esperienza esistenziale 4.
Pur essendo ancora lacunosa la conoscenza della nobiltaÁ napoletana, delle sue tradizioni politiche e della collocazione sul piano delle
alleanze internazionali, in particolare della consistenza e della forza
delle «antiche fazioni» angioine ed aragonesi ± che, secondo Pietro
Giannone, erano ridotte a «reliquie», per giunta «vacillanti» nelle
scelte di campo tra fine Sei ed inizio Settecento ±, di quel ceto eÁ ben
noto un topos di diffusione europea: i testimoni indigeni e gli osservatori degli altri paesi la giudicavano in blocco come «inconfidente»
nei confronti della Spagna, «per quanto strano possa apparire e malgrado le considerazioni di segno opposto della storiografia» 5.
Le testimonianze esaminate usano come discrimen temporale il
periodo a ridosso della rivolta di Masaniello, che era considerato da
chi si trovava ad affrontare il giro di boa della successione di Spagna
come una vera pietra miliare, un laboratorio da cui trarre informazioni preziose, a ragione della sua singolaritaÁ di conflitto sociale e politico. Di fronte all'inerzia popolare, si registra in questa fase un notevole addensamento di congiure aristocratiche filofrancesi. Il padre
A.A.EÂ., Correspondance politique, Naples, vol. 12, ff. 49v.
Ci riferiamo alle considerazioni di Ajello, con richiami al pensiero di Rousseau, in
«Frontiera d'Europa», në 2, 2007 (pubblicato solo di recente), dal titolo GlobalitaÁ, dialettica
e socialitaÁ critica. Orientamenti della storiografia nel terzo millennio, pp. 9-48.
5
P. Giannone, Istoria civile del regno di Napoli, presso NiccoloÁ Naso, Napoli 1723,
voll. 4, IV, p. 375. La considerazione eÁ di Benigno, op. cit. (cap. II, nt. 135), p. 257.
3
4
124
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
teatino Andrea Paolucci, giustiziato dalle autoritaÁ spagnole il 9 agosto
del 1647 perche ritenuto il capo di una cospirazione di quel segno
politico, era stretto congiunto dei Cosso, la potente ed aristocratica
famiglia di Nido 6. Numerosi nobili congiurati sostennero il tentativo
di offensiva militare di Tommaso di Savoia d'impadronirsi del Regno:
mandante dell'occupazione era il cardinale Mazzarino, che cosõÂ teneva alta una tradizione risalente al suo predecessore, Richelieu 7.
Per queste ragioni Michelangelo Schipa ha evidenziato come il
movimento filofrancese nel Mezzogiorno d'Italia possedesse delle caratteristiche di lungo periodo ed una consistenza e vitalitaÁ non rinvenibile in altre realtaÁ della Penisola. Tuttavia, egli non addebita alla
monarchia d'Oltrealpe alcuna responsabilitaÁ dello scatenarsi dei moti
masanelliani, dei quali gli preme invece mettere in luce la matrice
problematica come squisitamente economico-sociale, lasciando in ombra il ruolo della politica internazionale, almeno fino alla seconda e
terza fase dei tumulti, quando essi si tradurranno in una «ribellione
aperta, accanita e feroce contro il dominio di Spagna» 8. Riflettendo
sulle origini della disaffezione nobiliare nei confronti della Spagna,
Benigno avanza l'ipotesi che la causa sia da rinvenirsi nella congiuntura del 1639-41 e nella contrapposizione di un'importante fazione
aristocratica alla politica di Medina. A peggiorare la situazione la
venuta a Napoli dell'Almirante e, con la caduta di Olivares, l'arrivo
del visitatore ChacoÂn: «sotto attacco erano gli uomini legati a Medina,
il nerbo dell'aristocrazia lealista al regime di Olivares. Il risultato fu un
clima di sospetto reciproco cosõÂ acuto che all'arrivo a Napoli del vicereÂ
Arcos la situazione appariva per molti aspetti allarmante» 9. Dopo
6
F. Capecelatro, Diario contenente la storia delle cose avvenute nel regno di Napoli negli
anni 1647-1650, a cura di A. Granito, Napoli 1850-54, vol. I, pp. 150-2; F. Andreu, I Teatini
e la rivoluzione nel regno di Napoli, in «Regnum Dei», XXX, 1974, pp. 221-396; F. Benigno,
op. cit. (cap. II, nt. 135), pp. 256-8.
7
G. Carignani, Tentativi di Tommaso di Savoia d'impadronirsi del Regno di Napoli, in
«Archivio storico per le province napoletane», VI, 1881, pp. 663-731.
8
M. Schipa, Albori di risorgimento nel mezzogiorno d'Italia, Napoli 1938, pp. 1-26.
Sull'interpretazione dei moti da parte di Schipa cfr. Benigno, op. cit. (cap. II, nt. 135), ad
indicem.
9
Benigno, op. cit. (cap. II, nt. 135), p. 258.
III. La politica di Luigi XIV
125
Masaniello saraÁ il governo di OnÄate a riorganizzare le fila dei fedeli alla
monarchia, rafforzando il potere del ceto togato, smantellando una
classe dirigente aristocratica sospettata a ragione di piu o meno coperte
simpatie filofrancesi e causando una serie di reazioni, tra le quali la piuÂ
notevole fu quella del principe di Montesarchio. Il tentativo d'instaurare un regno indipendente sotto il regime di don Giovanni d'Austria
coinvolse, oltre al principe, l'Avalos, il principe di Troia e Gregorio
Carafa, priore della Roccella 10. Attraverso la rete delle parentele dei
cospiratori ne risultavano coinvolte importanti case aristocratiche, i
cui nomi ricorreranno poi in documenti di periodi successivi che ci
riguardano direttamente e ci accingiamo ad analizzare.
Abbiamo giaÁ detto che la scelta di fedeltaÁ del primo momento
avvenne comunque attraverso lo sforzo del governo francese di creare
un «double» legame di fedeltaÁ alle «deux courones» di Francia e di
Spagna ed abbiamo citato a testimone la corrispondenza di Luigi XIV
con i Grandati napoletani, avente proprio ad oggetto questo legame
doppio con la Francia e con la Corona spagnola, oramai borbonica. Tra
i nomi presenti nella documentazione francese figurano il principe di
Castiglione, il duca di Calabria, il principe d'Avellino, il principe di
Ottajano, il duca di Giovinazzo, il principe di Bisignano, la famiglia
Montesarchio, il principe di Poggioreale, il duca di Sessa, la duchessa
di Monteleone, il duca d'Atri, il principe di Piombino, il principe di
Santo Buono. Nella relazione del 1693, cioeÁ quella citata in premessa
al paragrafo, l'osservatore francese si era spostato dalla cittaÁ partenopea nelle quattro province «principali» del Regno, Terra di Lavoro,
Abruzzi, Puglie e Calabrie: in quei luoghi la nobiltaÁ napoletana perdeva l'immagine sbiadita al confronto con il potere repubblicano, che
governava nella metropoli ed acquistava nitore e colore distingueÂ.
In Terra di Lavoro la nobiltaÁ piu potente era quella dei Montesarchio, il cui omonimo principe viene descritto come un vecchio
pieno di debiti e il cui geÂnie «paroit moins francËois que espanÄol»,
10
M. Schipa, La congiura del principe di Montesarchio, in «Archivio storico per le
province napoletane», III-IV, 1918, pp. 271-96; V, 1919, pp. 191-226; VI, 1920, pp.
251-79.
126
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
nonostante egli si fosse reso protagonista della congiura filofrancese
che aveva mirato a rendere il regno autonomo con a capo don Giovanni d'Austria 11. Nella classifica delle nobiltaÁ meridionale creata dal
francese viene subito dopo Marzio Carafa, duca di Maddaloni, ed eÁ
indicato come Grande di Spagna 12. Nonostante si supponga, a ragion
veduta, che il padre fosse stato avvelenato per conto del governo in un
carcere madrileno, tuttavia egli era indicato di disposizione piu spagnola che francese.
Questa affermazione contraddice quanto sostenuto dall'anonimo
di Miletti, per il quale il duca «conserva un odio inestinguibile verso
gli spagnoli», a segno tale che «ne beverebbe un mare di sangue in un
sorso» 13. Della sua affezione verso la Francia peroÁ eÁ testimone un
avvenimento particolare: nel 1693 Maddaloni, dopo un periodo di
carcerazione per aver favorito un abate criminale, venne liberato assieme ad altri nobili dal vicere alla notizia che era in avvicinamento la
flotta francese alla costa napoletana, con a capo della formazione
navale il figlio bastardo del re di Francia, Jean d'EstreÂes 14. Nella
graduatoria figura anche il principe di Avellino, ramo della grande
famiglia Caracciolo. Nato il 17 luglio del 1668, Marino III Francesco
Maria aveva sposato una sorella di Filippo Antonio Spinola, marchese
di Los BalbaseÁs, che era destinato ad essere uno degli uomini piuÂ
importanti del governo spagnolo durante il periodo della guerra di
successione, divenendo capitano generale, ambasciatore, vicere di Sicilia ed infine, nel 1715, consigliere di Stato. Per l'anonimo di Miletti,
Marino III ostentava una «sopraffina spagnolagine», anche perche la
duchessa di Terranova gli era nonna, ma soprattutto per il fatto che
egli possedeva in perpetuo «uno delli sette ufficij, ch'eÁ il Gran Cam11
Cfr. infra, cap. II, nt. 56.
Mentre in realtaÁ in una Lista dei Grandati di Spagna nel Regno di Napoli del 1703 vi eÁ
indicato come avente il diritto al «trattamento da Grande per la sua persona»: cfr. A.A.EÂ.,
Correspondance politique, Naples, vol. 18, f. 117v. Secondo Confuorto, op. cit. (cap. II, nt.
53), vol. II, pp. 256 e 285 cioÁ avvenne solamente nel 1697, data piu tarda di quella con cui eÁ
datato il documento.
13
L'avvelenamento del padre eÁ confermato dal Confuorto, op. cit. (cap. II, nt. 53),
vol. III, p. 117, che attribuiva la morte al tradimento del conte di Castrillo.
14
Ivi, vol. II, pp. 58-9.
12
III. La politica di Luigi XIV
127
merlangato del Regno», e temeva «che da un nuovo dominio gli potesse essere levato» 15. L'anonimo di Miletti non nutriva dubbio alcuno che il principe «siegue col genio la rettitudine del governo di
Francia», sia perche ha sostenuto a piu riprese che «se Napoli havesse
un re, che vi risiedesse, non vi sarebbe ne regno, ne vassallaggio piuÂ
felice», ma soprattutto perche egli riteneva che «il Regno non puol
durare in mano de' Spagnoli, e supponendo che il marchese de los
Valuases, troppo interessato nella Spagna e come genovese, potesse
restar privo del ducato del Sesto et altre terre, che nell'istesso Regno
possiede; onde si daÁ a credere, che la Francia potesse investirne i suoi
figli a causa della moglie figlia del marchese Spinola» 16. La sua famiglia
aspirava al Grandato, che peroÁ ottenne solamente nel 1707, a seguito
dell'arrivo degli Austriaci come prezzo del tradimento alla Spagna: il
principe Marino III s'era infatti messo alla testa del partito imperiale
per vendicarsi dell'ingratitudine degli Spagnoli, «al fianco dei quali si
era schierato nella congiura di Macchia ed aveva combattuto in Lombardia» 17.
Negli Abruzzi la famiglia piu potente era quella degli Avalos del
Vasto. Cesare, fratello minore di Ferdinando Emanuel d'Avalos d'Aquino Mendoza, marchese di Pescara, aveva ereditato dal 1690 il
titolo a seguito della morte del nipote Diego Francesco Emanuel 18.
Cesare eÁ indicato nella relazione francese come filospagnolo, ma secondo l'anonimo di Miletti la famiglia negli anni Novanta eÁ divisa sul
punto della fedeltaÁ, tant'eÁ che il marchese del Vasto, padre di Cesare,
«spera che la mutatione del Regno possa un giorno dare a questo tutto
lo splendore e lo stato della casa d'Avalos, per il quale intento egli
sarebbe il primo a seguire le armi francesi» 19. Un documento parigino
15
In Miletti, op. cit. (cap. II, nt. 21), pp. 210-1.
Ivi, p. 211.
17
Ivi, p. 212.
18
Confuorto, op. cit. (cap. II, nt. 53), vol. I, p. 298 e B. Aldimari, Memorie di
famiglie nobili cosõÂ spente, come vive del Regno di Napoli, e d'alcune altre forastiere, StamperõÂa
di Giacomo Raillard, Napoli 1691, vol. I, p. 16.
19
A.A.EÂ., Correspondance politique, Naples, vol. 12, f. 84v e Miletti, op. cit. (cap. II,
nt. 21), p. 203.
16
128
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
successivo (1697) insisteva invece sulle eccellenti qualitaÁ del marchese
di Pescara 20.
Ma altri due personaggi chiave vengono indicati nel documento
francese del 1693: il duca d'Atri ed il principe di Santo Buono. Il
primo, Giovan Girolamo Acquaviva d'Atri, eÁ descritto come di genio
francese: ne la relazione anonima di Miletti (che lo dipinge come di
«natura quieta» e che sebbene egli «non abbia avuto disgusto dalli
Spagnoli, ad ogni modo si ricordano le persecuzioni ricevute dal padre, strapazzato per cosõ dire ogni momento con carcerazioni vilipendiose»), ne i fatti relativi alla congiura di Macchia smentiranno il
giudizio della spia francese. Il duca d'Atri, cugino e cognato di Giulio
Acquaviva, durante la macchinazione si schieroÁ infatti dalla parte di
Filippo V e contro i parenti prossimi Acquaviva di Conversano 21.
Vecchi rancori lo spingevano nella direzione francese: l'antico smacco
subõÂto per il declassamento della cittaÁ di Teramo da principato a
ducato e l'assassinio per mano regia dello zio del padre, Andrea Conclubet marchese d'Arena, personaggio simbolo del rinnovamento culturale dell'aristocrazia napoletana, che agli occhi della monarchia spagnola aveva peccato della grave colpa di essersi prestato a soccorrere i
rivoltosi di Messina 22.
Il Conclubet, la cui casa era la sede delle riunioni dell'Accademia
degli Investiganti, fu assassinato il 24 aprile 1675 da Giacomo Milano, marchese di San Giorgio, che nella crudele modalitaÁ con cui
compõÂ la sua missione di morte non usoÁ «pontualitaÁ», anzi agõÂ con
«soverchiaria», come ricordava con sdegno il cronachista Confuorto.
Sia la memoria di Miletti sia altre fonti coeve indicano nell'efferato
omicidio un vero e proprio delitto di Stato, tant'eÁ che «gli Spagnoli
20
A.A.EÂ., Correspondance politique, Naples, vol. 12, ms. cit., cap. II, nt. 60, f. 132r,
Eclairessement sur les familles du Royaume de Naples.
21
F. Nicolini, Uomini di spada di chiesa di toga di studio ai tempi di Giambattista Vico,
Hoepli, Milano 1942, vol. I, pp. 34-42.
22
Anonimo in Miletti, op. cit. (cap. II, nt. 21), pp. 198-9. Notizie sul presunto delitto
di Stato e sulla consecutiva carcerazione in Confuorto, op. cit. (cap. II, nt. 53), vol. I, p. 62.
Sul ruolo avuto dal Conclubet nell'Accademia degli Investiganti, cfr. S. Mastellone,
Pensiero politico e vita culturale a Napoli nella seconda metaÁ del Seicento, D'Anna, MessinaFirenze 1965, p. 90.
III. La politica di Luigi XIV
129
non vollero far costare il delitto e salvorno l'uccisore marchese di San
Giorgio protegendolo in Palermo, e poi dopo alcuni anni, che ad
praeteritionem lo tennero in castello, lo liberorno ex capite innotiae,
rimandandolo ne' suoi stati in Calabria con isforzare il duca d'Atri, e
tutti i parenti dell'ucciso a dare le parole reggie per sicurezza dell'uccisore, che dalli Spagnoli fu stimato un sicario della Corona per
haver tolto dal mondo il piu odioso che havesse la medema, a pretesto, che havesse mandati soccorsi in Messina di vettovaglie» 23. In
effetti, sempre secondo il Confuorto, il 5 marzo 1681, al fine di
evitare la vendetta contro il marchese di San Giorgio, il vicere prese
come misura preventiva l'arresto di alcuni familiari ed amici del
Conclubet, affinche dessero «parola regia di non offendere» il sicario.
Finirono in carcere, per essere poi liberati il 30 aprile seguente dietro
pagamento di una cauzione, lo stesso duca d'Atri, Bartolomeo di
Capua, principe della Riccia, e suo figlio, Marino Caracciolo, principe della Torella, e suo figlio, Giovanni Battista Spinelli, marchese di
Fuscaldo e suo figlio 24.
Luigi XIV aveva giaÁ nel 1697 ricevuto dall'Acquaviva molte lettere in cifra, che dimostrerebbero antichi e consolidati rapporti tra la
famiglia napoletana e la Francia. Con esse Giovan Girolamo si dichiarava disposto alla morte del re di Spagna ad assumere l'incarico di
guidare il partito filo-francese per occupare il Regno. L'attacco sarebbe avvenuto attraverso le Puglie e, come suggerito anche in altri casi,
la conquista manu militari poteva avvenire esclusivamente attraverso
uno sbarco sulle coste adriatiche. Nelle lettere del principe al re di
Francia il nobile mostrava un grande odio verso l'«onnipotenza» dei
genovesi, padroni del Regnum grazie alle notevoli vendite del patrimonio demaniale 25. Nei fatti, tra la fine del Cinquecento e la prima
metaÁ del Seicento, s'era prodotto nei regni di Napoli e di Sicilia un
nuovo equilibrio sociale a seguito dell'infeudazione come segno del
radicamento dei grandi uomini d'affari genovesi nella societaÁ d'ordini
23
Anonimo in Miletti, op. cit. (cap. II, nt. 21), pp. 199.
Cfr. supra, nt. 22.
25
Cfr. A.A.EÂ., Correspondance politique, Naples, vol. 12, ms. cit., cap. II, nt. 60, ff.
132 e ss., tutti cifrati dal titolo Eclairessement sur les familles du Royaume de Naples.
24
130
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
del Mezzogiorno moderno 26. Tuttavia, l'esplosione di questi uomini
«nuovi» si attenuava nella metaÁ del Seicento, sicche la composizione
della grande aristocrazia terriera non subiva grandi mutamenti prima
della fine del XVIII secolo 27. I genovesi erano troppo legati alla Corona spagnola e anche le loro strategie matrimoniali con famiglie indigene, messe in atto per meglio radicarsi nella realtaÁ meridionale,
risultavano in questa fase ricche di risvolti ambigui, come nel caso
prima citato del principe di Avellino. Costui s'aspettava dalla Francia
la concessione dei feudi di cui era titolare il cognato, Filippo Antonio
Spinola, in quanto genovese e troppo legato alla Spagna. Se cioÁ non
avvenne fu perche il marchese di Los BalbaseÁs s'integroÁ invece pienamente nella nuova classe dirigente che si era creata attorno a Filippo
V. Ci eÁ lecito dunque pensare che il passaggio di Marino III dalla parte
austriaca sia in parte da attribuire al fallimento della sua ipotesi di
consolidamento economico della propria famiglia a discapito di quella
del cognato genovese.
Altro personaggio citato nel documento francese del 1693 eÁ
Marino Caracciolo, IV principe di Santo Buono: eÁ dipinto come un
individuo troppo interessato alla carriera ed al perseguimento dei
propri privati interessi, ragione per cui non mostra ne fede, ne preferenze politiche. Eppure, il figlio Carmine NiccoloÁ, V principe di
Santo Buono e duca di Castel di Sangro, verraÁ premiato per la sua
fedeltaÁ franco-spagnola. Era Grande di Spagna di prima classe, ma
quella onoreficenza era stata ottenuta dal padre nel settembre del
1687, grazie all'intervento di Domenico Giudice, duca di Giovinazzo, che avrebbe cosõÂ ricambiato l'impegno del principe per la sua
aggregazione al seggio di Capuana. Poi divenne ambasciatore spagnolo a Venezia ed in seguito vicere del Peru 28. Cugino di primo grado
26
A. Musi, Mercanti genovesi nel Regno di Napoli, Napoli 1996.
G. Delille, Famiglia e proprietaÁ nel Regno di Napoli, XV-XIX secolo, Einaudi,
Torino 1988, p. 70.
28
R. Barometro, Caracciolo Carmine Nicola, voce del Dizionario Biografico degli Italiani, vol. XIX, 1976, p. 328. Carmine era nato nel 1671 ed era morto nel 1726. In A.A.EÂ.,
Correspondance politique, Naples, vol. 15, f. 283, lettera di Santo Buono al re di Francia,
datata 2 giugno 1702, con la quale il principe comunica la nomina ad ambasciatore di Spagna
a Venezia.
27
III. La politica di Luigi XIV
131
del duca d'Atri, nel 1702 invioÁ al re di Francia un interessante
memoriale, del quale daremo conto poco piu avanti nel tentativo di
cogliere altre ragioni della fede politica nella monarchia d'Oltrealpe.
2. Santo Buono indica i «rimedi»: giustizia e decentramento
Il duca di Saint-Simon aveva conosciuto personalmente Carmine
NiccoloÁ Caracciolo e lo aveva frequentato sovente durante la propria
missione in Spagna come ambasciatore di Francia. Ne aveva tratto
un'ottima impressione: «c'eÂtait un fort honneÃte homme, treÂs consideÂreÂ, d'une conversation charmante et instructive» 29. Gradevole era
anche la sua famiglia, formata dalla moglie, una Ruffo di Bagnara, e da
quattro figli, anch'essi come il padre «fort honneÃtes gens», che tuttavia alla morte del principe preferirono ritornare nel regno di Napoli,
percheÂ, a dire del Pari di Francia, la Spagna era ostile allo straniero
che non possedesse grandi e forti legami in quella terra, tali da convincerlo a restarvi 30. Il principe di Santo Buono soffriva di gotta, ma
in PeruÂ, durante il suo viceregnato, aveva sperimentato un'erba medica esente dalle controindicazioni dei rimedi europei, che se guarivano i sintomi del malanno, alla lunga finivano con l'uccidere il paziente. La gotta tuttavia non gli impediva di praticare il suo passatempo preferito, la caccia, alla quale, seduto su di un tabouret sollevato
da valletti, accompagnava Filippo V: per il critico duca quest'ultimo
privilegio era piuttosto segno dell'autorevolezza del personaggio e
della grande stima che lo circondava, ma non del rango, giacche egli
non aveva raggiunto il grado di Consigliere di Stato 31.
Egli era un uomo di pregio, tanto eÁ vero che il re di Francia gli
chiese di esprimere il proprio parere «sul sistema presente del governo del Regno di Napoli» in particolare cioÁ «che riflette al militare
come al politico et economico» 32. Il 14 marzo del 1702, per il tramite
29
Saint-Simon, MeÂmoires (1721-1723), vol. VIII, eÂdition eÂtablie par Yves Coirault,
Gallimard, Paris 1988, p. 134.
30
Ivi, p. 135.
31
Ibidem.
32
A.A.EÂ., Correspondance politique, Naples, vol. 15, ff. 117r-34v.
132
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
del cardinale de Janson, il principe rispondeva alla regale richiesta.
Per quel che riguarda le osservazioni sulla situazione del regno, la
relazione del Santo Buono non differisce punto dalle precedenti che
abbiamo esaminato fin qui; ma eÁ la parte propositiva, quella relativa
alle possibili riforme, che si lascia apprezzare per spunti di maggiore
interesse.
V'eÁ da dire innanzitutto che il principe denuncia lo strapotere
del ceto togato nella Capitale, mostrando come l'indebita ingerenza
del Collaterale anche in materia militare indebolisca ulteriormente la
giaÁ precaria situazione del Regno. La fortezza di Capua, progettata
dal geniale ingegnere militare Gian Giacomo dell'Acaya, barone di
Segine, per la quale Carlo V aveva previsto una rendita annua di
tremila scudi, veniva governata da un «ministro togato» ed i frutti
che si erano accumulati, ammontanti oramai a cinquecentoquarantamila ducati, venivano destinati dal Collaterale per scopi non bellici,
mentre il reggente che amministrava la fortezza ne ricavava un compenso di seimila ducati annui 33.
Per il principe il disordine dilagante nel ramo della giustizia «civile» risiedeva maggiormente nello svilimento degli oneri professionali connessi alle cariche di toga, offerte senza avere alcun riguardo al
merito ed alle capacitaÁ, ma esclusivamente in base ai prosaici criteri
della venalitaÁ e delle clientele. CosõÂ occorreraÁ che il nuovo re licenzi
«coloro che ne stimeraÁ incapaci», per «ripurghare questo corpo politico dolcemente, in modo che fra pochi anni si riduca a' quello stato di
perfezione, che piu d'ogni altra cosa puol accrescere la gloria di S. M.
e l'amore de' Popoli verso di lui, essendo veramente questa operazione quella che [eÁ] piu attesa da tutto il Regno, troppo afflitto et annoiato dall'essersi perduta ogni memoria di giustizia civile» 34.
Santo Buono ricordava che, all'avvento al trono del duca d'AngioÁ, s'era sparsa la notizia della riforma delle procedure processuali
33
Il forte di Capua, detto pure di Carlo V, fu costruito su un progetto del 1542 dallo
stesso architetto e i lavori furono diretti dall'ingegnere capuano Ambrogio Attendolo. Sulla
tecnica costruttiva utilizzata dal Dell'Acaya, cfr. A. Monte, Una cittaÁ fortezza del Rinascimento meridionale, Ed. del Grifo, Lecce 1996.
34
A.A.EÂ., Correspondance politique, Naples, vol. 15, f. 123v.
III. La politica di Luigi XIV
133
per rimediare alla prassi giudiziaria che tendeva da «trent'anni in
quaÁ» ad «eternare» le cause, «velandosi tal pernicioso stabilimento
colli pretesti di politica e di buon governo, cioeÁ di mantenere la gente
occupata ne' tribunali, di dar da vivere a tanti curialisti (che non
saranno in Napoli meno di trentamila) et in fine di mantener le forze
d'ognuno atterrate e non permettere l'accrescimento della robba di
chisisia, benche si conoschi chiaramente che da altri posseduta» 35.
Per il principe, memore del tumulto popolare scoppiato per la congiura di Macchia, al quale avevano partecipato «gran parte di simil
razza di curiali sfacendati ed inutili», sarebbe molto meglio trovare il
modo d'occupare i giovani nelle «buone arti meccaniche» e nel commercio piuttosto che nell'avvocatura 36.
Ma la causa dei disordini nell'amministrazione della giustizia
risiedeva massimamente nel modo con cui si compiva il cursus honorum della magistratura, che non s'ispirava al criterio della gradualitaÁ
della progressione di carriera e di promozioni concesse in rispetto del
merito e dell'anzianitaÁ nel servizio, ma procedeva per balzi irregolari,
che premiavano spesso i giurisperiti peggiori. PercioÁ, egli chiedeva
che si riprendesse l'uso di «pigliare da' Tribunali quei giovani che piuÂ
fiorivano nell'avvocazione e di mandarli Auditori nelle provincie, e
dopo aver girato o tutte o buona parte d'esse, e che per conseguenza
s'erano ben informati colla visual ricognizione dello stato del Regno,
si passavano ai giudicati di Vicaria, accioÁ s'ammaestrassero non meno
nel criminale che negl'atti ordinatori, di dove passando doppo ai
Tribunali maggiori del Consiglio o delle Camera potevano amministrare con tante cognizioni un'intiera giustizia e rendersi capaci d'ascendere al primo ministiero del Regno, ch'eÁ la carica di Reggente del
Collaterale» 37. Eppure la riforma della giustizia veniva strettamente
collegata ad una profonda riconsiderazione del rapporto centro e
periferia, cioeÁ quello tra la capitale e le province del regno, che aveva
creato la «mostruositaÁ impropria di esser piu grande il capo di tutt'il
35
36
37
Ivi, f. 123v.
Ivi, f. 124r.
Ivi, f. 126r-v.
134
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
corpo», «calculandosi effettivamente d'esserci piu popolo in Napoli
ch'in tutt'il resto del Regno» 38.
Il problema istituzionale di centralizzare il controllo della giustizia regnicola diviene il pretesto perche il Santo Buono avanzi la sua
proposta di una profonda riforma delle istituzioni giudiziarie, ritenuta propedeutica per la necessaria inversione del trend secolare che
aveva svilito l'intera nazione con la crescita spropositata ed irrazionale della capitale: «pregiudizialissimo abuso introdotto e sempre piuÂ
accresciuto nei Tribunali di Napoli d'avocare in essi tutte le cause del
Regno, anche minime e di pochi scudi, a segno che nell'Udienze
provinciali non ve ne resta pur'una, benche minima e di bagatella,
che in grado d'appellatione non siano nuovamente giudicate ne' Tribunali di Napoli» 39. Da lõÂ la proposta d'istituire «Tribunali Supremi
di giustizia» nelle quattro province del regno, «scegliendosi per tale
effetto le cittaÁ piu salubri d'aria, abbondanti e ben situate» 40. Gli
effetti di questa modifica delle istituzioni giudiziarie sarebbero stati
diretti ed indiretti: i primi avrebbero riguardato lo stabilimento di un
buon governo nell'amministrazione della giustizia, i secondi avrebbero capovolto lo squilibrato rapporto tra la capitale e le province, a
loro vantaggio. Un'altra riforma, necessaria per sottrarre dalla morsa
asfissiante dell'accentramento amministrativo le province, sarebbe
stata la fondazione di altre UniversitaÁ degli Studi, anch'esse rimedio
alla congestione della metropoli e speranza di liberazione per «molti
spiriti elevati» provinciali 41.
Con il riequilibrio del rapporto tra centro e periferia, considerato fondamentale per il risanamento del regno di Napoli proprio a
partire da una radicale rivoluzione delle istituzioni giudiziarie, Santo
Buono chiedeva la riforma della amministrazione pubblica, il rilancio
del sistema militare sia statico che dinamico, lo sfruttamento intensivo delle risorse del sottosuolo, la riorganizzazione del trasporto
marittimo. Accompagnava tali proposte con l'invito ai «signori fran38
39
40
41
Ivi, f. 128r.
Ivi, f. 127r.
Ivi, f. 128r.
Ivi, ff. 129r-30v.
III. La politica di Luigi XIV
135
cesi» d'investire in maniera massiccia nel Sud d'Italia per creare
stretti rapporti commerciali tra i due paesi 42. La centralitaÁ della
riforma giudiziaria era dal nobile proposta negli stessi termini con
cui il togato Serafino Biscardi si era rivolto al re di Francia. Tra gli
esponenti piu intelligenti e rappresentativi del ceto nobiliare e del
ministero togato v'era concordia sulle diagnosi e sui propositi di cambiamento, ma la prassi politica degli anni a venire provvide a rompere
quest'armonia d'intenti che coinvolgeva solo gli esponenti piu illuminati del riformismo napoletano. Nelle pagine seguenti tenteremo
d'illustrare il come ed il perche l'intesa non riuscõÂ. I fattori endogeni
che incrociarono la politica francese nel regno di Napoli finirono per
sommarsi all'evoluzione del sistema politico internazionale: questa
miscela esplosiva fece in modo che gli austriaci conquistassero facilmente il regno continentale e lo governassero per ben ventisette anni.
Solamente nel 1734, il felice ed inaspettato epilogo dell'avventuroso
tentativo di Elisabetta Farnese di dare un regno al figlio don Carlos
sembroÁ poter rimuovere le cause della schizofrenõÂa che aveva contagiato il Mezzogiorno continentale in seguito alla sua decadenza a
viceregno.
Infatti cioÁ che caratterizzoÁ i primi anni dell'indipendenza restaurata, ossia della «restituzione del Regno» (come gli storici di un
tempo erano soliti indicare quella svolta entusiasmante), fu l'orgoglio di avere finalmente un «re proprio», rampollo di una delle piuÂ
illustri famiglie d'Europa, giovane, ricco e generoso. Esplosione di
entusiasmo che conferma la diagnosi qui formulata all'inizio del
precedente paragrafo, nata da un particolare della relazione anonima francese del 1693: la popolazione era vissuta in un disordine
schizofrenico, dovendo appartenere contemporaneamente a tre nazioni, in lotta tra di loro. Un profondo e sottile motivo di scoraggiamento era la sindrome di chi soffre la mancanza di punti di
riferimento attendibili, di chi eÁ orfano di autoritaÁ familiari e credibili, di chi eÁ paralizzato dalle incertezze. I ``regnicoli'' videro improvvisamente installarsi sul trono di Napoli il segno e l'emblema di
42
Ivi, f. 130v per l'appello ai commercianti francesi.
136
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
un'unitaÁ civile, un padre simbolico: era giovane, ma nuova voleva
essere anche la comunitaÁ delle Sicilie, ossia un organismo radicalmente rigenerato.
3. Il tentativo di ridimensionare il Collaterale: l'azione di La TreÂmoõÈlle
Mentre la famosa madame des Ursins tesseva la sua tela nella corte e
nel governo di Filippo V, riscuotendo il successo della linea politica del
re e della Maintenon, a Napoli venne inviato il fratello della principessa, Joseph Emmanuel de La TreÂmoõÈlle, nel tentativo di manovrare
meglio la vita politica dell'Italia meridionale 43. Fu infatti preciso ordine di Luigi XIV che, nel dicembre del 1702, quell'abate si spostasse da
Roma, dove risiedeva per collaborare con l'ambasciatore francese Janson, nella capitale partenopea 44. Il compito che gli era stato affidato dal
monarca era di sostenere il vicere di Napoli in un momento estremamente delicato dei rapporti tra il Vaticano ed il regno meridionale
dopo l'incidente provocato dal Collaterale con la corte romana per la
mancata estradizione del ribelle Aniello Migliaccio, che, dopo aver
partecipato alla congiura di Macchia, si era rifugiato a Benevento, cittaÁ
sotto la giurisdizione romana 45. Nella missiva Luigi XIV esprimeva
chiaramente l'intento di dare maggiori poteri al vicere in materia
giurisdizionale, sottraendoli al Collaterale. CosõÂ un mese dopo l'arrivo
del francese a Napoli, correvano voci insistenti sui suoi reali compiti
43
Sul ruolo di Anne Marie de La TreÂmoõÈlle (vedova in seconde nozze di Flavio degli
Orsini, amica della Maintenon e passata alla storia come princesse des Ursins) e sulle vicende
che la videro protagonista, rimandiamo a Saint-Simon, MeÂmoires, cit. (cap. II, nt. 51), ad
indicem ed a Baudrillart, cit. (cap. I, nt. 50), passim. Sul fratello, Joseph Emmanuel,
nominato cardinale nel 1706 alla fine della sua missione a Napoli, si veda il giaÁ citato
Saint-Simon, ad indicem.
44
A.A.EÂ., Correspondance politique, Naples, vol. 16, ff. 177-181, Luigi XIV all'abate di
La TreÂmoõÈlle.
45
Un incidente simile era giaÁ avvenuto nel febbraio del 1701 a L'Aquila per un caso di
confugio di un delinquente napoletano, tale Caruso: v. la relazione di Medina-Celi a Luigi
XIV del 20 dello stesso mese in A.A.EÂ., Correspondance politique, Naples, vol. 13, ff. 10v-3v.
Sulla volontaÁ di Luigi XIV di dare maggiori poteri al vicere in materia giurisdizionale,
sottraendola al Collaterale, cfr. A.A.EÂ., Correspondance politique, Naples, vol. 16, lettera
di Torci a TreÂmoille del 26 ottobre 1702 (ff. 177-81) e dello stesso abate al ministro francese
del 14 dicembre (f. 243r e ss.).
III. La politica di Luigi XIV
137
politici, ed era descritto come il vero vicere del regno 46. Tra Versailles,
Madrid, Napoli e Palermo era un continuo rimbalzare di voci: i due
fratelli de La TreÂmoõÈlle erano legati al piu potente gruppo di potere
della Francia di quegli anni e ne rappresentavano i terminali in Spagna
e a Napoli 47. Come vedremo nelle pagine seguenti, non fu facile per
l'abate far quadrare il cerchio di un'improbabile concertazione tra la
politica della Santa Sede, del vicere e l'estremismo giurisdizionalistico
del Collaterale. Dentro questa vicenda, tutta segnata dal duro scontro
politico tra il ministero togato e lo Stato pontificio, venne a consumarsi
l'intera stagione francese a Napoli. Nel 1706, al termine della sua
missione, il figlio del duca di Noirmoutier fu nominato cardinale,
sicuramente per ricompensarlo dei servizi resi dalla sua famiglia al
gruppo di potere della Maintenon. Di questa realtaÁ occorre tenere
conto per comprendere meglio l'intera vicenda.
Al dire di due testimoni diretti, il duca di Saint-Simon e Charlotte Elisabeth de BavieÂre, duchessa di OrleÂans, nella Corte di Francia operavano in quel frangente tre gruppi di potere contrapposti,
«tout la Cour se partage entre les trois cabales»: «les uns veulent
obtenir la faveur de la puissante dame [cioeÁ la Maintenon], les autres
celle de Monsieur le Dauphin [Monseigneur, figlio de Louis XIV],
d'autres encore celle du duc de Bourgogne [nipote di Luigi XIV e
figlio del precedente] 48. Considerando che i due duchi si frequentavano molto poco, sia per motivi gerarchici sia a causa di una reciproca
46
Ivi, vol. 17, TreÂmoõÈlle a Torci, Napoli 4 gennaio 1703, f. 4r-v. Nella lettera (in parte
cifrata) il nobile confessava al ministro francese che egli sperava di non aver urtato il governo
spagnolo, dal momento che il vicere di Napoli non mostrava affatto di dispiacersi della sua
intromissione nella politica interna.
47
Sulla geografia del potere nella corte di Versailles nell'etaÁ della successione di Spagna, rimandiamo al giaÁ citato Saint-Simon ed all'interpretazione di Le Roy Ladurie, op. cit.
(cap. I, nt. 49), pp. 181-235: «le groupe exerce aussi une certaine influence internationale,
notamment en Espagne, aÁ travers Mme des Ursins et la premieÂre femme de Philippe V, qui
n'est autre que la súur de la duchesse de Bourgogne [...]; ces deux princesses sont en bons
terms avec la Maintenon, et l'une avec l'autre» (p. 212).
48
Correspondance de Madame, duchesse d'OrleÂans, extraite de ses lettres originales
deÂposeÂes aux Archives de Hannovre et de ses lettres publieÂes par M.L.-W. Holland, traduction et notes par Ernest JargleÂ, E. Bouillon, Paris 1890 (2 ed.), vol. II, pp. 101-2 (lettere
del 28 septembre 1709 e del 23 deÂcembre 1710).
138
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
antipatia, e che i due testi qui utilizzati rimasero inediti per molto
tempo ancora dopo la morte di entrambi, l'esatta coincidenza tra le
due testimonianze eÁ prova inconfutabile dell'esistenza nella Corte
dei conflitti accennati 49.
Il primo gruppo, guidato dalla Patronne, era il piu potente, perche piu vicino al re. Ne facevano parte i residui delle vecchie dinastie
mandarinali (i Le Tellier-Louvois, il clan Colbert e i PheÂlypeaux);
Blouin, primo valletto di camera del re; il maresciallo di Bloufflers; il
cancelliere di Pontchartrain e tanti altri nomi illustri. Come abbiamo
notato, quel centro di potere esercitava inoltre una notevole influenza internazionale, soprattutto in Spagna, attraverso Madame des Ursins, influente sulla prima moglie di Filippo V, e a Napoli, con l'abate
La TreÂmoõÈlle. Al fine di comprendere meglio la politica francese nella
corte romana, occorre segnalare l'atteggiamento del gruppo Maintenon verso gli affari religiosi. Per Le Roy Ladurie la cabala dominante
aveva adottato un atteggiamento «centro-destristra», cioeÁ antigiansenista, non del tutto allineato alle posizioni dei gesuiti ma piuttosto
a quelle del seminario delle Missions eÂtrangeÁres (piu rigido nella difesa
dell'ortodossia) ed all'ordine di Saint-Sulpice 50. Inoltre, la Maintenon conosceva bene ed usava spesso l'influenza regionale del potente
reÂseau dei vescovi francesi, ruolo ecclesiastico nel quale l'aristocrazia
di spada, di toga e finanziaria ambiva d'inserire i propri cadetti 51.
Quest'ultimo aspetto c'interessa da vicino, nella considerazione della
forte pregiudiziale antifrancese posta dal Vaticano, che fu massima
negli anni del papato di Innocenzo XI, costretto a fronteggiare le
pretese del gallicanesimo e del ceseropapismo di Luigi XIV 52. La
frizione tra Francia e Roma raggiunse alti livelli di tensione con il
conclave e con il nuovo pontefice, giaÁ da quando si era intensificato il
lavorõÂo diplomatico dei cardinali francesi 53. Tra l'altro, occorre ricor49
Le Roy Ladurie, op. cit. (cap. I, nt. 49), pp. 181-235.
Ivi, p. 190.
51
Ivi, p. 221.
52
Cfr. L. Von Pastor, Storia dei papi dalla fine del medioevo, vol. XIV, parte II,
DescleÂe & C. Editori Pontifici, Roma 1932, pp. 180-6.
53
Ivi, p. 390.
50
III. La politica di Luigi XIV
139
dare che negli anni Ottanta la rappresentanza degli interessi francesi
nella Corte romana era tenuta dai due fratelli CeÂsar e FrancËois d'EstreÂes, il primo cardinale, il secondo ambasciatore, ambedue molto
invisi alla Curia. Alla fine, il 6 ottobre 1689, la Francia subõÂ l'elezione del veneziano Pietro Ottoboni, che nei fatti successivi si riveloÁ
profondamente antifrancese.
Ogni sorta di speculazione storiografica eÁ stata tentata per cogliere il senso delle fluttuazioni della politica francese nei confronti
della Curia romana. Come spiegare la soppressione del protestantesimo francese nel 1685? In quell'occasione Luigi XIV volle apparire
come il campione dell'ortodossia cattolica con un atto di superbia nei
confronti della Chiesa romana, o piuttosto la sua scelta antiprotestante fu il segno ch'egli intendeva percorrere la strada della filiale
deferenza verso il Pontefice? In questa seconda ipotesi, forse la piuÂ
probabile alla luce di quelli che saranno i risvolti successivi, il ruolo
che ebbe la Maintenon sarebbe da considerare fondamentale 54. E a
cioÁ si aggiunga il problema della sensibilitaÁ religiosa del monarca, che
da piu fonti ci viene testimoniata come improntata ad una forma di
devozione cieca che si affidava a bigotti consiglieri 55. Questi ed altri
elementi ci fanno propendere per la seconda congettura, cosicche la
riappacificazione con il Pontefice, a dieci anni dalla grave crisi del
1682, appare frutto d'un compromesso che avvenne a stadi graduali.
Nel 1693 Luigi XIV abolõÂ l'obbligo d'insegnare nelle UniversitaÁ la
dichiarazione dei quattro articoli, ricevendo in cambio l'accettazione
delle nomine di quaranta vescovi: questo fu il primo di tanti atti
politici che segnarono un profondo e progressivo ammorbidimento
delle proprie posizioni nei confronti del Vaticano 56.
Dopo lo scoppio della congiura di Macchia, la Francia spinse per
54
Mandrou, Louis XIV en son temps, cit. (cap. I, nt. 49), pp. 348-75.
Ivi, pp. 374-5. Lo storico riporta l'incisiva testimonianza della principessa palatina,
che nel 1711 scriveva: «Le roi est un bon chreÂtien, mais treÂs ignorant dans les choses de la
reÂligion; il n'a, de sa vie, lu la Bible; il croit tout ce qui lui disent le preÃtes et les faux deÂvots;
il ne faut donc pas eÃtre surpris s'il s'est eÂgareÂ; on lui dit qu'il doit agir de telle manieÁre; il ne
sait mieux faire, et il croirait se damner s'il eÂcoutait d'autres conseils que ceux de se
conseillers ordinaires».
56
Ivi, p. 380.
55
140
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
l'allontanamento di Medina-Celi da Napoli, offrendogli in cambio il
Consiglio delle Indie, «une place fort lucrative» (Saint-Simon), sebbene, prima della riconferma a Napoli per un ulteriore triennio, egli
stesso avesse chiesto al re di Francia di occupare un posto nel Consiglio
d'Italia 57. Fu allora inviato nella cittaÁ partenopea il piu fidato Giovanni Emanuele Pacheco Fernandez, duca di Escalona e marchese di
Villena, ch'era stato da poco nominato vicere di Sicilia, e poi sostituito
ad interim dal cardinale del Giudice. D'altronde, l'affidabilitaÁ di Villena era testimoniata persino dai suoi costumi: egli «n'eÂtait point espagnol pour l'habit: de sa vie il n'avait porte golille ni l'habit espagnol; il
le disait insupportable, et partout fut toute sa vie veÃtu aÁ la francËaise» 58.
Appena giunto a Napoli, Villena si rese conto che il nodo della
fedeltaÁ alla nuova dinastia era costituito dalla confiance nel debito
pubblico e che proprio in questo ambito delicato la situazione era
veramente disastrosa, al punto ch'era difficile piazzare «los efectos
de el ultimo Donatibo, que son de la meyor calidad en el reyno» 59.
Nel 1702, Janson si trasferiva a Napoli per curare la prossima visita
di Filippo V. Conosciuto il nuovo vicereÂ, il cardinale scriveva al re di
Francia le impressioni riportate: Villena era un uomo «freddo» e
«particolare», con poco talento per un incarico cosõÂ delicato, anche
se il conte di Marcin lo aveva accreditato come il migliore politico
spagnolo. D'altronde, «les ministres d'Espagne ne peuvent prendre
aucune resolution. Il raisonnent beaucoup, mais ils ne conclurent
rien. Ils sont si accoutumeÂs aÁ laisser les affaires dans la confusion
et dans le desordre, qu'ils auroit bien de la peine aÁ changer de conduite. Tout ce qu'on peut faire, c'est de leur remontre et attendre
que Dieu y mette la main». Una ragione sufficiente perche il cardiA.A.EÂ., Correspondance politique, Naples, vol. 14, passim per la corrispondenza tra
Luigi XIV, Medina Celi e Torci. Per la prima richiesta di Medina Celi, cfr. anche vol. 13,
dispaccio del cardinale de Janson a Luigi XIV con memoriale anonimo accluso. Il vicereÂ
partiva da Napoli lasciando debiti per duecentocinquantamila ducati, come denunciarono a
Torci i creditori napoletani: ivi, vol. 14, ff. 70r-5v.
58
Saint-Simon, MeÂmoires, op. cit. (cap. II, nt. 35), vol. I, pp. 852-853.
59
A.A.EÂ., Correspondance politique, Naples, vol. 14, copia di lettera di Villena a Filippo
V del 12 aprile 1702, f. 106 ss.
57
III. La politica di Luigi XIV
141
nale controllasse le mosse di Villena piu da vicino, tenendo con lui
una corrispondenza piu fitta ed orientata a dirigerne ogni mossa 60.
Nel 1702, la tensione tra i due governi italiani aveva infatti
raggiunto il livello di guardia, mentre appariva chiaro che il Collaterale aveva scelto la strada del non ritorno nelle relazioni tra il
regno e la chiesa romana, pensando di poter sfruttare gli ampi spazi
di libertaÁ politica che sembravano aprirsi con la nuova dinastia 61.
L'operazione di polizia extra-territoriale voluta dal Collaterale per
catturare il ribelle era costata la scomunica dell'autorevole avvocato fiscale della Sommaria, Vincenzo de Miro, e del consigliere Consalvo Machado, che, scortati da birri, avevano eseguito manu militari la cattura del reo in territorio pontificio. Ma l'incidente diplomatico tra i due regni non era un caso isolato, giacche era stato
preceduto da una dura controversia tra lo Stato napoletano e l'arcivescovo di Sorrento, che aveva cercato di controllare i bilanci
delle estaurite di Piano, cappelle da lungo tempo amministrate dai
laici, perche ritenute di natura regia 62. Il Papa usava il ricatto della
scomunica per condizionare l'esito della controversia. In questo
caso lo strumento era stato rivolto contro l'intero Collaterale e
contro il vicereÂ, costringendo il gioco diplomatico a spostarsi infine
dentro la curia romana, dove lo spagnolo Uceda e il francese Janson
divenivano i veri arbitri della politica interna napoletana 63.
Il supremo organo giurisdizionale del Regno era guidato dall'emergente e prepotente personalitaÁ di Serafino Biscardi, ch'era stato
scelto come un interlocutore molto autorevole dal potente ministro
Torci. La pesante censura francese sull'attivitaÁ del Collaterale sarebbe stata allora una delle potenti molle che avrebbe poi spinto Biscardi
60
A.A.EÂ., Correspondance politique, Naples, vol. 15 ss., Napoli, 18 aprile 1702, Janson
a Luigi XIV, ff. 203v-6r; mentre per la citazione dell'altra lettera di Janson al re di Francia,
aprile 1702, f. 221r-v.
61
Sulle vicende descritte qui sulla base della sola documentazione francese, v. la
narrazione precisa, condotta sui notamenti del Collaterale, da Luongo, Serafino Biscardi,
cit. (cap. II, nt. 45), pp. 183-236. Il giurista cosentino, adottando la dialettica consueta
tra Stato-Chiesa, aveva sperato che da Parigi venisse maggior energia.
62
Ivi, p. 196 ss..
63
V. A.A.EÂ., Correspondance politique, Naples, voll. 15-22, passim.
142
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
verso l'opzione politica austriaca. CioÁ spiegherebbe l'improvviso silenzio del togato con il membro del governo francese, dopo aver ben
compreso le strategie politiche del re di Francia. Come bene intuisce
Dario Luongo, l'iniziale netta presa di posizione filoangioina di Biscardi condizionoÁ per qualche tempo gli sviluppi della sua politica
ecclesiastica. Una serie di vicende mostra che il reggente calabrese
assunse in materia giurisdizionale posizioni improntate a maggiore
moderazione rispetto a quelle espresse nella prima fase della sua
carriera ministeriale. Si trattava ovviamente di atteggiamenti sempre
dettati da considerazioni di opportunitaÁ, che non implicarono alcuna
rinuncia sul piano dei princõÂpi all'esigenza di difendere lo Stato contro le prevaricazioni ecclesiastiche. Le ragioni di questo ripiegamento
furono chiaramente dovute alla necessitaÁ di non esacerbare i contrasti con la Curia romana in un momento di grave difficoltaÁ internazionale per l'incalzare degli eventi bellici 64.
Il 21 ottobre del 1702 il vicere Villena chiedeva a Luigi XIV
d'intervenire direttamente sul governo spagnolo, lamentando la
cattiva amministrazione del Consiglio d'Italia, sia negli affari politici sia in quelli finanziari 65. Il vicere mirava evidentemente a mettere in discussione i canali politici che tradizionalmente avevano
gestito i rapporti tra Spagna e Napoli, e la sua azione era condivisa
dal re di Francia, che gli assicurava l'appoggio presso il governo
madrileno 66. Il compito del TreÂmoõÈlle era di consigliare e convincere il vicere a modificare gli assetti costituzionali del regno napoletano, facendo in modo che egli fosse il solo responsabile della politica estera. Per questa ragione, secondo il francese, occorreva muoversi contro le «maximes du Collateral, ou Conseil de ce pays, qui
sont enteriement opposeÂes a cette union [quella tra i due Stati], et
c'est encore un des desordres attache a ce royaume, auquel il semble
qu'il ne doit manquer aucune» 67. In realtaÁ, era stato lo stesso Luigi
64
Luongo, op. cit. (cap. II, nt. 45), pp. 195-6.
A.A.EÂ., Correspondance politique, Naples, vol. 16, Napoli, Villena a Luigi XIV, f.
167r-v. Sull'orientamento parigino influivano scelte strutturali e costituzionali.
66
Ivi, Versailles s.d., Torci a Villena, f. 169r.
67
Ivi, lettera di TreÂmoõÈlle a Torci del 26 ottobre 1702.
65
III. La politica di Luigi XIV
143
XIV a dare legato a TreÂmoõÈlle, affinche si adoperasse per l'affrancamento dell'esecutivo dal Collaterale e dall'intero sistema dei Consejos, come dimostra l'appoggio che il re di Francia dava al vicereÂ
napoletano in materia giurisdizionale presso il governo di Madrid 68.
Ma l'attacco francese al Collaterale era ben piu radicale: esso
mirava a sottrarre all'organo anche le altre materie di Stato, dalle
finanze alla guerra. Si trattava di settori nevralgici, per i quali occorreva procedere ad una profonda ristrutturazione, facendo ben attenzione a non far perdere al pubblico la confiance nello Stato napoletano. Tuttavia la ricerca di nuovi assetti costituzionali nel governo
napoletano avrebbe significato la creazione di pericolose situazioni di
disequilibrio, delle quali potevano approfittare gl'imperiali, sempre
pronti ad attraversare l'Adriatico.
La condizione di stallo in cui versava l'azione francese nella
parte bassa dello Stivale apparve molto chiara al baÃtard de France, il
conte d'EstreÂes, non appena la flotta da lui guidata per accompagnare
il nuovo re a Napoli approdoÁ in questa cittaÁ. Qui il vicere ha «peu
d'autorite et de credit», tuttavia risulterebbe pericoloso proporre
qualunque modifica negli assetti di governo del regno. Il recente
trasferimento ad altri incarichi del Luogotenente e del Fiscale della
Sommaria s'era dimostrato un errore tragico, che aveva fatto perdere
credito alla soliditaÁ degli investimenti statali. E gli imperiali non
facevano altro che rimarcare questi elementi per potenziare il veleno
della propaganda anti-borbonica 69. In quelle condizioni era impossibile spostare anche uno solo dei puntelli su cui si fondava l'edificio
secolare creato dalla dominazione spagnola.
4. Lo scontro con la chiesa romana e la censura francese
Nel 1701, l'arcivescovo di Sorrento, Filippo Anastasio, aveva
tentato di far valere un'antica rivendicazione ecclesiastica, cioeÁ il
68
Cfr. le lettere di TreÂmoõÈlle a Torci del 26 ottobre, del 2 novembre, del 14 e del 18
dicembre 1702 in ivi, rispettivamente ai ff. 177r-81r, 187r-v, 243 ss., 213r-v.
69
Napoli, 24 dicembre 1702, Victor Marie, comte d'EstreÂes a Janson, in ivi, ff. 249r56r. L'impatto del costituzionalismo francese divenne allora evidente.
144
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
controllo dei bilanci delle cappelle amministrate dai laici, altrimenti
dette estaurite 70. Questa competenza esclusiva degli amministratori
laici contro le ingerenze degli arcivescovi era da secoli difesa in
maniera inflessibile e con accanimento dal potere civile 71. Alla base
dei continui attacchi da parte ecclesiastica era la convinzione che
nessun diritto positivo avesse stabilito la natura regia delle estaurite, mentre la parte laica replicava che gli atti fondativi di esse erano
andati distrutti durante l'assedio ed incendio subõÂto da Piano di
Sorrento nel 1545. L'arma usata dall'arcivescovo Anastasio fu la
scomunica degli amministratori, ragion per cui egli fu invitato dal
vicere a portarsi nella capitale, ad audiendum verbum regis. Ma quell'ordine non portoÁ a raggiungere alcuna soluzione della vertenza ed
il Collaterale, ispirandosi ad un principio di prudenza suggerito dal
vicereÂ, evitoÁ di attaccare le temporalitaÁ dell'arcivescovo e pose in
essere un provvedimento che era considerato consueto in quei casi,
anche se di contenuto giuridico palesemente aberrante: ricorse all'incarcerazione dei suoi parenti. Contravvenendo alle disposizioni
viceregie, l'arcivescovo abbandonoÁ la capitale e fece ritorno nella
sua diocesi. Ma questo episodio fu tutt'altro che isolato, anzi esso si
sommoÁ ad altre controverse vicende giurisdizionali nelle quali venne coinvolto il Regnum, sicche il contenzioso accumulatosi con la
Santa Sede ai primi del Settecento si presentava molto ampio e
straordinariamente critico, anche per i suoi riflessi sulla situazione
europea.
Nei fatti, il confronto non si svolgeva esclusivamente tra il
regno di Napoli e la Curia romana, ma si sviluppava all'interno di
una complessa partita interna ed internazionale. In essa erano impegnati parecchi soggetti politici, entro un quadro molto piu ampio
e multiforme di quello delineato, per altro ottimamente, da Luongo
nel suo piu volte citato lavoro su Biscardi 72. Si assisteva dunque
all'instaurarsi di piu conflitti politici ed al crearsi di diversi centri
70
71
72
Cfr. A.A.EÂ., Correspondance politique, Naples, vol. 18, passim.
Luongo, op. cit. (cap. II, nt. 45), p. 196.
Ivi, passim.
III. La politica di Luigi XIV
145
decisionali: in primo luogo a Napoli, tra potere ecclesiastico e potere laico, il cui fronte era tutt'altro che compatto, con il Collaterale
ed il ministero togato in generale schierato contro i tentativi di
mediazione opposti dal Vicere e contro le manovre di TreÂmoõÈlle,
tutte tese invece a stringere la morsa dei freni sul giurisdizionalismo
meridionale; in secondo luogo a Roma, con le corti madrilena e
parigina che facevano fronte compatto attraverso i propri rappresentanti, rispettivamente il duca di UcËeda ed il cardinale di Janson,
contro le decisioni del ceto ministeriale napoletano. Per le cui tesi
laiche, che ne erano il vanto e l'aspetto valido e di notevole significato non solo culturale, ma anche etico, quello fu un banco di
prova molto difficile: le difficoltaÁ incontrate dalla versione giurisdizionale, radicata nelle tesi ministeriali fin dal Cinquecento, influirono sull'orientarsi dei togati verso Vienna e sulle scelte generali. A parte gli ovvi interessi di ceto e di potere, la cultura giuridica
napoletana, nata fin dai tempi angioini con funzioni di supplenza di
un potere politico centrale che era stato sconfitto e prostrato ai
papi, ed avendo raggiunto un livello complessivamente alto ai tempi
di D'Andrea, poi di Gravina, di Biscardi, di Argento e di Giannone,
non poteva facilmente metabolizzare quei precedenti e non aveva
esperienza sociale e civile adatta a capire l'importanza generale di
una `linea' politica costituzionale, come quella francese.
Fin dai primi contrasti sull'affare di Sorrento, Serafino Biscardi
non aveva lesinato critiche all'operato dei due diplomatici stranieri,
anche se era perfettamente consapevole dei risvolti internazionali
della crisi tra Regno e Papato e, come tale, conscio che la direzione
delle trattative sarebbe scivolata da Napoli verso Roma, ed affidata ai
due rappresentanti dell'esecutivo di Filippo V e di Luigi XIV. Il che
avvenne puntualmente nel 1704, quando il governo madrileno, nonostante le resistenze del Consiglio d'Italia ed ottemperando alla volontaÁ francese, ordinoÁ al governo napoletano d'inviare a Roma un ministro. Nel Collaterale del 30 agosto Biscardi chiese che fosse scelto «un
huomo costante, che non faceva tirarsi dalla Corte di Roma», in
quanto si doveva «trattare di tutta la giurisdizione che S.M. tiene
146
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
in questo Regno» 73. Venne scelto il consigliere Giacinto Falletti, che
giunse infine nella capitale papalina nel gennaio del 1705.
Com'era ovvio, l'intera problematica, in seguito al trasferimento
della sede, riduceva notevolmente i margini d'intervento del ceto
ministeriale napoletano e la sua forza di pressione sull'esecutivo.
Di cioÁ si ebbe precisa coscienza quando il Falletti dovette preparare
una serie di note da presentare al Papa sulle piu importanti questioni
giurisdizionali non concluse e che nell'espletamento del suo compito
doveva essere coadiuvato da uditori di Rota spagnoli. Gli argomenti
da trattare erano talmente vari da esaurire l'intera rubrica del giurisdizionalismo meridionale: l'autonomia delle estaurite e la potestaÁ
economica esercitata dallo Stato nei confronti degli ecclesiastici, le
immunitaÁ personali, l'applicazione della bolla gregoriana, la scomunica del Preside di Calabria Ultra, Domenico Garofalo, comminata
dall'Arcivescovo di Reggio nel 1696 74.
Nel 1704 venne indirizzata al re di Francia una relazione sui
rapporti tra la giurisdizione regale e l'ecclesiastica stilata da Serafino
Biscardi, ed in seguito rifluita nell'ampia memoria manoscritta intitolata Idea del governo politico ed economico del regno di Napoli, recentemente edita da Luongo in appendice alla sua monografia su
Serafino Biscardi 75. Tra il manoscritto edito ed il testo inedito inviato al re di Francia non esistono rilevanti discrepanze. CioÁ consente di
periodizzare meglio alcuni aspetti relativi alla vicenda biografica di
Biscardi ed in primo luogo il fatto che l'Idea non fu pensata quale poi
divenne, ossia come piattaforma programmatica dell'attivitaÁ di governo che il giurista si accingeva a svolgere presso la corte di Barcellona, nel periodo compreso tra il 1ë novembre 1707 e l'inverno del
1708, ma qualche anno prima, proprio durante il governo francese. A
tal proposito eÁ interessante notare che in premessa il relatore dichiaroÁ
73
Ivi, p. 216.
La vicenda, scaturita da un contrabbando di seta calabrese organizzato da ecclesiastici, eÁ stata ricostruita da Luongo, ivi, pp. 73-5.
75
Ivi, pp. 297-398, spec. le pp. 334-59. Il documento, Pregiudizj fatti al Regno dal
Sommo Pontefice eÁ in A.A.EÂ., Correspondance politique, Naples, vol. 18, ff. 241r-62r. I
Pregiudizi erano molti, perche non corretti dalla debole sovranitaÁ spagnola.
74
III. La politica di Luigi XIV
147
all'interlocutore francese la consapevolezza che «la congiuntura de'
tempi ci vieta il poter porgere quei rimedij soliti a darsi ne' i tempi
passati» 76. Come dire che nello scontro contro i poteri ecclesiastici il
Collaterale, che aveva dimostrato ben altra forza e determinazione
nell'affermazione del regalismo in precedenti momenti della storia
del Regno, doveva in quel frangente adottare esclusivamente una
strategia di carattere difensivo. Tuttavia il Reggente non poteva
esimersi dal notare che non vi era un solo «punto» della Real giurisdizione, che non fosse stato «pregiudicato fuor di modo» dall'aggressivitaÁ degli ecclesiastici. Costoro sono piuttosto da ritenersi alla
stregua di «congiurati», perche «tentano tutti i modi di far in maniera
che Vostra MaestaÁ rimanga nel Regno di Napoli senz'autoritaÁ per
difendersi contro i ribelli, senza giurisdizione per poter governare i
suoi vassalli, senza patrimonio ne proprio, ne dei suoi sudditi e senza
braccio da potersi liberare da tanta violenza che se l'inferiscono alla
giornata» 77.
Se si tiene presente l'influenza che Biscardi riuscõÂ a realizzare
nell'ultimo decennio della sua vita nel Collaterale, nella Capitale e sul
piano internazionale, il suo riferito e durissimo, radicale giudizio
sulla posizione degli ecclesiastici ± qualificati senz'altro come «congiurati», che impediscono allo Stato di difendersi dai «ribelli» ± fa
capire sull'isolamento di Giambattista Vico molto piu di quanto si
possa desumere da migliaia di pagine encomiastiche, che sono uscite,
a cascata, dalla storiografia idealistica, e che hanno cercato sempre di
attenuare gli eccessi di ortodossia del filosofo, e di nascondere le
finalitaÁ ultime del suo sistema di pensiero. A parte alcune intuizioni,
tipiche di un ingegno fantasioso e creativo, l'intento fondamentale
della sua produzione fu di giustificare e di legittimare pienamente
l'assetto sociale ed economico (e di riflesso, anche culturale) napoletano, che allora era disastroso, e non poteva meritare aggettivo piuÂ
indulgente. Le tesi togate erano di scontro, non di pacificazione.
76
77
pino.
Ivi, f. 241r: Biscardi si rendeva conto del negativo condizionamento francese.
Ivi, ff. 241r-v. Diagnosi feroce, che metteva in guardia il costituzionalismo transal-
148
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
Nonostante il suo radicalismo antiecclesiastico, in questo come
in altri casi, l'atteggiamento del giurista di Altomonte nei confronti
del potere centrale parigino fu prudente, anche se non dissimulatore: forse a ragione del fatto che i due anni di governo di TreÂmoõÈlle
avevano confermato nella prassi cioÁ che il francese pensava e scriveva al proprio re, cioeÁ che «les maximes du Collateral c'y sont
entieÁrements opposeÂes a cette union [cioeÁ tra il Vaticano ed il Regnum], et c'est encore un des desordres attache a ce royaume, auquel il semble qu'il ne doit manquer aucune» 78. L'unione tra i due
regni italiani era invece dalla Francia auspicata come avvenimento
epocale, espressione della sua `cristianissima' prioritaÁ, della sua
duratura capacitaÁ di sanare ogni incidente, e di evitarne le gravi
conseguenze sul piano dei rapporti internazionali. Ma le idee parigine apparivano utopistiche a Napoli.
I contenuti della polemica anticurialistica di Biscardi sono stati
analiticamente esposti dal Luongo, che con finezza interpretativa ha
messo in rilievo alcuni aspetti del pensiero del ceto togato sui rapporti tra Stato e Chiesa. CosõÂ, nell'argomentazione dei ventitre Pregiudizij, l'avvalersi di schemi dottrinali elaborati dalla feudistica,
nonche il continuo riferimento a grandi entitaÁ ideali e sintentiche,
piu che segno di una vocazione formalistica del Biscardi, avrebbero
avuto il significato di astrarre il regalismo dalla polemica anticurialistica del momento, per trasferirlo sul piano delle affermazioni incontrovertibili ed oggettive della Scientia Juris 79. In quelle pagine la
coltre formalistica diviene ancora piu pesante quando il giurista d'Altomonte si trova ad affrontare lo spinoso argomento della pretesa
concessione feudale del regno di Napoli da parte della Sede Apostolica. In effetti, sia il ricorso alla copiosa letteratura che aveva confutato la pretesa romana, sia l'insistenza sulla distinzione elaborata
dalla feudistica fra investiture «reali» e «verbali», sono caratterizzate
da uno stringente formalismo. Ma in ambedue i casi l'obiettivo di
Biscardi eÁ molto chiaro: le investiture concesse dai pontefici per il
78
79
Ivi, vol. 16, f. 243r, lettera di TreÂmoõÈlle a Luigi XIV del 14 dicembre 1702.
Luongo, op. cit., (cap. II, nt. 45), p. 271.
III. La politica di Luigi XIV
149
Mezzogiorno d'Italia erano del tipo «abusivo» e meramente verbali,
ancor piu perche richieste dai sovrani meridionali «con espressa riserva delle proprie ragioni» 80. D'altronde, l'argomento relativo alla
pretesa che il regno di Napoli fosse feudo della Santa Sede aveva
radici fondate nella mancata imposizione sui beni ecclesiastici, ragione per cui si rendeva necessario invertire quella regola ed imporre al
clero di contribuire ai pesi fiscali: tesi ovviamente condivisa dalla
communis opinio. Ma era estremamente difficile poter prevedere un
obbligo generale di contribuzione a carico degli ecclesiastici dal momento che la «ragione ch'allegano prima eÁ l'incontrastabile loro immunitaÁ, e secondariamente eÁ che qui non costituiscono parte nella
Republica, perche ne' parlamenti non interviene il clero, come interviene in altre parti del mondo, ma interviene il Baronaggio, la CittaÁ
di Napoli e le cittaÁ demaniali» 81. Si tratta di un'analisi dov'eÁ molto
acuta e matura l'idea che l'esclusione degli ecclesiastici dai parlamenti quasi giustifica l'assurdo di sentirsi essi collocati fuori della respublica, e quindi di non essere sottoposti ai doveri civili; ma, in una
societaÁ, chi puoÁ contribuire e se ne astiene, non ne fa parte.
L'esposizione dei ventitre Pregiudizi ha inizio con il problema
dell'immunitaÁ locale, che costituiva uno strumento micidiale a disposizione della Chiesa, perche rendeva impraticabile l'amministrazione
della giustizia regale, ostacolando la repressione dei reati ed il mantenimento dell'ordine pubblico. Dai canonisti era considerata fonte
di tale istituto il diritto divino, e piu volte nel corso dell'etaÁ moderna,
dal Concilio di Trento alla bolla Cum alias di Gregorio XIV (1591),
tale basilare principio era stato riaffermato con vigore. Se la bolla
citata contemplava alcune categorie di reati per i quali era escluso il
privilegio del foro ecclesiastico, tuttavia l'interpretazione della norma rendeva difficile distinguere fino a che punto il diritto positivo
regale potesse intervenire. Tanto piu complicata diveniva la sua interpretazione quando si pretendeva da parte ecclesiastica di applicare
l'istituto per delitti di lesa maestaÁ, come nel caso del ribelle Aniello
80
81
A.A.EÂ., Correspondance politique, Naples, vol. 18, f. 259r e v.
Citiamo da Luongo, op. cit. (cap. II, nt. 45), p. 380.
150
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
Migliaccio, la cui causa era in discussione a Roma. Secondo una
spiegazione restrittiva dovevano essere esclusi dal godimento dell'immunitaÁ locale solo coloro che «congiuravano contro la persona del
Principe», mentre potevano godere del foro ecclesiastico «tutti l'altri
ribelli che congiurano contro la tranquillitaÁ dello Stato e del Regno» 82. Per Biscardi si trattava di affermazioni paradossali, le cui
conseguenze erano esiziali per la stabilitaÁ politica, perche accettarle
avrebbe significato «che poco importa che si perda il Regno, purche il
Principe non perda la vita, come se vi potesse restar persona di
Principe quando succeda l'estinzione del Regno» 83.
5. Propaganda ed opinione francofoba (1704)
Durante la guerra di Successione, i limiti imposti dalla censura e
dalla repressione governativa favorirono la proliferazione di scritti
clandestini come strumento per orientare l'opinione pubblica 84. In
Spagna, ad esempio, i nobili contrari ai Borbone, fuoriuscendo dai
patri confini, lanciarono da Vienna e da Lisbona delle vere campagne
di propaganda in opposizione a Filippo V, attraverso una temperie di
scritti, che presentavano tutte le caratteristiche proprie di quello stile
che la critica definisce «letteratura d'esilio» 85. Ovviamente la nobiltaÁ
austriacante produceva quelle opere per guadagnare quante piu simpatie ed adesioni al proprio partito, e da cioÁ risulta evidente che il suo
scopo fosse proprio quello di formare un'«opinone pubblica» favorevole. In effetti, come nota TeoÂfanes Egido, l'attivitaÁ propagandistica
dell'aristocrazia si rivolgeva ben oltre i confini sociali del proprio
status, ossia all'intera societaÁ iberica 86. Se, come dimostra la PeÂrez
82
Ivi, p. 261.
Ibidem: eÁ evidente un'idea ascendente, induttiva della sovranitaÁ.
84
M. T. PeÂrez Picazo, La publicõÂstica espanÄola en la Guerra de SucesioÂn, CSIC, Madrid
1966, 2 voll., ha realizzato un'importante censimento delle opere prodotte in Spagna, che ha
analizzato in relazione al contenuto filosofico e politico, poiche il suo unico obiettivo era
quello di «bosquejar el pensamiento espanÄol de los uÂltimos anÄos del siglo XVII y primeros del
XVIII».
85
T. Egido, OpinioÂn puÂblica y oposicioÂn al poder en la EspanÄa del siglo XVIII (17131759), Universidad de Valladolid, Valladolid 1971, p. 263.
86
Ivi, p. 31. Su cioÁ cfr. anche Enciso Recio, La opinioÂn puÂblica, in Historia de EspanÄa,
83
III. La politica di Luigi XIV
151
Picazo, gli scritti nobiliari si segnalano per una modalitaÁ ed uno stile
peculiare, ricco d'enfasi ed esprimente «superior y serena dignidad»,
mentre la produzione ecclesiastica si caratterizza per l'erudizione, le
citazioni, l'esposizione puntuale di dottrine giuridiche e l'abbondanza
di dati storici, tuttavia eÁ difficile determinare con esattezza le influenze di membri d'altri gruppi sociali sulla redazione dei testi. Se prendiamo ad esempio il caso del celeberrimo Manifesto del Almirante, eÁ diffi lvaro de Cienfuegos non fosse, insieme
cile pensare che il religioso A
all'aristocratico Juan TomaÂs EnrõÂquez de Cabrera, uno degli autori 87.
Anche la pubblicistica relativa al regno di Napoli ed al periodo
della guerra di Successione, conservata nei fondi archivistici francesi,
italiani e spagnoli, eÁ rappresentata da una mole di scritti che sembra
non possedere alcuna caratteristica di unitaÁ. Si tratta infatti di materiale vario per forma e per provenienza sociale degli autori, dov'eÁ contemplata sia l'opposizione aristocratica e dei ceti dirigenti laici e clericali sia la critica popolare, quest'ultima espressione piu genuina dell'opinione pubblica in quanto manifestazione diretta della protesta contro
il potere: parodie di vita cortigiana, versi diversi, pamphlets, documenti
governativi nei quali eÁ tuttavia difficile discernere i limiti tra veritaÁ e
finzione. Il termine «pubblicistica» riunisce dunque materiali che sono
espressione di vari modi di percepire la realtaÁ da parte dei contemporanei, da non sottovalutare nella consapevolezza che uno studio sopra
le mentalitaÁ e le ideologie politiche deve tenere pur in considerazione le
forme di opinione e propaganda, sebbene l'utilizzazione della formula
di «opinione pubblica» per l'EtaÁ moderna possa comportare il rischio
molto alto di scadere negli errori dell'anacronismo 88.
cit. (cap. V, nt. 8), t. XXIX, pp. 211-7. Argomentazioni di avviso contrario all'uso storiografico in etaÁ moderna della formula «opinione pubblica» in K.M. Baker, Politique et opinion
publique sous l'Ancien ReÂgime, in «Annales ESC», janvier-feÂvrier, 1 (1987), pp. 41-71 e S.
Maza, Le tribunal de la nation: les meÂmoires judiciaires et l'opinion publique aÁ la fin de l'Ancien
ReÂgime, in «Annales ESC», janvier-feÂvrier, 1 (1987), pp. 73-90.
87
Sul manifesto a favore dell'Arciduca scritto da don Juan TomaÂs EnrõÂquez de Cabrera,
cfr. le osservazioni di M.L. GonzaÂlez Mezquita, PosicioÂn y disidencia en la guerra de sucesioÂn
espanÄola. El Almirante de Castilla, Junta de Castilla y LeoÂn, Valladolid 2007, pp. 205-79.
88
Gli studi sopra l'opinione pubblica hanno avuto inizio in Francia ad opera di Emile
Bourgeois e Louis AndreÂ, Les sources de l'histoire de France XVIIe sieÂcle (1610-1715), vol. IV:
Journaux et pamphlets, A. Picard, Paris 1913-35, che hanno richiamato l'attenzione della
152
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
Ovviamente si eÁ perduta invece ogni traccia diretta della diffusione orale della pubblicitaÁ austriaca, che dovette essere massiccia, influente, minuta, penetrante ed efficace, come testimonia, dopo l'ingresso delle truppe nemiche nella cittaÁ partenopea, il marchese di
Villena, in fuga da Napoli a Gaeta il 14 luglio del 1707: gli ecclesiastici,
fossero secolari o regolari, furono il principale strumento austriaco
della reÂvolution contro Filippo V, esclusivamente con l'aver sedotto i
peuples della Capitale e delle province «dans les confessions et dans les
conversations», inducendoli alla lesa maestaÁ attraverso il grande potere
mediatico di cui disponevano 89. Secondo il vicereÂ, di cioÁ era responsabile in massima parte l'ambiguitaÁ papale: Clemente XI, da una parte,
temeva il regalismo francese, dall'altra, pensava che Francia e Spagna
riunite potessero proteggere l'intera Europa dall'avanzata del calvinismo. In genere, gli spagnoli d'ambedue gli schieramenti politici interpretarono queste ambiguitaÁ vaticane a loro favore, mentre a Napoli,
come abbiamo notato, il gallicanesimo francese mantenne paradossalmente in posizione di stallo il regalismo napoletano espresso dal Collaterale. CosõÂ la dicotomia tra alto e basso clero, che caratterizzoÁ per il
suo radicalismo la dialettica politica nella Catalogna, con il primo in
gran parte felipista ed il secondo austriacante, non trovoÁ corrispondenza nel regno italiano 90. Qui, secondo lo Spedicato, durante tutto il
viceregno spagnolo, i vescovi regi furono contemporaneamente «fedeli» alla causa monarchica ed a quella romana, e tuttavia non «giocarono
un ruolo marcatamente politico come funzionari della corona spagnola» 91: il che equivale a dire, in maniera piu diretta, che non si era
assistito per tutto il periodo spagnolo ad alcuna «nazionalizzazione»
delle gerarchie ecclesiastiche, fenomeno che in altre realtaÁ europee
storiografia su questa forza di pressione sul governo della nazione francese. Tra gli ultimi e
piu raffinati prodotti sull'argomento eÁ da segnalare C. Jouhaud, Mazarinades: la Fronde des
mots, Aubier, Paris 1985. Per il caso spagnolo, fondamentali gli studi sulla stampa settecentesca di Enciso Recio, op. cit. (nt. 86), cui rimandiamo per la bibliografia.
89
A.A.EÂ, Correspondance politique, Naples, vol. 22, f. 151r.
90
Cfr. R. GarcõÂa CaÂrcel e R.M. AlabruÂs Iglesias, EspanÄa en 1700. ¿Austrias o
Borbones?, Arlanza Ediciones, Madrid 2001, pp. 38-40.
91
M. Spedicato, Il mercato della mitra. Episcopato regio e privilegio dell'alternativa nel
regno di Napoli in etaÁ spagnola, Cacucci, Bari 1996, pp. 206-7.
III. La politica di Luigi XIV
153
aveva rappresentato l'inequivocabile segnale di una sempre piu netta
separazione di ruoli tra Stato e Chiesa. Gli ecclesiastici furono tutt'altro che `nazionalisti', evitarono di prendere posizioni troppo nette, in
fondo furono coerenti con la loro linea di sudditanza rispetto a Roma;
ma non c'eÁ dubbio che la prospettiva di dover mantenere la propria
`alteritaÁ' rispetto ad una Spagna afrancesada, e quindi gallicana, fosse
vista come un enorme disastro. Nella crisi politica della successione,
come dimostra l'atteggiamento del vescovo di Sorrento ± che era di
nomina regia e responsabile dell'arcidiocesi di piu grande prestigio
istituzionale, anche perche godeva di una rilevante supremazia nel
settore economico sulle rimanenti altre ±, l'antico e tradizionale vincolo di fedeltaÁ verso il re cattolico fu nettamente a vantaggio del potere
romano. Atteggiamento che confermava il carattere ``alieno'' attribuito agli ecclesiastici da Biscardi: il legame primario era quello che contava; fare politica era compito dei vertici romani, i `civili' si battessero
pure per questioni di lana caprina, mentre gli ecclesiastici, i pastori, si
occupavano di `coltivare' il gregge. Nulla sappiamo invece dire dell'azione propagandistica dei gesuiti, che in ogni regione della Spagna
mantennero generalmente un atteggiamento fermamente felipista 92.
Per ritornare ai documenti rimastici, si tratta perlopiu di scritti
di tono polemico il cui scopo era far conoscere il pensiero dell'autore
intorno a temi dell'attualitaÁ al centro di conflitti sociali e politici, con
l'intenzione di guadagnare consenso ed adesioni per la propria causa.
Tali opere potevano essere commissionate dal governo o contro di
esso, mentre talvolta potevano essere marginali rispetto alle logiche
del potere centrale e della sua piu netta ed aperta opposizione. Questa forma di propaganda politica si serviva simultaneamente di motivazioni coscienti e razionali e di altre subcoscienti ed irrazionali, in
un gioco abile di relazione tra le une e le altre. Composta in gran
parte di manoscritti, reca titoli lunghi, insieme dettagliati ma misteriosi, per indurre il lettore alla curiositaÁ. Tra i tanti possibili esempi
di questa produzione austrofila durante la guerra di successione ab92
Cfr. GarcõÂa CaÂrcel e AlabruÂs Iglesias, EspanÄa en 1700. ¿Austrias o Borbones?, cit.
(nt. 90), pp. 38-40.
154
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
biamo scelto il Discorso Accademico da recitarsi in Napoli in occasione
dell'arrivo fatto in Lisbonna del Sempre Invitto e glorioso Carlo Terzo
Legitimo Monarca delle Spagne 93.
Per il suo contenuto questo interessante manoscritto rappresenta
il prototipo ideale della promozione gallofobica che sosteneva nell'Italia meridionale l'azione a favore dei diritti al trono dell'Imperatore
austriaco, all'interno di un segmento di quelle «redes de poleÂmicas»
europee del materiale propagandistico costruitesi attorno al conflitto
per la successione 94. La struttura a rete di questa letteratura si giustifica infatti perche il medesimo tema s'incontra in opere scritte in
diverse zone geografiche del Continente, al punto che alcune di esse
organizzano dei veri e propri attacchi o difese di personaggi celebri.
CosõÂ un inconsueto fenomeno celeste o atmosferico, un cattivo raccolto, l'ingresso e la scomparsa di un personaggio della corte spagnola, l'apparizione di uno scritto, di un'opera letteraria o la predicazione di un sermone scatenavano immediatamente una tormenta letteraria. Interventi che possono essere definiti d'azione, per la principale caratteristica d'essere una produzione compulsiva e convulsa,
come la trama degli echi delle vicende belliche, politiche e curiali che
la sosteneva e ne giustificava l'esistenza. Ancora, come nel caso in
specie, essa possiede generalmente in se due registri culturali armonizzati attraverso un dosaggio sapiente: l'erudito, per i riferimenti
costanti alla cultura libresca ed accademica (come il titolo stesso
indica), ed il popolare, di cui contiene risonanze di saperi e credenze.
EÁ un'osservazione che ci pone il duplice problema di comprendere
in modo preciso l'intenzione dell'autore assieme alla natura dei destinatari, ossia che induce a valutare il testo in rapporto al fenomeno
della sua ricezione. Il metodo di questa analisi si puoÁ avvalere, almeno
nei suoi termini generali, della proposta interpretativa che Jouhaud ha
utilizzato per le mazarinades parigine: questi scritti, circolando per la
93
A.A.EÂ, Correspondance politique, Naples, vol. 18, ff. 147r-154r, con a margine la
dicitura: «recu avec la lettre de la part de M. de Charmont, 31 may 1704».
94
Sulle «redes de poleÂmicas» come strumento interpretativo del materiale propagandistico austriaco e francese, cfr. GonzaÂlez Mezquita, PosicioÂn y disidencia en la guerra de
sucesioÂn espanÄola, cit. (nt. 87), pp. 205-80.
III. La politica di Luigi XIV
155
metropoli, incontravano l'attenzione di quasi tutti i gruppi sociali
urbani, accoglienza che, inevitabilmente, condizionava l'intenctio auctoris 95. La lettura da parte di chi non apparteneva necessariamente allo
status sociale dell'autore era uno degli aspetti piu importanti che ogni
scrittore doveva preliminarmente affrontare nel mettere mano alla
penna. Di cioÁ i contemporanei avevano piena coscienza, come dimostra un brano del Discursos conjeturales y precisas consecuencias que
funda la lealtad y razoÂn sobre la poca que adquiere el SenÄor Archiduque
de la prosecucioÂn de la guerra, scritto nel 1710 da Juan Alfonso Guerra y
Sandoval e destinato a buona fortuna: «ha hechado los imperialesal
viento varios papeles para fundar su derecho a la sucesioÂn universal de
EspanÄa en quienes se halla buen latõÂn pero poca razoÂn; palabras que
halagan, pero enganÄos que desvõÂan [...]. Este papel que yo escribo por
cumplir el cargo de mi oficio es breve, pero no tiene palabra que no
diga le ha escrito de la lealtad el cuidado para desenganÄar» 96.
Ironizzando sullo stile forbito degli avversari politici, Guerra y
Sandoval evidenziava la necessitaÁ di allargare quanto piu possibile la
sfera del pubblico, rivolgendosi con espressioni sobrie anche a coloro
che possedevano una minore capacitaÁ d'interpretare uno scritto dai
contenuti estremamente formali e zeppo di palabras, tanto altisonanti
quanto ingannevoli.
Come nota Maravall, a proposito delle influenze sul pensiero sociale e politico del XVII secolo spagnolo, la presenza paradigmatica di
Quevedo e di GraciaÂn sembra condizionare anche il documento di
nostro interesse 97. Alla base di questa scelta si poneva una visione
pessimistica della realtaÁ imperiale spagnola, improntata alla necessitaÁ
del disinganno e della disillusione per il ricordo delle sconfitte politiche
che avevano percorso tutto il Seicento. Un pessimismo che, all'ingresso del nuovo secolo, era alimentato dal peso delle «catene, con le quali
95
Jouhaud, Mazarinades: la Fronde des mots, cit. (nt. 88), p. 81: la diffusione urbana di
questa letteratura eÁ uno di quegli elementi che dissolverebbe in parte la pretesa polaritaÁ tra
cultura popolare e delle eÂlites.
96
Cit. in GonzaÂlez Mezquita, op. cit. (nt. 87), p. 225.
97
J.A. Maravall, Ensayo de revisioÂn del pensamiento social y politico de Quevedo, in
Estudios de Historia del pensiamento espanÄol. El siglo del Barroco, Centro de Estudios PolõÂticos
y Costitucionales, Madrid 1999, pp. 257-324.
156
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
ci ha tenuti fin ora vincolati la Francia» 98. Tuttavia, se lo stile utilizzato tendeva all'iperbolico ed al sorprendente, risentendo ancora della
deriva del marinismo (che a Napoli era durato piu a lungo che altrove,
spingendosi dentro ai primi decenni del Settecento), i richiami alla
«ragione economica» segnalano alcune straordinarie novitaÁ. D'altra
parte, la presenza di uno stile neo-barocco nel gusto napoletano del
primo Settecento si manifestoÁ in modo talmente semplificato e «pulito», che di esso si utilizzarono solamente le componenti naturalistiche,
dunque razionalistiche, mentre se ne negavano quelle magiche. CioÁ eÁ
mostrato con chiarezza dal piu affermato pittore del tempo, Francesco
Solimena, la cui Caduta di Simon Mago fu il segno di tutto un programma, coerente con il successo del cartesianismo `fisico' 99.
Piu legati alla tradizione risultano essere invece i richiami alle
«raggioni» della «Morale» e della «Politica» nella preferenza alla successione degli Asburgo. L'austrofilia dell'autore sembra essere la
naturale evoluzione del concetto d'Impero cristiano e non una semplice passione dinastica 100. In cioÁ il testo napoletano riprendeva la
A.A.EÂ, Correspondance politique, Naples, vol. 18, ff. 148r.
Cfr. R. Ajello, Dall'accademismo al naturalismo. Cultura e politica nella Napoli di
Pergolesi, in «Frontiera d'Europa», 1998, në 2, pp. 5-46.
100
A.A.EÂ, Correspondance politique, Naples, vol. 18, f. 148r: «E vaglia il vero, Generosi
Accademici, se ben si considerano le raggioni incontrastabili, che fin dall'Utero Materno
portoÁ seco alla luce del Mondo il nostro Gloriosissimo Carlo, sopra de' Regni delle Spagne,
chiaramente si comprenderaÁ l'obbligo di Vassallaggio a cui siamo tenuti, senza ch'io con
legale comprovazione vi faccia conoscere per invalido ed insussistente il Testamento Carlino
concepito irregolarmente a favore del Duca d'AngiuÁ, o perche dolosamente estorto, o percheÂ
repugnante alle Leggi di Spagna, o perche contrario alle rinunzie fatte solennemente dalle
due Principesse di Casa d'Austria passate al Trono di Francia, bastandomi unicamente la
cognitione di questa veritaÁ inseminata nella mente e passata nel cuore d'ognuno, per farvi
vedere impegnata la stessa Giustizia di Dio nel proteggerla. Ne punto fa remora alle vostre
acclamazioni il giuramento di giaÁ prestato al Duca d'AngiuÁ sotto nome di Filippo V, poicheÂ
l'estorcere, armata manu, giuramenti di fedeltaÁ da un Magistrato sorpreso, non eÁ un guadagnare raggioni, ma un perderle. Tanto piu che nel caso nostro, non havendo egli potuto giaÁ
ottenere l'investitura della Santa Sede, restano in consequenza liberi dal giuramento li
Popoli. Or posto un tal principio, che per Legge Divina et humana Carlo 3ë sia legitimamente l'Erede della Monarchia, e chi non conosce a prova che sarebbe un pregiudicare alla
propria coscienza, quando s'omettesse la congiuntura di conferire alla stabilitaÁ del di lui
Trono, e di nostro riposo, col sottrarsi all'orgogliosa baldanza del Gallo usurpatore? E qual
piu bella occasione poteva mai apprestarsi al commune buon genio, quanto il vedere l'Aquile
Auguste assistite da non suddite spade, giaÁ in istato di detrudere l'intruso!».
98
99
III. La politica di Luigi XIV
157
chiara esposizione che di questi princõÂpi proponeva El Almirante nel
Manifiesto. Per il nobile spagnolo l'aristocrazia castigliana nutriva da
secoli una profonda fedeltaÁ al proprio monarca, sentimento che si era
costruito attorno al mito cattolico di una Augustissima Casa: giuridicamente i due rami familiari degli Asburgo erano i veri pilastri della
difesa temporale della Chiesa romana 101. L'espressione di questo
sentimento trovava un momento importante nella cerimonia barocca
della processione per il Corpus Christi, segno della pietas delle Case
reali austriache, alle quali l'Eucarestia serviva quale collante ideologico e religioso delle diverse entitaÁ politiche degli Asburgo 102. Tuttavia, per gli avversari borbonici gli argomenti relativi alla difesa dell'ortodossia cattolica cadevano di fronte ad un problema di politica
internazionale, tutt'altro che di modesta entitaÁ, se messo in relazione
con il problema religioso: come spiegare l'alleanza politica degli
Asburgo con herejes, quali gli inglesi e gli olandesi?
Durante la guerra la questione politica e quella religiosa rappresentarono infatti un nodo teorico inestricabile, che poteva essere risolto solo immaginando l'esistenza nell'arena internazionale di un «precontractual state of nature»: l'ordine era prerogativa domestica, interna agli Stati, mentre il disordine e l'anarchia regnavano nei rapporti tra
entitaÁ nazionali 103. Da questa impostazione derivava una teoria dei
rapporti internazionali che postulava l'«equilibrio» degli Stati di «potenza» e sosteneva l'ineluttabilitaÁ della guerra. Essa traeva le proprie
101
Un'esposizione chiara di questo atteggiamento della nobiltaÁ castigliana in PeÂrez
Aparicio, La guerra de SucesioÂn en EspanÄa, in Historia de EspanÄa, cit. (nt. 86), t. XXVIII,
diretto da J.M. Jover Zamora, p. 355 e ss.. Cfr. anche F. Edelmayer, Asburgo d'Austria e
Asburgo di Spagna nella guerra dei trent'anni e La nobiltaÁ austriaca nella prima metaÁ del Seicento,
in Controriforma e monarchia assoluta nelle province austriache. Gli Asburgo, l'Europa centrale e
Gorizia all'epoca della guerra dei Trent'anni, a cura di Silvano Cavazza, Istituto di Storia
sociale e religiosa, Gorizia 1997, rispettivamente alle pp. 29-42 e 61-70.
102
Un interessante lavoro sull'argomento eÁ di A. LoÂpez AÂlvarez, IdeologõÂa, control
social y conflicto en el Antiguo ReÂgimen: El derecho de patronato de la Casa Ducal sobre la
procesioÂn del Corpus Christi de BeÂjar, Centro de Estudios Bejaranos, BeÂjar 1996.
103
Sui paradigmi culturali alla base delle teorie della politica internazionale, cfr. il
recentissimo contributo sull'argomento di R.N. Lebow, A Cultural Theory of International
Relations, Cambridge University Press, Cambridge 2008, spec. le pp. 262-304, cui si rimanda per la bibliografia.
158
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
giustificazioni teoriche dagli scritti di intellettuali laici come Machiavelli, Bodin ed il duca di Rohan, le cui tesi di politica internazionale
erano ben presenti nelle opere dei cattolici ortodossi austriacanti 104.
Non eÁ dunque casuale l'intervento massiccio dello scrittore fiorentino
nella Spagna del XVII secolo, delle cui opere si hanno tracce vieppiuÂ
consistenti negli ultimi anni del regno di Carlo II 105. I felipistas ovviamente ribaltarono sugli avversari questi stessi argomenti: gli alleati
dell'Austria erano degli eretici ed occorreva fare leva sul sentimento
religioso e sul relativo simbolismo per organizzare al meglio lo scontro
politico, allargandolo dentro il tema di una nuova crociata. CosõÂ recitava un'immagine abbastanza diffusa di Filippo V, ritratto con la spada
sguainata e l'aria bellicosa, atteggiamento che gli varraÁ il soprannome di
el Animoso: «Sea puÂblico en el mundo, se desnudan debidamente mi
espada y la de mis reinos por la Fe, por la Corona y por el Honor de la
Patria» 106. Al re Borbone l'avversa parte del reseau polemico rispondeva
che «per la fe', per la Patria il tutto lice», dunque persino un accordo
con potenze straniere non ortodosse al cattolicesimo romano. Inghilterra ed Olanda facevano sicuramente «un gran contrappunto all'Im104
A.A.EÂ, Correspondance politique, Naples, vol. 18, f. 149r: «E da qui in avanti si
ponga in opra quell'Eroica VirtuÁ che tutti annidate nel petto, o' con praticar la costanza
nell'incontrare i perigli per mantenere i suoi Dritti a Cesare, o' con adoprar la fortezza nel
superare gl'ostacoli, che potessero impedirgli il possesso, o' con prevalersi della generositaÁ
nell'azardare la propria vita, non che i beni per la giustizia di sõÁ importante causa, che pur
dovria avere ogni forza ne' cuori, e forza tale, che dovrebbe consigliarci a rinunciare a nostri
proprii interessi, conforme, non so' se per esempio, o' per nostra confusione, ne hanno dato
una valida riprova l'Olanda e l'Inghilterra, potenze tanto formidabili, che, potendo espirare
in sõÁ favorabile contratempo ogni piuÁ rimarcabile lor vantaggio, col promuovere l'antico
partaggio inculcato giaÁ da defonto Guglielmo, hanno fatto un generoso sacrificio de gl'utili
nascenti al simulacro d'un tanto nume, e non lungamente hanno indugiato a secondarne
gl'Oracoli coll'unirsi compagne al nostro eroe nella ricupera dell'usurpato suo Trono. Certo
egl'eÁ, c'ambedue queste potenze fanno un gran contrappunto all'Impresa, ma la gloria
dell'armonia tutta, tutta resta a Voi, o' Anna, immortale Regina, che siete l'intelligenza
motrice, voi, che invigilando al bene di tutti, meritate appunto, ch'il cuore di tutti si faccia
umile nicchia alla vostra grande e venerabile immagine. Fortunatissima Eroina, voi siete
veramente l'Astrea del nostro secolo, se con giusta bilancia ponete in sicuro l'equilibrio
d'Europa. Voi siete la DeitaÁ tutelare del Mondo, se reprimendo da per tutto la troppa
alterigia della Francia ne procurate sollecitamente la pace».
105
Cfr. A. GarcõÂa Gallo, La aplicacioÂn de la doctrina espanÄola de la guerra (Datos para
su estudio), in «Anuario de Historia del Derecho EspanÄolo», 11 (1934), pp. 5-74.
106
Cit. in GonzaÂlez Mezquita, op. cit. (nt. 87), p. 230.
III. La politica di Luigi XIV
159
presa», ma l'alleanza con esse si giustificava in nome di una «giusta
bilancia» che potesse porre al sicuro «l'equilibrio d'Europa» 107.
6. FedeltaÁ politica e «raggioni economiche»
Ma l'argomento centrale dello scritto di nostro interesse non
riguarda la giustificazione giuridico-formale della infedeltaÁ al duca
d'AngioÁ, che si trova contemplata tra le «raggioni» morali. In poche e
brevi battute l'autore si libera di un argomento che era invece considerato fondamentale in altre parti dell'impero spagnolo, specialmente nel nord della Penisola iberica 108. In primo luogo, Filippo V aveva
violato la legge fondamentale dei regni di Castiglia e d'Aragona che
escludeva la linea francese dalla successione al trono spagnolo. A
causa di un testamento «invalido», «insussistente» e «concepito irregolarmente», il duca d'AngioÁ aveva giurato contro se stesso, dal
momento in cui si era obbligato al rispetto di una legge infranta
proprio con la sua accettazione del trono. Il Borbone era dunque
un usurpatore. I regni di Spagna non avevano un re legittimo, pertanto nullo era il rapporto di vassallaggio con i propri sudditi, che
potevano tranquillamente ritenersi liberi dal giuramento di reciprocitaÁ e fedeltaÁ al duca. In secondo luogo, la Spagna era divenuta una
provincia del «Gallo usurpatore», senza che il popolo avesse acconsentito, ed ancora, «non avendo egli potuto giaÁ mai ottenere l'Investitura della Santa Sede», restavano «in consequenza liberi dal giuramento li Popoli» 109. A proposito delle resistenze cetuali al nuovo
monarca, la storiografia spagnola ha da tempo provato che la xenofobia e le altre manifestazioni di dissenso (come le infinite liti per
questioni di precedenza nei vari cerimoniali) contro i francesi da
parte dei Grandi di Spagna traevano origine dal panico di un cambiamento radicale dello stile di governo 110. L'aristocrazia d'alto liA.A.EÂ., Correspondance politique, Naples, vol. 18, f. 154r.
Cfr. il caso de El almirante in GonzaÂlez Mezquita, op. cit. (nt. 87), p. 420 ss.
109
A.A.EÂ., Correspondance politique, Naples, f. 148v. La cit. nei ff. 150v-151r.
110
La bibliografia sull'argomento eÁ talmente vasta che ci limitiano ad un solo titolo:
Egido, op. cit. (nt. 85), passim. Regesti dei dispacci veneti, inviati da vari luoghi (Napoli,
Roma, Vienna, Parigi, Londra, Madrid etc.), dal giugno 1700 al luglio 1701, contengono i 2
107
108
160
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
gnaggio temeva soprattutto d'essere spodestata dalle solide e cospicue posizioni di potere politico che deteneva. Ma origini differenti
aveva la francofobia o l'austrofobia di altri gruppi sociali.
La borghesia spagnola fu lacerata a lungo da un conflitto interno,
che non trasse origine solamente dalle differenti identitaÁ regionali,
ma soprattutto dal fatto ch'essa non si presentava come un blocco
sociale compatto, per il diversificarsi degli interessi economico-finanziari e per la percezione stessa della propria identitaÁ 111. Mentre i
castigliani erano in generale filoborbonici, soprattutto per la preoccupazione di potenziare i propri reseaux commerciali a discapito della
concorrenza residente in Portogallo, in Inghilterra ed in Olanda, la
borghesia della Corona d'Aragona continuava a difendere strenuamente la propria indipendenza dalla regione limitrofa e nutriva
un'antica ostilitaÁ nei confronti della Francia 112.
Del tutto falsa eÁ risultata invece la vecchia immagine di una borghesia catalana austriacante che si opponeva ad un borbonismo difensore della feudalitaÁ. Come inesatta risulta la tesi che le simpatie per gli
Asburgo fossero proprie dei settori economici catalani legati all'industria tessile inglese che traevano ingenti profitti dall'importazione di
quei manufatti, mentre i ceti medi felipistes rivendicavano l'autoctonõÂa
della produzione e il rilancio dell'esportazione. Molto piu convincenti
i risultati prodotti da quella storiografia che ha dimostrato come gli
interessi della borghesia austriachista fossero legati alla politica espansionistica di commercianti anglo-olandesi, che, dal canto loro, miravano a rompere il monopolio andaluso del commercio atlantico. Alla
fine, sembra piu equilibrata la posizione storiografica che vede la
borghesia commerciale catalana divisa tra possibili sostenitori del regime borbonico ed irriducibili irredentisti 113.
voll. (pp. 550 e 580) di F. Nicolini, L'Europa durante la guerra di successione di Spagna, Napoli
1937-1938.
111
Cfr. la sintetica ma efficace ricognizione sullo stato delle interpretazioni e delle
conoscenze storiografiche relative ai ceti medi della penisola iberica ed ai loro comportamenti politici nel periodo in esame di GarcõÂa CaÂrcel e AlabruÂs Iglesias, EspanÄa en 1700.
¿Austrias o Borbones?, cit. (nt. 90), cui rimandiamo per la bibliografia.
112
Ivi, p. 41.
113
Una sintesi delle ricerche sull'argomento e la relativa bibliografia ivi.
III. La politica di Luigi XIV
161
Gli atteggiamenti politici dei ceti medi produttivi spagnoli ci
riportano all'interesse che l'autore del Discorso mostra per le «ragioni
economiche». Il sedicente accademico invitava calorosamente l'uditorio a considerare «inglorioso il passato» del Regno per poter «qualificare piu efficacemente il presente» 114. Come a dire che occorreva
accantonare le oscure, torbide e paralizzanti questioni di storia dinastica, di diritto e di morale, per sviluppare un ragionamento piuÂ
realistico e pragmatico in vista di una scelta a favore dell'Austria:
«E per venir in chiaro, basta che di passaggio fissiamo lo sguardo nel
sistema presente e nel venturo. Se miriamo il presente, vedremo che
l'intruso Duca d'Angiu non ad altro pensa, ch'a caricarci d'imposizioni, ch'a riempirci d'agravij. Non vi eÁ traffico di cui non se ne usurpi
l'utile, non v'eÁ industria di cui non ne gode il vantaggio. E quando il
florido nostro Regno corrispose gratuitamente in altri tempi piu milioni alla Corona di Spagna, oggi dura fatica a mantenere a se stesso il
sostentamento per le tante soldatesche francesi introdotte con apparenza di conservatione, benche destinate ad effettivo esterminio. Se
poi miriamo il futuro, noi vediamo, che col riconoscere il nostro Carlo,
veniamo ad assicurarsi d'un gran tesoro perenne, merce che la corrispondenza di queste due Case Augustissime apriraÁ a noi un commodo
commercio con l'Austria e con altre confinanti Provincie, ove trasportando le vettovaglie, di cui abbondiamo [e ne] ritraremo con sicurezza
quegl'utili, ch'al presente ci vengono impediti ed usurpati» 115.
La citazione contiene un elemento interessante relativamente al giudizio sulla situazione economica del regno meridionale durante il viceregno, fino alla morte di Carlo II. Un regno «florido», in grado di
soddisfare le esigenze finanziarie della Corona spagnola per svariati
«milioni», eÁ un'immagine inconsueta e forte per chi eÁ abituato dall'Italia a guardare agli ultimi anni della Spagna imperiale come ad un
periodo di profonda crisi politica e di recessione economica. All'origine della visione pessimistica v'era il mito costruito dalla storiografia
spagnola dell'etaÁ romantica di un'enorme espansione della Spagna nel
Cinquecento, cui faceva contrasto drammatico la decadenza del secolo
114
115
A.A.EÂ, Correspondance politique, Naples, vol. 18, f. 154r.
Ivi, f. 149v.
162
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
seguente 116. In Italia la critica romantico-idealistica ha sempre ritenuto
che la situazione della Penisola non potesse essere interpretata fuori
dai piu ampi schemi culturali e collettivi propri di un'etaÁ di crisi.
Prescindendo dalle dimostrazioni offerte di recente dalla storiografia
economica sulla buona capacitaÁ reddituale del regno di Napoli anche
alla fine XVII secolo, tesi che tendono a dimostrare l'attendibilitaÁ del
nostro testimone, occorre interrogarsi sulla tenuta del sistema politico
imperiale spagnolo a fronte di una generale ed indubbia crescita dell'economia di parecchie sue zone periferiche 117.
In effetti, cioÁ che Sabatini nota per l'Italia spagnola, ribaltando
vecchie e deformanti tesi storiografiche sulla crisi di fine secolo, trova
molte corrispondenze in altre zone dell'impero. Diversi indicatori economici sembrano dimostrare una tendenza positiva dell'economia, con
un chiaro saldo al rialzo per le regioni mediterranee e cantabriche ed
una situazione di crisi nelle zone della Meseta. Lo storico americano
Ringrose ritiene che la crescita smisurata di Madrid distrusse la rete
mercantile pre-esistente fin dal primo decennio del XVII secolo, con il
risultato paradossale che la capitale politica dell'Impero era inserita in
un mercato angustamente regionale ed incapace di crescere 118. La Ca116
Come ha dimostrato in un lavoro pioneristico H. Kamen, The Decline of Spain a
Historical Mith?, in «Past and Present», n. 8 (1972). Sull'argomento eÁ ritornato con puntuali
osservazioni J. Israel, The decline of Spain: a Historical Mith?, ivi n. 91 (1981), pp. 170-80 e
The seventeenth-century crisis in New Spain: myth or reality?, ivi n. 97 (1982), pp. 150-6. PiuÂ
recente il contributo di M. A. Ladero Quesada, La ``decadencia'' espanÄola como argomento
historiograÂfico, in «Hispania Sacra», 48 (1996), pp. 5-50, cui si rimanda per la bibliografia.
117
Sabatini, La spesa militare, cit. (cap. II, nt. 134, p. 103), cui si rimanda per la
bibliografia relativa alla penisola italiana. L'economia, peroÁ, non poteva rimediare al collasso
del sistema reso evidente dal confronto con altre realtaÁ nazionali.
118
D.R. Ringrose, Madrid y la economõÂa espanÄola, 1560-1850, Alianza, Madrid 1985.
Sull'impressionante trend demografico, cfr. M.F. Carbajo Isla, La poblacioÂn de la villa de
Madrid, Madrid 1987. A risultati uguali giunge B. Yun Casalilla, Sobre la transicioÂn al
capitalismo en Castilla. EconomõÂa y Sociedad en Tierra de Campos (1500-1830), Junta de Castilla
y LeoÂn, Salamanca 1987. Cfr., inoltre L.J. Coronas Vida, Endeudamiento y crisis de la
comunidad rural en Castilla la Vieja durante el Antiguo ReÂgimen: la villa de Mahamud y el senÄorõÂo
de VillahizaÂn, in «BoletõÂn de la InstitucioÂn FernaÂn GonzaÂles», n. 208, pp. 87-124; A. GarcõÂa
Sanz, Desarollo y crisis del Antiguo ReÂgimen en Castilla la Vieja, Akal, Madrid 1986; Per le altre
regioni della penisola, qualche titolo eÁ A. GarcõÂa Sanz, JaeÂn, siglo XVII. BiografõÂa de una
ciudad en la decadencia de EspanÄa, DeputacioÂn, JaeÂn 1994; A. GaÂmez AmiaÂn, ¿Una o varias
agriculturas en la AndalucõÂa del siglo XVIII, in Estructuras agrarias y reformismo ilustrado en la
III. La politica di Luigi XIV
163
stiglia era stata tradizionalmente il centro dell'organizzazione politica
spagnola soprattutto per la capacitaÁ di sostegno economico al governo.
Il crollo della sua economia e l'avanzare delle periferie comportoÁ evidentemente l'incapacitaÁ del punto mediano di mantenere in equilibrio
l'intero sistema contro le forze centrifughe. In cioÁ potrebbe risiedere
una delle concause del crollo delle logiche su cui si fondava lo Stato
spagnolo, le cui classi dirigenti aspiravano ad una riforma politica che
rimettesse all'originario posto di comando la Castiglia. Ai castigliani il
modello francese dovette apparire come il piu conveniente per un rilancio della centralizzazione. Nel regno di Napoli dopo sette anni di
sperimentazione di uno stile di governo di quel tipo, la logica del vecchio blocco economico-politico-sociale prevalse fortunosamente grazie
ad una congiuntura internazionale favorevole all'Austria ed ai suoi
alleati. Non sappiamo dire cosa sarebbe avvenuto nel regno italiano
senza l'intervento di questo deus-ex-machina; tuttavia i contemporanei
avevano chiara percezione che l'intero sistema avrebbe subõÂto dei notevoli mutamenti. Biscardi, nell'analizzare per conto del governo francese la situazione del Regno, richiamava l'attenzione sul rapporto di
scala esistente tra gli enormi ed antichi mali e la necessitaÁ di grandi
riforme, che potevano attuarsi solamente in condizioni politiche
straordinarie. Al punto che il fallimento della congiura aristocratica
del 1701 era da imputare ai timori della borghesia ch'era nata e si era
sviluppata attorno alla gestione del debito pubblico, dal quale «cette
bourgeoisie et les honnetes gens ont leur principales subsistences» 119.
7. Conclusioni
L'arrivo degli imperiali a Napoli nel 1707 pose fine all'azione
politica del re di Francia, lasciando in sospeso i processi che egli
aveva innescato: in primo luogo la riforma costituzionale per un
esecutivo piu forte e il rilancio della nobiltaÁ come classe dirigente.
EspanÄa del siglo XVIII, Min. de Agricultura, Madrid 1989; R. Lanza GarcõÂa, La poblacioÂn y el
crecimiento econoÂmico de Cantabria en el Antiguo ReÂgimen, Univ. Autonoma de Madrid - Univ.
de Cantabria, Madrid 1991.
119
Cfr. supra, cap. II, par. 9.
164
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
Certo, nel complesso, le iniziative francesi non ebbero uno sbocco istituzionale concreto; ma non si puoÁ dire che non ebbero seÁguito,
poiche mostrarono in funzione un diverso modello di sviluppo, che
indusse molti a meditare sulle arretratezze del Mezzogiorno ed ancor
oggi ci aiuta a capirle. Per altro, la breve durata e l'esito negativo di
quel riformismo furono le cause che hanno portato la storiografia a
trascurare quei segni eloquenti. Ma il compito attuale attribuito agli
storici non eÁ di enumerare gli eventi, secondo metodi paleopositivistici: comporta, invece, l'ambizione, ben piu complessa, di fare emergere e di capire a fondo i processi del passato quali fenomeni che
furono la causa di quelli in corso.
Anche le scelte compiute dai nostri avi obbedivano a tendenze
pregresse, di origine spesso lontana, che risentivano di flussi sotterranei, per cosõÂ dire `carsici', erano la conseguenza di altre opzioni,
legate a situazioni storiche diverse, i cui effetti si erano cristallizzati
in sostanziali strutture mentali. Ogni esperienza umana e sociale si
traduce in una fondamentale trasformazione della materia cerebrale
soggettiva, e dunque tutto il presente eÁ storia. Compito del ricercatore non eÁ quello dell'archivista che, dedicandosi per caso a determinati documenti, li registra tutti in modo `oggettivo', li raccoglie in
fasci e li numera ad uso di chi li vorraÁ riportare in vita. Lavoro
prezioso, che eÁ preliminare alla ricerca dello storico: egli deve servirsi
di quei dati per formulare diagnosi utili a risolvere le difficoltaÁ attuali, che aiutino a capire fenomeni nati da cause di origine antica. Per
cogliere la ragione di quell'andamento, eÁ necessario penetrare nella
trama profonda delle identitaÁ sociali. Lo storico deve illuminarne la
sostanza e le tendenze, deve coglierne il modo di essere e di evolversi.
Nel nostro caso, l'impatto del modello statale francese sul Mezzogiorno durante la guerra di successione spagnola creo un attrito
formidabile tra alcune pubbliche `sostanze', tra le mentalitaÁ italiane,
spagnole e francesi piu antiche, che erano tra loro molto diverse. Ne
nacquero scintille, che emersero chiaramente ed illuminarono la vita
civile dei contemporanei. Quelle luci ci forniscono ancora segni certi
sulle condizioni di allora, che sono all'origine di molti problemi ancor
oggi irrisolti.
165
IV
TENDENZE DI METAÁ SECOLO
TENTATIVI DI ADOTTARE L'ECONOMICISMO FRANCESE
1. Le difficili letture della politica tardomercantilista
Il tema della regolazione governativa in senso tardomercantilistica delle relazioni commerciali tra il regno del Sud d'Italia e la Francia
meridionale rientra in pieno nella questione dei rapporti tra politica
interna, estera ed economia: quindi dell'influenza reciproca tra poteri
delle une e dell'altra in etaÁ moderna, che eÁ materia assai difficile da
trattare per il suo sostanziale collocarsi su piu livelli di lettura. Su tali
differenti superfici dobbiamo infatti porre: 1) le istituzioni politiche, il
loro ruolo e la loro evoluzione; 2) le economie nazionali, il loro stato ed
il loro sviluppo; 3) le teorie economiche e la loro relativa traduzione in
prassi di governo. Oltre alla necessitaÁ di tenere ben presenti tali differenti punti di vista al fine della costruzione di un frame dalle sufficienti capacitaÁ esplicative, a complicare ulteriormente il quadro si
aggiunge la riconosciuta autonomia della politica internazionale e della
sua sfera, che dalla sintesi dei singoli fattori fa emergere assetti di cui
tener conto in vista di ciascun cambiamento. Infatti, come ha dimostrato la recente scienza politica anglo-americana, la dimensione internazionale va tenuta ben distinta dalla politica estera dei singoli
Stati, ne puoÁ essere spiegata come semplice somma di esse 1. Per Ken1
Mi riferisco agli autori di tre libri che hanno segnato fondamentali cambiamenti
nella scienza della politica internazionale: H.J. Morgenthau, Politics among Nations,
New York 1948; M. Kaplan, System and Process in International Politcs, New York 1957
e K.N. Waltz, Theory of International Politcs, New York 1979 (trad. it. Bologna, 1987).
Quest'ultimo volume, pur al centro di un dibattito animatissimo tra gli specialisti, risulta
essere il testo piu frequentemente adottato nei corsi universitari statunitensi di relazioni
internazionali (cfr. H.R. Jr. Alker e T.J. Biersteker, The Dialectics of World Order:
Notes for a Future Archeologist of International Savoir Fair, in «International Studies
Quaterly», XXVIII (1984), n. 1). Per la vicenda intellettuale del Neorealism, di cui
Waltz eÁ considerato il capofila, rimandiamo al volume curato da R. Keohane, Neorealism and Its Critics, New York 1986.
166
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
neth Waltz, ad esempio, eÁ un errore tipico dello scienziato politico
confondere una teoria della politica internazionale con una teoria della
politica estera, perche la «confusione sulle pretese esplicative di una
teoria dell'equilibrio formulata correttamente trova le sue radici nell'incerta distinzione fra politica nazionale ed internazionale», se non
addirittura nel diniego di tale differenza 2. Dopo un secolo di scontri
tra idealisti e realisti, tra historicists e scientists, tra positivisti e postpositivisti, tra razionalisti e costruttivisti, le scienze politiche contemporanee hanno costruito approcci molto sofisticati per definire e spiegare la realtaÁ delle relazioni internazionali. Lo scetticismo sull'efficacia dei modelli esplicativi elaborati dalle teorie della politica internazionale cosiddette ``riduzioniste'' ha portato alla creazione di tipi di
spiegazione ``sistemica'', che costituirebbero la risposta alle pretese
unilaterali che sia l'economia ad influenzare la politica o viceversa 3.
2
Vale la pena citare l'intero passo di Waltz per illustrare meglio la potenza euristica di questa tesi, poco conosciuta in Italia al di fuori dello strettissimo ambito degli
specialisti di Relazioni Internazionali: «per coloro i quali negano la distinzione e formulano spiegazioni interamente di unitaÁ interagenti, le spiegazioni della politica internazionale sono anche spiegazioni della politica estera e viceversa. Altri mescolano le proprie pretese esplicative e confondono il problema della comprensione della politica
internazionale con quello della comprensione della politica estera; (...) le difficoltaÁ di
spiegare la politica estera lavorano contro l'elaborazione di teorie di politica internazionale solo se queste ultime si riducono alla prima» (cit. dall'ediz. italiana, pp. 230-1). Ci
corre l'obbligo di una veloce annotazione sullo stato dell'arte della disciplina delle
Relazioni Internazionali in Italia, perche il suo limitatissimo spazio accademico si riflette negativamente sugli apporti che potrebbe offrire anche alla storiografia politica.
Dopo il lavoro di N. Bobbio, Saggi sulla scienza politica in Italia, Bari 1969, che individuava l'ostacolo principale allo sviluppo della disciplina nella Penisola nell'impatto forte
e duraturo dell'approccio storicistico di Benedetto Croce sulla realtaÁ politico-culturale
del secondo dopoguerra, ancora nei primi anni Novanta L. Morlino (La scienza politica
italiana: tradizione e realtaÁ, in «Rivista Italiana di Scienza Politica», a. 1991, n. 1, pp. 91124) insisteva su tre motivi ben noti della resistenza italiana all'introduzione di nuove
forme di cultura: una visione «ancillare» della politica che deriva dall'idealismo, sia esso
di destra che di sinistra, la resistenza accademica ad un possibile nuovo imperialismo di
matrice statunitense ed il carattere fortemente ideologico del pensiero politico italiano
sia nella versione marxista che cattolica. Quadro non ancora mutato agli inizi del nostro
secolo, come risulta dal piu recente lavoro di Sonia Lucarelli e Roberto Menotti, Le
relazioni internazionali nella Terra del Principe, in «Rivista Italiana di Scienza Politica», a.
XXXII, n. 1, apr. 2002, pp. 31-82, che aggiungono ulteriori ed altrettanto interessanti
elementi di discussione ai precedenti.
3
La riduzione alla matrice economica capitalistica del fenomeno dell'imperialismo
IV. Tendenze di metaÁ secolo
167
Una buona scienza delle relazioni internazionali individua una parte
delle cause nella sfera autonoma della pratica del governo, sapendo
distinguere tra conoscenze economiche, sociali e teorie politiche. Si
tratta, tuttavia, di una distinzione che postula l'integrazione tra i vari
fattori, affermando nello stesso tempo l'«autonomia» della politica. E
il concetto di approccio sistemico, generato anche in alcuni dal rigetto
dell'«illusione induttivista», ci torna utile per poter definire e spiegare
i rapporti tra Stati nell'Europa del XVIII secolo 4.
Per queste ragioni l'intera vicenda settecentesca del mercantilismo e del tardomercantilismo va inscritta dentro il complesso sistema
politico europeo e non limitata dentro l'analisi di due sole prospettive
nazionali, la francese e l'italiana; ne risulta altrimenti un quadro
riduttivo della complessa realtaÁ storica. Infatti, sotto il profilo delle
caratteristiche generali assunte in quei decenni dalla politica internazionale, allora il mondo era un sistema multipolare, talmente stabile
da poter essere considerato come l'apogeo dell'equilibrio di potenza,
in considerazione del fatto che un gran numero di soggetti internazionali, i piu forti, interagivano e riuscivano a compensare il trasformarsi del potere e della sua distribuzione attraverso repentini cambiamenti di alleanze, resi possibili dall'assenza di profonde spaccature ideologiche e di altro tipo 5. Per i tre secoli dell'etaÁ moderna e
fu teorizzata per primo da Hobson, seguita da Lenin e ripresa dalle teorie dei neocolonialisti, per giungere fino a Wallerstein.
4
La formula tra caporali eÁ di C. LeÂvi-Strauss, molto critico nei confronti degli
scienziati sociali che pensano di arrivare alla certezza attraverso l'accumulo di dati. Si daÁ
per inteso che un ``sistema'' si compone di due elementi: una struttura e le unitaÁ interagenti. La struttura eÁ la componente estesa a tutto il sistema che rende possibile pensarlo
come un intero, cfr., tra i classici della teoria dei sistemi applicata a diverse discipline: A.
Angyal, The Structure of Wholes, in «Philosophy of Science», gen. 1939; W.R. Ashby, An
Introduction to Cybernetics, London 1964; W. Burckley (a cura di), Modern Systems Research for the Behavioral Scientist, a Sourcebook, Chicago 1968; L.V. Bertalanffy, General
System Theory, New York 1968; S.F. Nadel, The Theory of Social Structure, Glencoe 1957;
M.G. Smith, On Segmentary Lineage System, in «Journal of the Royal Anthropological
Institut of Great Britain and Ireland», n. 86, lug.-dic. 1956.
5
Copiosa eÁ la letteratura sulla teoria dell'equilibrio, cfr. E. Haas, The Balance of
Power: Prescription, Concept or Propaganda, in «World Politics», vol. 5, n. 4, lug. 1953,
pp. 442-77, che ha individuato otto significati diversi del termine, e spec. M. Wight,
The Balance of Power, in Diplomatic Investigations: Essay in the Theory of International
Politics, London 1966.
168
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
fino al 1945 la struttura della politica internazionale eÁ cambiata una
sola volta, con il passaggio da un sistema multipolare ad uno bipolare 6. La lunga durata della politica europea multipolare sembra inoltre
dimostrare la stabilitaÁ di un sistema politico-internazionale anarchico
e non gerarchizzato.
Tuttavia, come nel caso delle teorie delle relazioni sopranazionali (che spiegano alcune leggi della politica internazionale e, solo
secondariamente, servono a fornire delle informazioni sulle politiche
estere degli Stati e sulle loro relazioni economiche), una storia della
politica internazionale non pretende di rendere interscambiabili storiografia politica ed economica, quantunque la prima sia in grado di
dire qualcosa anche sull'economia.
2. Nuove prospettive di ricerca sul commercio settecentesco
Alle difficoltaÁ metodologiche sopra esposte ed alle ambiguitaÁ
scaturenti dalla diversitaÁ e frammentazione delle fonti, altre ancora
si aggiungono, che proviamo ad illustrare in breve. Ad un primo
approccio esse si presentano come interne agli statuti epistemologici
di settori della storiografia, come il politico-istituzionale. Quest'ultimo eÁ stato infatti attraversato in anni recenti da un radicale rinnovamento delle prospettive: lo dimostra il farsi strada di un generale
atteggiamento fortemente problematico in cui faticano a formarsi
ortodossie interpretative. Ora, a prescindere dalle genealogie di questo modificarsi dei punti di vista della storiografia politica, il risultato
piu evidente della svolta indicata consiste nell'abbandono di modelli
di comprensione che prendevano di mira solamente lo strato statale
del potere ed il livello ufficiale del diritto.
La sfera delle istituzioni politiche comprende tutti quegli orga6
Nel 1700 le grandi potenze erano: Turchia, Svezia, Olanda, Spagna, Austria,
Francia, Inghilterra; nel 1800: Francia, Austria, Inghilterra, Prussia, Russia; nel 1875:
Austria, Francia, Inghilterra, Prussia (Germania), Russia, Italia, Giappone; nel 1910:
Austria, Francia, Inghilterra, Prussia (Germania), Russia, Italia, Giappone e Stati Uniti;
nel 1935: Francia, Inghilterra, Prussia (Germania), Russia, Italia e Stati Uniti; nel 1945:
Russia (Unione Sovietica) e Stati Uniti. Cfr. Q. Wright, A Study of War: Second Edition,
with a commentary an war since 1942, Chicago 1965, appendice 20, tabella 43.
IV. Tendenze di metaÁ secolo
169
nismi nei quali si poneva il problema di un governo politico, da
qualunque parte esso fosse gestito, sia dall'alto sia dal basso, dal
centro come dalla periferia, attraverso organi monocratici o consiliari. L'analisi ``diffusa'' del potere, cioeÁ «au ras des comportements des
acteurs», consente di armonizzare tra di loro la sfera macro-politico/
economica e quella micro-politico/economica, cosõÂ come sembrano
dimostrare recenti lavori sulla Francia del XVIII secolo. Questo
modo di procedere risolve annosi problemi d'interpretazione storica:
abbatte ogni rigida contrapposizione tra Stato e societaÁ, e privilegia
la prospettiva che guarda alla pratica della regolazione economica,
nella consapevolezza che i molteplici livelli della stessa riorganizzazione non si collocavano tutti dentro la sfera statale. Tra gli esempi
possibili, citiamo l'operazione storiografica di Philip Minard sul colbertismo. Egli riesce a stemperare il colore nero della leggenda nata
sulla vicenda del colbertismo, rivelando ch'essa era frutto dell'apologia anglofila del laisser-faire e del clima generale della seconda metaÁ
del secolo dei Lumi. Vengono per questa via restituiti al lettore i veri
aspetti del gioco creato dallo Stato francese di fine Seicento. Ad esso
partecipavano almeno quattro soggetti: il potere centrale che fungeva
da croupier, i ``corps de meÂtier'', i detentori di privilegi particolari e la
regolamentazione uniforme 7. Questa operazione storiografica costituisce un passo avanti per la ricerca: se si fosse rimasti al livello di
lettura della teoria mercantilistica collocata di fronte alla prassi governativa, sarebbero state escluse dall'analisi le reazioni dei gruppi
sociali e degli attori economici colpiti dallo choc voluto da Colbert.
Anche il secondo livello di lettura, quello delle economie di antico
regime, ha visto aumentare negli ultimi anni la crescita di approcci
revisionistici delle tesi classiche dell'imperialismo e del terzomondismo: visuali dirette a valutare in maniera tutto sommato positiva ed
ottimistica il ruolo dei flussi commerciali a lunga distanza sulla crescita
complessiva dei soggetti economici meno progrediti e piu deboli 8. Gli
Quello di Minard, La fortune du colbertisme. EÂtat et industrie dans la France des
LumieÁres, Paris 1998, eÁ solo un esempio tra i tanti.
8
Sull'argomento cfr. G. Federico, Commercio estero e «periferie», Il caso dei paesi
mediterranei, in «Mediterranea», n. 4, sett. 1998, pp. 163-96.
7
170
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
ultimi decenni hanno poi visto descrivere con piu certezza la ``logica''
dei commercianti d'antico regime: essa non conosceva alcun limite
geografico, superava spesso le frontiere politiche e possedeva delle
gerarchie interne, che tuttavia si costruivano e si modificavano all'incontro con peculiaritaÁ locali, regionali e nazionali. Ogni rete commerciale cosõÂ formata dipendeva da altrettanti segmenti di mare, fossero
essi il Mediterraneo o gli Oceani. Ma nessun mare del pianeta, almeno
fino al secolo XVII, era controllato o dominato totalmente da qualche
Stato, da qualche cittaÁ o da qualche signore feudale, quanto piuttosto
dai complessi «sistemi mercantili», dentro i quali si collocavano anche
gli Stati, con la loro politica interna, quella internazionale e con i
propri agenti. CosõÂ, ancora nel Settecento, secolo in cui fu potenziato
il controllo statale sui mari, gli europei mal conoscevano i loro litorali,
la cui stragrande maggioranza appariva come spazio mal organizzato
dai poteri locali e centrali, che, per ragioni simili o divergenti, tentavano di ordinarli per meglio controllarli 9.
Questo revisionismo ha consentito la scrittura di alcune nuove
pagine della storia del Mezzogiorno d'Italia. Un percorso di ricerca
sui traffici commerciali tra Marsiglia ed il Mezzogiorno d'Italia, avviato sessant'anni fa da Ruggiero Romano, eÁ stato ripreso da Maria
Antonietta Visceglia e Biagio Salvemini nel quadro di una profonda
riconsiderazione delle linee di evoluzione dell'economia meridionale
tra XVIII e XIX secolo 10. Il loro lavoro, datato 1991 e poi proseguito
da Salvemini sui fondi della magistratura marsigliese della SanteÂ, ha
consentito di offrire alcune risposte esaurienti ai dubbi esposti da
A. Cabantous, Les «secondes deÂcouvertes»: les EuropeÂens et leurs littoraux au XVIIIe
sieÁcle, in «Bulletin de la SocieÂte d'Histoire Moderne et Contemporaine», a. 1997, n. 1-2,
pp. 56-67.
10
R. Romano, Le commerce du Royaume de Naples avec la France et les pays de
l'Adriatique au XVIIIe sieÁcle, Paris 1951. B. Salvemini-M.A. Visceglia, Marsiglia e il
Mezzogiorno d'Italia (1710-1846). Flussi commerciali e complementaritaÁ economiche. Prima
parte, in MeÂlanges de l'Ecole FrancËaise de Rome. Italie et MeÂditerraneÂe, t. 103, a. 1991, 1,
pp. 103-63; Id., Pour une histoire des rapports eÂconomiques entre Marseille et le Sud de
l'Italie au XVIIIe et au deÂbut du XIXe sieÁcle, in «Provence historique», fasc. n. 177, a.
1994, pp. 321-65. Su questi nuovi orientamenti storiografici, cfr. P. Bevilacqua, Il
Mezzogiorno nel mercato internazionale (secoli XVIII-XIX), in «Meridiana», n. 1, a.
1987, pp. 19-46.
9
IV. Tendenze di metaÁ secolo
171
Romano, spostando l'attenzione dai bilanci centrali dello Stato francese e napoletano alle modalitaÁ di funzionamento del sistema degli
scambi e delle dinamiche di un mercato internazionale che specializzava i flussi delle merci tra il centro e la periferia europea, in funzione
di una domanda di materie prime richieste dai paesi in via d'industrializzazione 11. La loro analisi mostra in maniera convincente come
sia fallace, se non addirittura falso, fondare la tesi della marginalitaÁ
del mercato internazionale nelle societaÁ preindustriali su valutazioni
quantitative aggregate, dal momento che un'analisi ravvicinata mostra l'estrema varietaÁ delle aree economiche pur all'interno della
stessa regione, «fette piccole ma strategicamente decisive nel reddito
complessivo» 12.
CosõÂ, il Mezzogiorno d'Italia perde i tratti della lunga immobilitaÁ
temporale (condizione che poteva registrare nei rapporti con la Francia al piu l'eccezione di un commercio «aÁ la cueillette» che, come
denotava Romano, «non eÁ qualcosa cui si possa attribuire rimbombanti attributi»), ma non si presenta piu nemmeno «con la fisionomia
omogenea che ha contrassegnato la sua morfologia spaziale» 13. Il
traffico marittimo dell'Italia meridionale «assume cosõÂ una configurazione non lineare che comporta dei costi di trasporto e d'intermediazione relativamente elevati, ma che si rivela tuttavia flessibile e
solida» 14. Al punto, come riveleraÁ in un'indagine successiva lo stesso
Salvemini, che il commercio « aÁ la cueillette» (questa volta procedente dal sud al nord del Tirreno) saraÁ capace di modificare alcuni assetti
tradizionali nelle zone d'interesse, creando nuovi gruppi sociali (lavoratori che risultano da un'amalgama di seamen, colpoteurs ed imprenditori).
Ovviamente, essi sono sembrati lontani dalla possibilitaÁ di scardinare il tradizionale assetto tripartito delle societaÁ d'antico regime,
11
Sulla discussa utilitaÁ dei bilanci statali nell'era proto-statistica si rimanda ai
pioneristici lavori di Michel Morineau.
12
Salvemini-Visceglia, Marsiglia e il Mezzogiorno d'Italia (1710-1846). Flussi commerciali, cit. (nt. 10), p. 104.
13
Salvemini-Visceglia, Pour une histoire des rapports eÂconomiques entre Marseille et
le Sud de l'Italie cit. (nt. 10), p. 341.
14
Ivi, p. 347. I corsivi sono miei.
172
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
ma non per questa apparente ragione non meriterebbero studi piuÂ
approfonditi. La valorizzazione dell'olio calabrese o la reinvenzione
del grano siciliano non solamente modificano il quadro della geografia degli scambi, ma riescono a creare un'«innovazione», seppur «precaria», perche travolta infine dalla grande marcia di nuovi cicli storici
(l'industrializzazione del nord-Europa) che si andavano sommando a
processi iniziati secoli prima.
CioÁ significa che le possibilitaÁ delle economie di aree subregionali dell'Italia meridionale d'inserirsi nella dialettica dei mercati eÁ da
valutare in modo rigorosamente realistico, all'interno di un quadro
complessivo, anche questo ancora da scoprire, in cui la Francia, Spagna, Inghilterra e la restante Europa si confrontavano e si scontravano con forme di organizzazione politiche ed economiche molto
diverse, creando riflessi e ripercussioni sull'intera area mediterranea,
come ben comprese e descrisse Montesquieu. CosõÂ, la collocazione
della ricerca storica all'interno di un quadro molto piu ampio e problematico impone di valutare diversamente gli effetti della dominazione straniera, spostandone la diagnosi dal moralismo, che deriva
dallo schema interpretativo liberale di tipo ottocentesco e risorgimentale, agli effetti pragmatici, empirici, strutturali, che sono ancora
fortemente attivi nel profondo delle mentalitaÁ.
Queste nuove strategie storiografiche, che meglio consentirebbero di rispondere alla nostra iniziale domanda, sono stimolate e
sostenute in gran parte dallo stato della documentazione, essa stessa
frutto del lavoro politico-istituzionale dell'epoca. Quando questi dati
mancano al ricercatore non rimane altro che arrangiarsi come puoÁ 15.
Nella meno auspicabile delle ipotesi di lavoro egli puoÁ decidere di
ritornare alla vecchia strategia interpretativa di marca idealistica
fondata sul confronto tra teoria e prassi, dove la seconda, com'eÁ
ovvio, viene desunta dalla prima. PuoÁ ancora tentare di ricavare
notizie piu o meno dirette da altre fonti mai esplorate, come nel caso
15
Peggiore il caso della loro esistenza ma dell'impossibilitaÁ di fruirne per colpa dei
depositari, come nel caso della napoletana Segreteria d'Azienda, il cui fondo attende da
secoli d'essere riordinato.
IV. Tendenze di metaÁ secolo
173
della politica internazionale, al fine di verificare i «gradi di libertaÁ
nella determinazione dei propri percorsi evolutivi e le opportunitaÁ
che le compagini sociali si danno», al fine di associarle al «restringimento speculare che esse riescono ad indurre nelle opportunitaÁ di
altre compagini» 16.
Quest'ultima prospettiva abbiamo scelto di utilizzare nel tentativo di chiarire alcuni aspetti del tardocolbertismo e del tardomercantilismo franco-ispano-napoletano. In primo luogo perche siamo convinti
del fatto che i meccanismi di dominazione, di dipendenza e di crescita
bloccata nella storia europea dell'etaÁ moderna non sono mai stati
irreversibili e che l'allargamento, pur modesto, del mercato interno,
la partecipazione alla divisione internazionale del lavoro hanno sicuramente favorito l'emersione di una borghesia commerciante.
Nel caso di specie, occorre tentare di comprendere perche e
come il conflitto che nacque spontaneo tra il dinamismo di questi
nuovi ceti (delle cui esigenze fu portavoce autorevole Antonio Genovesi, maestro di generazioni di ``regnicoli provinciali'') e l'immobilismo dei gruppi che beneficiavano dello status quo e della dipendenza dalla Spagna fu eluso dalle classi dirigenti dello Stato meridionale. Quest'ultimo aspetto apre un'altra serie d'interrogativi non
meno importanti sulla natura della libertaÁ che possedevano le compagini sociali nella determinazione dei propri percorsi evolutivi.
3. Influenza commerciale francese in Spagna alla fine del Seicento
La storiografia piu recente descrive l'intera vicenda settecentesca della politica economica spagnola come il tentativo di superare i
vecchi modelli mercantilisti sia ispano-portoghese sia anglo-olandese,
che erano stati assunti a guida dai rispettivi governi tra XVI e XVII
secolo 17. Ambedue gli schemi di politica economica, pur mirando allo
16
Salvemini-Visceglia, Marsiglia e il Mezzogiorno, cit. (nt. 10), p. 104.
Un riassunto di questa politica, delle conseguenze e degli orientamenti storiografici piu recenti in AgustõÂn GonzaÂles Enciso, La industria espanÄola y su renovacioÂn, in
Aa.Vv., Spagna e Mezzogiorno d'Italia nell'etaÁ della transizione, a cura di Luigi De Rosa e
Louis Enciso Racio, E.S.I., 1997, pp. 253-80.
17
174
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
stesso scopo, cioeÁ l'accaparramento di metalli preziosi, differivano
notevolmente nei metodi. Per Spagna e Portogallo era infatti facile il
conseguimento di oro ed argento per le vie politiche e militari del
colonialismo, mentre Inghilterra ed Olanda organizzarono un sistema commerciale che avrebbe dovuto attrarre i metalli preziosi trasportati in Europa dagli stessi paesi iberici, e che finiva con lo sviluppare un'altra forma di colonialismo. Il discrimine tra i due metodi
non era di poco conto e, come sappiamo, fu foriero di straordinarie
conseguenze: le due nazioni nordiche, per la necessitaÁ di offrire
prodotti al proprio sistema mercantile, crearono condizioni di sviluppo industriale, ed alcune iniziative economiche erano giaÁ avviate a
partire dal XVI secolo 18. Tuttavia la dittatura dell'ideologia coloniale
di marca iberica fu messa in discussione solamente dopo la seconda
metaÁ del Seicento, quando cadde ogni certezza di un progresso che
fosse il risultato dell'afflusso di metalli preziosi e dell'espansione
coloniale 19.
Nel 1679, con l'istituzione della Junta de Comercio y Moneda, la
Spagna inaugurava una politica ispirata a criteri diversi dal diretto
sfruttamento coloniale e finalizzati all'incremento della produttivitaÁ:
era una chiara influenza del modello anglo-olandese. Certo eÁ che la
politica della Junta doveva essere orientata ad aumentare la produzione industriale attraverso l'abbassamento del carico fiscale, mediante la ricerca sul mercato del lavoro internazionale di manodopera
altamente specializzata, mostrando, infine, un'attenzione particolare
per il commercio, nel tentativo di rivitalizzare quello americano 20.
18
Si tratta di un tema classico della storiografia, su cui, per le origini, cfr. J.U. Nef,
Industry and Government in France and England, 1540-1640, Ithaca 1969, mentre, per i
risvolti successivi, cfr. F. Crouzet, De la supeÂriorite de l'Angleterre sur la France. L'EÂconomique et l'Imaginaire XVIIe-XXe sieÂcles, Paris 1985.
19
A.M. Bernal, EspanaÄ, proyecto inacabado. Los costes/beneficios del Imperio, Marcial Pons Historia, Madrid 2005, passim.
20
Sull'argomento, che tende a spostare negli ultimi anni del regno di Carlo II
l'impegno riformista di marca afrancesada, cfr. la tesi di AgustõÂn GonzaÂles Enciso,
PresioÂn polõÂtica y modelo mercantilista. La renovacioÂn de la polõÂtica ecoÂnomica espanÄola
(1679-1720), in Aa.Vv., Poteri economici e poteri politici. Secc. XIII-XVIII, a cura di
Simonetta Cavaciocchi, Le Monnier, Firenze 1999, pp. 651-62, mentre sull'esistenza
di un pensiero economico spagnolo contemporaneo a quello inglese, che aveva di mira il
IV. Tendenze di metaÁ secolo
175
Per evidenti somiglianze politiche e per una certa circolaritaÁ
ideologico-culturale, cui si aggiunsero nuove, concrete comunanze
d'interessi commerciali e finanziari, la politica della Junta, almeno
fino alla successione borbonica, trasse queste indicazioni dal modello
francese, che nell'epoca dello splendore di Luigi XIV aveva raggiunto
ragguardevoli traguardi politici nel continente europeo 21. Com'eÁ noto, quel sistema si fondava su tre strumenti considerati fondamentali,
che tuttavia non furono pedissequamente adottati dagli spagnoli,
soprattutto dopo il cambio dinastico: una politica doganale che rendeva difficili le esportazioni di materie prime e le importazioni di
manufatti; una politica industriale che mirava a moltiplicare le manifatture, accordando loro una serie di franchigie ed esenzioni fiscali;
una politica di formazione della manodopera, che si fondava sull'acquisizione e diffusione di competenze tecnologiche estere.
EÁ da notare che, per effetto di un cambiamento generale delle
mentalitaÁ maturato dal pensiero critico, una nuova forma di governo
si esprimeva nella Francia a cavallo tra i due secoli. Il ``Concilio del
Commercio'' istituito da Colbert a Parigi, cercava di realizzare e
regolare un fenomeno nuovo: esperimenti di partecipazione sociale
come teoria e come pratica tardomercantilistica 22. Le procedure amministrative adottate dal Concilio riuscivano a creare tra gli agenti del
re e la popolazione mercantile e manifatturiera francese un circolo
potenziamento del settore manifatturiero, cfr. M. Grice-Hutchinson, El pensamiento
ecoÂnomico en EspanaÄ (1177-1740), Barcelona 1982, pp. 193-4, 198. Sull'interesse della
Junta per il commercio americano, oltre il citato GonzaÂles Enciso, cfr. C. Malamud,
EspaÄna, Francia y el ``comercio directo'' con el espacio peruano (1695-1730), in La economõÂa
espanÄola al final del Antiguo ReÂgimen. vol. III, Comercio y colonias, Madrid, 1982, p. 86
ss.; J. MunÄoz Perez, El comercio de Indias bajo los Austrias y los tratadistas espanÄoles en el
siglo XVII, in «Revista de Indias», a. 1957, pp. 209-21.
21
Sui rapporti tra Francia e Spagna si rinvia a due titoli che rivedono alcuni schemi
storiografici: per la storia ideologico-politica cfr. Schaub, La France espagnole. Les racines
hispaniques de l'absolutisme francËais, cit. (cap. I, nt. 47), mentre per la storia economica,
cfr. Zylbergberg, Une si douce domination. Les milieux d'affaires francËais et l'Espagne vers
1780-1808, cit. (cap. I, nt. 47).
22
Cfr. T. Schaeper, The French Council of Commerce: a study of mercantilism after
Colbert, Ohio 1983 e lo studio successivo di D. Kammerling Smith, Structuring in Early
Eighteenth-Century France: The Political Innovations of the French Council of Commerce, in
«The Journal of Modern History», vol. 74, n. 3, Sept. 2002, pp. 490-537.
176
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
virtuoso e produttivo. L'amministrazione statale puntoÁ, con Louis de
Pontchartrain, Michel Chamillart e Nicolas Desmaretz, a rendere
omogenee, stabili ed efficienti le riforme politiche di Colbert e di
Louvois 23. Si tendeva a stabilire una prassi amministrativa solida ed
una politica economica concertata con i ceti produttivi, attraverso un
sistema di partecipazione dal basso alle politiche mercantili. In questa
nuova fase del mercantilismo francese eÁ stato visto il momento creativo di una nuova mentalitaÁ politica, affermatasi attraverso il principio di razionalitaÁ universale proprio dell'homo úconomicus. Questa
diagnosi eÁ il risultato di recenti tesi revisionistiche delle fasi finali del
regno di Luigi XIV che anticipano di alcuni decenni, rispetto alle
cesure temporali oramai classiche di Furet e Habermas, le ipotesi sulla
nascita dell'opinione pubblica e sulla rottura epistemologica dei paradigmi politici dell'Ancien ReÂgime 24. E come il modello colbertiano
aveva messo in crisi i parlamenti di Francia, cosõÂ questo nuovo modo
di fare politica colpiva in un punto nevralgico l'antica visione della
respublica dei togati, da dove provennero le piu forti resistenze alla
exportation administrative del modello francese nel regno meridionale.
All'interno di questo ciclo di rilancio dell'economia spagnola, nel
regno di Napoli fu fondata la prima Giunta di Commercio (1690),
composta da reggenti togati, provenienti dalla Sommaria e dal Collaterale, oltre che da Francesco D'Andrea, nella qualitaÁ di avvocato
fiscale 25. Come dimostra la lunga discussione sul contrabbando del
tabacco, tutta la prima fase di attivitaÁ dell'organismo fu volta ad
operare contro la feudalitaÁ. Venne inoltre posto al centro dell'azione
mercantilistica il problema delle dogane, poiche i passi, le tariffe e gli
uffici erano cresciuti «in maggior prezzo di stima contro lo stato
23
Cfr. J. Collins, The State in Early Modern France, Cambridge 1995; R. Mettam,
Power and Faction in Louis XIV's France, New York 1988 e J. M. Smith, The Culture of
Merit: Nobility, Royal Service and the Making of Absolute Monarchy in France, 1600-1789,
Michigan 1996, spec. il cap. IV.
24
Cfr. su cioÁ argomenti e bibliografia in D. Kammerling Smith, Structuring in
Early Eighteenth-Century France: The Political Innovations of the French Council of Commerce, cit. (nt. 22).
25
Ascione, Il governo della prassi. L'esperienza ministeriale di Francesco D'Andrea,
cit. (cap. II, nt. 19).
IV. Tendenze di metaÁ secolo
177
caduto del Regno, non per altro cioÁ cagionato che per le accresciute
estorsioni» 26. Secondo i calcoli del D'Andrea esistevano circa ottocento passi, spesso abusivi e riscuotenti diritti illeciti, che in mano al
baronaggio provinciale gravavano sul commercio per circa il trenta
per cento dell'ammontare complessivo.
L'azione della Giunta ebbe echi antifeudali dentro il Collaterale,
ma che furono subitaneamente spenti dalla reazione delle altre componenti sociali. L'argomento affrontato in quella sede di discussione
fu la richiesta d'applicazione dell'ordine del vicere Pedro Afan de
Rivera, che nel 1560 aveva imposto una disciplina secondo la quale
ad ogni passo doveva essere esposta la tabella dei prezzi tariffari. Il
richiamo del D'Andrea all'osservanza di questa vecchia norma contro
le estorsioni praticate nelle province finõÂ col provocare ampie reazioni, una vera e propria carica della «mandria de' ceti» colpiti dalla
riforma, come ebbe modo di annotare qualche giorno dopo il Segretario del Regno 27. CosõÂ, occorreraÁ aspettare un altro ventennio, affincheÁ nel regno meridionale si attivasse un'altra Giunta in materia
economica. Ma essa spostoÁ il centro delle proprie proposte di riforma
economica dalla feudalitaÁ al parassitismo burocratico, che da quel
momento verraÁ indicato come la causa principale dello «stato caduto
del Regno».
Ma ritorniamo alla Spagna. Per l'evidente influenza francese, cioÁ
che difettoÁ nelle scelte spagnole durante il primo quindicennio del
nuovo secolo fu un'adeguata attenzione verso il commercio americano,
sicche i gruppi di asentistas stranieri (in special modo olandesi) e spagnoli furono sostituiti proprio da francesi e l'asiento del commercio
umano dei neri d'Africa fu negoziato con una compagnia cui erano
interessati personalmente Luigi XIV ed il nipote Filippo V 28. Solo dopo il 1715 e i successivi anni Venti la politica economica spagnola seguõÂ
26
Cit. in Ajello, Il vicere dimezzato, cit. (cap. II, nt. 22), p. 144 e passim per
l'attivitaÁ di questa Giunta, e per gli altri due tentativi (1690-93, 1708-11) e per i motivi
del loro fallimento.
27
Ivi, p. 144-5.
28
G.J. Walker, Politica espanÄola y comercio colonial, 1700-1789, Barcelona 1979,
p. 47 ss.
178
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
infatti obiettivi diversi, non piu influenzati dalla corte di Versailles,
cosicche fu possibile raggiungere il traguardo della riforma dell'Azienda, poi dell'intero apparato amministrativo e militare. Intanto, in
seguito al matrimonio del re spagnolo con Elisabetta Farnese, si puntoÁ
in politica internazionale al perseguimento di obiettivi mediterranei.
Scontato eÁ il fatto che, durante questo spazio temporale, le Sicilie seguirono le incerte sorti delle altre regioni dell'ex-impero, in un
periodo in cui erano le risorse finanziarie, non quelle economiche,
l'elemento risolutivo per non perdere la guerra. Come aveva notato il
pubblicista inglese Charles Davenant, le guerre contemporanee non
si esaurivano per l'estinguersi dell'odio tra i contendenti, tanto meno
per mancanza di uomini ad attrezzare gli eserciti, quanto per l'esaurirsi del denaro 29. Un governo falliva il raggiungimento del massimo
obiettivo bellico quando non era nelle condizioni di convincere i
propri nazionali ad investire le proprie ricchezze, per confiance nella
potenza statale, oppure era incapace di adottare misure e stratagemmi finanziari atti a fronteggiare le campagne di guerra. Gli spaventosi
problemi che avevano atteso Filippo V all'arrivo in Spagna (ordine
pubblico, finanza, difesa, questione ecclesiastica, assetto costituzionale di tipo «orizzontale») apparivano ancora piu terribili in relazione
al continuo drenaggio di risorse per la guerra ed al mantenimento
della tranquillitaÁ sociale. Il ceto ministeriale delle Sicilie si trovoÁ,
cosõÂ, a dover fronteggiare ambedue i problemi, adeguandosi al ruolo
di «patrimonial bureaucracy». Questo stato di cose duroÁ almeno fino
all'anno 1714, quando la fine delle ostilitaÁ segnoÁ una traiettoria
nuova e diversa: «el triumfo» della politica «vertical», contro le logiche di verso «orizontal» proprie del vecchio impero. Tuttavia, a
seguito delle decisioni assunte ad Utrecht, le Sicilie erano oramai
lontane dalla vista spagnola di quei tempi. E negli anni precedenti,
i costi della guerra e le difficoltaÁ dell'erario spagnolo avevano spo29
C. Davenant, Ways and Means, in The Political and Commercial Works, a cura di
Charles Whitworth, London 1771, vol. I, p. 15. Sull'Inghilterra di quegli anni, che giaÁ nel
1692 aveva testato con il cancelliere delle scacchiere Charles Montagu il meccanismo del
debito pubblico a lungo termine, cfr. il classico P.G.M. Dickson, The Financial Revolution
in England. A study in the development of public credit, 1688-1756, Macmillan, London 1967.
IV. Tendenze di metaÁ secolo
179
stato i margini del guadagno statale dagli investimenti in Sicilia ai
preparativi per la spedizione in Sardegna, allontanando ogni proposito di riforma economica. CioÁ accadde a discapito della buona volontaÁ mostrata dal marchese di Los BalbaseÁs, vicere di Sicilia.
Fino all'arrivo di Carlo III dalle Sicilie, monarca che riapriva in
maniera continua il discorso sul commercio atlantico, la vita politica
spagnola si presentoÁ come una successione d'influenze italiane e
francesi, che rendevano per tanti versi ``imperfetta'' l'applicazione
del modello colbertista 30. Come ogni generalizzazione, questo schema potrebbe contenere alcune esagerazioni di tipo ideologico. EpperoÁ non si sbaglia nell'individuare il filo rosso della competizione tra i
due modelli tardomercantilistici anglo-olandese e francese, ambedue
perseguiti con alterna costanza dalla classe politica spagnola. Ce ne
fornisce una prova lampante Campomanes che pubblicava nel 1775
un'antologia di autori mercantilisti del Seicento, dando per scontato
che fossero ancora vivi ed incombenti i problemi ch'essi si erano
trovati ad affrontare in quel tempo, offrendone soluzioni pertinenti,
tuttavia non perseguite dal governo spagnolo 31.
Dentro questo quadro generale cercheremo d'individuare alcuni
nodi del tardomercantilismo siciliano durante la guerra di successione spagnola.
4. Il tardo colbertismo in Sicilia: Los BalbaseÁs (1707-1713)
Carlo Filippo Antonio Spinola e Colonna, marchese di Los BalbaseÁs, fu vicere di Sicilia dal 1707 al 1713. Il personaggio eÁ quasi
sconosciuto alla storiografia siciliana, se non fosse per una sua rimarchevole relazione con la quale egli prendeva congedo dal governo
dell'isola che si accingeva a passare sotto la dominazione piemontese 32.
30
Per una veduta d'assieme e per approfondimenti bibliografici su singoli aspetti
del regno di Carlo III di Spagna, cfr. i due voll. degli atti dello Colloquio internazionale
Carlos III y su siglo, Universidad Complutense, Madrid 1990.
31
ApeÂndice a la EducacioÂn Popular, vol. I-IV, Madrid 1775-1777. Sul Campomanes
cfr. C. De Castro, Campomanes. Estado y reformismo ilustrado, Madrid 1996.
32
La relazione eÁ stata oggetto di studio da parte di D. Ligresti, Il costo del
180
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
Accanto al dato contabile, di per se espressivo della grave crisi attraversata dalle finanze siciliane negli ultimi anni spagnoli, le inusitate
avvertenze sono un preciso e drammatico atto di accusa delle anomalie
presenti nell'amministrazione statale e una preziosa testimonianza del
modo con il quale il vicere aveva retto l'isola per un quinquennio.
A questo proposito occorre notare che esiste una precisa coincidenza tra i metodi di governo del vicere spagnolo e quelli che tenteraÁ
d'attuare Giovanni Brancaccio a Napoli dopo il 1734, per non supporre a ragione che proprio a questa esperienza il primo segretario d'Azienda del nuovo Regno si sia rifatto. La scalata al governo spagnolo
dei sobri tecnoÂcratas fu condotta innanzitutto «aparcando discursos
ideoloÂgicos» e assumendo «criterios pragmaÂticos», tuttavia ispirati a
preoccupazioni neomercantilistiche 33. La polemica contro le astrazioni ed un rigoroso pragmatismo cui ispirare le scelte furono in quei
decenni due facce della stessa medaglia, ossia della critica contro i
vecchi metodi della conoscenza e delle scienze, che intanto in Inghilterra John Locke aveva elaborato al massimo livello della polemica ed
a sostegno di una opzione metodologica integralmente empirica.
Erano tendenze generali di pensiero che si fecero sentire in
tutt'Europa, suggerirono comportamenti nuovi ed a volte imposero
un ritmo incalzante al raggiungimento degli obiettivi. La Spagna era
impegnata in una difficile crisi economica, ancora di piu esasperata
dal coinvolgimento in una politica internazionale che distoglieva
risorse preziose per l'erario. I risultati raggiunti dalla classe dirigente
spagnola in trent'anni di lavoro sono incontestabili: miglioramento
dell'amministrazione fiscale, costruzioni di navi, riorganizzazione
dell'esercito e degli approvvigionamenti, sdradicamento del contrabbando, sistemazione delle vie di comunicazione, un quadro istituzionale radicalmente riformato nella direzione di un rafforzamento dell'esecutivo. Piu tardi fu chiara ed eÁ ben nota in questo decisivo
risveglio l'azione personale di Jose PatinÄo.
privilegio: uno stato del Patrimonio del regno di Sicilia del 1713, in «Siculorum Gymnasium»,
n.s., a. LI (1998), nn. 1-2, pp. 517-35.
33
Cfr. la sintetica ed efficace ricostruzione di R. GarcõÂa CaÂrcel, Felipe V y los
EspanÄoles, Random House Mondadori, Barcelona 2003, p. 162 ss.
IV. Tendenze di metaÁ secolo
181
In Sicilia anche il Los BalbaseÁs aveva messo in atto una pratica
politica di utilizzazione delle giurisdizioni speciali per superare l'«accordo/discorde» tra amministrazione dell'Azienda reale e Tribunale
del Real Patrimonio, facendo ben attenzione a non modificare il
quadro normativo esistente, nel timore di logorare il sentimento piuÂ
forte che stava alla base del «grande amor y fidelidad» dei naturali
verso il re, ossia il mantenimento dei «sus privilegios» 34. I gravi limiti
di esercizio del principale mandato del nuovo vicereÂ, cioeÁ il mantenimento dell'amore e fedeltaÁ dei siciliani verso Filippo V, sono giaÁ
chiari nella prima Relazione di Los BalbaseÁs al Consejo de Estado.
CosõÂ, com'era avvenuto citra Pharum, la «fedeltaÁ» siciliana bloccava
una seria politica di riforme amministrative ed economiche. Era,
percioÁ, un'arma a doppio taglio: brandendola contro il nemico era
piu facile ferirsi che offendere. La denuncia delle difficoltaÁ indica
inconvenienti non nuovi. Il vicere scriveva che le difficoltaÁ incontrate erano molto serie:
«L'esperienza ha fatto conoscere che la molteplicitaÁ de' ministri e le
parzialitaÁ di parentele, amicizia o altri fini particolari, non han fatto
correre l'amministrazione con quella regola che conviene al Buon
Governo, per trascurarsi l'esigenza, darsi dilazioni a' debitori, farsi
le gabelle con poca diligenza, non sbrigarsi le cause di giustizia che
pendono nel tribunale ed altri inconvenienti che s'hanno sperimentato».
Di fronte a questa molteplicitaÁ di ostacoli, era «indispensabile prendersi [dal] governo cura particolare» del bilancio economico statale,
per «poter supplire» alle innumerevoli spese ed «altre occorrenze
precise, particolarmente nelli tempi critici che hanno corso». BalbaseÁs puntoÁ al rafforzamento dell'esecutivo cercando di aggirare gli
ostacoli di solito posti dall'apparato ministeriale, in particolare dal
Tribunale del Real Patrimonio: ma mentre cercava di raggiungere lo
scopo seguendo vie diverse dalle tradizionali, nello stesso tempo
(come eÁ indicato nella Relazione) operoÁ in modo da non mostrare
34
A.G.S., Estado, l. 6126, fasc. 16, s.n.
182
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
appieno l'intento politico d'innovare, e cercoÁ di superare pragmaticamente «le lungherie e dilazioni solite del Tribunale [che] non
fariano riuscire le provvidenze» 35.
Questi in sintesi sono i problemi in cui Los BalbaseÁs si eÁ imbattuto in Sicilia e la strategia che ha adottato per superarli. L'attenzione qui rivolta alla vicenda nasce dalla constatazione che essa era
indicativa di uno assetto generale: l'amministrazione era abituata per
antiche mentalitaÁ a seguire passivamente le vie tradizionali, e costituiva la maggiore difficoltaÁ contro cui urtavano tutti i tentativi d'innovare, che erano indotti dal diffondersi delle idee critiche. Di questo si trovano ulteriori, interessanti riscontri in una voluminosa corrispondenza con la Spagna, attraverso la quale ci eÁ stato possibile
ricostruire anche altri aspetti di quegli anni tumultuosi 36.
Los BalbaseÁs venne nominato al viceregno di Sicilia da Luigi
XIV 37. L'influenza diretta del Re Sole sulla politica delle Sicilie,
tema su cui ci siamo soffermati nei primi capitoli, ebbe termine nel
1707 con l'arrivo degli Austriaci a Napoli e nel 1709 ultra Pharum,
pur trascinandosi stancamente con il governo viceregnale del Los
35
Il testo della Relazione eÁ, su questo punto, il seguente: «Ed infatti questo presente governo (come pure l'hanno fatto alcuni de' passati) si eÁ caricato di questo peso,
soprintendendo a tutto con l'assistenza del solo Razionale della Contadoria reale, e
benche cioÁ sia costato quanche straordinario travaglio, niente di meno ha fatto conoscere
l'esperienza esser servito di gran profitto, ed in tal maniera si eÁ potuto disimpegnare di
supplire a tutte le urgenze che hanno occorso, con aver sortito l'effettuazione di molte
tasse, contribuzioni, donativi ed arbitrij, che avriano dovuto passare per il Tribunale del
Real Patrimonio, lasciando peroÁ correre per via del medesimo tutti li dispacci ed ordini
nella forma solita, benche stimolati da' viglietti della Secretaria, apprestati per dover
spedire e dispacciare l'ordini che si son stimati convenienti. E dove si eÁ conosciuto
bisogno si sono spediti l'ordini per la Secreteria addirittura per potersi fare in tempo
le diligenze, poiche le lungherie e dilazioni solite del Tribunale non fariano riuscire le
provvidenze, con che niente si eÁ venuto ad alterrare [sic] la regola ordinaria, e se n'eÁ
conseguito il fine bramato». Citiamo dalla traduzione italiana della Relatione, conservata
presso l'A.S.T., Sicilia, inv. 1, cat. 2, mazzo 6. A margine del documento v'eÁ riportata
una frase significativa del fatto che la politica di riforme dello Stato isolano era iniziata
giaÁ durante i viceregni di Filippo V e che l'amministrazione piemontese seguõÂ quella linea
politica: «il y a une semblable copie dans les eÂcritures que S.M.R. porte en Sicile».
36
In A.G.S., Estado, ll. 6118 e 6126.
37
Sul rapporto tra il re di Francia e il vicere di Sicilia ha richiamato l'attenzione il
ben documentato A. Baudrillart, Philippe V et la cour de France, Paris 1890, vol. I, p.
372 e passim per la carriera successiva.
IV. Tendenze di metaÁ secolo
183
BalbaseÁs, fino all'arrivo dei Piemontesi. Questo processo politico
procedette parallelo alle dirette interferenze sul governo e sulla corte
di Filippo V 38. Come aveva giaÁ notato Baudrillart, il re di Francia
conosceva tutto il personale amministrativo spagnolo, sicche nessun
trasferimento, promozione o nomina all'interno dei vasti domini
poteva avvenire senza il volere regale del giglio di Francia. Le consulte del Consejo de Estado venivano comunicate a Luigi XIV e da lui
esaminate o trasmesse al ministro Torci e al duca d'Harcourt: le
risposte francesi sugli argomenti e gli ordini sulle materie che vi erano
trattate venivano poi lette nel Despacho. Anche l'attivitaÁ dei Consejos
provinciali era attentamente seguita e coordinata in Francia, al punto
che il conte Marcin dalla Spagna riferiva che «nous attendons sur
toutes choses la deÂcision du Roy, qui est regardeÂe ici comme un ordre
absolu aussi bien qu'en France» 39.
I meccanismi attraverso i quali Luigi XIV condizionava la vita
politica delle Sicilie agivano in due maniere: da un lato, con precise
pressioni sul governo centrale spagnolo, sui due vicere di Napoli e di
Palermo (che venivano scelti dallo stesso regnante francese) e sul ceto
ministeriale delle due Sicilie; dall'altro, con i tentativi di riforme
istituzionali in Spagna, che finivano poi per agire anche nelle province situate fuori dalla penisola iberica. In quest'ultimo caso si
assistiva ad un'utilizzazione massiccia di giurisdizioni speciali, come
nel caso del sindacato a sostegno della finanza di guerra 40.
CosõÂ, durante gli anni della Guerra di successione spagnola, alcuni fattori intervennero a modificare drasticamente i rapporti tra lo
Stato spagnolo e le istituzioni isolane, in particolare: l'emergenza e
l'addensarsi di una fase fiscal-militare nella storia dell'Italia meridionale, la diretta ingerenza francesce negli affari politico-istituzionali
piu delicati, il sottile gioco di reciprocitaÁ politiche e d'interazioni
38
Cfr. supra, cap. I, II e III.
Baudrillart, op. cit. (nt. 37), vol. I, pp. 120-1. L'affermazione, netta e precisa,
eÁ largamente suffragata dalla documentazione parigina inedita nei primi capitoli.
40
Tufano, Giovanni Brancaccio in Sicilia: dalla memoria del giurista all'esperienza di
governo (1673-1720), cit. (cap. I, nt. 25), p. 115. Diverso dal napoletano il caso siciliano,
su cui ivi, le pp. ss..
39
184
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
istituzionali tra Francia, Spagna e Sicilie. La generazione di togati
che visse quell'esperienza professionale dentro una temperie di
straordinaria intensitaÁ, sviluppoÁ abilitaÁ amministrative, gestionali e
tecniche giuridiche molto particolari. Nel caso della Sicilia, ad esempio, si assistette all'utilizzazione straordinaria dello strumento del
sindacato per una massiccia operazione di recupero degli antichi,
enormi debiti accumulati dalle universitaÁ del regno e da pubblici
ufficiali nei confronti della corte viceregia. In questo caso abbiamo
anche notato l'adozione di una pratica di police del governo viceregnale nei confronti delle amministrazioni demaniali e feudali, che
veniva attuata in maniera sistematica e particolarmente dura dal
togato sindacatore e le cui radici affondavano, oltre che nel terreno
della fiscalitaÁ, anche in quello dell'ordine pubblico, nella ricerca di
fidelidad alla nuova dinastia spagnola.
La successione spagnola era infatti stata anche guerra civile: il
pessimo raccolto del 1699 aveva messo a soqquadro Madrid e le
province iberiche con una serie di rivolte antisignorili, che presto
entreranno in gioco nella nuova dinamica politica scatenata dalla
guerra stessa. Il sindacatore Salvatore Guascone pote cosõ reintegrare
al regio fisco 254 onze per somme non esatte dal 1702 al 1709 dalla
Tavola del Peculio di Messina, che sarebbero ammontate all'enorme
cifra di 500 onze di evasione fiscale, se non fosse nel frattempo
sopraggiunta la morte di alcuni debitori 41. E come si evince da relazioni dello stesso tenore, l'economia di guerra finiva per favorire
l'enorme ampliamento delle competenze delle giurisdizioni speciali,
che erano sottoposte, in misura minore, a norme generali e ad usi del
diritto pubblico e, in misura maggiore, semplicemente a competenze
sostanziali e processuali extra ordinem.
Si assisteva, pertanto, ad un avanzamento di posizioni della
«dignitaÁ» vicereale all'interno della dialettica tra gli status nella Sicilia
del primo Settecento. I re avevano conferito ai loro vicari l'autoritaÁ
«potestativa» «nei gradi cosõÂ alti e sublimi d'autoritaÁ», «che maggiore
41
Ivi, p. 115 e ss., dov'eÁ citata la relazione di Salvatore Guascone al vicereÂ,
Messina 11 luglio 1710.
IV. Tendenze di metaÁ secolo
185
non se ne puoÁ desiderare, ne pensare»: al punto da sconfinare nel
«quasi dispotico» 42. CosõÂ, in una consulta di poco successiva, datata
1719, il presidente della Gran Corte di Sicilia, Giuseppe Fernandez
de Medrano, commentava le prerogative dell'istituto viceregio criticando il fatto che negli ultimi anni la Segreteria di Stato e Guerra del
vicere avesse «usurpato i negozij attenenti la Giustizia», nonostante
un freno allo strapotere viceregnale fosse stato posto dallo stesso
Filippo V all'inizio del suo regno, limiti peroÁ dichiarati formalmente,
ma non praticati nella sostanza 43. D'altronde, i vicere «non devono
nemmeno allontanarsi dal voto dei Regi Consiglieri», soprattutto
nelle materie di giustizia. E ogni atto che emani da loro senza la previa controfirma del Sacro Consiglio eÁ «senza forza e vigore» 44. Solo
quando vi concorra il «voto» del massimo organo giurisdizionale, i
vicere «posson far leggi, che si chiamano prammatiche», «direttive
delle materie civili, che [sono] coattive in quelle criminali»: «e queste
restano perpetue valiture con vigore eterno» 45.
La preoccupazione maggiore del togato siciliano era evidentemente quella di costringere le prerogative vicereali dentro le logiche
di potere costruite dall'accordo tra potere regale madrileno e governo
degli organi costituzionali del viceregno isolano. CosõÂ, per Fernandez, l'esercizio dell'autoritaÁ regale poteva essere pieno solamente nei
modi previsti dall'istituto della «grazia», che sul terreno della fiscalitaÁ
e degli uffici comportava, comunque, una privatistica contrattazione
tra gubernaculum e Parlamento di Sicilia.
BalbaseÁs apparteneva a quella nuova classe dirigente indigena
sulla quale aveva lavorato con sapienza il «Colbert d'Espagne», Michel-Jean Amelot, l'ambasciatore francese inviato in Spagna per dare
42
B.C.P., G. Fernandez de Medrano, Della dignitaÁ del vicere di questo Regno,
consulta s.d. (ma databile 1719), mss. Qq F 208, ff. 62r-5v.
43
Il Fernandez fa cenno di «strepitosi ordini Reali» emanati nel 1701: ivi, f. 62v.
44
Ivi, f. 64r: «vengono peroÁ limitate queste autorevoli podestati da molte Reali
disposizioni e dalle leggi, costituzioni e capitoli del Regno, l'osservanza de' quali ha
giurato l'istessi VicereÂ, e percioÁ sono in obbligo di religiosamente osservare, ne senza
nota di spergiuro ha questo contravvenire. Oltre di cosõÁ, leggersi nelli loro Privilegi, e fu
dichiarato per lettere reali dirette al conte di Alba [...] nel 1591 a' 8 aprile».
45
Medrano cita a questo proposito la Prammatica 22 del 15 maggio 1583.
186
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
a quel governo una direzione unica e forte 46. L'abile pilota guidoÁ la
politica spagnola nel senso di marcia consigliato dalla «variante»
colbertista del mercantilismo. Essa prescriveva una ricchezza statale
fondata sull'abbondanza di metalli preziosi in circolazione nel paese,
una concezione agonistica degli scambi, una politica statale a favore
dell'industria e del commercio (considerati strumenti mediante cui
«la gloire du roi et de l'EÂtat» progrediva nell'interesse generale), e
un'idea della popolazione come la risorsa politica, economica e militare piu importante dello Stato 47. Quest'ultimo postulato, anche
attraverso l'elaborazione teoretico-giuridica di Jean Domat, innovava il tradizionale sistema tripartito delle dignitaÁ (qui orant, qui pugnant, qui laborant), ne conservava l'armonia, ma invertiva sostanzialmente l'ordine gerarchico dei tre fattori, poiche si fondava sull'uomo come soggetto produttore di ricchezza.
Le istruzioni del Consejo de Estado (12 luglio 1707) al nuovo
vicere e la relativa dura risposta (23 luglio) mostrano, insieme alla
dialettica interna alle due istituzioni di governo spagnole preposte
alla direzione degli affari siciliani, Despacho e Consejo de Estado, i
risvolti locali dello scontro politico franco-spagnolo e della guerra
con l'Austria 48. Il Consiglio riteneva sufficiente per la difesa del
regno il ricavato dal sequestro dei beni posseduti in Sicilia dai
partigiani napoletani dell'Austria e raccomandava al vicere di stabi46
«Sous lui, tout changea ou tout commencËa de changer: institutions, industries,
lettres et arts de la France s'introduisirent dans la PeÂnisule, en renouveleÁrent la forme
politique et jusqu'aÁ l'esprit. Sans les deÂsastres de la plus terrible des guerres et sans un
rappel anticipeÂ, euÃt eÂteÂ, n'en doutons pas, le Colbert de l'Espagne»: Baudrillart, op.
cit. (nt. 37), vol. I, p. 229 (e ss. sulla sua azione politica), il cui giudizio puoÁ risultare
enfatico, ma affatto lontano dal vero. Sulla scelta dell'ambasciatore Amelot, «homme
[...] qui eÂtait de robe [...] d'honneur, de grand sens, de grand travail», giudizio condiviso
dalle mesdames Maintenon e Ursins (la quale ultima «ne crut pas pouvoir trouver mieux
pour avoir sous elle un ambassadeur sans famille et sans protection ici autre que son
meÂrite», dunque pronto a far parte attiva della cabala principale della corte francese),
cfr. anche Saint-Simon, MeÂmoires, cit. (cap. II, nt. 35), vol. II, pp. 580-1, con un
lusinghiero ritratto dello stesso.
47
Su questi aspetti del colbertismo, cfr. P. Minard, La fortune du colbertisme. EÂtat
et industrie dans la France des LumieÁres, Paris 1998, p. 16 ss.
48
A.G.S., Estado, l. 6126, fasc. 15 (le istruzione del Consejo de Estado) e fasc. 16
(risposta di Los BalbaseÁs).
IV. Tendenze di metaÁ secolo
187
lire una stretta collaborazione con il ministero togato. Los BalbaseÁs
si rese subito conto che la situazione difensiva era pessima: tremila
fanti, distribuiti in sei battaglioni e sei sole compagnie a cavallo; i
quadri superiori dell'esercito ridotti ad un solo tenente-colonnello e
ad un sergente maggiore; l'assoluta mancanza di munizioni per alimentare la difesa terrestre; Palermo, capitale del regno e sede del
vicereÂ, assolutamente indifendibile; lo spirito pubblico intriso di
diffidenza verso gli spagnoli per la possibilitaÁ di essere abbandonati
al nemico, com'era avvenuto di recente nel regno continentale ed a
Milano. Le consuete diagnosi sul collasso erano confermate appieno.
L'anno 1710 vedeva incrementare l'attivitaÁ riformista del vicereÂ,
che dialogava oramai direttamente con don Jose Grimaldo, membro
del Despacho, cioeÁ senza piu la mediazione del Consejo de Italia, che
invece, dal canto suo, preferiva avere come interlocutore il presidente
della Gran Corte Civile e Criminale, residente a Palermo 49. S'instituiva cosõÂ una ben strana dialettica politica, le cui linee tendevano
verso lo stravolgimento di un trend socio-istituzionale secolare, descritto nei risultati raggiunti dalla storiografia socio-istituzionale siciliana:
il vicere risiedeva a Messina serrato nella cittadella militare, cioeÁ nell'unica cittaÁ siciliana sicuramente affidabile per il comportamento da
sempre filofrancese di quella popolazione e rifiutava di stabilirsi nella
sede viceregia palermitana. Anzi, all'invito del re di eseguire immediatamente quell'ordine, il genovese rispose in malo modo, con atteggiamento sprezzante da sembrare quasi fellone, sostenendo che Filippo V era sempre nelle condizioni di trovare un suo sostituto piu «loco»
di BalbaseÂs e che potesse obbedire a comandi cosõÂ «sciocchi» ed «insensati». Da quel momento in poi egli recise ogni corrispondenza con il
vecchio Consiglio e rispondeva politicamente solo al Grimaldo.
D'altra parte, il leader del ceto togato siciliano, Fernandez de
Medrano, inizioÁ una fitta corrispondenza con il Consejo, assumendo
il comando non solamente poliziesco della Capitale, ma financo militare 50. Palermo in quei frangenti veniva descritta come un luogo
49
50
Ivi, l. 6118, passim.
L'episodio cui abbiamo fatto un veloce cenno rappresenta una spia significativa
188
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
lugubre, orribile per la morte che la giustizia regale quotidianamente
riservava ai civili sospettati di tradimento, i cui cadaveri a monito
rimanevano appesi alla forca per giorni e giorni. Un cittaÁ senza possibilitaÁ di difesa ne di offesa, e sguarnita di baroni, che avevano
preferito arrocarsi nelle piccole fortezze dei propri feudi: non uno
dei loro terribili «caballeros» ardiva di entrarvi.
Il 23 aprile di quell'anno il vicere era di ritorno a Messina dopo
una visita alla piazze militari del regno, «con el desconsuelo de no
haver podido aplicar ninguna de las muchas providencias que necesita el estado de ellas». La causa di quel fallimento era nelle «grandes
miserias del Reyno», per cui occorrono «nuevos valimientos para
buscar medios», per l'attuazione dei quali Los BalbaseÁs aveva giaÁ
presentato la «planta» al Tribunal del Patrimonio ed alla Giunta dei
Presidenti e Consultore per il prescritto parere: imposta diretta di un
carlino per onza del ricavo annuale di «estados y feudos», compresi
quelli incamerati dalla Regia Corte, con un gettito previsto di ventimila scudi. La cifra era sufficiente al varo di una flotta di dodici
feluche per «asegurar el Commercio y la quietitud del Reyno que
procuran pertubar los corsistas enemigos». Il piano era minuzioso:
l'armamento di un'imbarcazione viene valutato in millesettecento
scudi; la flotta doveva essere composta da sei feluche da quaranta
remi e le rimanenti da venticinque a trenta remi. Inoltre, il vicereÂ
stabiliva il mantenimento dell'intera flotta a carico del Senato di
Palermo, che si sarebbe avvalso degli avanzi della Colonna frumentaria, di una tassa del due per cento su tutti i prodotti d'importazione
e dell'uno per cento sopra i grani ed i generi commestibili.
Tuttavia, i costi della guerra e le difficoltaÁ dell'erario spagnolo
spostavano i margini del guadagno statale dagli investimenti in Sicilia
ai preparativi per la spedizione di Sardegna, allontanando i propositi
di riforma del velleitario vicereÂ. Intanto, i rapporti franco-spagnoli
subivano un brusco capovolgimento di fronte, giaÁ deciso nell'aprile
del rivoluzionamento, avvenuto durante la guerra di Successione, delle vecchie logiche
politiche ed istituzionali su cui si fondava il rapporto Spagna-Sicilia, cfr. Tufano, op. cit.
(cap. I, nt. 25).
IV. Tendenze di metaÁ secolo
189
del 1709: «Louis XIV abandonne l'Espagne et cesse de la gouverner»
(A. Baudrillart). CosõÂ, carico d'incongruenze per le dure necessitaÁ
finanziarie della guerra, pieno d'ambiguitaÁ nell'azione politica giurisdizionalistica e reso quasi schizofrenico per le esigenze interne alla
nazione di Luigi XIV, il tardocolbertismo francese cessava di essere
sperimentato nel Mezzogiorno d'Italia.
5. Nuovo interesse per il commercio a Napoli in epoca austriaca
La forte tensione del governo viennese alla ricerca di uno sbocco
prestigioso nel Mediterraneo aveva in qualche maniera allentato la
morsa imposta dalle grandi potenze marittime europee allo spazio
vitale del Mezzogiorno, dopo una condizione di paralisi che si era
protratta per due secoli. Tuttavia, l'operazione di rilancio del nuovo
governo austriaco attraverso una politica neomercantilistica era frenata dalle sue difficoltaÁ finanziarie. Furono soprattutto due le iniziative pensate per una radicale riforma della politica economica del
regno meridionale, tutte protese a creare alcune condizioni di autonomia della produttivitaÁ all'interno dello scacchiere mediterraneo:
con la prima, di cui fu ideatore Serafino Biscardi, venne istituita (30
aprile 1710) una Giunta di Commercio, per il rilancio economico del
viceregno; con la seconda fu fondato un apposito istituto di credito
per la ricompra dei fiscali, il Banco di San Carlo per agire radicalmente sui meccanismi del debito pubblico, che rastrellavano gran
parte dei risparmi e bloccavano l'iniziativa privata, privandola di
valide forme di autofinanziamento 51.
Tra il tardocolbertismo francese e il neomercantilismo austriaco
non esistevano differenze teoriche: J. J. Becher come Colbert aveva
sostenuto la razionalizzazione dello sfruttamento delle risorse economiche e l'impulso statale al fine di organizzare la produzione 52. La
51
Sulle ragioni che istituivano la Giunta e sul ruolo assunto da Biscardi, cfr. Luongo,
Serafino Biscardi, cit. (cap. II, nt. 4), pp. 278-90. Sul Banco San Carlo, cfr. R. Ajello, Il
Banco di S. Carlo: organi di governo e opinione pubblica nel regno di Napoli di fronte al problema
della ricompra dei diritti fiscali, in «Rivista Storica Italiana», LXXXI, 1969.
52
Sul mercantilismo austriaco cfr. P. Schiera, Dall'arte del governo alle scienze dello
190
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
differenza che, con il trascorrere del tempo, si dimostroÁ tanto profonda quanto fatale fu nel fatto che l'economicismo francese era un
aspetto di un rapporto antico, collaudato da ben oltre un millennio, e
quindi intensamente cooperativo tra societaÁ e Stato, mentre a sostegno della politica economica austriaca e della visione imperiale non
poteva esservi altro che un coacervo d'ideali astratti. Essi avevano
trovato modo d'indirizzarsi in senso moderno grazie alle venature
critiche che furono tipiche degli Asburgo di quel ramo e che da Carlo
VI furono trasmesse fino a Giuseppe II, e grazie alla capacitaÁ di
aggiornamento di una grande capitale, come Vienna, che si era avvalsa della sua centralitaÁ in Europa per assorbire idee di varia provenienza e per fare da mediatrice dei maggiori modelli di sviluppo.
A Napoli l'indirizzo economico asburgico-viennese, impersonato
a Barcellona da Carlo (ancora terzo come pretendente alla successione di Carlo II e poi sesto come imperatore) impresse un impulso
molto importante e valido, che gradualmente creoÁ nell'intero Mezzogiorno un clima sensibilmente diverso da quello tardoseicentesco,
che era stato caratterizzato dal pessimismo, dallo scoraggiamento, dal
ripiegamento ecclesiastico su posizioni vecchie ed intransigenti. La
linea afrancesada (o, secondo la formula crociana, il «partito gallico»),
resa eloquente e concreta da Francesco D'Andrea, non era stata in
grado d'imporsi per i suoi meriti pur del tutto evidenti, non era stata
coraggiosa fino al punto di schierarsi in modo deciso e costante a
favore della Francia; ma ebbe la fortuna di essere stata adottata
appieno da Carlo III giaÁ a Barcellona, dove i suoi consiglieri provenienti dalle Sicilie erano uomini d'idee nuove, e dove prevaleva un
visione moderna, anglolandese, dell'economia, e dove la cultura giuridica, anche se non era altrettanto innovativa, non era del tutto
chiusa alle riforme. Ma proprio in questo ultimo settore, ossia nella
intersezione del diritto con l'economia, le aperture critiche di provenienza d'andreiana, impersonate da Biscardi, si rivelarono fallimentari. Fu dopo la morte del geniale reggente del Collaterale, nella
Stato. Il Cameralismo e l'assolutismo tedesco, GiuffreÂ, Milano 1968 e J. Berenger, Finances et absolutisme autrichein dans la seconde moitie du XVIIe sieÂcle, Paris 1976.
IV. Tendenze di metaÁ secolo
191
estate del 1711, che apparve chiara l'incapacitaÁ del riformismo giuridico di resecare le sue radici parassitarie.
Infatti la Giunta mercantile voluta da Biscardi continuoÁ a lavorare e nel 1714 invioÁ a Carlo VI un'interessante consulta, in cui
furono analizzate le cause della crisi commerciale e produttiva. L'ostacolo non fu piu individuato nel fondamento feudale, ma in un
circolo vizioso di natura economico-sociale, di cui il parassitismo
burocratico costituiva la base fondamentale. La nuova diagnosi comporto un cambiamento importante, soprattutto perche i rimedi furono programmati non piu guardando solamente alle riforme interne al
Regno, ma anche verso l'esterno e, complessivamente, in modo nuovo e molto piu audace e razionale. Si puntoÁ sulla necessitaÁ di creare
una compagnia di commercio diretta a superare le colonne d'Ercole
di Gibilterra e capace di estendere le sue attivitaÁ in Atlantico; e
furono indicate come prioritarie sia la ricerca di trattative vantaggiose con il «Turco» sia la necessitaÁ di «mantenere nette da' corsari non
solo le coste del Regno, ma ancora quando fosse possibile il Mediterraneo». A giudizio della Giunta occorreva estendere «a questo
Regno la tregua col Turco, che godono gl'altri Paesi austriaci», in
modo da consentire il conseguimento almeno in parte del «mentovato
fine, andando le nostre navi con libertaÁ nelle coste dell'Africa, parendo per altro totalmente disconveniente essere con essi in perpetua
rottura senza fare loro alcun male e con riceverne da essi innumerabili, come l'hanno sperimentato non solo le navi ma ancora le popolazioni del regno» 53. Inoltre, Carlo d'Asburgo aveva cercato di facilitare il trasferimento «delli ebrei che volevano venire da Livorno per
stabilire case di negozio in questo Regno», ed era in corso di progettazione un nuovo porto franco nella cittaÁ di Pozzuoli, con il coinvolgimento della comunitaÁ puteolana, impegnata a contribuire alla costruzione dei magazzini portuali con un fondo di 18 mila ducati 54.
53
Haus-, Hof- und Staatsarchiv, Wien, F. Radente, Per il commercio del regno di
Napoli, Coll. Fs. 33, t. V, cc. 10-22v, cit. da Ajello, Il vicere dimezzato, cit. (cap. II, nt.
22), pp. 147-8. Radente fu il maggior collaboratore di Fleischmann, inviato da Carlo VI
a Napoli nel giugno 1721.
54
Ivi, pp. 148-9.
192
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
Secondo Ajello, il viceregno austriaco si caratterizzoÁ per un'impostazione riformistica piu tecnica e piu pratica, meno moralistica e
meno legata alla contrapposizione ideologica, sicche la direzione antifeudale dei tentativi di riforma, che aveva caratterizzato gli ultimi
anni spagnoli, si attenuoÁ a vantaggio di un obiettivo nuovo: combattere il parassitismo burocratico 55. Questo politica si avvalse della
competenza e probitaÁ del Consigliere aulico di Carlo VI, Anselm
Franz von Fleischmann, che fu posto al servizio del vicereÂ, il cardinal
d'Althann, al fine di governare in modo nuovo e fattivo l'economia,
attraverso il recupero di un rapido potere di gestione, di amministrazione e di riforma da parte dell'esecutivo. Tuttavia, il governo viennese viveva in una contraddizione insanabile tra le idee mercantilistiche e produttivistiche e la visione politica legata al vecchio costituzionalismo giuridico, dalla Catalogna trasferito a Vienna. Il giudizio
di Pietro Giannone su quel sistema, espresso dall'idea di trapiantare
nella capitale austriaca i vecchi Consigli spagnoli, fu particolarmente
duro, giacche egli intuõ che quella logica della continuitaÁ era irrazionale ed avrebbe bloccato ogni recupero della produttivitaÁ 56.
L'analisi ricognitiva sulla situazione napoletana venne affidata al
razionale Francesco Radente, che dimostroÁ l'inesistenza di una benche minima uniformitaÁ e razionalitaÁ nelle riscossioni doganali e che in
quelle condizioni sarebbe stato impossibile realizzare qualunque politica protettiva delle manifatture locali. Il pensiero medievale, vittima della sua sintesi spuria con lo spiritualismo universalistico, del
tutto astratto, si fondava sull'inventiva dei singoli (la sapienza ideale
infusa nella mente dei giuristi Commentatori), rifuggiva dal dar credito al coordinamento centrale delle energie e delle iniziative, credeva nel valore di un pluralismo che in realtaÁ era espressione del particolarismo ispirato a criteri dettati dagli adattamenti specifici ed occasionali, del tutto avulsi da valori di razionalitaÁ gestionale e di
55
Ivi, passim.
Il riferimento eÁ alla Breve relazione de' Consigli e Dicasteri della cittaÁ di Vienna,
scritta dal Giannone durante il suo soggiorno viennese, datato dal 1723, ed ai duri
giudizi da lui espressi sugli spagnoli di Vienna nella Vita scritta da lui medesimo, a
cura di Sergio Bertelli, Milano 1960, pp. 116-24, 171, 231, 237.
56
IV. Tendenze di metaÁ secolo
193
efficienza produttiva. A nulla valsero i tentativi dei due vicere di
superare la resistenza «elastica, ma non esplicita» (Ajello) del ministero togato. Il 29 dicembre del 1721 il Consiglio Collaterale, nell'approvare la relazione Radente, affido il compito di realizzare l'uniformitaÁ delle tariffe ai delegati degli arrendamenti, ossia proprio a
coloro che tradizionalmente tutelavano l'interesse dei redditieri. La
logica di questa soluzione eÁ palese: i delegati degli arrendamenti
erano reggenti di quel supremo organo, o del Sacro Regio Consiglio.
Quella delibera ebbe l'effetto di stroncare l'iniziativa di Fleischmann, e di prostrare l'entusiasmo e l'impegno suo e di Radente. Il
provvedimento finiva per confermare le cause di una situazione frammentata e bloccata in una varietaÁ tariffaria priva di ogni razionalitaÁ
ed incoercibile. Quell'ostacolo, essendo posto proprio dalle maggiori
autoritaÁ del ministero togato e cogliendo un punto nodale dei loro
interessi, spegneva ogni scontro generato dalla dialettica tra status,
giacche dentro il compatto fronte parassitario militava tutta la societaÁ benestante: nobili, togati, ecclesiastici ed una parte consistente del
popolo «grasso» che aveva investito i propri risparmi nelle rendite
«certe», quelle del debito pubblico 57.
L'episodio aveva posto in luce quale fosse il problema centrale
della vita politica ed economica della fase viceregnale, difficoltaÁ avvertita da Bartolomeo Intieri, intellettuale d'indirizzo empirico e
banchiere di estrazione popolare, che divenne consigliere informale
di Montealegre. Egli fu amico personale di Celestino Galiani, suo
collaboratore nell'Accademia delle Scienze e poi protettore di Genovesi; ma Intieri aveva avuto largo credito giaÁ nella corte viceregnale
napoletana specialmente sotto il governo laico ed illuminato del conte
d'Harrach. L'opinione degli uomini d'ingegno come il matematico e
`meccanico' fiorentino, dotati di orientamento critico e di vasta cultura internazionale, eÁ un elemento che la storiografia non puoÁ fare a
meno di mettere al centro dei tentativi di realizzare una politica di
sviluppo, innanzi tutto per tre ragioni: sia perche quelle idee erano
57
Ajello, Il vicere dimezzato, cit. (cap. II, nt. 22), pp. 155-73. La coesistenza di
questo interesse multiplo creava un blocco invincibile.
194
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
fondate su una sintesi esistenziale di fattori estremamente vari, che
oggi non eÁ facile ricostruire e che nessun'analisi quantitativa, per
quanto varia e complessa, potrebbe altrimenti fornire; sia percheÂ
quelle tesi erano in rapporto dialettico con una specifica forma mentis,
statica e tradizionalista, che, grazie ad altri dati, eÁ ben conosciuta e
puoÁ rivelarne i punti di forza e di debolezza; sia, infine, perche eÁ
possibile depurarle dagli aspetti soggettivi ponendole a confronto con
altre idee di segno opposto. Tutto eÁ ipotetico e relativo nelle nostre
conoscenze e, in questo quadro, la logica complessiva dei fattori
storici eÁ l'unica fonte che possa dare l'immagine, problematica e
strutturalmente complessa, dei fenomeni osservati. Essi, inversamente, restano muti se non sono inseriti nel flusso plurimo del dinamismo esistenziale.
6. I problemi interni ed internazionali del nuovo Regno indipendente
L'arrivo degli spagnoli nel 1734 ruppe la trama dei rapporti tra
governo viennese ed i migliori esponenti del ceto giuridico-politico
delle Sicilie. Intieri, sia nella corrispondenza ufficiale con il governo
fiorentino come agente mediceo a Napoli, sia nel suo enorme carteggio che in questi ultimi tempi si avvia ad essere pubblicato e che
riguarda le maggiori personalitaÁ della cultura non soltanto italiana,
indicoÁ che la piu potente forza conservatrice era nel potere stabilizzante della toga sovrana. Il blocco nasceva dal totale assoggettamento
dell'economia ad un personale inesperto dei moderni problemi economici ed orientato verso formalismi idealistici che erano al polo
opposto del pragmatismo anglo-francese. Formae mentis profonde
inducevano gli uomini di toga a darsi una veste di religiositaÁ settoriale giuridica, che essi s'illudevano fosse un aspetto del pensiero
moderno, ed era invece un segmento del coacervo medievale: quello
italiano, beninteso, che era il frutto amaro di un millennio di crisi, e
non quello franco-inglese ed europeo che era rivolto verso il futuro e
che aveva saputo trasformare e rinnovare i caratteri vecchi, metafisici ed escatologici, della religiositaÁ tradizionale, in forti vincoli di
unitaÁ e solidarietaÁ patriottica, ossia in una religione attiva.
IV. Tendenze di metaÁ secolo
195
La debolezza della concezione giuridica arcaica era nel fatto che il
diritto appariva espressione di una sintesi ideale ed universale (di qui il
modello imperiale dei glossatori, dei commentatori e dello stesso Dante); ma quell'astrazione era la mera copertura di un particolarismo
miope ed angusto, incosciente dei suoi limiti, perche ammantato di
prosopopea sacerdotale. Questi indirizzi finivano per rafforzare l'accettazione passiva del sottosviluppo, come coerente con l'Ordine Universale. La logica della saggezza individuale di ciascun giurista, ritenuta capace di raggiungere da sola, semmai grazie ad ispirazioni misteriose, le VeritaÁ assolute ed universali, dava vita ad indirizzi rivolti
in senso opposto ad ogni coordinamento razionale, empirico, centrale
dei valori, delle mete e delle attivitaÁ. Il potere sovrano si presentava
ambiguo fino ad essere inesistente, scisso tra impero e comuni, oltre
che tra queste due opposte `ragioni' e quelle della chiesa romana. Il
mancato intervento a favore dell'economia era la conseguenza della
pretesa che dovesse valere sempre e dovunque una sapienza personale,
emanazione diretta della VeritaÁ ontologica, metafisica, eterna ed universale. Grazie ad essa le scelte del giurista si sarebbero orientate nel
segreto delle sue meditazioni individuali, nel rapporto verticale con
l'Assoluto, al di fuori di ogni dialettica, ossia di ogni necessitaÁ di
dialogo. Il confronto delle idee nasce dallo scetticismo, dal dubbio
sulla validitaÁ della ragione individuale, dal rifiuto delle sintesi mentali
astratte ed omnicomprensive, dalla debolezza degli strumenti intellettuali soggettivi. Le vecchie mentalitaÁ statiche avevano causato, fino
ad allora, una `oggettiva' condizione di difficoltaÁ dell'imprenditoria
italiana meridionale; invece il dinamismo transalpino, come si eÁ visto,
godeva, grazie alla Dialectica che era da secoli intesa come scienza
logica e poi come metodo del mercato, di una tutela centrale che giaÁ
andava oltre il vecchio paternalismo, tipico della ideologia mercantilistica, utilizzava giaÁ gli incentivi dei governi alle forme di associazionismo imprenditoriale di stampo ben piu moderno.
Ed infatti, nonostante che parte della storiografia sul Mezzogiorno sia preclusa alla valutazione positiva dei tentativi di rilancio del
commercio e delle nuove prospettive imprenditoriali, eÁ evidente che
le imprese strutturalmente di maggior significato in direzione della
196
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
riforma e verso una nuova concezione della produttivitaÁ (ad esempio
il Supremo Magistrato del Commercio, che semplificava al massimo
la giustizia commerciale) furono prese proprio dal gruppo formatosi
intorno a Montealegre, e di cui furono consiglieri Celestino Galiani,
Bartolomeo Intieri, Pietro Contegna ed anche un magistrato, Francesco Ventura, che (non a caso) era delegato degli inglesi. Contegna
era stato artefice del tentativo di riforma del sistema fiscale mediante
la ricompra generalizzata dei cespiti pubblici alienati, e rimase (anche
se ufficialmente `giubilato') il maggior consigliere segreto di Montealegre. Da quell'accordo tra afrancesados spagnoli e napoletani, espressione di un'oggettiva convergenza ideale e mentale, nacquero alcuni
tentativi di riforma della politica economica, che spostarono i termini
del sottosviluppo meridionale sui piani della politica internazionale e
delle nuove mentalitaÁ critiche e dinamiche.
Con la nascita del nuovo Regno, i vecchi problemi strutturali
erano sostanzialmente immutati, ma le condizioni entro cui le Sicilie
si trovarono ad affrontarli furono del tutto nuove. I rapporti internazionali (la protezione di Elisabetta Farnese, donna di straordinarie
facoltaÁ intellettuali) favorirono, fino al 1746 (morte di Filippo V) le
iniziative audaci di Montealegre. Contegna e Ventura, a lui legatissimi, erano gli stessi magistrati di cultura aperta al rinnovamento che
avevano dato vita ai piu ambiziosi tentativi asburgici. Non a caso
erano entrambi amici personali di Pietro Giannone. L'avvento dei
Borbone di Napoli coincise con una fase di sviluppo del commercio
estero delle due Sicilie, che in alcuni periodi riuscõÂ a raggiungere
punte notevoli. Segno e misura di quell'incremento furono la stipula
d'importanti trattati commerciali: con la Sublime Porta (1740), con
Tripoli (1741), con la Svezia (1743), con la Danimarca (1748), con
l'Olanda (1753), e, infine, con la Russia (1787). Significativa l'assenza di norme regolatrici dei rapporti tra Mezzogiorno italiano ed i suoi
maggiori partners commerciali, Francia ed Inghilterra; ma di cioÁ si
daraÁ conto nelle pagine seguenti. Tuttavia, l'incremento del commercio estero del Mezzogiorno fu per sua natura determinato dalla favorevole congiuntura internazionale e, come ha notato un benemerito storico siciliano, «la maggiore vitalitaÁ che esso mostra rispetto al
IV. Tendenze di metaÁ secolo
197
passato eÁ purtroppo molto spesso una vitalitaÁ riflessa, subordinata al
ritmo crescente di altre economie e da esse condizionata» 58. Occorre
a questo punto, tentare di delineare, seppure in estrema sintesi, il
rapporto tra l'evoluzione delle istituzioni politiche preposte alla politica economica e commerciale, e la loro capacitaÁ di tradurre le teorie
economiche in prassi di governo.
Se la monarchia borbonica appariva consolidata dopo la vittoria
del 1744 a Velletri, tuttavia il sostegno economico e militare della
Spagna era venuto meno nel 1746, in seguito alla morte di Filippo
V ed alla relativa emarginazione di Elisabetta Farnese da quel governo. Due anni piu tardi, il trattato di Aquisgrana sancõ ufficialmente la
grave situazione internazionale in cui versava la Spagna. CosõÂ, a partire da quella data venne pure a mancare sul piano internazionale
l'idea, reale o fittizia, di una reale protezione spagnola sul Mezzogiorno d'Italia. D'altra parte, l'inserimento estero era strettamente collegato alle condizioni interne. E nelle Sicilie, com'eÁ stato giaÁ notato, gli
entusiasmi riformatori dei primi due lustri del nuovo regno crollarono
giaÁ nel 1744, proprio nel momento in cui la monarchia borbonica
appariva consolidata dopo la vittoria di Velletri. La reazione vincente
dei baroni, dei togati e degli ecclesiastici contro il frutto migliore della
breve, ma intensa, stagione riformistica, il Supremo Magistrato del
Commercio, contro i Consolati di terra, e contro le colonie di ebrei
avrebbe frenato e segnato in negativo la politica neo-mercantilistica
per l'intero secolo. Uguale significato ebbe il ripristino delle delegazioni, che il neo-segretario di Azienda, Giovanni Brancaccio, aveva
sottratte agli esponenti del ceto togato, e che apparivano l'espressione
macroscopica del disordine scaturente dall'improduttivitaÁ giuridica.
58
O. Cancila, Impresa redditi mercato nella Sicilia moderna, Bari 1980, p. 278. EÁ
doveroso ricordare che a questo storico si deve la pubblicazione di alcune memorie
siciliane illuminanti in tema d'interferenza tra politica internazionale ed economia interna. In particolare, poiche il trasporto marittimo era condizionato, almeno per le merci
di valore alto e medio, dall'azione della pirateria nordafricana, solo le potenze marittime
erano in grado di contrastare questa piaga con feroci ritorsioni e percioÁ esse dominavano
il mercato dei noli. Chi trasporta la merce in condizioni quasi monopolistiche, ne determina il prezzo. Le materie prime meridionali subivano appieno questo handicap
strutturale.
198
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
Le circostanze relative alla nascita del Supremo Magistrato del
Commercio, lo spirito per il quale era stato creato e le vicende successive sono state descritte con efficacia da Raffaele Ajello 59. Istituita
proprio sul modello francese, questa magistratura (come rilevarono gli
stessi politologi contemporanei, autori di memorie edite in questi
ultimi anni: ad esempio Borgia, Gregorio Grimaldi, Pallante) s'inquadroÁ nell'ampia politica realizzata da Montealegre al fine di rilanciare la
produttivitaÁ delle Sicilie. La strategia fu sviluppata sul versante internazionale e su quello della politica interna. Qui la creazione della
nuova magistratura commerciale ed ancor piu dei Consolati di terra
(che si aggiungevano a quelli di mare giaÁ esistenti) avrebbe dovuto
sottrarre gran parte della materia commerciale alle vecchie magistrature, realizzando una giustizia dotata di specifica competenza, ancorche rapida ed efficiente. Il tentativo s'inquadrava nell'idea di sviluppare la produzione economica del Regno inserendola nel commercio
internazionale: aspirazione non irrealistica fino al momento in cui la
direttiva e la tutela di Elisabetta Farnese erano in grado di benevolmente prevalere sul re di Spagna. Per ottenere gli scopi che Jose PatinÄo
aveva perseguito e poi suggerito ai suoi allievi, tra cui Montealegre, era
necessario creare un organo tecnico e giurisdizionale, diretto ad individuare gli intralci alla produttivitaÁ ed a consigliare al governo provvedimenti per migliorarla, e quindi, in definitiva, capace di rimediare
alle lungaggini del sistema giudiziario napoletano.
Il nuovo tribunale colpõÂ in particolare la giurisdizione feudale,
poiche il rito semplificato, il minor costo della procedura e le maggiori garanzie delle nuove magistrature periferiche sottrassero una
parte cospicua di contenzioso alle corti feudali. I risultati della riforma furono molto positivi, come testimoniava NicoloÁ Fraggianni, tra i
migliori giuristi politici del regno. Egli era stato fin dall'inizio ostile
59
Sulla istituzione di questa magistratura (30 ott. 1739), gli ampi compiti giurisdizionali, la lotta intrapresa contro di essa dalle magistrature ordinarie e dalla feudalitaÁ,
e la progressiva riduzione delle sue funzioni in coincidenza con il declino della fase
riformistica nel regno, cfr. Ajello, Il problema della riforma giudiziaria e legislativa nel
Regno di Napoli durante la prima metaÁ del secolo XVIII, I, La vita giudiziaria, Jovene,
Napoli 1961, pp. 146-68 e La vita politica napoletana sotto Carlo di Borbone, vol. VII,
Cava dei Tirreni, 1972, pp. 650-1.
IV. Tendenze di metaÁ secolo
199
al tentativo, ma in seguito riconobbe i meriti della magistratura,
adoperandosi a far pervenire al principe Bartolomeo Corsini, al tempo vicere di Sicilia, «i lumi necessari per poter riuscire questo nuovo
magistrato in sollievo, quiete e beneficio del pubblico» anche nell'isola 60. Tuttavia, a parte i risultati, che furono da mille intralci frenati
e poi in gran parte cancellati dalla morte di Filippo V e dalla perdita
di ogni peso subita da Elisabetta sotto Ferdinando VI, nei tredici
anni intercorsi dal 1746 al 1759, l'aspetto che eÁ necessario mettere in
luce eÁ di carattere ideologico e culturale: la congiuntura favorevole e
l'accordo tra pensiero critico meridionale e spagnolo realizzarono
l'unica strategia coordinata e coerente che avrebbe potuto rilanciare
l'economia delle Sicilie. Ci si servõÂ, tra l'altro, di una specie di spionaggio e di pirateria manifatturiera: furono attirati nel Mezzogiorno
artigiani provenienti da molti paesi, e lasciarono tracce evidenti consistenti i fiorentini (arazzi), i lionesi (sete e tessuti), i sassoni (porcellane). Operazioni che presupponevano una forza internazionale che
in realtaÁ non esisteva, perche la protezione spagnola era problematica
e precaria, cosõÂ come il sistema di potere di Elisabetta Farnese. Alla
debolezza si supplõÂ con la temerarietaÁ di un uomo, Montealegre, che
era dotato di qualitaÁ appropriate: laboriositaÁ, disinvoltura, gusto del
rischio, intelligente intraprendenza.
7. Il breve governo degli afrancesados sulle Sicilie
L'ispiratore di queste riforme era stato lui, il segretario di Stato
Jose JoaquõÂn GuzmaÂn de Montealegre, marchese e poi duca di Salas.
Egli puntoÁ sul momento particolarmente felice dei rapporti tra la
Spagna e le Sicilie per tentare quanto lo stesso imperatore Carlo
VI si era adoperato a realizzare in varie occasioni, con esiti fallimentari. Lo statista sivigliano, giaÁ creatura di PatinÄo e degli ambienti
madrileni a lui vicini, uomo, dunque, di cultura moderna afrancesada,
d'accordo con Genovesi e con tutta la migliore scienza economica e
60
N. Fraggianni, Lettere a B. Corsini (1739-1746), a cura di Elia del Curatolo,
Jovene, Napoli 1991, let. XXX, pp. 66-7, 16 gen. 1740.
200
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
politica del Mezzogiorno continentale ed insulare, era convinto che
l'involuzione delle Sicilie derivasse dalla debolezza dell'economia nel
quadro degli spietati rapporti di forza dominanti nel Mediterraneo
centrale. La proiezione della sua strategia fu chiaramente diretta ad
Oriente. Tutta la parte bassa dello Stivale, dal Garigliano a Pantelleria, gli appariva stretta a tenaglia da una duplice pressione: del
sottosviluppo islamico nordafricano e dalmata, esportato attraverso
le razzie piratesche, e della protezione che a quelle imprese espoliative era accordata a piene mani dalla potenza francese. Quest'ultima
ricavava due chiari vantaggi da quell'alleanza, uno diretto ed uno
indiretto: realizzava un'efficace penetrazione commerciale nelle instabili organizzazioni politiche islamiche, che vivevano prevalentemente di pirateria, e bloccava l'autonomo sviluppo dei noli ed in
genere delle attivitaÁ mercantili delle Sicilie, creando uno stato di
fatto per cui l'economia del Mezzogiorno era tenuta ad un livello
di dipendenza coloniale, rispetto al commercio francese. Durante
tutto il Settecento, questa linea interpretativa, che faceva dipendere
la debolezza commerciale dall'asservimento delle Sicilie, si fondoÁ su
alcuni solidi topoi, che possono essere sintetizzati in poche frasi di
due acuti osservatori siciliani, scritte alla fine degli anni ottanta:
«le nostre derrate tanto vagliono quanto gli esteri incettatori vogliono
che valessero»; la nostra economia «viene offesa e ridotta al niente
dalla pirateria dell'Africani, e diressimo meglio se diressimo dalle avide
mire di alcuni nazioni europee, che la fomentano per il vantaggio del
loro commercio» 61.
Situazione di dipendenza coloniale, di cui era chiara ai contemporanei l'influenza sull'involutivo modello sociale: «le vessazioni continue [...], avendo scoraggiata la nazione, l'hanno interieramente
distolta dal proficuo esercizio della nautica», e agiscono in maniera
negativa sui progressi delle manifatture e del commercio 62. Per un
61
O. Cancila, Problemi e progetti economici nella Sicilia del riformismo, Salv. Sciascia edit., Caltanissetta-Roma 1977, rispettiv. p. 231 e p. 230.
62
A.A.EÂ., Naples, MeÂmoires et documents, vol. 1, MeÂmoire sur les preÂtentions du Roi
IV. Tendenze di metaÁ secolo
201
tortuoso gioco d'influenze, che eÁ normale nella dialettica dell'esperienza storica, quello stesso sistema francese della produttivitaÁ e
della efficienza, che costituiva il modello cui nel Mezzogiorno si
guardava per imitarlo, agiva in modo da ostacolare o impedire la sua
adozione nelle societaÁ piu deboli, meno organizzate, incapaci di
contrapposizione militare: e questa eÁ una prova ulteriore che il successo della civiltaÁ comunale ha comportato poi una condizione di
difficoltaÁ e di ritardo che non si era ancora esaurita nel Settecento,
cosõÂ come lo spiritualismo orientato in direzione metafisica si traduce in un invaghirsi delle duttili e fascinose astrazioni, abbaglio
che daÁ corpo e giustificazione alta a vizi mentali deleteri.
Per gli osservatori contemporanei era ancora necessario distinguere il trasporto di generi di alto prezzo e di scarso ingombro e peso, in
prevalenza in mano ai francesi, dal transito di materiali che avevano
caratteristiche opposte. Su questi ultimi, infatti, era forte l'influenza
dei tassi di assicurazione che, rispetto ai noli francesi, erano nettamente piu alti per le navi delle Due Sicilie. Come dimostrano gli studi
di Franca Assante, la differenza eÁ facilmente comprensibile ed ovvia,
in relazione ai maggiori rischi corsi dalle navi italiane di perdite per le
razzie piratesche 63. D'altra parte, la vincente concorrenza francese per
il trasporto di materiali di piu elevata qualitaÁ e costo eÁ confermata
dallo studio di Maurizio Gangemi sui flussi commerciali del legname e
della manna provenienti dal Mezzogiorno italiano nell'arco cronologico 1710-1848. Il primo genere era trattato da navigatori regnicoli, il
secondo dai francesi. Inoltre, era noto che il mercato del trasporto
passeggeri era quasi esclusivamente riservato ai noli di quella nazione.
E cioÁ avveniva anche per i viaggi del personale amministrativo regio, a
meno che non si potesse usufruire di navi da guerra, che di solito
viaggiavano per scorta ai convogli 64. Ad esempio, Tanucci si lagnoÁ
de Naples de n'eÃtre tenu aÁ aucun des traiteÂs contracteÂs par les Rois ses preÂdeÂcesseurs, fonde sur
la possession de ces Etats aÁ titre du droit de conqueÃte (pp. 123-5).
63
F. Assante, Il mercato delle assicurazioni marittime a Napoli nel Settecento. Storia
della «Real Compagnia». 1751-1802, Napoli 1979.
64
Molti gli esempi di tal genere. CosõÂ ancora nel 1752, il governo spagnolo si
preoccupava che un gruppo di uomini della Real Hacienda in missione a Napoli rientrassero in patria non su naviglio napoletano, ma inglese o francese, cioeÁ con «vandera
202
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
con il suo amico fiorentino Francesco Mefetti, che si serviva di trasportatori livornesi nel rifornirlo di un vino toscano. I ritardi ch'essi
accumulavano gravavano sull'efficienza della spedizione, al punto che
Tanucci, scontento di dover aspettare, dichiaroÁ di preferire «navi
inglesi, francesi, olandesi» 65. Il problema era anche degli approdi calabresi, e dei loro fondali inadatti a navi di alto tonnellaggio: Gangemi
riferisce che il legno necessario per la flotta spagnola fu trasportato a
Cartagena da navi mercantili olandesi. Solo il traffico piu minuto e piuÂ
povero poteva superare quegli ostacoli. Una marineria povera eÁ disposta ad accontentarsi di un lucro minimo a fronte di rischi che erano
comunque seri, perche i pirati andavano alla ricerca o di merci ricche e
di uomini robusti o danarosi, capaci di pagare un riscatto: tutto il resto
non valeva il rischio e la spesa.
Era nota la tendenza dei marinai della flotta mercantile e militare borbonica a trasferirsi, saltando nei porti da bordo a bordo, da
legni nazionali a francesi, anche per meno alte remunerazioni. Per
questo motivo il governo napoletano invioÁ emissari a Cefalonia ed a
Smirne per approvigionarsi di quel genere di mano d'opera, e la
documentazione prova la rilevanza del fenomeno, riferendo le proteste del governo turco 66. Questo ed analoghi problemi (ad esempio
quello del contrabbando) erano resi piu gravi dal fatto che per ragioni
di prestigio e di rispetto alla bandiera i comandanti francesi rifiutavano ogni visita a bordo delle autoritaÁ locali. I contrasti su questo
punto attraversano tutta la vita politica internazionale delle Sicilie, e
segnano i progressi della sua indipendenza: nelle fasi viceregnali, il
diritto di visitare le navi francesi per impedirne il contrabbando
appariva una pretesa irrealistica.
In definitiva, eÁ comprensibile che partisse un certo traffico di
piccolo cabotaggio e di andamento litoraneo, diretto verso il sud della
segura» perche «libra de moros»: M. Gangemi, Dal Regno di Napoli a Cartagena. Il
Mezzogiorno e l'approvvigionamento di legname dell'arsenale spagnolo a metaÁ del `700, in
Aa.Vv. Ricchezza del mare. Richezza dal mare. Secc. XII-XVIII, a cura di Simonetta
Cavaciocchi, Firenze 2006, p. 425.
65
Tanucci, Epistolario, II, 1746-52, a cura di R.P. Coppini e R. Nieri, Roma 1980,
p. 730, let. 624.
66
Archivio General de Simancas, Estado, leg. 1519.
IV. Tendenze di metaÁ secolo
203
Francia, ed animato da uomini di mare disposti a tutto pur di procurarsi un guadagno e pur di trovare, grazie a faticosi e rischiosi trasporti,
un mercato per merci abbondanti e svilite dalla scarsezza dei compratori. La scomparsa di migliaia di poveri marinai, la loro fine in qualche
mercato di schiavi nordafricano, costituiscono zone d'ombra della
storia: non se ne parla. I dati quantitativi tratti dai legni in arrivo nei
porti francesi non tengono conto delle perdite, per effetto della pirateria e dei naufragi. Il circolo vizioso cosõÂ instaurato avrebbe potuto
esser spezzato solo se il regno di Napoli avesse potuto mettere in campo
un forte potere militare marittimo: tentativo cui si pensoÁ piu tardi, per
effetto delle velleitaÁ di potenza di Maria Carolina, consigliata da Ferdinando Galiani e dall'ex ufficiale di marina Giovanni Acton 67.
Nel primo decennio del regno indipendente Montealegre, uomo
di Stato avventuroso ed ardito al limite della temerarietaÁ, si fidava
anche troppo dell'appoggio militare spagnolo. PercioÁ, tra il 1735 ed il
1744 il governo napoletano cercoÁ di sottrarre le Sicilie alla condizione di passiva sudditanza economica dalle grandi potenze europee: la
diplomazia francese reagõÂ per quanto le fu allora possibile, ed ancora
piu duramente a distanza di tempo. EÁ triste dover ammettere (anche
perche questa contraddizione svela quanto sia tortuoso lo spirito
umano, e quanto sia difficile giudicarne l'impatto con la realtaÁ) che
alleati dell'inerzia e del sottosviluppo furono la bontaÁ d'animo ed i
buoni sentimenti del re di Napoli: Carlo dimostroÁ una propensione
alla generositaÁ ed alle smisurate spese di corte (basta dare uno sguardo al palazzo reale di Caserta per convincersene), inversamente proporzionale al suo preciso obbligo di curare la buona raccolta dei fondi
pubblici e la loro oculata amministrazione. Si spiega cosõÂ che i mercanti di ampie vedute, come il toscano Alessandro Rinuccini, potesse
arrivare all'estremo (quasi assurdo) di qualificare il buono e mite re di
Napoli, molto timorato di Dio (e specialmente della Vergine e di
Sant'Antonio), come un despota sconsiderato 68.
67
R. Ajello, I filosofi e la regina. Il governo delle due Sicilie da Tanucci a Caracciolo
(1776-1786), in «Rivista Storica Italiana», a. CIII (1991), I parte fasc. II, pp. 398-454, e
II parte fasc. III, pp. 657-738.
68
Nel comparare la situazione della politica economica toscana con quella del
204
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
8. Giunta di Commercio borbonica e scontro con la Francia (1735-56)
Fin dal 16 aprile 1735 fu istituita una Giunta di Commercio, di
cui conosciamo le attivitaÁ dal 1736 al 1738 69. Presieduta dal Segretario di Stato Montealegre, vi furono inseriti mercati di provata
esperienza e giuristi d'indirizzo moderno. Nel giugno del 1739, quale
evoluzione della Giunta, fu istituita una Conferenza di commercio,
da cui ebbero vita una serie d'iniziative, che andarono oltre la creazione del Supremo Magistrato (Editto del 30 ottobre 1739) e dei
Consolati. Fu promulgata un'apposita prammatica che concesse facilitazioni ai commercianti ebrei ed alle loro famiglie affinche si trasferissero a Napoli oppure in altre cittaÁ delle Sicilie, furono avviate
relazioni diplomatiche dirette a stipulare accordi commerciali con la
Porta Ottomana e con vari altri paesi, fu creata dal 1738 al 1742 una
Compagnia per il commercio nelle Indie 70.
Di queste novitaÁ ebbe a risentirsi specialmente la diplomazia
francese, costante nell'indirizzo, instaurato fin dal primo quarto del
secolo XVI, di assicurarsi la gelosa preminenza nei rapporti con
l'Oriente. Segni di un'ostilitaÁ di questo tipo furono manifestati da
tutti i diplomatici francesi operanti a Napoli nei primi anni del governo borbonico napoletano. Avvisaglie molto concrete furono
Regno di Napoli, il banchiere illuminista Rinuccini si era talmente convinto del «dispotismo» del governo napoletano in materia economico-finanziaria che scriveva all'amico
Buondelmonti (2 apr. 1754): «L'Imperatore eÁ quasi meno dispotico ne' suoi Stati che il
nostro Monarca qui, e i napoletani non son semplici, eppure fidano il loro denaro a'
Banchi pubblici». Il documento eÁ stato edito e commentato da R. Iovine, Una cattedra
per Genovesi nella crisi della cultura moderna a Napoli, in «Frontiera d'Europa», a. VII,
2001, nnë. 1-2, p. 505. Il giudizio eÁ di un grande esperto di mercati, economia e finanza
dell'Europa perche «pratico» e grandemente interessato alle vicende regnicole: le pesanti
accuse rivolte all'establishement carolino ed allo stesso sovrano mettono in luce la pressocche totale mancanza di sensibilitaÁ da parte del governo verso i problemi strutturali.
69
Di questa giunta la SocietaÁ Napoletana di Storia Patria possiede gli atti (43
pareri, provvedimenti, consulte) dall'8 feb. 1736 all'8 mag. 1738, in un codice ms. di
616 cc., segnato XXI D 30.
70
Su queste iniziative, cfr. E. Contino, Le funzioni dei consoli e lo sviluppo del
commercio marittimo del regno di Napoli nel secolo XVIII, Napoli 1983, pp. 4-9 per la
Conferenza di commercio. Della stessa Contino, Mire di espansione commerciale del
Regno di Napoli nel secolo XVIII. I progetti di compagnia delle Indie Orientali, Napoli
1990, pp. 41-79, per il progetto della compagnia delle Indie.
IV. Tendenze di metaÁ secolo
205
espresse nel maggio del 1736 dall'ambasciatore Louis PhiloxeÁne,
marchese di Puyzieulx, che fu il titolare dell'ambasciata da quell'anno al 1739 71. Di quei difficili rapporti sono testimonianza le Observations sur le Commerce de France dans les Royaumes de Naples et de
Sicile, scritte dallo stesso ambasciatore. Egli lamentava la crisi del
commercio francese, addebitata alle misure protezionistiche prese
dal nuovo governo, in particolare al peso delle tariffe doganali, ed
in genere all'intraprendenza ed alle pretese di autonomia del governo
napoletano e della sua politica di espansione nel Mediterraneo.
Per opporre una risposta convincente a quelle proteste, Montealegre nominoÁ una giunta, cui pose a capo un uomo di sua totale
fiducia, l'ex reggente del Collaterale ed ora Caporuota del Sacro
Regio Consiglio, quindi uno dei quattro membri della Regia Camera
di Santa Chiara: Francesco Ventura. Egli era stato, per l'indubbia e
riconosciuta intelligenza e per esperienza ed abilitaÁ personale, oltre
che come nipote ed erede di Gaetano Argento, l'autoritaÁ preminente
del Consiglio Collaterale durante gli ultimi anni. Di lõÂ a poco sarebbe
stato nominato Presidente del Supremo Magistrato del Commercio.
Entrarono nella giunta Matteo Ferrante, come avvocato fiscale, e
Oronzio De Mauro, amministratore della Dogana di Napoli. EÁ da
notare che, oltre a Ventura, anche Ferrante era amico di Pietro
Giannone, di cui condivideva le idee.
I tre esperti esaminarono il problema in una lunga consulta,
datata 25 luglio 1736, in cui, dopo aver descritto analiticamente le
merci sia d'estrazione sia d'importazione della Francia, le tariffe
praticate per i dazi e per la dogana, e dopo aver compiuto un confronto tra quei dati e altri simili relativi agli scambi con gli inglesi e
con gli olandesi, conclusero dichiarando non fondate le doglianze del
diplomatico. Il declino del commercio francese si verificava soltanto
71
Fino a metaÁ secolo, dopo Puyzieulx, assunse la carica di Ministre pleÂnipotentiaire,
Anne-Claude De Thiard, marchese di Bissy. Questi fu seguito dallo Charge d'Affaires
Guymard. Dopo Puyzieulx l'ambasciata fu ricoperta dallo Charge d'Affaires Tiquet ed il 7
luglio 1740 prese possesso della carica un altro ambasciatore, Paul FrancËois Gallucci de
l'Hopital, marchese di Chateaneuf, che rimase fino al 1750. Un messa a punto della
«sociologia» diplomatica, fondamentale per la diplomazia francese dei primi del Settecento, eÁ l'opera di BeÂly, Espions et ambassadeurs, cit. (cap. I, nt. 13)
206
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
per le manifatture di media qualitaÁ, perche le merci prodotte in
Inghilterra ed importate nelle Sicilie erano piu a buon mercato e, a
paritaÁ di prezzo, migliori. Inoltre, i mercanti inglesi acquistavano in
abbondanza olii e lane, «laddove da' Francesi poco o niente v'eÁ da
sperare, poiche quel regno [...] abbonda di tutto e poche merci da qui
si estraggono» 72. Quanto alle tariffe della dogana sarebbe impensabile rifarle, poiche alcune delle voci sono legate a tradizioni antiche,
create nel 1125, nel 1253 e nel 1385. In realtaÁ, la loro consolidata
esistenza aveva creato un groviglio d'interessi e di diritti acquisiti,
impossibile da sbrogliare. Vi eÁ qui un'eco delle discussioni e dei
contrasti che accompagnarono i tentativi di riforma FleischmannRadente, cui si eÁ accennato: ma il clima era diventato diverso, percheÂ
la credibilitaÁ del governo borbonico, in una fase di grande slancio
internazionale della politica di Elisabetta e di Jose PatinÄo (che era al
termine della sua vita), e la protezione molto ampia accordata dai re
di Spagna a don Carlos, attribuivano una certa sicurezza ed indipendenza alla giovane monarchia delle Sicilie: la Francia non poteva non
tenerne conto, tanto piu in quanto non aveva ancora realizzato il
capovolgimento delle sue alleanze.
Nonostante la giunta avesse posto nella documentazione una
gran cura, che rende difficile negare la validitaÁ dei rilievi tecnici, eÁ
fuori dubbio che fosse in gioco un ampio problema di strategia politica e mercantile: Ventura era il delegato degli inglesi, e l'azione di
Montealegre era diretta a creare concorrenza tra i partners commerciali delle Sicilie, e percioÁ ad allentare la dipendenza dalla Francia. Il
sivigliano Segretario di Stato appare dai documenti il Deus ex machina di ogni iniziativa, pur essendo egli, sul piano dell'autoritaÁ formale,
posposto a Sansteban del Puerto, che aveva la massima influenza
personale sul giovane re, essendone stato l'educatore. Montealegre,
uomo di cultura critica e di orientamento decisamente empiristico,
incline piu alle scienze naturali che alle umane e tradizionali (non a
72
L'incartamento eÁ in A.S.N., Esteri, fasc. 4863. Il documento francese fu redatto in
due parti distinte, uno per la Sicilia ed una per il regno continentale, ed eÁ accompagnato
dalla traduzione italiana. La consulta consta di 19 facciate, e contiene dati molto precisi.
IV. Tendenze di metaÁ secolo
207
caso protesse Celestino Galiani e Costantino Grimaldi e scelse Antonio Genovesi come suo bibliotecario personale) interpretoÁ il suo
compito di Segretario di Stato delle Sicilie come un banco di prova
della sua ideologia empirica ed illuministica, diretta a rigenerare la
produttivitaÁ del giovane regno, come se la sua rinascita potesse annullare gli antichi malanni e come se il quadro europeo potesse assistere impassibile al miracolo di quel risorgimento. Ne l'una ne l'altra
delle due diagnosi erano fondate; ma valsero a dare alle sue iniziative
una coerenza teorica ed uno slancio progettuale che solo la piu recente storiografia ha individuato come episodio rilevante per il suo
significato programmatico, ancor piu per i suoi risultati pratici; ma
tra di essi eÁ necessario ricordare almeno che la creazione dell'insegnamento di Meccanica e di Commercio, e quindi la nascita di una
personalitaÁ come quella genovesiana, ebbero origine proprio dalle
riforme montealegrine e dal clima da esse creato.
Poco piu tardi, ossia dopo la creazione del Supremo Magistrato
del Commercio, organo mediante cui Montealegre e Ventura avrebbero voluto realizzare il loro programma di rilancio dell'economia, le
resistenze interne di cui parla il documento francese trovarono eco
anche nelle critiche di un altro Segretario di Stato, Bernardo Tanucci, che, pur essendo stato immesso nella corte per influenza di PatinÄo
e Montealegre, di cui era strumento l'ambasciatore di Spagna a Firenze, divenne l'avversario segreto ed il denigratore occulto della
politica montealegrina fino al 1746. Poi si rese conto, quando era
troppo tardi, che le modeste doti culturali di Carlo non permettevano
a quel re di governare da solo, gli ardimenti a volte troppo disinvolti
del Sivigliano erano la cura necessaria per un ambiente, come quello
napoletano, frenetico, anarchico e caotico, ma tenuto fortemente a
freno dalla vicina potenza romana 73. Tanucci divenne poi, tra il 1755
73
Su questa fase, successiva al 1746 (partenza di Montealegre) e precedente il 1755
(ascesa di Tanucci) sono di gran rilevo le testimonianze di Leonardo del Riccio, esperto
ed intelligente uomo politico toscano, amico di Tanucci, che venne a Napoli nel 1751 e
nelle sue lettere ± recentemente pubblicate da Raffaele Iovine con ampio commento e
con penetrante introduzione ± constatoÁ che il governo delle Sicilie, privato dell'intraprendenza di Montealegre ed affidato ad un parmigiano debole e poco capace (Giovanni
Fogliani, uomo che era stato posto lõÂ per non far ombra all'autoritaÁ personale del re, e
208
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
ed il 1759, l'uomo piu importante del governo napoletano e in tale
posizione di autoritaÁ rimase fino al 1776. Tra il 1746 ed il 1755 (o
poco prima) egli attraversoÁ un periodo di massimo scoramento e di
pessimismo esistenziale, che era direttamente connesso con gli sforzi
di un'attivitaÁ di governo che si rilevava pressocche inutile quanto a
risultati pratici.
La nuova magistratura ± scrisse Tanucci riferendosi alla istituzione voluta da Montealegre ± «turba tutte le giurisdizioni», percheÂ
estende la sua competenza e priva altri organi, in primo luogo il Sacro
Regio Consiglio, di molte controversie, che costituiscono la materia
prima per i guadagni delle «mastrodattie» (cioeÁ le cancellerie). PercioÁ
i titolari di quegli uffici (coloro che li hanno acquistati dalla corte e li
hanno dati in gestione, ossia in affitto) protestano perche la rendita
decresce e non corrisponde piu al tasso d'interesse in base al quale
essi li acquistarono. Le proteste venivano da capitalisti autorevoli,
amici del re: ad investire nell'azienda reale erano specialmente gli
uomini della corte. Le difficoltaÁ al cambiamento erano poste in primo
luogo dal fatto che l'impresa statale (come qui eÁ stato piu volte
notato) era quasi totalmente `alienata', ossia ceduta in gestione ai
privati. Poiche quasi tutti i cespiti e gran parte delle attivitaÁ non
erano piu a disposizione del governo, ogni novitaÁ colpiva diritti acquisiti dai compratori, ossia dagli alleati del governo. I gestori ed
utenti della macchina giudiziaria napoletana trovavano facilmente
molti appoggi, e quell'opposizione era resa piu acuta dalla prepotente
personalitaÁ (l'«anima calabrese»), piuttosto altera e non incline alle
mezze misure, del primo presidente, Francesco Ventura 74.
Al di laÁ di questa evidente e documentata personificazione delle
ideologie dominanti in lotta tra di loro, un fattore decisivo dello scontro fu la tradizionale opzione della Chiesa romana per la difesa ad ogni
che ritroveremo, altrettanto imbelle, come vicere di Sicilia in infra, capp. VI e VII), era
in effetti allo sbando, proprio perche privo di una personalitaÁ di rilievo: Tra Tanucci e
Genovesi. La dialettica tra modelli politici in sei lettere inedite su societaÁ e cultura a Napoli
nel 1751, in «Frontiera d'Europa», a. 2006, n. 1, pp. 147-268.
74
B. Tanucci, Epistolario, vol. I, 1723-1746, a cura di R.P. Coppini, L. Del Bianco,
R. Nieri, pref. di Mario D'Addio, Ed. Storia e Letteratura, Roma 1980, p. 379, a
Bartolomeo Corsini, 23 gen. 1740.
IV. Tendenze di metaÁ secolo
209
costo dello status quo, ostilitaÁ rafforzata e resa piu drastica dalla presenza degli esprits forts nel partito montealegrino e quindi dalla necessitaÁ di opporsi in particolare a quella strategia di rinnovamento.
Un aspetto dei rapporti commerciali tra la Francia e le Sicilie fu a
lungo al centro della loro aspra rivalitaÁ: il fenomeno del contrabbando francese. La quasi totale libertaÁ che esso procurava alla Francia
nell'aggirare gli ostacoli delle gabelle determinava pesanti contraccolpi negativi sui rendimenti dei fiscali e degli uffici di regio patrimonio ed alienati. Le conseguenze indirette non erano piu lievi: in
un'economia parassitaria, fondata sulle «catene» del debito pubblico
(P. Giannone) come quella dell'Italia meridionale, il costo della sopravvivenza del sistema era pagato sia dalla «gente di campagna», sia
da quella di cittaÁ, per l'impossibilitaÁ di aggirare i divieti e le imposizioni, e per l'aumento della pressione fiscale a causa della scarsa
redditivitaÁ degli arrendamenti frodati.
A tal proposito, Ruggiero Romano ha osservato che se la politica
di repressione del contrabbando avesse avuto successo il commercio
franco-napoletano sarebbe diminuito nettamente e si ci sarebbe trovati di fronte all'ostacolo che lo aveva per lungo tempo intralciato: le
condizioni di privilegio tariffario concesse all'Inghilterra e alla repubblica genovese e le clausole del trattato stipulato tra Olanda e Due
Sicilie 75. L'intuizione dello storico eÁ difficilmente confutabile; ma, se
eÁ vero che un esito positivo alla lotta al contrabbando alla fine avrebbe presumibilmente ridotto il volume di affari e dei traffici tra i due
paesi, tuttavia il prezzo che l'intera societaÁ meridionale pagava per
questo fenomeno era sicuramente piu alto degli immediati ricavi.
Ancora, su questo aspetto eÁ lacunoso ogni giudizio che spieghi il
fenomeno soltanto in rapporto al volume ed ai ricavi dell'affare illecito, senza guardare ai meccanismi, alle dinamiche politiche ed agli
effetti di questa attivitaÁ sulle societaÁ interessate. La situazione caotica che ne derivava non solo creava scandalo e dimostrava la imperfetta indipendenza e limitata sovranitaÁ delle Sicilie, ma bloccava ogni
75
R. Romano, Le commerce du Royaume de Naples avec la France et les pays de
l'Adriatique au XVIIIe sieÁcle, Paris 1951.
210
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
tentativo di porre ordine razionale alla materia fiscale ed alla politica
economica sul piano internazionale. L'esperienza napoletana avvenuta con l'istituzione della soprintendenza della regia azienda e con il
conferimento a Giovanni Brancaccio delle delegazioni degli arrendamenti, se ebbe l'effetto d'inasprire la lotta al contrabbando, aveva da
subito insinuato il dubbio sull'utilitaÁ di misure protezionistiche.
Ad esempio, Giovanni Pallante ± che scriveva nel 1737 ± notoÁ
che i contrabbandi erano «puramente necessari», essendosi, con le
misure prese dal governo napoletano (dando «la potestaÁ regia agli
appaltatori di corte ed agli officiali commissari e squadre di assassinare
e scorticare e scomponere la gente»), «caricati i pesi e le imposizioni di
laÁ del convenevole», al punto che «se si voglia pagare le imposizioni per
intero, ed i diritti estorti dagli uffici e le maledette formalitaÁ, si perde
la maggior parte del prezzo della roba che si contratta» 76. Pallante
lamentava che la repressione del contrabbando giovasse al parassitismo degli «affittatori ed ufficiali di corte», ossia ad una «moltitudine
di assassini». D'altra parte, egli aveva giaÁ chiaro il rapporto tra il
disarmo viceregnale del regno (ossia il crollo dell'armamento militare,
ancora molto curato dagli Aragonesi) ed il collasso del commercio.
Insisteva sull'insegnamento «delle cose militari ne' collegi» e sulla
necessitaÁ di «nobilitare la milizia», ed inseguiva l'illusoria e fantastica
immagine delle azioni di forza contro i nidi dei pirati, sull'esempio di
quanto aveva fatto Luigi XIV mandando la sua flotta a bombardare
nel 1682 Algeri, nonostante che quella reggenza (come poi ricordoÁ
Genovesi) schierasse in prima linea i prigionieri sudditi francesi.
Dunque, giaÁ nel 1737 Pallante chiedeva forza internazionale e
coraggio nella difesa dei propri interessi. Nella coscienza dei suoi
contemporanei il problema del sottosviluppo meridionale andava
oramai ricostruito nei tempi lunghi, in rapporto alla politica francese
di alleanza con l'Oriente, instaurata fin dai tempi di Francesco I, e
che richiedeva come sua condizione indispensabile il controllo delle
vie d'acqua verso est, ossia lungo le coste italiane. Come vedremo
76
G. Pallante, Memoria per la riforma del regno, «Stanfone», 1735-1737, op. cit.
Infra, (cap. V, nt. 77), p. 243.
IV. Tendenze di metaÁ secolo
211
nelle pagine seguenti, la fase precedente e successiva alla caduta di
Tanucci (1776) fu caratterizzata da molti equivoci: la politica francese vide nello statista toscano il nemico dei suoi interessi, ma in
realtaÁ intanto il quadro internazionale preparava la svolta, voluta da
Giovanni Acton ancor prima del 1789, e diretta alla sostituzione
dell'influenza inglese a quella francese. Tuttavia il tentativo diretto
a rimediare al pessimo trend di lungo periodo fu travolto dall'avventurismo e dall'inesperienza della corte napoletana, dalla Rivoluzione
e poi dalla Restaurazione.
9. Conclusioni
EÁ un dato elementare che la civiltaÁ franca e poi francese, nei suoi
molteplici aspetti, ha avuto un'influenza enorme sulla storia italiana
ed in particolare del Mezzogiorno, fin dal tempo dei longobardi.
Questa costante va ben al di laÁ sia dei prolungati domini politici
angioino e napoleonico, sia delle piu brevi presenze durante la spedizione di Carlo VIII (1494-95) e nel corso della tumultuosa guerra
franco-spagnola combattuta per la conquista del Mezzogiorno nei
primi tre decenni del Cinquecento. La stretta connessione tra avvenimenti politici e culturali fu del tutto evidente nei momenti di svolte
e di turbolenze sociali: basti pensare alle rivoluzioni e rivolte del
1547, del 1647-1648, del 1701 e del 1799.
Negli ultimi decenni, al di sotto di questa serie di eventi ufficiali
e ben noti, eÁ stato individuato, come una componente non trascurabile dell'economia meridionale, un flusso di navigazione mercantile,
prima poco avvertito, tra la Francia e le coste della Sicilia, della
Calabria e della Campania. Quest'attivitaÁ commerciale tendeva a
sottrarsi al controllo ed all'influenza della politica sia interna sia
internazionale, ed in parte riusciva in questo intento, ma in larga
misura essa nasceva proprio dal forte dislivello economico e politico
tra le due parti, cui si aggiungeva il fatto che per le piccole dimensioni
di quelle imprese la politica e la fiscalitaÁ non le individuava. EÁ risaputo, infatti, che l'economia del Mezzogiorno dipendeva prevalentemente da due sistemi produttivi, l'inglese ed il francese, che erano
212
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
diretti all'elaborazione delle materie prime ed all'esportazione dei
manufatti. Il bilanciamento tra le due presenze economiche avvenne
durante la lunga fase di passivitaÁ della politica mercantile spagnola,
acutamente notata da Montesquieu in una serie delle sue PenseÂes
dedicata al commerce du Levant pour l'Espagne 77.
Le sue osservazioni sul commercio iberico (spagnolo e portoghese) risentirono delle indicazioni che l'ex-Presidente ebbe a Napoli tra
il 23 aprile e il 6 maggio 1729 78, durante i suoi viaggi in Europa.
VisitoÁ la Germania, l'Austria, l'Italia, la Svizzera, l'Olanda e si trattenne poi in un lungo soggiorno in Inghilterra tra la fine del 1729 ed
il 1732. Montesquieu indicoÁ come una «horrible faute» che la Spagna
e il Portogallo si privassero di un commercio mediterraneo specialmente con il Levante, «qu'ils pourroient faire avec bien plus de
facilite que les autres nations» 79. Questo ``vuoto'' della presenza
spagnola certamente influõÂ sul ``pieno'' di quella francese e facilitoÁ
la nascita dell'indicato trend della navigazione litoranea francese lungo le coste meridionali e siciliane verso l'Oriente, fenomeno sulle cui
rotte si formoÁ, in direzione inversa, il trasporto meridionale di materie povere, che imitava quella tecnologia e quella organizzazione.
Dato che le autoritaÁ marittime ed i governi francesi esercitavano
una sorta di controllo e di orientamento sulla pirateria nord-africana,
sarebbe interessante scoprire se essi concedevano una sorta di protezione anche ai trasportatori meridionali verso la Francia, sia pure
sotto forma di mere notizie sui momenti piu favorevoli o piu pericolosi per la navigazione, oppure mediante avvertimenti alle centrali
piratesche, con cui erano in segreta relazione. Il traffico commerciale
francese fu certamente facilitato dall'appoggio politico di quel governo, che proteggeva il contrabbando dei suoi mercanti, vietava le
visita a bordo delle navi di sua bandiera, si procurava marinai delle
Sicilie contro i divieti del governo napoletano. Tutto questo emerse
77
Montesquieu, Mes penseÂes, in Oeuvres completes, par Roger Caillois, BiblioteÂque
La PleÂiade, NRF Gallimard, Paris 1949, vol. I, pp. 1496 (fram. 1992-1993=262-264, I,
pp. 272-4).
78
Ivi, pp. 719-33.
79
Ivi, p. 1496.
IV. Tendenze di metaÁ secolo
213
chiaramente e ripetutamente dopo il 1734, quando i fattori politici
derivanti dal nuovo risalto internazionale delle Sicilie furono in grado di mettere in luce quelle condizioni aberranti d'indiretto sfruttamento. Sul trono di Napoli sedeva un personaggio come Carlo di
Borbone che era protetto e tutelato, di nome piu che di fatto, dal
governo spagnolo, dove gli uomini di Elisabetta Farnese, in quei
primi decenni e fino al 1746, dominavano.
La storiografia idealistica, che conserva una certa nascosta e
verbalmente rifiutata, ma fondamentale sudditanza nei confronti
dello spiritualismo tedesco (e quindi non eÁ in grado di distinguersi
da altre forme, ancor piu arcaiche, di questa tendenza), ha sempre
trascurato i problemi meridionali dell'economia e del commercio.
CosõÂ essa si lascia spesso condizionare dalle invettive bigotte contro
il materialismo francese (ad esempio, quelle di origine vichiana) e non
daÁ rilievo alla cultura italiana, ed in particolare napoletana, che prese
a modello il neomercantilismo francese e che cercoÁ, imitandolo, di
creare sbocchi di produttivitaÁ e d'imprenditorialitaÁ. Paradossalmente
quella storiografia non ha dato il minimo spazio al fenomeno della
pirateria e della utilizzazione che se ne fece da parte francese: uno
strumento feroce e spietato di condizionamento e di sfruttamento del
sottosviluppo meridionale.
Questa affermazione ± sia ben chiaro ± non eÁ diretta ad invogliare valutazioni moralistiche dei rapporti di forza, che nell'epoca
considerata (ed oltre) dominavano senza freni i rapporti internazionali, come Rousseau piu volte denunzioÁ. Ma lo stesso ginevrino colse
il significato profondo che le identitaÁ nazionali, giaÁ da tempo realizzate in alcuni paesi d'Europa (e non in Italia), stavano manifestando
nel Settecento. I sentimenti di ordine civico e di nazionalitaÁ furono
l'esperienza basilare necessaria per la nascita di fenomeni di segno
opposto, secondo l'andamento `normale' della dialettica, che condiziona tutte le esperienze storiche. PercioÁ Rousseau scrisse che dall'imperialismo oppressivo nasce, come segno di una saturazione diretta ad avviare l'opposto movimento pendolare, la considerazione
dei diritti umani al di laÁ del nazionalismo e del patriottismo. La
morale dell'uomo in quanto tale si fonda sull'esperienza dell'etica
214
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
sociale, ossia civile; il sentimento della globalitaÁ, inteso in senso
buono come partecipazione alle sofferenze dell'umanitaÁ intera, si
sviluppa nelle societaÁ nazionali meglio organizzate, non in quelle
disgregate. A questo proposito il grande ginevrino formuloÁ diagnosi
che hanno anticipato di un quarto di millennio cioÁ che oggi eÁ sotto gli
occhi di tutti: se fosse vero il contrario, i talebani combatterebbero a
difesa della Croce rossa, e le forze degli Stati nazionali indosserebbero la dinamite e si farebbero esplodere come kamikaze.
Fu dopo il 1734 che nel Mezzogiorno sorsero nello stesso tempo
difficoltaÁ e facilitazioni. Per un verso il governo napoletano (come
dimostroÁ la Giunta presieduta da Ventura, formata di afrancesados)
non era piu disposto a tollerare gli aspetti piu irregolari del dominio
commerciale francese; per un verso opposto Montealegre, libertino
gaudente, ostile ad ogni bigotteria ed allievo di PatinÄo, avvioÁ una
politica diretta a favorire comunque gli scambi mercantili, anche con
i Turchi, e si illuse che le imprese delle Sicilie potessero essere irrorate ai capitali ebraici. Ma ebbe contro questa politica i vecchi assetti
di potere, alleati con i nuovi. I ben noti ostacoli, posti dagli ecclesiastici e dal governo francese nelle trattative con alcuni Stati esteri, e le
difficoltaÁ incontrate dal livornese Finocchietti Faulon nello stipulare
l'accordo commerciale con la Porta ottomana, dimostrano che la
passivitaÁ, accertata nel 1729 da Montesquieu, era ancora vincente
a Napoli, con una differenza: non si presentava piu come paralisi
ideativa ed imprenditoriale del ceto dirigente togato, ma era presente, in modo altrettanto greve ed invincibile, negli assetti sociali e
nelle mentalitaÁ diffuse.
Dopo il 1734, il governo borbonico immise nei propri quadri il
meglio del potenziale riformismo asburgico-napoletano. Si avvalse
all'interno della spinta di rinnovamento data dall'indipendenza ritrovata, dalla protezione di Elisabetta Farnese e dalla giovane etaÁ del
re Carlo: condizioni (queste due ultime) che comprimevano e rendevano innocuo il culto della tradizione, proprio del re, e la sua tendenza a considerare lo status quo una norma quasi cogente. Ma in
politica estera i rapporti diplomatico-commerciali tra Napoli e Parigi
furono caratterizzati da un latente e costante contrasto, articolato in
IV. Tendenze di metaÁ secolo
215
un'estrema varietaÁ di episodi minuti, la cui serie e consistenza emergono dall'epistolario tanucciano, e sono confermati sia dalle relazioni
settimanali inviate ai vari governi europei dai rappresentanti diplomatici (particolarmente precisi ed importanti i dispacci piemontesi)
sia dalle registrazioni consolari, sia dall'ampia documentazione presente nell'archivio parigino degli affari esteri. Su questa casistica
influirono le imprevedibili volubilitaÁ, leggerezze e rilassatezze di
comportamento delle due regine, quella sassone e poi quella austriaca, espressioni di atteggiamenti morali del tutto diversi, ma entrambe
convinte che deliciae principis fossero il fattore basilare della salus
populi: idea, per altro, condivisa dal re Carlos. La cronaca di questi
contrasti, animati dal rigore tanucciano, manifestatosi appieno dopo
il 1759, eÁ una cronaca che le fonti indicate consentono di narrare; ma
questo compito non tocca a chi scrive nella presente sede e forse saraÁ
assolto in un'altra occasione.
Certo eÁ che un quadro coerente dei rapporti economici tra la
Francia e le Sicilie e dei loro sviluppi eÁ possibile solo integrando fonti
molteplici di vario genere, ossia le testimonianze della piu diversa
natura e provenienza, in base al criterio che eÁ stato posto in modo
decisivo dal pensiero critico moderno: non esistono settori privilegiati e di per se certi, ne affermazioni e dati che si possano sottrarre al
dubbio ed all'esigenza di verifica sperimentale comparativa. In altri
termini, tutto, in questo mondo, eÁ opinione. Minore incertezza si ha
dove la verifica di attendibilitaÁ delle diagnosi e delle idee sia possibile
mediante il confronto tra fonti diverse ed attraverso la conoscenza
approfondita delle strutture psicologiche, culturali, mentali che caratterizzano le personalitaÁ dei singoli testimoni. Inoltre, una norma
anche piu ampia e generale eÁ stata perfezionata dalla critica alla fine
del secondo millennio: una conoscenza reale dei fenomeni (tuttavia
sempre relativa) nasce dalla comprensione della dialettica esistenziale, ossia dal contrasto degli interessi e delle idee. Non valgono appigli
ed ancoraggi dogmatici di nessun genere, che tendano a sottrarsi a
questo limite, per sfuggire ad una chiara e documentata verifica
razionale.
217
V
OLTRE LA METAÁ DEL SECOLO
LA FRANCIA DAL DOMINIO
ALL'INFLUENZA POLITICO-CULTURALE
1. Fallimento dell'unione di fatto tra le due corone borboniche (1715)
Pare che, quando Louis XIV rese nota ai cortigiani la sua accettazione del testamento del re cattolico Carlo II, l'ambasciatore spagnolo esclamasse con enfasi: «il n'y a plus des PyreÂneÂes!» 1. Ma per
una di quelle magie, che rendono imprevedibile la storia umana, la
catena di montagne, tre lustri prima scomparsa, si ripresentoÁ all'improvviso intatta ed ancor piu massiccia, tra il 1714 ed il 1715, in
seguito a due avvenimenti cruciali per le vicende e relazioni narrate
in queste pagine: la morte di Maria Luisa Gabriella (14 febbraio
1714), prima moglie di Filippo V, fu seguita nello stesso anno dal
matrimonio del re di Spagna con Elisabetta Farnese; Luigi XIV morõÂ
il 1ë settembre 1715.
La nuova regina era una bella donna, ma tutt'altro che dotata di
temperamento dolce e remissivo, come ad arte l'aveva descritta
l'intermediario del matrimonio, il geniale ecclesiastico parmense e
fine diplomatico Giulio Alberoni, presente nella corte madrilena giaÁ
dal 1710 (solo piu tardi fu nominato cardinale, nel luglio 1717) 2. A
Jadraque, in territorio spagnolo, ai piedi dei Pirenei, il 23 dicembre
1714 Elisabetta ebbe uno scontro con la principessa Orsini, tutrice
informale degli interessi francesi a Madrid, e fece subito capire di
esser ben diversa da come era stata descritta 3. Poco dopo il re di
Spagna mostroÁ che le condizioni precarie del suo sistema nervoso
erano preoccupanti in senso patologico 4.
1
Cit. da BeÂly, op. cit. (cap. I, nt. 13), p. 19.
Ajello, La vita politica, cit. infra, nt. 5, p. 462.
3
Baudrillart, op. cit. (cap. I, nt. 50), p. 610 s.
4
Sull'evolversi della malattia mentale di Filippo V (con descrizione di alcune delle sue
bizzarrie che aiutano a comprendere l'estrema gravitaÁ del quadro clinico) cfr. H. Kamen,
Philip V of Spain, Yale University Press, New Haven and London 2001, passim.
2
218
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
Con la presenza di una forte personalitaÁ femminile nel governo
di Madrid si aprõÂ una nuova stagione negli equilibri europei, oltre che
nella storia della monarchia cattolica. La societaÁ spagnola aveva giaÁ
goduto di una forte immissione d'idee francesi con il governo di
Filippo V, novitaÁ che favorõÂ il rafforzarsi della componente afrancesada. In queste giaÁ adulte condizioni dell'influenza della grande nazione sorella ebbe inizio allora una fase italiana (1715-1746), diretta
ad obiettivi in gran parte diversi da quelli auspicati dal Re Sole e fin
qui narrati: mete caratterizzate dall'energico temperamento di una
regina di singolare carisma. Ella era infatti dotata di sguardo penetrante e di vedute ampie, ma molto realistiche; la sua presenza rafforzoÁ tutto cioÁ che era filofrancese, in quanto spregiudicato, dinamico, razionale e, se necessario, ostile agli astratti eccessi di fedeltaÁ alle
tradizioni. Questo cambiamento avvenne sia sul piano del governo
sia su quello dei piu dinamici indirizzi di cultura. Dunque, quando si
esalta l'influenza della Spagna nella storia italiana dopo la morte di
Carlo II, bisogna tener conto che fu fenomeno «gallispano» (secondo
la formula di Tiberio Carafa), ossia di una politica e di una cultura
spagnola giaÁ fortemente rinnovate dalla ratio francese. Quella sviluppata nelle presenti pagine eÁ una linea interpretativa che segue alla
lettera le indicazioni, a suo tempo (negli ultimi anni del secolo XIX)
formulate dalla mente penetrante di Benedetto Croce. Egli vide
chiaramente questa trasformazione verso lo esprit francese, svolta
attiva ed evidente giaÁ negli ultimi decenni del Seicento, ben prima
che si aprisse la successione di Carlo II.
La ``fase italiana'' fu seguita, dopo la morte di Filippo V, da
tredici anni d'intervallo, caratterizzati da un «neutralismo a ultranza», e da rigurgiti delle vecchie idee iberiche integraliste, patrocinate da Barbara di Braganza. Nell'autunno del 1759, con l'arrivo a
Madrid di Carlo di Borbone, ormai terzo come re di Spagna, questa
fase confusa di arretramento ebbe termine, e si aprõÂ per la storia
della monarchia cattolica un nuovo corso, che non sarebbe pienamente comprensibile se non si tenesse conto di quanto era avvenuto
a Napoli dal 1734 al 1759. Certo eÁ che, il figlio prediletto di Elisabetta Farnese, giaÁ a Madrid e poi durante la permanenza in Italia,
V. Oltre la metaÁ del secolo
219
aveva maturato nei confronti della Francia idee ed interessi spesso
dialettici 5. InfluõÂ a creare in Carlo questa tendenza lo spagnolismo
tradizionalista e bigotto dell'ajo Santisteban. Una sorta di frattura si
venne percioÁ a creare tra due ideali: da un lato il culto, greve e
serioso, della tradizione imperiale iberica, forma mentis sorretta dall'orgoglio spagnolo e da un totale ossequio all'ortodossia; dall'altro la
cultura afrancesada, di carattere razionale ed empirico, fortemente
incline al dinamismo, alla produttivitaÁ, al rinnovamento.
Se si guarda a quanto avvenne in Spagna dopo il 1746, bisogna
riconoscere che l'orgogliosa societaÁ iberica durante tutto il secolo
mal sopportoÁ l'idea di relazioni politiche franco-spagnole senza frontiere, che avrebbero dovuto addirittura trasformare l'orografia del
Paese. L'analisi storiografica della Spagna settecentesca nei suoi
rapporti politici ed economici con la Francia eÁ di certo complicata
dall'incrociarsi nella cultura nazionale spagnola dei temi della «invertebracioÂn hispaÂnica», della difficile articolazione dell'«Estado y
de la nacioÂn», della dialettica tra le diverse realtaÁ regionali, riconducibile all'antitesi tra una «EspanÄa federal» (la monarchia «compuesta» degli Austrias) e un'«EspanÄa vertical» (quella afrancesada, per
l'appunto, risalente alla prima epoca borbonica) 6. Tuttavia, questa
stessa storiografia converge nel sostenere che la sua classe dirigente,
almeno nella vecchia Spagna, aveva scelto la successione borbonica
affinche l'enorme impero si conservasse unito e fosse trasmesso ai
5
Cfr. a tal proposito i giudizi di R. Ajello, La vita politica napoletana sotto Carlo di
Borbone, nella misc. Storia di Napoli, vol VII, Di Mauro, Cava de' Tirreni 1972, e piu di
recente in Carlo di Borbone, re di Napoli e di Sicilia 1734-1759, introduzione a Carlo di
Borbone. Lettere ai re di Spagna, Ministero dei Beni culturali, Roma 2001.
6
Sulla guerra di successione spagnola, sulle scelte compiute in Spagna riguardo l'opzione dinastica e sulla politica interna ed estera di Filippo V la bibliografia eÁ vasta. Rimane
ancora oggi insuperata Baudrillart, Philippe V et la Cour de France, Firmin, Paris 18901900, 5 voll., opera piu volte citata qui. Si vedano inoltre i primi due volumi di W. Coxe,
Memoirs of the Kings of Spain of the House of Bourbon, Longsmans, London 1813 (tradotto
in spagnolo da J. De Salas Y Quiroga, EspanÄa bajo el reinado de la Casa de BorboÂn, Madrid
1846). Piu recentemente H. Kamen, The War of Succession in Spain 1700-1715, Weidenfeld
and Nicolson, London 1969. Cfr., in ultimo, l'importante riflessione di Ricardo GarcõÂa
CaÂrcel sulla nascita del nazionalismo spagnolo, datata proprio a partire dalla successione
borbonica e dall'immagine storiografica del regno di Felipe V nel secolo XIX, Felipe V y los
espanÄoles, cit. (cap. IV, nt. 33).
220
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
posteri nella sua integritaÁ: erano in gioco, oltre all'orgoglio e al
sentimento nazionale, radicati interessi costituiti 7. La nuova dinastia avrebbe dovuto tenere come principale obiettivo la salvaguardia
dell'unitaÁ della monarchia, restaurando il suo antico potere e prestigio. Ed entro questa prospettiva alcuni storici spagnoli hanno
segnalato l'organicitaÁ della politica estera borbonica lungo tutto il
sec. XVIII, «que obliga a entenderla como un todo desplegado en dos
tiempos ± el correspondiente al reinado de Felipe V y el que atanÄe a
la plenitud de Carlos III, separados ambos por el neutralismo a
ultranza de Ferdinando VI» 8.
7
Cfr. i saggi di R. Dennis Hussey-J.S. Bromley, Pressioni europee sull'impero spagnolo (1688-1715), e di G. Clark, Dalla guerra della lega di Augusta alla guerra di successione
spagnola, in Storia del mondo moderno Cambridge, vol. VI, L'ascesa della Gran Bretagna e della
Russia (1688-1713), Garzanti, Milano 1971, rispettivamente alle pp. 409-55 e 456-90. Per
J.A. Maravall Casesnoves, La philosophie politique espagnole au XVII sieÁcle dans les
rapports avec l'esprit de la contre-reforme, a cura di L. Cazes e P. Mesnard, Paris 1955, fu
Rodriguez de Lancina l'unico scrittore spagnolo che ammetteva da parte del monarca
assoluto la riforma costituzionale della norma che regolava la trasmissione della sovranitaÁ.
8
«Confundir esa continuitad con la concreta articulacioÂn de los Pactos de Familia y
entender esos Pactos como una superditacioÂn de los intereses espanÄoles a los intereses de
Francia, constituye un doble error. Lo cierto es que el despliegue polõÂtico internacional de
nuestro siglo XVIII se produce como una reÂplica a las claÂusolas de la Paz de Utrecht, y
reconoce una prolongada etapa ± veinte anoÄs ± antes de que se decida al Primer Pacto; y
que tanto eÂste como el segundo y tercero ± el carlotercista, vigente asta 1790 ± se resuelven
maÂs bien a favor de los objetivos de EspanaÄ que en fiuncioÂn de los planes de Francia»: C.
Seco Serrano, Politica exterior, in Actas del Congreso Internacional sobre «Carlos III y la
IlustracioÂn, Madrid, 1989, t. I, p. 109. Sulla stessa linea di giudizio si vedano: D. Ozanam,
La polõÂtica exterior de EspaÄna en tiempo de Felipe V y de Fernando VI, in La eÂpoca de los
primeros Borbones. La nueva monarquõÂa y su posicioÂn en Europa (1700-1759), t. XXIX, vol. I
della Historia de EspaÄna, fondata da R. MeneÂndez Pidal e diretta da J.M. Jover Zamora,
Espasa Calpe, Madrid 1999; M.V. LoÂpez-CoÂrdon, Bases institucionales y sociales de la
accioÂn exterior espanoÄla del siglo XVIII, in I Symposium Internacional: Estado y fiscalidad en
el Antiguo ReÂgimen, a cura di C.M. Cremades GrinÄaÂn, Murcia 1989; J.M. Oliva Melgar,
Politica exterior en el siglo XVIII, en El reformismo borboÂnico (1700-1789), vol. VII della
Historia de EspanaÄ, diretta da A. DomõÂnguez Ortiz, Barcelona, 1989; P. Zabala Y Lera, El
marqueÂs de Argenson y el Pacto de Familia de 1743, Madrid 1928; M.P. RuigoÂmez De
HernaÂndez, La polõÂtica internacional de Carlos III, in La eÂpoca de la IlustracioÂn. Las Indias
y la polõÂtica exterior, t. XXXI, vol. II della Historia de EspaÄna, fondata da R. MeneÂndez
Pidal e diretta da J.M. Jover Zamora, Espasa Calpe, Madrid 1988; J. HernaÂndez SaÂnchezBarba, Del Tercero Pacto de Familia al Tratado de Aranjuez. AfirmacioÂn de la separacioÂn
eÂxterior respecto a Francia, in I Symposium Internacional: Estado y fiscalidad en el Antiguo
ReÂgimen, cit. pp. 193-209.
V. Oltre la metaÁ del secolo
221
Durante tutto il Settecento, da parte francese si recriminoÁ, invece,
per lo scarso senso di lealtaÁ dimostrato dagli spagnoli, dopo l'evento
epocale della guerra di successione. Basti qui citare, per tutti, il pensiero di Voltaire. Egli attribuõÂ ad Alberoni il disegno politico d'infrangere gli accordi di Utrecht e di sconvolgere l'intera Europa. Asse
centrale dei suoi piani sarebbe stato quello di eccitare una rivolta in
Francia per spodestare il duca d'OrleÂans e dare la reggenza a Filippo V.
Costui, che aveva rinunciato alla corona di Francia per la pace,
«excita, ou plutoÃt preÃta son nom pour exciter, des seÂditions en France,
qui devaient lui donner la reÂgence d'un pays ou il ne pouvait reÂgner.
Ainsi, apreÁs la mort de Louis XIV, toutes les vues, toutes les neÂgociations, toute la politique, changeÁrent dans sa famille et chez tous les
princes» 9.
2. «InveÂteÂre antipathie» spagnola contro la Francia: cause profonde
L'avventuroso ed improbabile piano di Alberoni tendeva ad un
estremo diametralmente opposto a quello del Re Sole. Relativamente alle motivazioni da cui era stato spinto Luigi XIV a combattere
contro la Grande Alleanza, che univa l'imperatore, il re d'Inghilterra e gli Stati generali delle Province Unite, il topos classico circolante
negli ambienti politici francesi si trova efficacemente sintetizzato in
un anonimo documento diplomatico del 1782:
«Les puissances qui firent cause commune pour s'opposer aÁ l'installation d'un Prince de la maison de Bourbon sur le troÃne d'Espagne
avaient pour objet la crainte que les deux couronnes de France et
d'Espagne se reÂunissent sur une meÃme teÃte et celle que ces deux
Puissances, adoptant les meÃmes systeÁmes politiques, ne joignissent
leurs forces pour tout envahir et surtout pour concentrer entre elles
tous les avantages du commerce» 10.
9
Sul duro giudizio storico e politico di Voltaire, cfr., tra le altre opere, il PreÂcis du
sieÁcle de Louis XV, in êuvres historiques, eÂdition eÂtablie et annoteÂe par Rene Pomeau,
Gallimard, Paris 1957, pp. 1302-3.
10
A.A.EÂ., Espagne, MeÂmoires et documents, vol. 208 (1776-1782), Diverses observations
qui peuvent eÃtre inteÂressantes pour connaõÃtre l'Espagne, p. 173r, anonime, ma datate 1782.
222
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
Ma, anche se il progetto, concepito da Luigi XIV, di unire di fatto le
due potenze divise dai Pirenei era fallito, l'influenza culturale, economica e commerciale francese sulla Spagna, giaÁ presente nella seconda metaÁ del Seicento, era cresciuta a dismisura nel corso del
Settecento 11. Avvenimenti politici come l'ascesa al trono di Filippo
V, la politica mercantilista dei Borboni o la firma del Terzo Patto di
Famiglia cambiarono la storia delle relazioni economiche e finanziarie franco-ispaniche; ma non quelle culturali. Ne avvenimenti come la
notevole concorrenza inglese e la penetrazione sul mercato spagnolo
delle tele della Slesia, riuscirono a mettere in crisi la presenza della
rete commerciale francese in Spagna lungo tutto il secolo dei Lumi 12.
L'affermarsi di un modello razionale, empirico e critico di vita e di
pensiero, eÁ fenomeno che procede a livelli molto profondi delle mentalitaÁ. Secondo l'anonimo estensore della memoria del 1782 (dov'eÁ
sintetizzata la storia settecentesca dei rapporti tra le due nazioni)
«les manies et espeÁces d'eÂgarement d'Espagne dans lesquels tomba
Filippe V [...] apreÁs qu'il fut reste paisible possesseur de son Royaume,
livreÁrent ce Gouvernement aux Italiens, dont les efforts furent d'eÂloigner les francËais et tous ce qui pouvaient eÃtre favorables aÁ leur parti» 13.
Dopo l'influenza dei politici italiani ± sui cui effetti sulla vita della
nazione francese Voltaire aveva espresso un perentorio giudizio
negativo ± venne l'epoca della formazione di un forte partito inglese nella penisola iberica, giaccheÂ
«le reÁgne de Ferdinand ne fut pas plus favorable aÁ la France, au
contraire il fut entieÁrement livre aÁ la Reine Barbe, princesse portugaise toute anglaise. Pendant sa dureÂe les Ministres d'Angleterre
eurent ouvertement la plus grande influence dans le gouvernement
et une entieÁre preÂpondeÂrance.
11
Cfr. A. Girard, Le commerce francËais aÁ SeÂville et aÁ Cadix au temps des Habsbourg,
Paris 1932, per la nascita del reÂseau marchand francese.
12
Cfr. M. Zylberberg, Une si douce domination. Les milieux d'affaires francËaises et
l'Espagne vers 1780-1808, cit. (cap. I, nt. 47).
13
A.A.EÂ., Espagne, MeÂmoires et documents, vol. 208 (1776-1782), Diverses observations
(doc. cit., nt. 10), p. 175r.
V. Oltre la metaÁ del secolo
223
C'est aÁ la faveur de ces circonstances que l'esprit d'antipathie si
inveÂteÂre contre la France ne s'est point dissipeÂ, mais s'est conserveÂ,
et que l'Angleterre est parvenue aÁ se former un parti consideÂrable en
Espagne. [...] L'Angleterre pendant sa preÂpondeÂrance, a fait placer
ses creÂatures et s'est assureÂe de nos suffrages. Il n'y a point en
Espagne de carrieÁre qui meÁne aux emplois, excepte dans le militaire;
l'homme de la plus basse extraction peut se flatter de parvenir aux
premieÁres places de l'Eglise, de la Magistrature et du MinisteÁre. Il
suffit qu'il ait de la protection [...]. C'est un moyen que l'Angleterre
a toujours employe avec le plus grand succeÁs sous le reÁgne de Ferdinand ou je connoissoi nombre de personnes aÁ qui m. Keers, ambassadeur d'Angleterre, qui a eu tant de pouvoir dans ce pays, donnait
des pensions et des gratifications» 14.
Le cose per la Francia non cambiarono neppure con l'avvento al
trono del fratellastro di Ferdinando VI, Carlo di Borbone:
«on a vu comment ses ministres ont eu l'art de rendre inutiles les
heureux effets que les deux puissances devaient attendre de leur
Pacte de Famille [...]. Les changements de Ministres n'ont point
duà en apporter dans le systeÁme de leurs successeurs. Ils ont tout eu
le meÃme inteÂreÃt aÁ faire valoir tous les moyens possibles pour eÂloigner
la preÂpondeÂrance du cabinet de Versailles que tous les ministres
espagnoles ont toujours redouteÂe» 15.
In questo caso, la colpa del mancato indirizzo franco-centrico nella
politica estera spagnola ebbe cause interne:
«l'eÂtat malheureux de la France dans les dernieÁres anneÂes du reÁgne de
Louis XV, a duà fournir des preÂtextes bien plausibles aÁ preÂsenter au
Roi d'Espagne, non pour l'eÂloigner de la France, on n'aurait pas oseÂ,
mais pour diminuer sa confiance dans son union» 16.
In realtaÁ, fu solo dopo l'ingresso al governo del Floridablanca che la
14
15
16
Ivi, f. 177r-v. (corsivo aggiunto)
Ivi, f. 200r.
Ibidem.
224
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
monarchia cattolica s'impegnoÁ in una nuova politica commerciale e
di produttivitaÁ economica che l'avrebbe dovuta liberare da quello
che gli spagnoli stessi chiamavano «il giogo francese» 17. Ancora,
nella memoria del 1782, la slealtaÁ politica di quel ministro verso
la Francia puoÁ essere giudicata in occasione dell'ultima guerra contro l'Inghilterra,
«par toute la reÂsistance qu'il a apporte aÁ entrer dans la guerre, ou
qu'il connaissait le peu de moyens que l'Espagne avait pour le faire,
ou qu'il s'eÂtait flatte qu'en rester neutre et en faisant grand apparat
de ses forces, il n'imposerait, ferait jouer au Roi son maõÃtre le roÃle de
meÂdiateur, et ferait la loi aÁ toutes les Puissances» 18.
Nel giudizio di disprezzo verso l'«avocat» Floridablanca («eÂleveÂ
dans le bureau et porte de la profession d'avocat, dans la quelle il
s'eÂtait distingue aÁ la place d'avocat geÂneÂral du Conseill de Castille,
puis aÁ celle de ministre d'Espagne aÁ Rome, et de laÁ aÁ celle qu'il
occupe»), l'autore dell'anonimo memoriale rivela un tratto caratteristico della diplomazia francese di fine secolo: la profonda disistima verso i letrados spagnoli, che formavano una cospicua parte della
classe dirigente di quel paese, e la cui presenza si estendeva enormemente a discapito di chi avrebbe invece avuto «les lumieÁres
neÂcessaires aÁ ces places».
Com'eÁ evidente, il confronto tra Francia e Spagna riveloÁ nel
Settecento, in modo sempre piu chiaro e piu definito, i suoi caratteri
ed i suoi originari connotati di netto contrasto tra due diversi modelli
di sviluppo delle societaÁ e delle loro culture. Fu una dialettica che
coinvolse appieno in senso negativo anche il Mezzogiorno, le cui
popolazioni avevano acquisito della mentalitaÁ spagnola gli aspetti
deteriori e non l'orgoglio nazionale ne il coraggio militare. La storia
posteriore, anche recente, ha dimostrato in modo incontrovertibile al
mondo intero che il modello di sviluppo franco-inglese e statunitense
17
Cfr. M. Zylberberg, Une si douce domination. Les milieux d'affaires francËaises et
l'Espagne vers 1780-1808, cit. (cap. II, nt. 47), p. 87 ss.
18
A.A.EÂ., Espagne, MeÂmoires et documents, vol. 208 (1776-1782), Diverses observations
(doc. cit., nt. 10), f. 201v.
V. Oltre la metaÁ del secolo
225
presenta vantaggi incomparabili sul piano del progresso civile: non
c'eÁ alcun motivo per cui questo dato di fatto debba essere ignorato
dalla storiografia. EÁ evidente che durante l'intera storia medievale e
moderna si eÁ sviluppato un processo di acquisizione sperimentale di
dati e di convinzioni da cui questo risultato eÁ emerso e si eÁ affermato.
Le vicende in queste pagine esaminate mostrano in atto il dispiegarsi della civiltaÁ moderna secondo una fisionomia che resta sempre (com'eÁ ovvio) di carattere ipotetico e precario, ma che sarebbe
inutile, fazioso e (dal punto di vista storiografico) errato ignorare
come se non esistesse e come se non si presentasse nella sua intima
qualitaÁ di un insieme di regole del «vivere civile», che hanno ricevuto
il collaudo della rivoluzione francese e di altri tumultuosi avvenimenti lungo altri due secoli, fino ad oggi. Dovremmo resecare ed escludere dal nostro patrimonio di esperienze, che probabilmente eÁ la piuÂ
valida delle doti possedute dall'umanitaÁ, cioÁ che eÁ avvenuto dall'illuminismo ad oggi, cioÁ che eÁ ancora in corso e che solo gli integralisti
contestano e vogliono demolire? Essi pretendono di sostituire la
storia mondiale degli ultimi tre secoli, dalla rivoluzione inglese ad
oggi (avvenimenti che furono a loro volta conseguenza di oltre mezzo
millennio di gestazione europea, specialmente anglo-francese), con
una fantasiosa ed astratta visione dello spiritualismo medievale, ottenuta in modo esclusivamente cerebrale, scartando dal lungo medio
evo il mirabile fenomeno di approccio e di preparazione della modernitaÁ. CioÁ che manca nel `delirio' medievalistico eÁ in particolare lo
spostarsi del punto focale della spiritualitaÁ dalla trascendenza ± valore proiettato verso l'eternitaÁ in modo soltanto intuitivo ± ad un
altro fattore di lunga durata, totalmente sperimentale, concreto e
mondano: l'acquisizione e trasmissione sociale delle idee e dei valori,
ossia, in due parole, l'esprit de socieÂteÂ.
3. Disprezzo delle ambiguitaÁ e falsificazioni togate
Ritorniamo alla nostra analisi specifica. Le frequenti valutazioni
negative sullo sviluppo delle carriere nell'apparato statale spagnolo
erano probabilmente un riflesso del disprezzo che gli uomini degli
226
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
Affaires eÂtrangeÁres nutrivano anche verso i Parlamenti francesi, causa
dell'«eÂtat malheureux de la France dans les dernieÁres anneÂes du
reÁgne de Louis XV» 19. Piu in generale, l'antipatia nei confronti dei
letrados spagnoli era il segnale di due indirizzi culturali ben precisi,
di cui eÁ necessario tener conto specialmente nella fase centrale dei
rapporti tra il governo parigino e le Sicilie, ossia quando, con la
morte di Filippo V, il Mezzogiorno uscõÂ dall'orbita politica galloispanica. In quello stadio, le forze di collegamento tra le tre societaÁ
19
La dialettica tra la corte ed i parlamenti aveva raggiunto il culmine dell'asprezza giaÁ
nell'inverno del 1771, quando la d'EÂpinay scriveva a Galiani: «vous n'avez pas d'ideÂe de
l'exaltation des teÃtes et du fanatisme pour et contre. On eÂleÁve des autels aÁ celui qu'on
maudit ailleurs, tous les avis son extreÃmes, et rien si rare que rencontrer quelq'un qui ait le
sens commun. [...] Vous eÃtes trop bon francËais pour n'eÃtre pas content d'eÃtre absent dans
ces moments de trouble» (in La signora d'Epinay e l'abate Galiani. Lettere inedite, Laterza,
Bari 1929, con introduzione e note di Fausto Nicolini, p. 148, 18 fev. 1771). La d'EÂpinay
notava che «cette discussion d'autoriteÂ, ou plutoÃt de pouvoir axiste entre le roi et le
Parlement» fin da «l'eÂtablissement de la monarchie francËaise»: i provvedimenti presi dal
cancellier Rene Nicolas Maupeau avevano cambiato «la constitution de l'EÂtat», era crollata
«la theÂologie de l'administration», ed era da prevedere che, «un peu plus toÃt, un peu plus
tard», sarebbero scoppiate del«des reÂvolutions» (lettera che manca nella raccolta cit. ed eÁ
nell'altra, L'abbe F. Galiani, Correspondance, par Lucien Perey et Gaston Maugras, Cadman LeÂvy, Paris 1881, vol. I, pp. 374-5). Dopo di allora, in seguito alla morte di Luigi XV, il
successore Luigi XVI aveva ripristinato nelle loro cariche i membri del parlamento di
Parigi. Ma lo scontro rimase durissimo fino al 1789. Adrien Lepaige, giurista estremamente
autorevole e teorico del parlamentarismo francese, previde anch'egli che si sarebbe arrivati
alla convocazione degli Stati generali ed alla rivoluzione. Sul tema, Egret, Louis XV et
l'opposition parlementaire, cit. in cap. VII, nt. 21, pp. 218-9 e 182-228, per la riforma. In
effetti, era antico il dibattito tra la forma e la sostanza della monarchia francese: era uno
Stato formalmente assoluto, ma sostanzialmente pattizio e convenzionale come quello
inglese, e la d'EÂpinay mostroÁ di capire chiaramente quale fosse la struttura costituzionale
del governo in Francia. Lo scontro tra le componenti della monarchia francese e poi la
Rivoluzione furono, d'altra parte, il prezzo che il regno di Louis XV pagava per un'antica
libertaÁ, formatasi come elemento consustanziale del costituzionalismo d'antico regime,
come poi intuõÂ Alexis de Tocqueville: «l'intervento irregolare dei tribunali nel governo
che turbava spesso la buona amministrazione degli affari serviva qualche volta a salvaguardare la libertaÁ degli uomini: era un male grande che ne limitava uno anche maggiore»
(L'Antico regime e la Rivoluzione, trad. it., Rizzoli, Milano 1981, p. 154). Per una sintesi
sul tema, cfr. Raffaele Ajello, Il collasso d'Astrea. AmbiguitaÁ della storiografia giuridica
italiana medievale e moderna, Jovene, Napoli 2002, pp. 238-61, 288-98, ed in part. 25461. Per il disprezzo con cui i politici legati al `partito' nobiliare guardavano ai giuristi
(fossero essi spagnoli o italiani) ancora legati al mos italicus jura docendi, ossia ai metodi
dei bartolisti, e che risaliva alle origini del mos gallicus, cfr. Vincenzo Piano Mortari,
Diritto romano e diritto nazionale in Francia nel secolo XVI, GiuffreÂ, Milano 1962, passim.
V. Oltre la metaÁ del secolo
227
italiane, spagnole e francesi non risentivano piu in modo prevalente
dei fattori della grande politica europea, ossia delle logiche del dominio. Le influenze della cultura francese continuarono, invece, ad
agire in modo estremamente efficace, ed anzi si rafforzarono sempre
piuÂ, proprio perche immuni dalla contaminazione con la logica del
potere politico. Il modello di sviluppo conseguito dalla monarchia
cristianissima era per tradizione coeso ed era stato realizzato (in base
ai precedenti celtico-gallici) dalla conquista franca in poi come robusta struttura sia religiosa, sia militare, sia civile e produttiva, secondo la distinzione triadica nei tre status 20. Proprio con il crollo delle
pretese imperialistiche quei valori si erano rafforzati in Francia nell'etaÁ illuministica, facendo piu consapevolmente propria la forma
mentis empirica, che era tipica della nazione inglese, e che aveva
acquistata maggiore coscienza di se dagli insegnamenti di Francis
Bacon (anch'essi frutto dell'``albero'' Montaigne) a quelli di Locke e
di Hume.
Le conseguenze tradizionali delle premesse poste dall'intera
storia della filosofia e della politica francese si manifestavano in una
sintesi anglofrancese dei valori piu `moderni'. In primo luogo agiva il
dubbio, che in Francia era stato sviluppato e perfezionato dalla
Dialectica di Abelardo fino alla scepsi di Montaigne. Ragion per cui
era vigile e sempre presente il controllo delle opinioni umane, vecchie e nuove, essendo gli strumenti mentali del tutto fallibili ed
imperfetti, come gli Essais avevano fin dal 1580 palesemente dimostrato 21. Dunque primato della razionalitaÁ, ma di tipo sperimentale.
Inoltre, era ben presente la tendenza a privilegiare, nel giudizio sulle
attivitaÁ umane individuali e sociali, il versante economico, in parti20
Sulle diverse «vie» seguite in Europa dalla modernitaÁ giuridica, ed in particolare per
le tre formazioni statuali confrontate nelle presenti pagine rimandiamo al quadro generale
di lungo periodo fornito molto di recente da Ajello, EreditaÁ medievali, cit. (cap. I, nt. 24),
passim, anche per l'argomento relativo all'«armonia» strutturale della monarchia francese.
La dialettica franco-spagnola esprimeva motivazioni lontane.
21
Ivi, passim. Montaigne accusava in blocco di peÂdantisme la cultura del suo tempo,
con il risultato ch'egli apparve «ormai oltre l'esperienza umanistica», come appartenente ad
un piu avanzato capitolo della storia della cultura: E. Garin, La cultura del Rinascimento,
Laterza, Bari 1967 (I ed. in lingua tedesca), p. 90.
228
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
colare la produttivitaÁ, secondo criteri ispirati alla massima concretezza e secondo valutazioni a posteriori, cioeÁ attente ai risultati,
compiute sulla base di procedimenti di collaudo strettamente empirici. L'enfasi era dunque posta sui calcoli e sulle previsioni, e sull'assoluto discredito verso le fantasie vaghe, tanto che lo spirito
cartesiano era ostile persino alla poesia, come dimostroÁ Paul Hazard
in La crisi della coscienza europea.
Da tutto questo nasceva un forte disagio nei confronti di quella
cultura giuridica, presente anche nei processi di formazione degli
apparati statali in Francia, che aveva ricavato dalla tradizione medievale (specialmente canonistica) una linea sacerdotale, fondata su
una logica patriarcale del potere, sul segreto, sulle ispirazioni misteriose, sul rifiuto di motivare le sentenze. Questa tendenza a sostituire i valori connessi alla rappresentanza etnica e cetuale, tipici
della civiltaÁ medievale di origine germanica, con quelli spirituali,
metafisici, carismatici ed escatologici, specifici della versione pontificia e romana del cristianesimo, era stato a lungo contrastata dalla
mentalitaÁ nobiliare. Struttura mentale che molti storici facevano
risalire alle genti franche, ossia alle popolazioni vincenti, contro la
tradizione romano-gallica, che, a loro modo di vedere, s'era adattata
piu a fondo alla deontologia ed alla visione cosmica cristiana. CioÁ era
stato segnalato ed elaborato proprio dal pensiero giuridico francese
cinquecentesco (EÂtienne Pasquier, FrancËois Hotman, Charles Loyseau etc.), per il quale «i nobili sono i discendenti dei conquistatori
Franchi, mentre i non nobili [roturiers] sono i discendenti dei Galli,
vinti ed assoggettati dai primi» 22.
Per questi motivi, che oggi diremmo ideologici, per i caratteri
delle sue antiche strutture mentali, l'aristocrazia, che era in netta
22
Mousnier, La costituzione nello Stato assoluto, cit. (cap. II, nt. 10), p. 53. In seguito,
un'importante discussione sull'argomento della contrapposizione tra «galli» e «franchi» avvenne in Francia a partire dalla pubblicazione dei due pamphlets dell'abbe di SieÂyes (cfr.
supra, cap. II, par. 8) e rappresentoÁ, con ben altri contenuti rispetto a quelli fissati dall'autore
citato, il fil rouge del dibattito romantico sulla nascitaÁ del nazionalismo: K. Pomian, Francs et
Gaulois, in Les Lieux de meÂmoire, a cura di Pierre Nora, Gallimard, Paris 1992, vol. III.1, pp.
41-105 e A.-M. Thiesse, La creazione delle identitaÁ nazionali in Europa, Il Mulino, Bologna
2001 (I ediz. francese 1999), pp. 44-51.
V. Oltre la metaÁ del secolo
229
prevalenza nell'apparato diplomatico, si poneva in alleanza coi philosophes, e trasferõÂ le sue idee nella politica del dispotismo illuminato, in particolare nel gabinetto della prima Segreteria di Stato 23.
Questo giudizio eÁ dimostrato dalla nostra analisi specifica, fondata
sulle carte parigine d'archivio degli Affari esteri. Si utilizzano, a
questo punto, in prevalenza testimonianze riassuntive che sono piuÂ
tarde rispetto agli avvenimenti narrati, e che seguono un interno
andamento, grosso modo, cronologico. Il motivo di questa trasposizione eÁ chiaro: le diagnosi formulate negli anni Settanta si presentano piu mature e piu consapevoli, ed inoltre tendono a descrivere la
storia di recente trascorsa a partire da Luigi XIV, da cui le conseguenze attuali appaiono scaturite. La coscienza storica era piu vigile
cosciente ed acuta nel momento in cui le grandi scosse costituzionali
(come dimostroÁ la riforma Maupeou) si fecero sentire come anticipazione del terremoto rivoluzionario. PercioÁ queste memorie spiegano meglio delle altre l'iter percorso dalle influenze francesi in
Europa, ed in particolare sulle Sicilie.
L'ideologia che circolava negli ambienti francesi di corte e governativi e che ispirava le relazioni politiche con la Spagna e con
l'Italia spagnola puoÁ essere sintetizzata dal pensiero (che fu formulato piu tardi, ma che si riferisce all'epoca ed ai temi fin qui esaminati) di Charles FrancËois Broglie e Jean Louis Favier. Sono idee
espresse nelle famose Conjectures raisonneÂes sur la situation actuelle
de la France dans le systeÁme politique de l'Europe et reÂciproquement sur
la position respective de l'Europe aÁ l'eÂgard de la France (17 aprile-28
agosto 1773), destinate a dirigere la politica estera del re di Francia 24. Insieme alla Correspondance secreÁte tra Broglie e Luigi XV, le
23
Un'ottima messa a punto della sociologia diplomatica francese eÁ l'opera piu volte
richiamata nel testo di BeÂly, op. cit. (cap. I, nt. 13).
24
Nelle pagine seguenti utilizziamo l'originale manoscritto conservato presso A.N.,
Cartons des Rois, K. 157-9, Conjectures raisonneÂes sur la situation actuelle de la France dans le
systeÁme politique de l'Europe et reÂciproquement sur la position respective de l'Europe aÁ l'eÂgard
de la France, enfin sur les nouvelles combinaisons qui doivent ou peuvent reÂsulter de ces
diffeÂrents rapports, aussi dans le systeÁme politique de l'Europe (17 aprile-28 agosto 1773).
Fu SeÂgur a pubblicare per primo le Conjectures raisonneÂes nell'opera Politique de tous les
cabinets de l'Europe pendant les reÁgnes de Louis XV et de Louis XVI, 2ë ed., Paris 1801. Sul
230
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
Conjectures rappresentano una delle poche fonti cronachistiche e
memorialistiche della politica internazionale francese della seconda
metaÁ del Settecento, giaccheÂ, per una curiosa coincidenza, cronache
e memoriali del regno di Louis XV sono stati quasi tutti scritti prima
degli anni Sessanta.
In seguito alla divisione della Polonia ed al colpo di Stato di
Guglielmo III in Svezia, il capo della polizia segreta di Luigi XV,
Charles FrancËois Broglie, si dedicoÁ all'elaborazione di un vasto piano d'azione. Esso aveva lo scopo d'orientare i comportamenti dei
rappresentanti della Francia all'estero, pur nei limiti imposti dall'inossidabile volontaÁ di pace di Louis XV. Il successo svedese, infatti,
gli pareva frutto piu di circostanze fortuite che risultato delle capacitaÁ della diplomazia francese 25. Per Broglie occorreva ridare alla
Francia il credito ch'essa aveva perso sul piano internazionale a
partire dal 1756, evitando di commettere l'errore degli choiseulistes,
che per «avoir appuye et proteÂge la Cour de Vienne, on finit par se
persuader qu'elle eÂtait notre appui» 26.
Choiseul aveva infatti condotto, soprattutto a partire dal 1763,
una politica d'alleanza con l'Austria fondata su una visione irenista
dei rapporti tra i due paesi. Legame politico ± notava M. Antoine ±
rinsaldato dall'affettivitaÁ che univa i due regnanti: «Marie-TheÂreÁse
s'eÂtait prise d'une amitie sinceÁre pour ce beau roi de France, si
galamment fideÁle, et Louis eÂprouvait pour la vaillante fille des Habconte di Broglie, cfr. E. Boutaric, Correspondance secreÁte ineÂdite de Louis XV sur la
politique eÂtrangeÁre avec le comte de Broglie, Tercier, etc., et autres documents relatifs au
ministeÁre secret, publieÂs d'apreÁs les originaux conserveÂs aux Archives de l'Empire et preÂceÂdeÂs
d'une eÂtude sur le caracteÁre et la politique personnelle de Louis XV, Plon, Paris 1866, 2 voll;
Broglie (duc de), Le Secret du Roi. Correspondance secreÁte de Louis XV avec ses agents
diplomatiques 1752-1774, Paris 1878, 2 voll.; M. Antoine-D. Ozanam, Correspondance
secreÁte du comte de Broglie avec Louis XV (1756-1774), 2 voll, C. Klincksieck, Paris 19561961. Attribuita a Broglie eÁ l'IdeÂe de la reÂpublique de Pologne et son eÂtat actuel, edita da
Eduard Kurzweil, Lacour et comp., Paris 1840. Su Favier, pubblicista di talento e fabbricante d'opere politiche, che era stato anche «syndic geÂneÂral» degli stati della Languedoc, cfr. Flammermont, J.-L. Favier, sa vie, ses eÂcrits, in «La ReÂvolution francËaise», t.
XXXVI (1899), pp. 161-84, 259-76 e 314-35.
25
Cfr. Antoine-Ozanam, Correspondance secreÁte, cit. in nt. 24, 2ë vol., le lettere n.
408, 410, 413-416 e 425.
26
A.N., Conjectures raisonneÂes, cit. in nt. 24, ff. 1r-2v, e passim.
V. Oltre la metaÁ del secolo
231
sbourg un profond et tendre respect. Le tout cimente par une commune hostilite aÁ FreÂdeÂric II» 27. «Assez fou ou au moins surprenant»
(M. Antoine) il progetto senile di Louis XV (1770) di sposare, dopo
il matrimonio del petit-dauphine con Maria Antonietta d'AsburgoLorena, un'altra arciduchessa, Maria Elisabetta 28. E da Napoli Tanucci, convinto della «cabala» che intercorreva tra Choiseul e Grimaldi, «parimente colligati assieme per potersi l'un l'altro mantenere presso i loro sovrani», avvertiva (19 agosto 1766) il principe della
Cattolica, ambasciatore napoletano in Spagna, che la politica internazionale della Francia si risolveva sostanzialmente nell'attivitaÁ governativa di «due nati e nutriti nel servizio austriaco», cioeÁ i cugini
Choiseul, «e tutto il resto eÁ pieno di passioni private alle quali fan
servire il Re e gli alleati del Re» 29.
Per riportare la Francia agli antichi splendori, secondo Broglie,
27
Antoine, Louis XV, Fayard, Paris 1989, pp. 870-1.
Ne erano a conoscenza solamente il conte de Broglie e il Durand, al tempo ministro
pleni-potenziario a Vienna: «Si Durand n'est pas parti, montrez-lui ce billet, sinon envoyez
lui la copie bien chiffreÂe. Qu'il examine bien la figure de la teÃte aux pieds, sans rien
excepter de ce qu'il lui sera possible de voir, de l'archiduchesse Elisabeth et qu'il s'informe
de meÃme de son caracteÁre, le tout sous le plus grand secret et sans trop donner de suspicions
aÁ Vienne et il en rendra compte sans se presser, par une occasion suÃre.» (cit. ivi, p. 893).
Antoine segue questa vicenda fino al febbraio del 1772, cioeÁ all'ultima testimonianza ch'egli
riscontra al proposito, e si chiede: «a cette date, Louis XV se souvenait-il encore de ce dont il
avait charge Durand? Eut-il peur du ridicule (l'arciduchessa era nata nel 1743, il re di
Francia, allora duca d'Anjou, il 15 feb. del 1710 n.d.a)? Il ne fut plus jamais question de
cette lubie». In realtaÁ, Louis continuava a pensare a questo matrimonio. Il 7 giu. del 1772
Broglie scriveva di cioÁ: «dans mes confeÂrences avec M. Durand, Sire, je n'ai pas manque de
traiter l'article de l'archiduchesse Elisabeth. Il m'a reÂpeÂte les meÃmes choses qu'il avait eu
l'honneur d'en marquer aÁ Votre Majeste quelque temps apreÁs son arriveÂe aÁ Vienne. Il dit du
bien de sa figure, de son esprit et de son caracteÁre. Il croit qu'elle s'est flatteÂe longtemps du
mariage le plus honorable et le plus propre aÁ faire son bonheur, et que la teÃte lui en tournait
de satisfaction». Ed ancora il 7 apr. 1774, cioeÁ un mese prima della morte del «Bien aimeÂe»:
cfr. Antoine-Ozanam, Correspondance secreÁte, cit. in nt. 24, 2ë vol., le lettere nn. 401 e 459.
29
Tanucci a Cattolica, 19 ago. 1766, in Bernardo Tanucci, Epistolario, vol. XVII
(1766), p. 394. Sul rapporto che legava Grimaldi e Choiseul, cfr. la confidenziale di
Gaetano Centomani a Tanucci, in A.S.N., Esteri, fascio 1213, trascritta nel citato volume
alla p. 252, nt. 1: «Altra cabala vi eÁ tra Grimaldi e Choiseulle, parimente colligati assieme
per potersi l'un l'altro mantenere presso i loro sovrani. Le lettere di Choiseulle di difficile
carattere venivano interpretate da Azara, per comunicarle a S.M. Cattolica; spesso peroÁ vi
descriveano non come quelle diceano; ma come si desiderava che dicessero secondo le
circostanze che si presentavano».
28
232
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
occorreva ristabilire all'interno l'equilibrio finanziario, consolidare
la subordinazione delle corti superiori all'autoritaÁ regale e rilanciare
una politica di potenziamento dell'esercito; mentre, sul piano della
politica internazionale, era prioritario realizzare una nuova strategia
per il consolidamento delle alleanze tradizionali. In quest'ambito
Broglie riteneva centrale un accordo molto stretto con la corte di
Vienna 30. Atteggiamento al quale si mantenne fedele anche dopo la
spartizione della Polonia. Queste idee erano giaÁ in lui maturate nel
giugno del 1772, quando elaboroÁ con FrancËois-Michel Durand de
Distroff un'importante memoria destinata al re, nella quale esprimeva l'idea di una lega dei paesi del Mezzogiorno europeo, guidata
dalle corti borboniche e destinata a controbilanciare le nazioni nordeuropee 31. Concezione strategica generale, su cui ritornava il 27
marzo 1773, scrivendo a Louis XV che:
«de touts les arguments qu'on peut employer dans les neÂgociations le
meilleur et le seul est d'avoir des armeÂes nombreuses et preÂpareÂes aÁ
l'avance, des places en bon eÂtat, des magasins bien fournis, une
marine sinon augmenteÂe du moins bien entretenue. Quand la France
et l'Espagne seront mises sur ce pied dont malheureusement elles
n'ont jamais eÂte si eÂloigneÂes, l'Allemagne et l'Italie les rechercheront
avec empressement, le roi de Sardaigne, Naples, GeÃnes, peut-eÃtre
Venise se presseront de s'unir avec elles et dans cette position» 32.
E, dopo aver descritto il suo piano, sosteneva che qualche problema
avrebbe creato la presenza di Bernardo Tanucci, «dont l'aÃge est
bien peu propre aÁ mettre l'activite neÂcessaire aux circonstances
preÂsentes» 33. Si sapeva che le mani del primo ministro tosco-napo30
Cfr. Antoine-Ozanam, Correspondance secreÁte, cit. in nt. 24, 1ë vol., p. XCVI.
MeÂmoire du comte de Broglie au Roi sur la paix du Nord, le deÂmembrement de la
Pologne et les suites que ces eÂveÂnements peuvent et doivent avoir sur le systeÁme politique de la
France, datata 7 giu. 1772, in A.N., Cartons du Roi, K. 157 (riprodotta da Boutaric,
Correspondance secreÁte, cit. in nt. 24, 1ë vol., pp. 432-45), e in A.A.EÂ., Correspondance
politique, Pologne, suppl. 13, ff. 300-305 (minuta autografa di Broglie). Durand de Distroff
era uno dei principali agenti della polizia segreta di Louis XV, cfr. Antoine-Ozanam,
Correspondance secreÁte, cit. in nt. 24, 1ë vol., p. 2 nt. 2 e ad indicem.
32
Ivi, 2ë vol., p. 381.
33
Ivi, p. 383: Secondo Broglie per mettere in pratica il suo piano sarebbe occorso
31
V. Oltre la metaÁ del secolo
233
letano per pochi minuti, durante le ventiquattro ore della rotazione
terrestre, si staccavano dalla penna, ma mai e poi mai avrebbero
preso in considerazione l'idea d'impugnare un'arma, neppure per
difesa personale. Dopo i due cugini Choiseul, un altro uomo di
punta del governo francese ± nel 1773 molto vicino a succedere al
duca d'Aguillon al dicastero degli esteri e poi caduto in disgrazia ±
vedeva in Tanucci un serio ostacolo ai progetti politici della Francia 34. EÁ necessario mettere ben in luce tutto questo, che riguarda
formae mentis e modelli di sviluppo fondamentali nel corso della
storia europea, perche la caduta di quel ministro fu opera in gran
parte francese. E non fu un successo per il Mezzogiorno, percheÂ
quell'uomo moralmente giusto compensava i caratteri che apparivano odiosi alla diplomazia francese con eccezionali doti mentali di
cultura, d'intelligenza e di esperienza. Quell'episodio costituisce il
punto di arrivo del nostro excursus, perche l'espulsione del dotto
toscano dal governo permise il sommarsi nell'azione politica napoletana di tutte le debolezze, che erano ben note ai francesi, e di un
ulteriore carattere negativo, che con esse si accoppia molto male:
l'improntitudine e l'avventurismo. Anzi, quando una somma di
questo genere avviene, si moltiplicano gli effetti negativi di quei
difetti. Le due indicate inclinazioni caratteriali erano presenti in
misura molto elevata nella regina Maria Carolina che, per compensare le deficienze del marito, finõÂ per esaltare ed incrementare le
proprie fino alla catastrofe.
Come per gli Choiseul, anche per il capo del controspionaggio,
la Spagna di Carlo III rappresentava il perno fondamentale della
aumentare l'esercito francese di almeno sessantamila unitaÁ ed iniziare le negoziazioni: «il
faudrait avoir aÁ Ratisbonne un ministre de la premieÁre capaciteÂ; c'est dans cette ville que la
ligue de toutes les puissances bien intentionneÂes de l'Allemagne doit se former et qu'un
ministre francËais muni de bonnes instructions faites sur un plan geÂneÂral peut les reÂunir. Il
en faut donner du meÃme genre aÁ Turin, Naples, GeÃnes, Venise et avoir dans toutes ces
cours des ministres instruits. Je ne connais dans toutes ces cours que le baron de Breteuil
qui, avec des ordres clairs et bien reÂfleÂchis, soit en eÂtat de les exeÂcuter; il aura de l'ouvrage aÁ
mettre en mouvement le premier ministre de Naples».
34
Forte era stata la tensione tra Tanucci e gli Choiseul durante gli anni sessanta, per
l'opposizione dello statista napoletano al terzo Patto di Famiglia e per i tentativi di bloccare
il contrabbando francese sulle coste siciliane. Ma, di cioÁ si diraÁ piu avanti.
234
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
politica estera francese. Secondo il duca di Choiseul, il Patto di
Famiglia giocava un ruolo essenziale nel controllo dell'Inghilterra.
Tutta l'attivitaÁ politica del potente ministro durante gli anni sessanta aveva mirato ad ottenere l'aiuto economico, militare e navale
della Spagna, per frenare le ambizioni inglesi sul mare e nelle colonie
d'oltre-Oceano. Negli anni della sua presenza attiva nel governo
l'intesa franco-spagnola poteva poggiare su tre solide basi. Una era
la comunanza d'interessi sul mare e nelle colonie; la seconda, il
vincolo di lealtaÁ tra i due cugini regnanti; l'ultima, la «cabala» tra
Grimaldi e Choiseul stesso.
4. SocietaÁ francese: sintesi collaborativa, non esclusivismo sacerdotale
Abbiamo fatto cenno nel paragrafo precedente che le frequenti
critiche dell'apparato statale spagnolo nascondevano un riflesso dell'ostilitaÁ politica che gli uomini degli Affaires eÂtrangeÁres nutrivano
verso il ceto giuridico ed in particolare verso i Parlamenti francesi,
giudicati assemblee ``gotiche'', ancora medievali (nel senso negativo
del termine), causa dell'«eÂtat malheureux de la France dans les dernieÁres anneÂes du reÁgne de Louis XV». Piu in generale, l'antipatia nei
confronti dei letrados spagnoli era il segnale di due indirizzi culturali
ben precisi, di cui eÁ necessario tener conto specialmente nella fase
centrale dei rapporti tra il governo parigino e le Sicilie, ossia da
quando, dopo la morte di Filippo V, il Mezzogiorno uscõÂ dall'orbita
politica galloispanica, e si attenuoÁ la logica del dominio francese.
I motivi di ritardo che i diplomatici attribuivano alle mentalitaÁ
giuridiche spagnole, spina dorsale fragile di una societaÁ complessivamente arretrata, si estendevano (come vedremo) alle analoghe
realtaÁ italiane, che presentavano un'ulteriore e ben piu disastrosa
caratteristica negativa: d'ignorare i formidabili valori della coesione
sociale e della religiositaÁ civile, fonti primarie della produttivitaÁ, e di
puntare su astratti valori dogmatici, in apparenza puramente tecnici,
ma intesi come universali ed assoluti, ed in realtaÁ posti al servizio di
ben precisi interessi particolari. Nessuno si sarebbe azzardato a
mettere in dubbio il coraggio e lo spirito di sacrificio dei militari,
V. Oltre la metaÁ del secolo
235
eserciti e flotte, attivi in tutto il mondo a difesa dei possedimenti del
Re cattolico: dunque il discredito era limitato e selettivo. Ma quanto
agli analoghi strumenti bellici subalpini, a parte i veneziani ed i
sabaudi, questi ultimi influenzati dalle tradizioni presenti su entrambi i versanti delle Alpi francofone, tutto il resto delle popolazioni subalpine era oggetto di critiche ancora piu feroci. Si salvava
ben poco da quel giudizio: ad esempio, i cavalieri di Santo Stefano.
Guardando a questi fenomeni da un diverso punto di vista, e
considerando le influenze francesi sul piano della cultura, si puoÁ dire
che, invece, gli effetti delle sconfitte politiche e diplomatiche piu o
meno coeve alla morte di Luigi XIV furono superati pienamente.
Anzi la validitaÁ di quel modello di sviluppo continuoÁ ad agire in modo
molto efficace, addirittura si rafforzoÁ sempre piu proprio perche esso
si liberoÁ dalla contaminazione con la logica del potere oppressivo del
Re Sole, accusato di dispotismo dallo stesso Montesquieu (Lettres
persanes). La teoria del rapporto tra Stato e societaÁ realizzata dalla
monarchia cristianissima puntava per consuetudine antica sulla compattezza e sulla coesione. Il fatto poi che dalla Francia si guardasse
Oltremanica e si voltasse le spalle all'Italia, atteggiamento che appariva odioso a Tanucci, lungi da essere una debolezza, fu un ulteriore
segno di saggezza e di forza. Le conseguenze tradizionali delle premesse poste dall'intera storia della filosofia e della politica francese si
manifestarono cosõ in una sintesi anglogallica, che espresse nella forma piu alta e convincente i valori sociali del modo moderno.
Come prima accennato, a costituire la struttura basilare di questa mentalitaÁ, in primo luogo agiva il dubbio metodologico, che in
Francia era stato sviluppato e perfezionato dall'epoca della Dialectica di Abelardo fino a quella della scepsi di Montaigne. PercioÁ era
vigile e sempre presente il controllo delle opinioni umane, vecchie e
nuove, essendo tutti pienamente convinti che gli strumenti mentali
sono imperfetti e profondamente fallibili, tesi che era stata palesemente dimostrata dagli Essais di Montaigne nel 1580. Quei caratteri
di debolezza dell'intelletto, erano compensati dalla critica razionale
che a sua volta era facilitata dal confronto dei pareri e dalla dialettica
delle idee. Erano, ormai, strutture mentali storicamente consolida-
236
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
te, che si traducevano in un razionalismo controllato, da cui erano
caratterizzate le formae mentis prevalenti in Francia. Esse si ponevano al polo opposto rispetto ad altri condizionamenti, decisamente
arcaici, che prevalevano in Spagna ed in Italia: l'ipse dixit, l'autoritaÁ
trascendente della Chiesa cattolica, l'enfasi sulla tradizione ecclesiastica, il valore emblematico e teoretico di uno status quo storico
preventivamente epurato del dissenso ed adattato a storia sacra,
ossia ad uso di un ceto e di un potere in Italia sostanzialmente
separato.
Da tutto questo nasceva un forte disagio nei confronti della
cultura giuridica in generale, almeno contro quella radicata e diffusa
nell'Europa continentale. La vecchia Scientia Juris bartolistica aveva
espresso, anche in Francia, anche nei processi di formazione degli
apparati statali posti al servizio del re cristianissimo, una linea sacerdotale, fondata su una visione patriarcale del potere, e quindi sul
segreto e sulle ispirazioni misteriose. Questa logica, ad esempio, era
stata sempre ostile alla motivazione delle sentenze. Ostracismo significativo: il sacerdos juris non voleva dare conto di seÂ, di come
operava, poiche i suoi punti di riferimento ed i suoi modelli non
erano riposti nella societaÁ, ma nella metafisica, che si fondeva con la
dogmatica, tanto da essere con essa intercambiabile 35.
Questo modo passivo e riflessivo, falsamente moralistico, d'intendere i compiti sociali era stato, fin dal medio evo contrastato dalla
proposta organizzativa nobiliare, ossia da una diversa mentalitaÁ, che
presentava altri limiti, per alcuni aspetti ancor piu pesanti e paralizzanti. Ma erano formae mentis piu duttili, e (paradossalmente) avevano il merito, essendo meno colte (per non dire spesso del tutto
incolte), piu concrete, meno deformate da astratti e fuorvianti idealismi medievali, anche se di quell'epoca primitiva, violenta ed aso35
Sull'introduzione del segreto e della prassi di non motivare le sentenze (ne sul piano
dei fatti, ne su quello del diritto) nel parlamento di Parigi, avvenuta intorno al 1320, cfr.
due classici: T. Sauvel, Histoire du jugement motiveÂ, in «Revue du droit public et de la
science politique en France et aÁ l'eÂtranger», Paris 1955, di cui esiste la trad. it., a cura di
Francesco Saverio Losito, in «Frontiera d'Europa», a. I, 1995, në 1, pp. 69-120; J.P.
Dawson, The Oracles of the Law, University of Michigan, Ann Arbor 1968.
V. Oltre la metaÁ del secolo
237
ciale, incline a dar forma a miti irrazionali, conservavano in vita forme tradizionali di sfruttamento e di prevaricazione sociale. PercioÁ la
logica francese considerava necessaria la presenza sia della plume sia
della eÂpeÂe: la France aveva assoluto bisogno di entrambi gli heÂroõÈsmes.
Dalla maggiore duttilitaÁ dei nobili ancora fedeli agli ideali antichi
dei milites e della cavalleria, gente attiva, educata a far politica, non
fuorviata da pretese sacerdotali, esercitata all'uso empirico delle armi, nasceva la disposizione ad allearsi con l'operazionismo critico e
pragmatico dei philosophes, componente centrale del dispotismo illuminato e nella politica monarchica in quasi tutta l'Europa, ed in
particolare a Parigi, nel gabinetto della prima segreteria di Stato.
5. La ratio della Francia, come l'olio, sta sempre «en cima»
Se era tradizionale e molto diffusa un'«inveÂteÂre anthipatie» iberica nei confronti dei cugini d'oltre Pirenei, quale idea dell'alleato
spagnolo aveva la diplomazia francese? Affatto lusinghiera, ci eÁ parso
di capire. Subito dopo la fine della guerra d'Indipendenza americana,
il conte d'Aranda cosõÂ indicava, con colorita immagine, al ministro
Floridablanca, la propria idea sull'atteggiamento costante, che aveva
e avrebbe continuato a regolare i rapporti franco-ispanici:
«La EspanaÄ y Francia son como el agua y el aceite que no pueden
formar un cuerpo sino en un momento bien batido uno y otro pero en
cesando se vuelven a separar les dos especies, con todas las demas
naciones del mundo seriamos agua con vino, con vinagre, con zumo
de limon, de naranja [...] pero el Frances como el aceite mas ligero
quiere sempre estar en cima, y tenemos debajo» 36.
Agli occhi del capo del «SeÂcret du Roi», la Spagna, come la Russia,
ossia i paesi posti ai due capi opposti dell'Europa, sono «deux cent
ans en arrieÁre des autres nations policeÂes» 37. Lo dimostrava la moda
ancora in vigore delle «capes enviseÂes» e degli «chapeaux rabatus»,
36
1784.
37
A.G.S., SecretarõÂa de Estado, leg. 4673, Aranda a Floridablanca, Parigi 27 luglio
A.N., Conjectures raisonneÂes, cit., nt. 24, f. 150r-v.
238
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
che il corrotto e poco lucido Leopoldo de Gregorio aveva creduto di
dovere e poter abolire, attuando un gesto che costoÁ molto caro a lui
ed al suo sovrano protettore 38. Neppure le recenti sconfitte di guerra
inflitte dall'Inghilterra alla Spagna avevano insegnato alla classe dirigente iberica d'intraprendere scelte riformatrici, indispensabili
«pour entrer enfin dans le droit chemin du raisonnement, du calcul et
de l'eÂconomie politique, deÂjaÁ trace depuis longtemps et ou d'autres
nations avaient fait tant de progreÁs» 39.
Per Broglie-Favier (le seguenti citazioni sono tratte dalle loro Conjectures) l'incapacitaÁ della nazione spagnola nell'intraprendere la strada delle riforme era tutta scritta nei genomi del popolo, quasi nell'impossibilitaÁ biologica di saper utilizzare le categorie illuministiche
del «raisonnement» e del «calcul». Le riforme economiche tentate da
Ensenada, un esponente del gruppo di afrancesados creato da PatinÄo,
si erano scontrate con «l'indolence du bourgeois, la faineÂantise de
l'ouvrier, la haine et la jalousie nationale contre les eÂtrangeÁres et
surtout les francËais» 40. Attraverso la spiegazione del momento eziogenetico dell'haine nazionale verso i francesi e delle circostanze che lo
mantenevano in vita, ritornava il motivo del dispregio dell'uomo di
governo e dell'illuminista verso le vecchie strutture costituzionali
38
Ivi, f. 150r. Spietato il giudizio politico su Leopoldo de Gregorio, marchese di
Squillace, ministro prima di Carlo di Borbone, poi di Carlo III: «ce ministre a eu la
reÂputation que donnent toujours les grandes places par une longue faveur. S'il avait eu
des talents, du geÂnie, et qu'il euÃt compense des grands vexations par de grands moyens, on
aurait pu lui pardonner son aviditeÂ, sa dureteÂ, et meÃme ses voleries eÂnormes: mais aÁ dire
vrai il ne savait bien que ce dernier meÂtier. Son premier avait eÂte celui de munitionnaire en
Italie. Il voulut le faire ensuite en Espagne lors de la guerre de Portugal s'eÂtant charge de la
partie des vivres et des magasins, il n'y montra que son incapaciteÂ. AÁ l'eÂgard des finances il
ne savait que doubler, tripler et quadrupler, et il ne s'eÂtait jamais doute de ce principe si
connu et si deÂmontre par l'expeÂrience qu'en fait d'impoÃt deux et deux ne font pas quatre»
(Ivi, f. 150v). Per i giudizi di Tanucci sul de Gregorio, oltre alle lettere contenute nei
volumi di Tanucci, Epistolario, si rimanda a M. Barrio Gozalo, Squillace y su actividad
politica a traveÁs de la correspondencia de Tanucci (1759-1766), in Bernardo Tanucci. Statista
letterato giurista, Atti del convegno internazionale di studi per il secondo centenario 17831983, a cura di Raffaele Ajello e Mario D'Addio, Jovene, Napoli 1986, pp. 313-43.
39
A.N., Conjectures raisonneÂes, cit., nt. 24, f. 150r.
40
Ivi, f. 151r.
V. Oltre la metaÁ del secolo
239
delle societaÁ europee ed i loro rappresentanti, i togati, che frenavano
la velocitaÁ della pratica commerciale:
«Ces preÂjugeÂs reÁgnent surtout parmi les eccleÂsiastiques [...], les gens
de robe, qu'on appelle letrados, et qui partout ailleurs seraient des
gens treÁs illettreÂs. Ceux-ci sont reÂpandus dans tous les Conseils, juntas
et autres branches de l'administration. Ce sont presque tous gens de
fortune qui ont eÂte envoyeÂs aÁ pied aux universiteÂs, ou ils n'ont pu
apprendre que les meÃmes inepties qu'on y enseigne, depuis trois cents
ans. Ils y ont presque vieilli dans un long cours d'eÂtudes, avant de
parvenir au sublime degre de licenciado: et d'emplois en emplois, ils
parviennent souvent aux premieÁres places de l'administration, sans
aucun meÂrite que la gravite et les lunettes. C'est dans cette classe de
peuple que l'haine nationale contre les francËais est veÂritablement
dangereuse, parce que ces hommes, sortis de la poussieÁre scholastique,
sans eÂducation, sans usage du monde, et sans aucune connaissance pratique, le trouvait tout d'un coup les juges des nations, dont ils savaient
aÁ peine le nom, et qu'ils haõÈssent sans savoir pourquoi. Le commerce
francËais n'a pas de plus grands ennemis, meÃme en Angleterre» 41.
L'eccezionale luciditaÁ di questa requisitoria meriterebbe un'analisi
attenta, poiche rivela la conoscenza dei nessi tra i vari piani della
struttura organizzativa parassitaria: cultura giuridica legata alla ecclesiastica; attribuzione del titolo di letrados, onorifico, distintivo e
dotato di notevole influenza sociale, ai titolari di quella preparazione,
che sono, in realtaÁ, gens de fortune, spesso sradicati dai luoghi d'origine, dalle popolazioni locali e dai ceti; giudizio feroce e generalizzazione ingiusta sulle «inezie» insegnate nelle UniversitaÁ, ma constatazione ineccepibile allora, ed in parte ancora oggi, almeno per le
FacoltaÁ umanistiche; disprezzo della «gravite» ed in genere dell'immagine del dotto, che era strettamente legata a quella del pedante. Le
41
Ivi, f. 161r-v. E continua: «d'ailleurs, tout ce qui n'est point peuple, la cour, la
noblesse et le militaire, ou ne hait point les francËais ou tempeÁre cette haine par l'exteÂrieur
de la politesse et des bienseÂances». Tuttavia in un passo precedente:«quelque gouÃt que le Roi
Catholique ait montre lui meÃme pour les eÂtrangers, il trouve sans cesse dans les repreÂsentations de son ministeÁre des obstacles aux innovations utiles qu'il aurait deÂjaÁ fait aÁ cet eÂgard
s'il avait toujours suivi son penchant» (f. 157r).
240
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
parole poste in corsivo nella citazione sono altrettante pistolettate
contro il vecchio mondo, pieno soltanto di sussiego, e quindi vuoto,
ma non consapevole di questa sua leggerezza ed inutilitaÁ, percheÂ
incapace di valutare il mondo pratico, l'esistenza, e dunque ignorante
di tutto, tranne che di quanto eÁ inutile, superfluo o sbagliato.
La Spagna era una nazione in crisi demografica a causa del numero eccessivo di celibi, creati dall'istituto giuridico del maggiorasco.
Esso aveva fatto nascere una mentalitaÁ che dai primi due ordini della
societaÁ si era estesa, diffondendosi senza distinzione a tutte le classi
sociali 42. L'esercito e la marina soffrivano a causa dello spopolamento
della nazione, oltre che per la mancanza di geÂneÂraux, in grado di
condurre i militari 43.
Ma per Broglie la prevalente mentalitaÁ spagnola era soprattutto
la cartina di tornasole del fallimento della Francia, della sua incapacitaÁ di divenire una partner affidabile in quella alleanza politica di
nazioni, ch'egli chiama la «puissance feÂdeÂrative» 44:
«le point essentiel serait que [...] la France influaÃt sur l'Espagne. Tout
l'exige: les liens du sang, la supeÂriorite reÂelle du chef de la maison, le
danger de l'Espagne si toujours obstineÂe aÁ se conduire d'apreÁs des
notions outreÂes de sa puissance et des ses ressources, elle nous engageait avec elle dans un mauvais pas d'ou on ne pourrait plus se tirer.
Enfin les avantages qu'elle peut espeÂrer de cette harmonie preÂeÂtablie.
Mais pour engager l'Espagne aÁ se mettre en quelque sorte sous la
direction de la France, il faudrait avant tout que celle-ci lui donnaÃt
l'exemple des mesures des moyens aÁ prendre pour leur inteÂreÃt
commun. Le premier pas aÁ faire c'est de lui inspirer la confiance:
car d'EÂtat aÁ EÂtat, comme entre particuliers, celui dont la conduite
ne peut pas servir de modeÁle, ne serait pas bien recËu aÁ reformer celle
d'un autre. C'est donc dans la reforme totale de notre systeÁme politique et militaire qu'il faut chercher les seuls moyens d'acqueÂrir et de
conserver la confiance de l'Espagne» 45.
42
Ivi, f. 155v.
Ivi, f. 157.
44
Ivi, f. 158r.
45
Ivi, ff. 157v-158r. CosõÂ continua Broglie: «Le systeÁme militaire, une fois reÂtabli sur
un pied respectable, encouragerait les amis communs, contiendrait les puissances dont
43
V. Oltre la metaÁ del secolo
241
Nella sua idea di un sistema federativo delle nazioni borboniche, egli
intravedeva la soluzione politica del futuro, in grado di salvare la
Francia dal baratro verso cui irrimediabilmente andava incontro.
Prussia, Russia e Inghilterra non avrebbero dato tregua ai troni borbonici e le condizioni della primazõÂa della Francia sul resto del mondo
passavano soprattutto per un'alleanza con la casa degli Asburgo.
L'idea che l'alleanza austriaca fosse irrinunciabile fu una di quelle
che portarono Broglie dentro l'«affaire de la Bastille».
6. I `partiti' francesi: opposte valutazioni di politica estera
Pensare che questa mole enorme e caustica di critiche e di riserve antispagnole condizionassero la politica francese in direzione
opposta all'alleanza tra le due corti borboniche sarebbe, ovviamente, un'assurditaÁ, dipendente forse da una profonda incomprensione
delle leggi imposte dalla politica, che non eÁ scienza di valori, ma di
fini e dei mezzi piu adatti a raggiungerli. Il legame tra le due corti
sorelle non aveva, infatti, ne favorito ne impedito la decisione della
Francia di allearsi improvvisamente, nel 1756, con quanto restava in
piedi dell'antico impero romano-germanico, ora austriaco, erede di
quello che era stato fin dal medio evo il maggior nemico degli Stati
nazionali. Il fatto che quell'alleanza metteva in serie difficoltaÁ in
particolare le Sicilie, regioni da tempo contese prima tra gli aspiranti
alla successione spagnola, poi tra Vienna e Carlo di Borbone, non
ebbe nessun peso sulla decisione francese.
L'attribuzione del Granducato di Toscana a Stefano di Lorena,
il matrimonio di lui con Maria Teresa d'Austria, la protezione francese affinche nel corso della guerra di successione austriaca i ducati di
Parma e di Piacenza fossero attribuiti a Filippo, che di Carlo era il
fratello minore e che aspirava a passare, appena possibile, di lõÂ sul piuÂ
l'amitie et la bonne foi sont devenus si probleÂmatiques, aÁ l'eÂgard de l'Espagne comme de la
France, et en imposerait aux ennemis deÂclareÂs et perpeÂtuels des deux couronnes. Le systeÁme politique eÂgalement ramene aÁ ses vrais principes, nous rendrait tous les avantages de la
Puissance feÂdeÂrative. Nos alliances seraient mieux combineÂes pour notre avantage et mieux
combineÂes pour l'inteÂreÃt meÃme de nos allieÂs».
242
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
consistente ed antico trono di Napoli, erano precedenti bocconi
amari per cui il re di Napoli aveva subõÂto come una svolta molto
preoccupante «le renversement des alliances» del 1756. Quel cambiamento era stato la risposta austriaca all'invadenza prussiana, ed
era stato sancito dai noti matrimoni del delfino Luigi e di Ferdinando
IV con Maria Antonietta e Maria Carolina, figlie di Maria Teresa.
EÁ il caso di ricordare questi motivi di dissenso tra Parigi e Carlo
di Borbone perche da parte del re di Napoli considerare le Sicilie
un'ereditaÁ da trasmettere ad uno dei figli fu un desiderio vivissimo
ed una preoccupazione costante, nata proprio dall'alleanza tra Parigi
e Vienna: la corte borbonica sorella si era collocata cosõÂ al fianco di
quell'impero contro cui Carlo aveva combattuto e vinto a Velletri
nel 1744. Le antipatie spagnole nei confronti della Francia provenivano in Carlo dall'educazione vetero-nobiliare che aveva ricevuto
dal conte di Santisteban ed a cui si erano aggiunti quei nuovi motivi
di cautela e di sospetto. Tanucci nutriva nei confronti del modello di
sviluppo francese riserve nazionalistiche e culturali, spesso dissimulate e che poi furono giustamente fondate su motivi di politica economica. Quella, insieme al comune rigore morale, era la larga base su
cui si fondoÁ il vincolo di amicizia e di collaborazione tra l'ispido e
scostante toscano e l'ombroso e diffidente sovrano spagnolo. Nel
1755, e poi nel 1759, quei moventi influirono largamente nella scelta
di Tanucci come braccio destro di Carlo a Napoli.
In sintesi, questi dati elementari sugli orientamenti di politica
estera presenti a corte e nel governo francese era necessario ricordarli perche nella seconda metaÁ del Settecento il quadro internazionale incise a fondo sui destini delle Sicilie, non piu in modo positivo
e fortunato, ma per condurli su vie impervie e disastrose.
Per la politica anti-inglese e anti-russa nel Mediterraneo e oltreOceano, il re di Francia, Broglie e le fazioni di corte ritenevano
indiscutibile l'alleanza con la Spagna. La storiografia francese individua nel lasso di tempo che va dal 1773 al 1774 due correnti di
politica internazionale presenti nella corte: il partito di Choiseul,
ossia «du patriotisme», che annoverava alcuni principi di sangue e
che contava dell'appoggio degli oppositori alla riforma anti-parla-
V. Oltre la metaÁ del secolo
243
mentare di Maupeou, e il gruppo di potere adunatosi attorno alla du
Barry, comprendente i duchi di Richelieu, d'Aiguillon, d'Aumont, i
conti di Bissy e di Maillebois, la principessa di Montmorency ed altri
fedeli e clienti. Il primo dei due gruppi, impersonato dagli Choiseul,
da Broglie e da Louis XV, per far fronte all'Europa orientale ed ai
suoi fianchi di nord e di sud, contavano sull'alleanza con la corte di
Vienna, rafforzata dal matrimonio (19 aprile 1770) del successore al
trono, il «petit-dauphine», con l'arciduchessa Maria Antonietta. La
futura regina di Francia era infatti molto legata a Choiseul, verso cui
dimostrava stima e confidenza. In quello stesso momento l'altro
partito di corte, capeggiato dalla signora du Barry ed avverso agli
Choiseul ed a Broglie, esprimeva con la politica del duca d'Aiguillon
un orientamento nettamente diverso: l'apertura di un'alleanza con
la Prussia. Dunque nel 1773 era netta la contrapposizione tra i
filoaustriaci ed i filoprussiani 46.
Il ministro degli esteri francese, diffidente verso l'Austria, ch'egli considerava fiancheggiatrice di Choiseul e dell'antico ministero,
nell'autunno del 1771 aprõÂ le trattative con Federico II. Della cosa
fu subito avvertito l'abile ed intelligente barone di Breteuil, il piuÂ
filo-austriaco dei diplomatici francesi e creatura di Choiseul, che
tentoÁ di bloccare l'iniziativa tramite Broglie 47. Nel corso di una
conversazione, fu proprio l'ambasciatore austriaco a Versailles, il
conte di Mercy-Argenteau, ad avvertire Broglie e Louis XV dei
tentativi di Federico II, per «brouiller nos deux cours» attraverso
d'Aiguillon 48. Era in pericolo la logica che aveva ispirato Louis XV
46
M. Antoine, Louis XV, cit. (nt. 27), passim.
Broglie a Louis XV, 9 gennaio 1772: «instruit comme je le suis, Sire, de sa volonteÂ
sur un objet aussi important, (cioeÁ l'accordo con l'Austria) je ne saurais, sans manquer
essentiellement aÁ mon devoir, me dispenser d'avoir l'honneur de Lui rendre compte de ce
que M. le comte de Mercy m'a dit depuis mon retour. Cet ambassadeur m'avait fait
preÂvenir au moment de mon arriveÂe par M. le baron de Breteuil qu'il deÂsirait fort de me
voir et qu'il avait des choses treÁs importantes aÁ me communiquer. M. de Breteuil en
s'acquittant de cette commission m'ajouta que le comte de Mercy eÂtait on ne saurait
plus inquiet de nos nouvelles liaison avec le roi de Prusse et que c'eÂtait sur cet objet qu'il
voulait m'entretenir».
48
Sulle trattative condotte nell'autunno del 1771, cfr. J. Flammermont, Les correspondances des agents diplomatiques eÂtrangers en France avant la ReÂvolution, pp. 56-65 e la
47
244
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
per tutto il suo lungo regno: il gioco diplomatico conosciuto con la
formula «renversement des alliances».
Ancora Broglie ci soccorre nel tentativo di comprendere le linee
guida della politica internazionale praticate dalle grandi potenze
europee relativamente al regno delle due Sicilie. Anche in questo
caso il problema centrale restava quello dell'equilibrio europeo dopo
la convenzione firmata il 16 gennaio 1756 a Westminster tra Prussia
ed Inghilterra, ed in seguito al trattato di Versailles del 1756.
«Les Royaumes de Naples et de Sicile forment donc par eux-meÃmes
l'eÂtat le plus consideÂrable, le plus important de l'Italie, et le plus fait
pour y eÃtre preÂpondeÂrant. Quant aÁ sa position respective aÁ l'eÂgard des
autres Puissances de l'Europe, elle [la position des Royaume] ne peut
consister que dans les rapports directs de cette Cour avec celle de
Vienne, par les liaisons eÂtroites et, peut-eÃtre, trop intimes que la
nouvelle affinite a eÂtablies entre les deux familles, ou dans ceux
que les liens du sang et de l'inteÂreÃt commun lui rendent essentiels
et neÂcessaires avec la France et l'Espagne. C'est par ces deux puissances qu'elle [la position des Royaume] peut se trouver impliqueÂe,
engageÂe dans les affaires geÂneÂrales de l'Europe. C'est pour elle aussi
que les deux Monarques parents et allieÂs doivent veiller sans cesse,
non seulement aÁ sa suÃreteÂ, aÁ sa conservation, mais aussi aÁ l'accroissement de ses forces, de ses moyens, et aÁ l'usage que, dans plusieurs
cas, elle en pourra et devra faire» 49.
Queste ultime affermazioni quasi tutelari («doivent veiller sans
cesse») esprimono per un verso le aspirazioni del governo napoletano,
per un altro un'idea nascente dalla coscienza che il vaso di coccio con
cui terminava la penisola italiana correva sempre il rischio di essere
schiacciato dai vasi di ferro che avessero voluto realizzare quel risultato: esso, pur essendo prevedibile una resistenza quasi nulla e pur
Politische Correspondenz, t. 31, Berlino 1906, passim, ma spec. le pp. 275-87, 343. Gli
austriaci erano perfettamente al corrente delle trattative tra d'Aiguillon e Sandoz, inviato
prussiano in Francia, cfr. A. D'Arneth-A. Geoffroy, Correspondance secreÁte entre MarieTheÂreÁse et le comte de Mercy-Argenteau, avec les lettres de Marie-TheÂreÁse et de Marie-Antoinette,
Paris 1874, t. 1, pp. 246, 247, 258, 259, 267-68. La conversazione tra Broglie e MercyArgenteau in Antoine-Ozanam, Correspondance secreÁte, cit. in nt. 24, 2ë vol., p. 316-8.
49
A.N., Conjectures raisonneÂes, cit. (nt. 24), f. 170r.
V. Oltre la metaÁ del secolo
245
essendo parva la materia del contendere, avrebbe sensibilmente spostato l'asse, quanto meno orizzontale, degli equilibri europei.
7. Il problema dell'influenza austriaca sulla Sicilia borbonica
L'invito di Broglie a Luigi XV affinche non solo tutelasse le
Sicilie, ma ne accrescesse le forze, seguiva di pochi mesi il tentativo
di Federico II diretto a sganciare Parigi da Vienna, servendosi del
duca d'Aiguillon e del gruppo attivo intorno a madame du Barry. Era
una piega degli avvenimenti che giustificava le preoccupazioni molto
serie della diplomazia parigina. Essa intuiva che la rottura dell'alleanza con l'Austria avrebbe comportato di pagare un prezzo molto caro
nel sud dell'Italia.
Il pericolo che si stava profilando all'orizzonte era lo spostarsi
delle Sicilie in modo molto stretto verso l'area austriaca, novitaÁ che
avrebbe comportato un cambiamento degli equilibri europei, e creato
enormi problemi a Carlo III, ponendo sulla bilancia del rapporto
franco-ispanico ± giaÁ caratterizzato da un bilanciamento meno stabile di quanto appariva e di quanto si desiderava ± un peso forse
disastroso. Erano timori ben fondati, e non eÁ un caso che fossero
espressi proprio da uno dei piu autorevoli esponenti del partito del
Re, favorevole a mantenere fortemente in vita sia l'alleanza con
Vienna sia l'unione `familiare' con la Spagna, e da colui che aveva
bloccato il tentativo di rompere il legame con Vienna, e quindi aveva
impedito il colpo di mano diretto a «renverser ... le renversement» 50.
A questo punto eÁ necessario riportare le Sicilie al centro della scena, e
ripercorrere brevemente precedenti ben noti.
Dopo il XVI secolo, la diplomazia europea fu dominata dalla
grande opposizione tra la casa dei Borbone e quella degli Asburgo.
Verso la fine del regno di Louis XIV, quando parve evidente che
Carlos II di Spagna non avrebbe avuto discendenti diretti, la successione di Spagna turboÁ l'Europa, sfociando in una guerra lunga,
costosa e difficile, che si espanse su scala mondiale. Il trattato di
50
Su questo tentativo, cfr. la cit. importante lettera 6 gen. 1772, di Broglie a Louis
XV, cit. in nt. 47.
246
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
Utrecht, che la concluse, ed impose una stabilitaÁ durevole alla cristianitaÁ; l'idea di quella pace fu presente durante tutto il secolo dei
Lumi, come riferimento e, in qualche caso, come modello 51. Filippo
d'AngioÁ, seduto sul trono madrileno, aveva trasformato i termini
dello scontro tra le due case regnanti. Il progetto di una stretta
unione con l'Austria, diretta contro la Prussia, l'Inghilterra e la Russia, era un vecchio sogno carezzato a lungo dalla Francia del «Bienaime». Datato con l'affermazione brutale della Prussia nel 1740, il
«renversement des alliances» europee ± o come viene piuttosto chiamato dagli storici tedeschi e anglosassoni la «reÂvolution diplomatique» ± fu a lungo coltivata, per parte francese, dal duetto ``segreto''
Broglie-Louis XV, dalla coppia governativa Choiseul- Louis XV, e,
per parte austriaca, dall'imperatrice e dal ministro Kaunitz 52.
Per Broglie l'Austria, pur sconfitta nei suoi tentativi di conservare e poi di riappropriarsi del regno meridionale nel 1734 e nel 1744,
fu aiutata dalla politica di Choiseul nel riprendere posizioni sul piano
internazionale, a discapito della stessa Francia 53. La casa degli Asburgo riuscõÂ, infatti, a far inserire nel trattato segreto di Versailles del 30
dicembre 1758 alcune clausole ambigue sulle norme relative alla successione sul trono siciliano: nel caso di successione di don Carlos a
Madrid, sarebbe stato nominato re di Napoli don Filippo, mentre
Parma e Piacenza sarebbero passati ai discendenti del re di Spagna.
Grazie alla fermezza di Carlo di Borbone nel far valere i «droits
naturels» in favore dei figli, il piano austriaco in definitiva fallõÂ: ma
costituõÂ una mina vagante per alcuni lustri, e turboÁ il sonno di molti, e
non solo dei diplomatici. CosõÂ, non rimase alla corte di Vienna altro
da fare che l'«espoir de dominer un jour par l'intrigue dans un Royaume que la force n'avait pu lui soumettre» 54. E l'intrigo per Broglie si
era materializzato nelle forme della figlia di Maria Teresa.
La transizione dall'equilibrio al temuto sovvertimento degli assetti internazionali era legata al temperamento dimostrato da Maria
51
52
53
54
Per tutto cioÁ si rinvia all'acuta analisi di Lucien BeÂly, op. cit. (cap. I, nt. 13).
Cfr. su tutti Antoine, Louis XV, cit. (nt. 27), passim.
A.N., Conjectures raisonneÂes, cit. in nt. 24, Article 13. De l'Italie, f. 169 ss.
Ivi, p. 173v.
V. Oltre la metaÁ del secolo
247
Carolina. Tuttavia, essendo note sia le condizioni della monarchia
napoletana sia l'educazione che la corte di Vienna era solita dare alla
sue principesse, le previsioni lasciavano in vita pochi dubbi:
«On n'est pas aÁ porteÂe de juger aÁ quel point l'influence de la Reine
peut eÃtre preÂpondeÂrante. Mais d'apreÁs le geÂnie, le caracteÁre et l'eÂducation de toute la branche espagnole, on peut du moins preÂvoir que
cette preÂpondeÂrance doit meÃme augmenter avec le temps, au lieu de
diminuer. Tel est aussi l'usage heureux et adroit que la Cour de
Vienne a toujours su faire de ses Archiduchesses; et, sous l'ImpeÂratrice reÂgnante, on oserait ajouter que cette meÂthode a eÂte encore
perfectionneÂe [...] Il serait meÃme possible qu'aÁ la naissance d'un
prince heÂritier du TroÃne, la jeune Reine [...] prit sur lui bien plus
d'ascendant, et meÃmeassez (dans certains cas) pour lui faire secouer
le joug de l'autorite paternelle» 55.
Ritornava in questo passaggio di Broglie il tema dell'educazione e
del carattere degli esponenti del ramo cadetto dei Borbone di Spagna. Nel caso di Ferdinando IV, Broglie era molto esplicito e, nel
delinearne i tratti caratteriali e i modi d'espressione della personalitaÁ, addebitava al suo ajo, il principe di San Nicandro, tutta la responsabilitaÁ dei sentimenti francofobi, oltre che della pessima educazione 56. In Broglie, come in tutti gli osservatori stranieri, era
centrale l'osservazione dell'inettitudine e dell'assoluta incapacitaÁ
di governo del re Borbone.
Erano chiacchiere che correvano per l'intera Europa di metaÁ
Settecento, dissimulate con osservazioni quali l'innata disposizione
di Ferdinando IV «a divertirsi a spese della fastidiosa serietaÁ che
tutti affibbiano alla maestaÁ regale». Ragion per cui egli «era cosõÂ
triste quando il ministro Tanucci l'obbligava ad essere serio nei casi
in cui doveva esserlo e mai, di converso, era cosõÂ contento come
quando si sentiva padrone di concedere una grazia a qualcuno».
D'altronde, egli «non era ne colto ne erudito e non era portato ad
alcuna specie di letteratura», pur avendo un «eccellente raziocinio» e
55
56
Ibidem.
Ivi, f. 174, con giudizio su Domenico Cattaneo.
248
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
«grande stima degli uomini che avevano saputo distinguersi fra gli
altri sia per i loro costumi sia per la loro cultura» 57. E la colpa di quel
risultato veniva fatta ricadere in tutto sul suo ajo: ma il modello del
tradizionalismo bigotto era giaÁ stato trasmesso dal conte di Santisteban, ajo paterno, ed ebbe certamente la sua parte in quel disastro
pubblico, addirittura europeo, ancor piu che familiare 58.
Quale futuro politico intravedeva il conte di Broglie per il regno
di Napoli? Dopo aver vagliato diverse ipotesi di successione dinastica, egli riteneva che il Mezzogiorno d'Italia sarebbe comunque
caduto sotto il controllo austriaco, alla ricerca di sbocchi nel Mediterraneo 59. E le conseguenze per la Francia sarebbero state nefaste,
57
La descrizione di Ferdinando eÁ di G. Casanova, Storia della mia vita, trad. it. a cura
di Piero Chiara e Federico Roncoroni, Mondadori, Milano 1989, vol. III, p. 743.
58
Frutto di un impegno tanto gravoso quanto meritorio, eÁ stato di recente pubblicato
l'abbondante Carteggio San Nicandro Carlo III, in tre volumi, SocietaÁ napoletana di Storia
Patria, Napoli 2009, a cura di Carlo Knight. EÁ una fonte significativa e che riguarda il tema
qui sfiorato: le due persone che piu influirono sul carattere, sulla cultura ed in genere sulla
formazione di Ferdinando IV solo illuminati appieno da quelle 1400 pagine: dato e non
concesso che di luci si tratti e non, piuttosto, di ombre. Certo eÁ che i due corrispondenti
mostrano, in modo speculare, i limiti culturali e politici giaÁ riconosciuti da tutta la storiografia meridionale, da Colletta a Croce e, in tempi piu recenti, da Ajello alla Maiorini, alla
Russo (che ne ha curato l'omonima voce nel Dizionario Biografico degli Italiani, vol. XXII,
pp. 456-58). CioÁ, ovviamente, nulla toglie ai meriti di Knight ed all'utilitaÁ della non facile
impresa: conoscere gli uomini eÁ il piu valido presupposto per delineare la storia di un'epoca,
su cui essi influirono per come erano, e non per come avremmo voluto che fossero. Con
questo intento, e non certamente per un esclusivo «risveglio d'attenzione nei confronti del
San Nicandro», affidammo ad una brava tesista (Manuela Ferlito, che il curatore cita, ma
l'indirizzo della tesi eÁ del relatore, cioeÁ di chi scrive) la cura di una parte dell'epistolario tra
l'ajo ed il re spagnolo, da noi individuata a suo tempo nell'archivio simanchino. GiaÁ da
quella porzione dell'epistolario tra il re ed il principe ci apparve chiaro che Carlo si preoccupava piu di «diseducare» il figlio, che di formarlo a compiti propri all'esercizio della
regalitaÁ. Era quello l'argomento centrale e lo scopo della dissertazione, non certo il profilo
di un furbo affarista, ma ignorantissimo ajo, ritenuto unanimamente dai critici un personaggio emblematico dello squallore di parte della classe dirigente meridionale del tempo.
59
Ecco le ipotesi di Broglie: «enfin, en supposant qu'il [cioeÁ, Ferdinando IV] ne
s'eÂcarte jamais aÁ cet eÂgard de ses devoirs, il peut perdre le Roi son peÁre, et (tout jeune
qu'il est) ne lui survivre que peu de temps. Si, aÁ cette eÂpoque il ne laissait point d'enfant
maÃle, il n'est pas douteux que l'Infante aõÃneÂe ne devit le partage d'un des Princes de
Toscane et quelques arrangements que Charles III euÃt pu faire de son vivant en faveur
de sa ligne masculine, on saurait eÂleveÂe cette Princesse sur le troÃne, et lui en assurer la
possession, ainsi qu'aÁ son eÂpoux actuel ou futur. Alors il serait aussi treÁs possible que
l'Empereur mouruÃt sans enfants, et que le fils du Grand Duc devint l'heÂritier des Etat
V. Oltre la metaÁ del secolo
249
perche gli austriaci, ristretto il potere borbonico a due sole nazioni
in Europa, avrebbero cercato ed ottenuto la complicitaÁ inglese, al
fine di stabilire in Italia una politica d'equilibrio. L'Inghilterra si
sarebbe cosõ assicurata una «supeÂriorite privative dans les ports
d'Italie» 60. La potenza inglese, dopo il Baltico, avrebbe dominato
anche il Mediterraneo. E ancora una volta l'idea fondamentale di
Broglie, ossia la «puissance feÂdeÂrative» come panacea universale,
avrebbe permesso di far saltare il banco all'Inghilterra. Per gli uomini degli Affaires eÂtrangeÁres il processo politico internazionale, apertosi a metaÁ degli anni '50 in Occidente, non s'era ancora concluso.
Questo paradigma delle relazioni tra i paesi occidentali era poi precipitato per le conseguenze della guerra dei Sette anni.
8. Galiani e Tanucci: la Francia blocca l'economia delle Sicilie
«V. E. dunque teme un tempo nel quale la cittaÁ di Napoli sia obbligata
dalla potenza enorme della Francia e sia forzata a immense somme,
quando ora non paghi l'orribile di 450 mila ducati, cioe 300 mila piuÂ
del prezzo da quei ladroni di Marsiglia formato dei grani non ricevuti,
condannati dai periti, venuti in contravenzione del mandato. E io non
temo. Dice V. E. che convien finir ora la cosa. Anche io ho detto
questo. E per quieto vivere contro tutta la giustizia ho offerto a cotesti
mangiamondi quel caricatissimo prezzo dei grani, graduando il prezzo
a giusto, e li grani pessimi a buoni. Non han consentito. Dunque, che
possiamo fare con chi delira per voler delirare, dicendo sentenza del re
di Spagna, fatale, irrevocabile, sacra, quella che eÁ di un tribunale, e per
tutte le leggi sottoposta a nuovo esame, anche quando non concorressero quelle violenze, che si descrivono in un foglio, che se ho qui,
includeroÁ? V. E. scorre a caricar la fantasia cogli austriaci quasi scordata di quel che Ella stessa, ha tanto scritto da Londra. V. E. anche
dice, che un altro ministro che mi succeda, accorderaÁ e si scuseraÁ con
dire che eÁ obbligato a rimediare ad un male fatto da me antecessore.
Ma il Re giovine dureraÁ lungo tempo» 61.
d'Autriche. Il reÂunirait aÁ lui seul ceux que Charles Quint avait posseÂdeÂs en Italie, et
augmente de la Toscane entieÁre» (ivi, ff. 174r-v).
60
Ivi, f. 175.
61
In Tanucci, Epistolario 1774 (cfr. supra, cap. II, nt. 23) lettera në 1.
250
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
Il primo gennaio 1774 Tanucci manifestava in questo modo a Caracciolo la sua amarezza per l'incapacitaÁ dimostrata dal governo
napoletano di far valere sul piano internazionale il rifiuto di pagare
ai venditori marsigliesi il prezzo del grano ammuffito ricevuto per
porre rimedio alla carestia del 1764. Il ministro napoletano sapeva
bene che era irrimediabilmente perduta la partita con la Francia
per il pagamento degli ingenti interessi cumulatisi in dieci anni per
la fornitura dei grani che Marsiglia aveva offerto a Napoli durante
quella crisi alimentare. In quell'occasione gli era persino mancato
l'appoggio di Carlo III. Della debolezza della Spagna nei confronti
della Francia, egli aveva raggiunto una consapevolezza ormai matura. Otto anni prima, nel pieno dello scontro tra lui, Choiseul e
Grimaldi sull'adesione del regno di Napoli al Patto di Famiglia tra
le potenze borboniche, se ne era lamentato con Cantillana:
«EÁ un destino che non si capisce. Il Re Cattolico Nostro Signore
certamente conosce tutto, e la nostra ragione, e il nostro vero interesse, e le insidie del commercio francese, e il falso e insolente delle
querele, e l'inganno, e la sorpresa che a forza di retorica puerile si
vorrebbe fare. AvraÁ la MaestaÁ Sua ragioni occulte di lasciare qualche
parte della vittoria all'insolenza benche conosciuta. Noi doviamo
venerare le sovrane sue risoluzioni e contentarci di che la MaestaÁ
Sua sia persuasa del giusto, regolare, moderato nostro procedere» 62.
L'assoluta impossibilitaÁ per le Sicilie di realizzare una qualsiasi
politica a tutela della sua economia investe appieno una serie di
problemi internazionali ed interni che costituiscono la via maestra
da percorrere attentamente, se si vuol capire che cosa avvenne dopo
l'indipendenza fortunosamente riacquistata dal regno meridionale.
Erano difficoltaÁ che furono nascoste dalla formidabile volontaÁ di
Elisabetta Farnese, ma che emersero drammaticamente dopo la
morte di Filippo V e si protrassero nei decenni seguenti, secondo
una scansione che puoÁ essere semplificata cosõÂ.
Dal 1746 al 1759 le Sicilie mancarono di una guida politica
62
A Cantillana, Napoli, 21 giugno 1766, in Epistolario, vol. XVII (1766), p. 267.
V. Oltre la metaÁ del secolo
251
adeguata, perche Carlo volle governare da seÂ, e la persona del primo
Segretario di Stato, Giovanni Fogliani, successore di Montealegre,
fu scelto proprio perche aveva carattere e qualitaÁ diversissimi dal
suo predecessore. Disgraziatamente era al polo opposto anche perche non possedeva neanche la minima parte di quelle doti politiche
e culturali. La personalitaÁ di Fogliani emergeva (come si espresse un
memorialista contemporaneo), in primo luogo per la sua «mancanza
di talenti». Era stato scelto senza esperienza e senza cultura politica
adeguata per non far ombra al re ed alla regina, che erano fortemente infastiditi per il fatto di esser guidati in tutto e per tutto
come se fossero dei ragazzini. Non erano degli incapaci, ma la loro
educazione aulica li aveva resi di un'ingenuitaÁ quasi patologica, che
li esponeva all'abilitaÁ dei furfanti. La corte ne era stracolma. Inoltre
i due giovani regnanti non avevano la minima capacitaÁ di valutare le
esigenze del bilancio statale, si comportavano come se Elisabetta
potesse continuare a sovvenzionarli, ed erano convinti che il popolo
non godesse di altro che della gioia di assistere alle deliciae principum. Insomma, quando nel 1751 un intelligente, autorevole ed
esperto uomo politico fiorentino, Lionardo Del Riccio, venne a
Napoli invitato dall'amico Tanucci, trovoÁ che il governo era privo
di guida politica e che lo statista suo compaesano, essendo utilizzato
nella corte solo per fatiche materiali e per la sua portentosa cultura,
si trovava oltre l'orlo della disperazione 63.
Nel 1755 le prospettive internazionali consigliarono a Carlo di
servirsi del talento di Tanucci, che poi, nel 1759, in seguito al trasferimento del Re a Madrid si trovoÁ ad essere il perno intorno a cui
girava la Reggenza, formata da nobili napoletani e siciliani che riproducevano nelle loro personalitaÁ le loro ascendenze medievali, inquinate e rese dal punto di vista delle capacitaÁ di governo rovinose da
oltre due secoli e mezzo d'inerzia, di emarginazione dai centri della
responsabilitaÁ, dunque d'inesperienza politica. Innanzi tutto essi non
avevano la minima idea dei doveri pubblici, della responsabilitaÁ che
63
Cfr., sul tema, l'importante saggio di Raffaele Iovine, op. cit. (cap. IV, nt. 73), che
in «Frontiera d'Europa» ha pubblicato le dieci illuminanti lettere del Del Riccio.
252
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
ogni ceto di governo deve sentire nel condizionare le sorti dell'impresa statale, ossia le esigenze collettive. L'interesse privato di ciascuno dominava su tutto.
Per poter capire qual era la reale natura e consistenza dei rapporti economici tra la Francia e le Sicilie eÁ stato necessario compiere
questa digressione sul disastroso andamento della Reggenza 64, dove
Tanucci cercava di tamponare le piu preoccupanti falle, specialmente
economiche, ereditate dalla gestione di rapina realizzata da Leopoldo
de Gregorio: e trovava ostacoli quasi insormontabili nell'egoismo e
nel particolarismo dei suoi colleghi, che avevano adottato come loro
intellettuale di spicco e consigliere uno scaltro e colto leguleio, Giuseppe Pasquale Cirillo. Come avvocato dei Seggi, ossia della nobiltaÁ,
egli divenne il maggior difensore dello status quo ed il nemico piuÂ
molesto sia di Tanucci sia di Genovesi, e da loro duramente disprezzato. Non aveva altra mira che allargare la sua sfera d'influenza.
Fingeva di lavorare all'elaborazione di un codice carolino, era magna
pars della relativa commissione di esperti; ma lo stesso Re aveva
assicurato fin dall'inizio Elisabetta Farnese che si trattava di una
mera finzione: nulla di nuovo sarebbe uscito da quell'apparente travaglio, che non abortiva perche era diretto ad offrire proventi a
Cirillo e ad altri disonesti collaboratori 65.
Quanto all'economia, De Gregorio ne aveva curato un solo
aspetto: l'incremento a tutti costi, spesso rovinosi, del gettito fiscale, di cui la coppia regnante aveva insaziabile bisogno e che provvedeva a distrarre verso impieghi in quella fase (ossia almeno allora)
improduttivi: costruzioni di palazzi faraonici e scavi archeologici.
Del settore economico qui interessa specialmente il commercio internazionale. Un amico fraterno di Bartolomeo Intieri ed estimatore
di Celestino Galiani, Alessandro Rinuccini, banchiere fiorentino,
uomo geniale di antica nobiltaÁ e di formidabile esperienza, dotato
64
Sulla Reggenza e sulla sua interna dialettica politica, cfr. M.G. Maiorini, La Reggenza borbonica (1759-1767), Giannini, Napoli 1991.
65
Su Cirillo cfr. Ajello, voce in «Dizionario Biografico degli Italiani», vol. XXV,
1981, pp. 796-801, e sul tentativo di codificazione cfr. dello stesso autore le due op. cit.
infra, cap. VII, nt. 16 e cap. VI, nt. 15.
V. Oltre la metaÁ del secolo
253
di una cultura eccezionale e di un acume sorprendente, trapiantato
stabilmente a Napoli, rilevoÁ che praticamente non trovava posto tra
le cure del governo napoletano il compito, in tutt'Europa ritenuto
primario, di tutelare il commercio. Per questa imperdonabile lacuna,
indice di una mentalitaÁ anacronistica per non dire primitiva, egli
arrivoÁ ad accusare Carlo di Borbone, il re buono, mite, anche troppo
generoso, di dispotismo 66.
EÁ da rilevare che l'impegno diretto ad incrementare il commercio, comportando in primo luogo di riformare o addirittura rivoluzionare l'assurdo sistema su cui era fondato, appariva pericoloso e da
evitare accuratamente da chi non volesse correre rischi: ed il re era
tra i piu timidi. Si sapeva che i governi francesi avevano visto sempre
come loro nemici da demolire gli uomini politici che si occupavano a
Napoli (ed altrove) di economia nell'interesse dei loro Paesi, e che
intendevano realizzare una politica di contenimento dell'invadenza
parigina. Appariva un'offesa a quel governo creare ostacoli ai meccanismi transalpini, diretti ad acquistare a basso prezzo le materie
prime, ad elaborarle dando lavoro alle abili manifatture nazionali, e
ad esportarle nelle Sicilie, per un verso aggirando i dazi locali con il
capillare contrabbando, e per un altro verso paralizzando la marina
mercantile locale, che non poteva crescere di tonnellaggio, per i
motivi che esamineremo. Innanzi tutto perche solo i legni molto
piccoli, rasentando le coste, potevano salvarsi dalla pirateria nordafricana, che era armata, protetta, sovvenzionata dal sistema economico francese, di cui era un ottimo cliente: esso forniva ai pirati
tutto cioÁ che era necessario perche potessero svolgere il loro lavoro, e
li proteggeva come partners commerciali.
9. Alle Sicilie era consentita soltanto la navigazione piu leggera
Sulla navigazione e sul commercio estero delle Sicilie, in particolare nel periodo borbonico, raramente eÁ possibile avvalersi di dati
quantitativi. La documentazione statistica relativa al transito delle
66
Cfr. supra, cap. IV, par. 7, ed in particolare nt. 68.
254
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
navi nei porti e delle merci nelle dogane eÁ troppo lacunosa e parziale
per poterne trarre giudizi generali diversi da quelli espressi in modo
chiaro ed insistente dagli esperti del tempo. I dati numerici e quantitativi, prima di subire dal tempo molteplici falcidie, sono il residuo
di comportamenti diretti ad occultarli o a manipolarli; spesso erano
sottratti ad ogni registrazione, poiche i contemporanei erano interessati, spesso obbligati, ad omettere quelle formalitaÁ. PercioÁ su quella
base eÁ impossibile qualunque calcolo analitico che ci dia conto delle
complesse dinamiche commerciali.
L'idea (concepita in questi ultimi decenni da alcuni storici) di far
a meno delle diagnosi dei contemporanei, anche i piu intelligenti,
quali erano Galiani e Tanucci, eÁ segno di una presunzione smodata.
Essa si aggiunge e si somma a quella idealistica, pur adottando un
criterio opposto: tanto idolatra i dati numerici, quanto la precedente
storiografia trascurava le fonti della vita materiale. Pertanto se eÁ
dubbio che il costo dei noli abbia lasciato sempre chiari segni negli
archivi, ancor piu eÁ certo che si taceva accuratamente del contrabbando e del relativo traffico, da tutti i testimoni durante molti secoli
indicato come di portata enorme. Sicuro eÁ che la marineria delle
Sicilie era costretta a mantenersi nei limiti di un cabotaggio minimo,
registrato raramente e male. Anche le somme pagate ai comandanti
francesi per il trasporto delle persone e delle merci imbarcate durante
la navigazione non dalla Provenza alle Sicilie e viceversa, ma da
Napoli a Palermo e viceversa, non potevano essere annotate correttamente in partenza o in arrivo a Marsiglia o a Tolone, perche il rapporto commerciale era quasi sempre occasionale e nasceva sul momento. PercioÁ possiamo sostenere che il mercato dei noli si sottraeva
quasi del tutto ai controlli. Certo era prevalentemente in mani aliene.
La lotta al contrabbando rappresentoÁ il primo segno della capacitaÁ italiana meridionale diretta a reagire allo status quo di dipendenza economica del Regno rispetto alla Francia: e le proteste napoletane furono il cupo brontolio dei tuoni che annunciavano una
grande tempesta. Analizziamo qui di seguito alcune lettere di Ferdinando Galiani, negli anni Sessanta segretario dell'ambasciata napoletana a Parigi, a Bernardo Tanucci, e le relative risposte. Questi
V. Oltre la metaÁ del secolo
255
testi di per se sintetizzano in modo molto penetrante la condizione
di blocco in cui il commercio delle Sicilie era posto dalla miriade
delle attivitaÁ rivierasche francesi. I due esperti indicano una serie di
particolari atti a rendore palese che il movimento commerciale tra i
due paesi era di contrabbando, dunque informale e segreto: cioÁ
spiega perche la documentazione ufficiale eÁ spesso inesistente e
lacunosa. Il carteggio tra i due pone in luce con estrema luciditaÁ il
problema dei rapporti tra l'intraprendenza della nazione dominante
nella navigazione, nell'industria e nel commercio da una parte, e la
passivitaÁ economica, quasi coloniale, delle Sicilie dall'altra.
Galiani il 7 febbraio 1763 giudicava «Santissimo [...] l'editto
nuovamente fatto», ossia la proibizione del contrabbando delle Sicilie sulle coste straniere, sancita di recente dal Supremo Magistrato
del Commercio napoletano. Ed aggiungeva:
«Ma prego V. E. a riflettere, che se con rigore si eseguiraÁ forse ne
resteraÁ distrutta la nostra marina. SaroÁ forse un poco lungo a spiegarmi, ma abbia V.E. la bontaÁ di sentirmi. ± Il commercio delle due
Sicilie si fa tutto con filuche e legni piccoli, che non hanno sessanta
tonnellate di capacitaÁ. Ogni feluga ha tra i sette e i dieci uomini e
talvolta piu di equipaggio. Con egual numero di gente gli Olandesi
etc. fanno andar un vascello di due o trecento tonnellate e con sedici
o diciassette uomini va un vascello di cinquecento. La grandezza di
questo carico adunque puoÁ ben fornire alle spese e nutrimento della
gente. Ma una filuchetta che puoÁ mai portare (a men che non sia
carica di diamanti) che basti a fornir a proporzione le spese dell'equipaggio e il profitto al mercante? Quel guadagno aunque che il
commercio non daÁ, lo daÁ il contrabando. Se questo si toglie, filughe
non anderanno piu per lo mondo, perche in generale non puoÁ tornar
conto a mettere dieci uomini per portarne quaranta o cinquanta
tonnellate di roba, mentre il forestiero con egual gente ce ne porta
a noi tre o quattrocento. Bisogna adunque privilegiare il nostro
commercio. Bisogna imitar le nazioni savie, Inglesi, Olandesi, Francesi, etc., che o proibiscono, o mettono un'imposizione almeno del
cinque per cento su tutte le mercanzie di qualunque sorte, che saranno
portate nei nostri porti da bastimenti non nazionali. ± Il profitto di
questo dazio potraÁ poi servire ad alleggerir quelli che sono sull'estrazione di qualche genere nostrale. Il vino sarebbe il piu necessario a
256
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
lasciar estrarre. Benissimo piu di tutto sarebbe abolir l'arrendamento
dell'acquavite e farne far commercio. Ma quidquid sit di cioÁ, sempre in
generale eÁ necessario far che un dazio scoraggisca gli stranieri dal
portar nei nostri porti non solo le merci loro, ma talvolta quelle del
Regno nostro stesso, o della Sicilia a Napoli. Allora navigheranno i
Napoletani con navi grosse, non piu a remi, ma a vela e allora si potraÁ
dire che noi avremo un commercio: fin ora non abbiamo altro che
contrabando che ci fa sussistere. Una delle ragioni che ha fatto abbandonare il vero commercio, il quale non puoÁ farsi con profitto altro
che con le navi onerarie a vela, e ci ha fatto prediliggere le liburne a
remi, eÁ stato il timore de' Turchi, da' quali una filuca scampa assai
meglio che una nave. Sicche bisogna tener ben espurgati i mari nostri.
Allora vedraÁ V.E. crescer le navi grosse e cessar le filuche, ma fincheÂ
filuche vi saranno vi saraÁ contrabando e nel Regno e negli Stati altrui,
perche il contrabando eÁ consustanziale alla filuca. La filuca rade la
terra, sbarca dapertutto, scende la gente senza sospetto sempre a
terra, finge a sua voglia sempre timor di Turchi o di tempesta. Non
cosõÂ la tartana, la quale cerca sempre l'alto mare ed il vento, non
approda se non in rade o in porti, luoghi frequentati e custoditi dalle
guardie; non dorme la gente a terra, e se butta la lancia per mandar in
terra tutto il mondo lo vede. Non dico di piuÂ, perche V.E. mi capiraÁ
meglio che io non so spiegarmi; ma concludo che bisogna nettar i
nostri mari, favorir le tartane piu che le filuche, e le nostrali piuÂ
che le straniere con un'imposizione, di cui non potranno gli stranieri
lagnarsi, perche hanno la simile nei loro paesi 67.
Dunque la piccola navigazione con legni leggerissimi era la piuÂ
adatta sia a sfuggire alla pirateria, sia a realizzare il contrabbando:
queste erano le due condizioni che s'imponevano ineluttabili. «La
filuca scampa» (almeno in parte) alla cattura piratesca, ed anche ai
controlli posti a tutela dei dazi e delle gabelle; la tartana non si salva
ne dall'una ne dagli altri, perche eÁ piu pesante, e non scarica sulla
sabbia, ossia quasi dovunque. Galiani cercava di spostare il problema dal tema del contrabbando e della sua repressione a quello della
tutela e sicurezza della navigazione contro la pirateria. Se si daÁ
67
In Galiani, Opere, a cura di Furio Diaz e Luciano Guerci, Ricciardi editore,
Milano-Napoli, 1975, p. 882, nt. 1.
V. Oltre la metaÁ del secolo
257
libertaÁ di commerciare, ne nasce comunque ricchezza. L'abate era
per motivi teorici favorevole al libero scambio: ma quale? Era possibile una paritaÁ tra due condizioni diversissime: da un lato flotte
mercantili e militari potenti, che erano in grado di difendersi dai
pirati, perche le navi da guerra realizzavano sanguinose ritorsioni;
dall'altro lato il piccolo, anzi minimo cabotaggio dei `regnicoli' e dei
Siciliani? EÁ stato merito di alcuni storici meridionali aver messo in
luce una realtaÁ nascosta: alcuni imprenditori `regnicoli' riuscirono a
crearsi spazi di attivitaÁ anche nelle pieghe di quel sistema oppressivo. Erano quelle formiche che le grandi flotte dei vascelli francesi,
inglesi ed olandesi non si preoccupavano di schiacciare, perche del
tutto diversa era la dimensione dei due sistemi.
La risposta di Tanucci (23 dello stesso mese di febbraio) coglie
perfettamente l'enorme differenza, che non consentiva di porre i
problemi del commercio francese e napoletano sullo stesso piano: lo
scambio era comunque totalmente, irrimediabilmente diseguale.
«Sul contrabando ch'Ella vorrebbe mantenere, per mantenere il
commercio delle felughe, bisogna tener per fermo, che, per un contrabando dei nostri sulle coste di Francia, cento son quelli che li
Francesi fanno sulle coste delle Sicilie; percioÁ il danaro che esce dal
regno, eÁ piu di quello, che entra per li contrabandi. Siccome eÁ sapientia prima stultitia caruisse, cosõ eÁ l'alfa del commercio curare, che
il danaro, che esce dallo Stato, sia meno di quello che entra, o
certamente non piuÂ. Tutti poi li canoni di commercio, che io leggo
nella sua, son la solita predica, che qui si fa, e finora invano. Si teme
di offendere, si suscitano dubbi, si sofistica. Sull'acquavite si eÁ discorso, e si eÁ finito disputanto. Ho sperato che Ella mi manderebbe
le tariffe di quello, che costõÂ pagano li nostri generi, per far una
qualche uguaglianza su cotesti generi, che qui vengono. Vengo
quarto dopo Montealegre, Fogliani, de Gregorio, e vecchio a discorrer di commercio, e trovo che il fatto non eÁ altro, che impedimento a
quello che dovrebbe farsi. Trovo ancora, che non possiamo far quel,
che Inglesi, e Francesi hanno fatto di proibizione di merci, o trasporti stranieri. Le regole universali nel morale, e politico non ci
sono; sorgono dalle circostanze delle terre e dei popoli. Estrazione
di generi facile, indefinita; e parca, e dura introduzione son le due
cose, che ci appartengono. La seconda non si puoÁ fare alla cieca,
258
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
senza pregiudicare alla prima. La Grecia a noi confinante produce le
stesse cose, che le Sicilie; se le Sicilie non le permutano, ma le
vendono: eÁ facile la vendetta gli Occidentali col trasferir alla Grecia
il commercio loro, ove non sono ne regole ne frati. E veramente de
Gregorio, con molto meno di quello ch'Ella propone, aveva alienati
tutti dalle Sicilie, le quali, senza esitare i loro generi, prendevano li
stranieri, che le donne, e i loro vassalli vogliono, e sempre vorranno.
Il male dei corsari, che Ella avverte, nei nostri mari non eÁ; ma noi
non possiamo tener puliti li mari di levante e di ponente. Conchiudo
che in teorica si discorre bene, tutto si supera, tutto si edifica, ma in
pratica poi non tornano li disegni» 68.
Aveva ragione Tanucci nell'osservare che il problema era del contrabbando francese, diffuso e capillare, non di quello napoletano
sulle coste francesi, sparuto e facilmente soffocato. Anzi la differenza era la seguente: ogni eventuale azione repressiva antifrancese
sarebbe stata impossibile, perche sulle navi battenti quella bandiera
gli equipaggi non permettevano si effettuassero visite e bordo, vietate dal governo di Parigi che, al contrario, istituõÂ o ribadõÂ il controllo sui piccoli legni stranieri. Pochi mesi dopo lo scambio di
lettere trascritto, fu lo stesso Galiani a commentare il provvedimento francese contro il contrabbando straniero, in una lettera a Tanucci del 12 settembre 1763:
«il segreto [per combattere il contrabbando] eÁ visitare i bastimenti di
sotto a 50 tonnellate; non visitare que' che hanno maggiore capacitaÁ.
Questo rimedio ha questo anche di buono, che non eÁ nuovo, non eÁ
immaginato la prima volta da me, ma eÁ vecchio; trovato giaÁ dai
francesi ed attualmente messo in pratica qui. Sono piu di quindici
anni che questo Sovrano fece un ordinanza, in cui dichiaroÁ che tutti i
bastimenti di sotto le 50 tonnellate fossero soggetti a visita, non solo
nei porti, ma anche nelle cale e intorno ai lidi quando vi si trovassero
fermi in maniera sospetta. L'ordinanza dice tutti. Ma perche gl'interpreti delle leggi hanno trovato che ci eÁ qualcosa piu del tutto, e che
quando si dice tutti non s'intende nessuno, resta dubbioso se questa
68
In Tanucci, Lettere a Ferdinando Galiani, con introduzione e note di Fausto Nicolini, vol. I, Bari, Laterza 1914, pp. 12-3.
V. Oltre la metaÁ del secolo
259
ordinanaza comprenda le nazioni privilegiate. I Francesi per altro
non si son fatti scrupolo delle volte di visitarci in virtu di questa
ordinanza, ma non vi eÁ decisione formale di questo Re, che dice che
hanno i fermieri fatto bene. Quando il Re Cattolico giunse in Ispagna
pubblicoÁ editto, in cui, seguendo l'esempio di questa ordinanza francese, stabilõÂ la visita de' bastimenti piccoli spagnuoli. Qua si eÁ restato. Or dunque non rimane altro, se non che il Re di Francia dica
che quel tutti comprende anche i privilegiati ed esenti. Spagna seguiraÁ la decisione di qui. Noi quella di ambedue» 69.
EÁ da notare che il tono di Tanucci era sempre tendente all'enfasi
quando si riferiva a provvedimenti spagnoli o napoletani, come se
le due autoritaÁ fossero in grado di realizzare la stessa efficienza e
forza di coazione del governo francese. Era uno stile comprensibile
e quasi obbligato in chi, scrivendo o parlando, esprimeva la volontaÁ
dello Stato, ossia delle Sicilie. Se il titolare di quel potere avesse
implicitamente fatto capire che i suoi ruggiti erano finti, emessi da
una tigre di carta pesta, i risultati sarebbero stati ancor piu disastrosi. Questa considerazione vale a proposito della penultima affermazione di Tanucci contenuta nella prima delle sue lettere a
Galiani pubblicate in questo paragrafo. Quando lo statista scriveva
che «i nostri mari non sono infestati dai corsari», sapeva di esprimere un desiderio, un auspicio, non di descrivere un fatto. La sua
tesi era contraddetta subito dopo da lui stesso: «non possiamo
tener puliti lo Ionio e l'Adriatico a levante ed il Tirreno a ponente». La casistica a conferma di questa impossibilitaÁ si puoÁ trarre
dalle sue stesse lettere: egli tendeva ad esaltare i successi della sua
politica ed a minimizzare l'andamento del fenomeno, disastroso
per le Sicilie, come esattamente aveva indicato Galiani. Ma Tanucci non poteva far a meno di registrare gli insuccessi della debole
marineria napoletana e siciliana, ed egli stesso chiedeva, ad esempio, che per il trasporto di generi d'interesse suo personale ci si
servisse di navi francesi. Esse, assicuravano un servizio molto piuÂ
rapido: infatti, per farle partire (ad esempio, da Livorno) non era
69
Galiani, Opere, (op. cit. nt. 67), pp. 881-84.
260
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
necessario che si aspettasse l'accumulo del materiale da trasportare
e la formazione dei convogli 70.
Come Galiani aveva dimostrato, e come era ben noto, i riflessi
delle razzie condizionavano la mole dei bastimenti: era normale per gli
equipaggi delle Sicilie navigare sotto costa, rifugiarsi nei porti appena
giungeva notizia di un legno piratesco nelle vicinanze. Nella peggiore
delle ipotesi, quando l'assalto nemico era quasi certo, i marinai `regnicoli' erano soliti abbandonare la feluca ed il carico, erano costretti a
«salvarsi sugli schifi», ossia su piccole imbarcazioni di scorta a remi,
molto leggere e rapidissime. Condizioni di uso che condizionavano la
mole delle navi, selezionavano il valore dei generi trasportati e ponevano comunque fuori mercato i noli e trasporti delle Sicilie.
Non vi era altra soluzione, dunque, che costruire un forte, capillare apparato di difesa militare: provvedimento impossibile data l'estensione enorme delle coste, la vicinanza delle basi piratesche, il
pulviscolo delle imprese offensive nordafricane quasi familiari e, in
primo luogo, la rigiditaÁ asfittica del bilancio statale. Non era neanche
pensabile l'unico rimedio davvero efficiente, quello adottato dai francesi, inglesi, olandesi: possedere una flotta tale da poter bombardare le
basi di partenza dei pirati. La debolezza internazionale delle Sicilie
avrebbe comunque creato una barriera contro quell'armamento: avendo l'ardire di elevare il tono e la consistenza (come poi fecero Maria
Carolina ed Acton, anche per consiglio di Ferdinando Galiani), si
sarebbe entrati, in quel caso, in un ginepraio internazionale, percheÂ
i rais nordafricani erano protetti dalle potenze marittime, le cui bandiere, essendo dai pirati obtorto collo rispettate, si assicuravano cosõÂ
l'abbattimento totale della concorrenza napoletana e siciliana; a poco
valeva il vantaggio che esse si trovavano ad operare in loco.
10. L'enorme dislivello tra le parti impedisce un equo commercio
Di fronte ad un concorrere di forze esterne cosõÂ ben coordinato
ed energico, il realismo politico di Tanucci, ammiratore di Machia70
Cfr. supra, cap. IV, nt. 65.
V. Oltre la metaÁ del secolo
261
velli, prendeva il sopravvento, e lo costringeva ad accettare le «ingiurie» della nazione cugina quasi passivamente, ma non tanto da non
nutrire seri propositi di liberarsi di una presenza ostile troppo determinata ed influente per non creare problemi. Il suo consigliere in
materia francese, Ferdinando Galiani, machiavelliano anch'egli, ma
empirista, lo aveva rafforzato nelle proprie posizioni. Secondo uno
stile di pensiero non illuministico, ma umanistico, lo statista toscano
tendeva a presentare le condizioni esistenziali, condizionate ed obbligate da forze dominanti, non giaÁ come assetti contingenti, bensõÂ
nelle forme e nei termini di strutture generali. Il gusto filosofico e
moralistico dei vecchi uomini di cultura era di tradurre la realtaÁ
precaria in essenzialitaÁ, per dare spazio a valutazioni morali, anche
se erano costretti a far buon viso al cattivo gioco. La contraddizione
tra cioÁ che «conviene» (verbo ripetuto tre volte nella lettera che
andiamo a citare), ossia tra la logica della politica ed il valore della
«amicizia vera», tradisce il disagio vissuto dal rigoroso uomo di pensiero, che vorrebbe far trionfare l'etica sulla forza:
«Convien l'amicizia, e conviene totale, convien continua, convien
costante, perche in altra maniera non puoÁ essere amicizia vera, neÂ
puoÁ produrre gli effetti dell'amicizia, ne dentro, ne fuori. Conosco
quanto eÁ la Francia piu delle Sicilie in pericolo di deviare. Grandissima, e antichissima Monarchia situata tralla Germania, il Belgio, e
l'Inghilterra, ne molto distante dalle potenze boreali, deve aver molti
vincoli, molti riguardi, molte relazioni, le quali o non appartengono
alla Sicilie, o non combinino coll'interesse di esse, o ancora a questo si
oppongano. Stolto sarebbe il pretender dalla Francia sacrificj, che
sconfinassero il sistema d'essa. Persuasi come siamo del poco che la
Francia ha da sperare o da temere delle Sicilie, restringiamo li desideri
alle cose nostre interiori, e a che il ministero francese si contenti del
grandissimo utile che li Francesi tirano dalle Sicilie col noleggio immenso del Mediterraneo, del quale quello delle Sicilie per loro eÁ una
gran parte. Si contentino delle tante loro manifatture, che nelle Sicilie
vendono zuccheri, stoffe, broccati, grisette, amoerri, velluti, drappi,
calzette, cappelli, tele, ma non vogliano ridurre le Sicilie nude, e
spogliate totalmente coll'infinito contrabando di una sussistenza modestissima di questo Sovrano, e di questa popolazione insieme, la quale
vive delli pubblici fondi acquistati dai suoi maggiori, e nei quali fondi
262
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
pubblici per le enormi contribuzioni caricate sulla gente di campagna
vanno tutti li prodotti di una terra che Dio aveva benedetta colla
fertilitaÁ, e gli uomini guastata col governo austriaco e aragonese» 71.
Il problema del commercio s'inseriva in un modello di sviluppo che
in Francia era progressivo e `moderno' e che in Italia, specialmente
nel Mezzogiorno, era regressivo, parassitario ed ambiguo. Questo
era il tema dominante, anche se non sempre esplicito, dei dibattiti
culturali del Settecento: e bisognerebbe tenerne conto, perche nel
dibattito pubblico la materia politica del contendere, da allora ad
oggi non eÁ del tutto cambiata. Un grosso scoglio, tuttavia, esiste
ancora nella comprensione di come si configurarono realmente i
rapporti tra le Sicilie ed il governo di Parigi. Gli studi di Ruggiero
Romano, poi di Biagio Salvemini e di Maria Antonietta Visceglia
hanno dimostrato che, a metaÁ degli anni cinquanta, la bilancia del
commercio ufficiale con la Francia era divenuta attiva per Napoli,
mantenendosi tale per tutto il secolo 72. Ma si puoÁ esser certi che la
serie dei dati registrati rispecchiavano fedelmente l'andamento
della bilancia reale? Se questo fosse vero, le diagnosi di Tanucci
e dei suoi consiglieri tecnici (e tra di loro eÁ da collocare non solo
Galiani, ma anche Genovesi, fino al 1769) sarebbero del tutto
errate, mentre riteniamo ch'essi avevano molto chiara la condizione stabile ed antica cui dovevano sottostare i rapporti tra i due
paesi 73. L'interpretazione tanucciana di quei fatti non eÁ dubbia:
71
A Cantillana, Napoli, 21 giugno 1766, in Epistolario, vol. XVII (1766), p. 267
(Corsivi aggiunti).
72
Ruggiero Romano, Le Commerce du Royaume de Naples avec la France et les pays de
l'Adriatique au XVIII sieÁcle, Colin, Paris 1951; B. Salvemini e M.A. Visceglia, Marsiglia e
il Mezzogiorno d'Italia (1710-1846). Flussi commerciali e complementaritaÁ economiche, prima
parte, in «MeÂlanges de l'Ecole FrancËaise de Rome. Italie et MeÂditerraneÂe», t. 103, a. 1991,
1; Id., Pour une histoire des rapports eÂconomiques entre Marseille et le sud de l'Italie au XVIIIe
et au deÂbut du XIXe sieÂcle, in «Provence Historique», fasc. 177, a. 1994, pp. 321-65; B.
Salvemini, The arrogance of the market: the economy of the Kingdom between the Mediterranean and Europe, in Naples in the Eighteenth Century. The birth and death of a nation state,
edited by Girolamo Imbruglia, Cambridge University Press, Cambridge 2000, pp. 44-69.
73
Il dubbio sulla conoscenza di questa svolta eÁ di Furio Diaz, L'abate Galiani consigliere di commercio estero de regno di Napoli, in «Rivista storica italiana», LXXX, 1968,
p. 859.
V. Oltre la metaÁ del secolo
263
«Si contenti» la Francia dei profitti provenienti dai noli, «si contenti» dei grandissimi utili tratti dallo spaccio di manifatture, ma
smetta la pratica sistematica del contrabbando. Essa impediva di
realizzare una politica di sviluppo, perche aggirava tutte le iniziative poste a sostegno della produzione locale realizzata dai governi
napoletani.
«Il contrabbando dunque resta, che il ministero francese vuol mantenere a forza, e colla sua prepotenza vuol questo Regno tributario in
tre milioni almeno annui di franchi, e va facendo allo Stato un danno
molto maggiore colla protezione della bandiera che accorda ai Genovesi» 74.
Durante tutta la metaÁ del secondo Settecento i governi di ambedue i
paesi, piu che concentrarsi sulla possibilitaÁ reale di concludere un
trattato, presero a sviluppare una dialettica formale nei porti, allo
scopo di eliminare il contrabbando dell'altra nazione e tentare di
assicurarsi una posizione di privilegio in questa materia fiscale.
Ma, com'era inevitabile, la Francia riuscõÂ a mantenere legale ed
attiva, sui carichi delle navi dell'altro paese, una pratica costante
di «visite» che aveva realizzato e consolidato da tempo immemorabile, e gli interessi delle Sicilie, bloccati da quelle apparenti formalitaÁ, e sostanziali prove di forza, non potevano che sottostare al
potere della nazione dominante. La prassi traduceva nella violazione,
ormai consueta ed irreversibile, del diritto di sovranitaÁ dei bastimenti napoletani, con ispezioni condotte manu militari. La pubblicazione
dell'immenso Epistolario tanucciano, che eÁ ancora molto lontano da
essere completo ma che ha ormai raggiunto una mole notevole e
largamente probante, offre agli storici una serie di prove molto convincenti a sostegno dei giudizi prima di Montealegre, poi di Tanucci.
La validitaÁ di quella diagnosi fu condivisa dai contemporanei di
orientamento culturale filofrancese, in primo luogo da Genovesi e da
Galiani e da esperti anticonformisti ed arditi come Intieri e Rinuc74
A Cantillana, Napoli 9 ago. 1766, in Tanucci, Epistolario, vol. XVII (1766),
pp. 372-3.
264
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
cini. La loro presenza, come portatori d'idee vicine piu alla forma
mentis di Montealegre che di Tanucci, sta emergendo sempre piuÂ
chiara da un metodo di ricerca che ridaÁ vita alla dialettica del tempo:
se si vuol estendere lo spettro di conoscenza della realtaÁ storica
occorre tener conto anche della cultura del dissenso, quale emerge
studiando i carteggi privati, dove lo scontro delle idee espresso e
motivato. Solo cosõÂ eÁ possibile evitare confusioni quasi incredibili in
cui sono caduti storici anche di eccezionale talento.
I bilanci commerciali non numerici, ossia non ricostruiti oggi in
base a serie unilaterali e di cui eÁ impossibile garantire la completezza
e la oggettivitaÁ, ma le diagnosi che nascevano dalle constatazioni
vissute dai contemporanei, negavano alla marineria napoletana ogni
possibilitaÁ di competere. Quando si sfioravano quei tasti, si raggiungeva un livello alto di spirito polemico e di sofferenza, perche le
valutazioni si proporzionavano alla gravitaÁ ed all'intensitaÁ dei problemi, piu che allo scontro politico in atto. Quella partecipazione
emotiva fu all'origine del risorgimento nazionale. EÁ stato piu volte
posto in luce il giudizio (che fu di GiosueÁ Carducci e di Giovanni
Gentile) secondo cui la profonda competenza genovesiana fece nascere la coscienza che era impossibile uscire dal sottosviluppo economico senza raggiungere l'unitaÁ nazionale; ma un'analoga valutazione, anche se piu generale, era stata giaÁ due secoli prima formulata
da Machiavelli, secondo cui un'adeguata «dimensione» dello Stato e
la sua naturale tendenza all'espansione sono i presupposti indispensabili della sua sopravvivenza.
Ma fu dopo il 1759 che nacque la coscienza di un progresso
bloccato dalla preponderanza straniera. Prima di allora il profilo del
continente meridionale era talmente basso, da nascondere tutto,
persino la stessa esistenza di quei problemi. Per dare un esempio di
come le valutazioni dei riformatori si basassero su dati concreti, basti
ricordare che il contenzioso riguardava specialmente un fattore meno
evidente e non facilmente computabile in termini economici: il volontario spostarsi dei marinai meridionali dai legni nazionali verso la
dominante flotta francese, dove, a paritaÁ di `soldo', godevano una
sicurezza esistenziale incomparabilmente maggiore. I riflessi di tutto
V. Oltre la metaÁ del secolo
265
questo sul costo delle assicurazioni metteva fuori mercato gli armatori `regnicoli' 75.
11. Il contrabbando: punto critico del contrasto ed affare di Stato
Tanucci aveva ben valutato che un aspetto dei rapporti commerciali tra la Francia e le Sicilie si collocava al centro della contesa: il
contrabbando della nazione dominante. Il fenomeno assumeva
un'importanza maggiore di quanto si possa pensare, perche diventava il fattore che bloccava, ossia rendeva stabile, il modello di sviluppo
parassitario delle Sicilie ed impediva ogni tentativo di poterlo correggere. Si valutino, ad esempio, i contraccolpi negativi che ne derivavano sui rendimenti dei fiscali e degli uffici di regio patrimonio
alienati, sia percheÂ, in un'economia parassitaria e fondata sulle «catene» del debito pubblico (P. Giannone) come quella dell'Italia meridionale, il prezzo del contrabbando era pagato dalla «gente di campagna», per l'impossibilitaÁ che essa aveva di aggirare i divieti e le
imposizioni, e dalla gente di cittaÁ, per l'aumento della pressione
fiscale a causa della scarsa redditivitaÁ degli arrendamenti frodati.
Se eÁ vero che un esito positivo alla lotta al contrabbando alla fine
avrebbe presumibilmente ridotto il volume dei traffici tra i due paesi,
tuttavia il peso che l'intera societaÁ meridionale sopportava per questo
fenomeno era di sicuro piu alto degli immediati ricavi 76.
75
Sulle assicurazioni marittime, cfr. i numerosi studi di Franca Assante, ed in particolare, Il mercato delle assicurazioni marittime a Napoli nel Settecento. Storia della ``Real
Compagnia'' 1751-1802, Giannini, Napoli 1979. Piu di recente e grazie ad un inquadramento critico molto ben centrato, Eadem, Il privegio e il rischio. Storia di un fallimento
annunziato, in «Frontiera d'Europa», 1997, n. 1, pp. 5-63.
76
Romano ha osservato che se la politica di repressione del contrabbando avesse avuto
successo il commercio franco-napoletano sarebbe diminuito e ci si sarebbe trovati di fronte
all'ostacolo che lo aveva per lungo tempo intralciato: le condizioni di privilegio tariffario
concesse all'Inghilterra e alla repubblica genovese e le clausole del trattato stipulato tra
l'Olanda e le Due Sicilie. Il problema, tuttavia, va al di laÁ dei dati economico-commerciali,
falsati da un altro piu complesso e che va ricostruito nei tempi lunghi, in rapporto alla
politica francese di alleanza con l'Oriente, instaurata fin dai tempi di Francesco I, e che
richiedeva come sua condizione indispensabile il controllo delle vie d'acqua verso est, ossia
lungo le coste italiane. La fase immediatamente precente e seguente la caduta di Tanucci fu
caratterizzata da molti equivoci: la politica francese vide nello statista toscano il nemico dei
266
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
Ma su questo aspetto eÁ lacunoso ogni giudizio che spieghi il fenomeno soltanto in rapporto al volume ed ai ricavi dell'affare illecito, senza guardare alla complessitaÁ degli altri meccanismi, alle dinamiche politiche ed agli effetti di questa attivitaÁ sulle societaÁ interessate. L'esperienza napoletana avvenuta con l'istituzione della Soprintendenza della Regia Azienda e con il conferimento a Giovanni
Brancaccio delle delegazioni degli arrendamenti, se ebbe l'effetto
d'inasprire la lotta al contrabbando, aveva da subito insinuato il
dubbio sull'utilitaÁ di misure proibizioniste.
Per Giovanni Pallante ± che scriveva nel 1737, ossia proprio
quando Brancaccio stava organizzando la sua politica in teoria razionalmente rigorosa ± i contrabbandi erano «puramente necessari»,
essendosi data, con le misure prese dal governo napoletano (la datio
in solutum del 1648), «la potestaÁ regia agli appaltatori di corte ed agli
officiali commissari e squadre di assassinare e scorticare e scomponere la gente». In conseguenza erano stati «caricati i pesi e le imposizioni di laÁ del convenevole», al punto che «se si voglia pagare le
imposizioni per intero, ed i diritti estorti dagli uffici e le maledette
formalitaÁ, si perde la maggior parte del prezzo della roba che si
contratta» 77. Pallante lamentava che la repressione del contrabbando giovava al parassitismo degli «affittatori ed ufficiali di corte»,
ossia ad una «moltitudine di assassini».
D'altra parte egli aveva giaÁ chiaro il rapporto tra il disarmo
viceregnale del Regno (ossia il crollo dell'armamento militare, fattore
che invece era ancora molto curato dagli Aragonesi) ed il collasso del
commercio. Insisteva sull'insegnamento «delle cose militari ne' colsuoi interessi, eppure, in realtaÁ, il quadro internazionale, intanto, preparava la svolta, voluta
da Acton ancor prima del 1789, e diretta alla sostituzione dell'influenza inglese a quella
francese. Ma il tentativo diretto a rimediare al trend di lungo periodo fu travolto dall'avventurismo della corte napoletana, dalla Rivoluzione e poi dalla Restaurazione.
77
Cit. da R. Ajello, La vita politica napoletana sotto Carlo di Borbone, in Storia di
Napoli, vol. VII, Ed. Storia di Napoli, Cava dei Tirreni 1972, p. 601. Questo brano era
nella vecchia ed. di Pallante, Lo stanfone, a p. 109. Ora, nella nuova ed., Giovanni
Pallante, Memoria per la riforma del regno, «Stanfone», 1735-1737, a cura e con ampia
presentazione di Imma Ascione (dal titolo «Uno ``stanfone'' per il Regno», pp. 7-110),
Guida, Napoli 1996, eÁ a p. 243. Cfr. anche supra, cap. IV, nt. 76.
V. Oltre la metaÁ del secolo
267
legi» e sulla necessitaÁ di «nobilitare la milizia», ed inseguiva l'illusoria
e fantastica immagine delle azioni di forza contro i nidi dei pirati,
sull'esempio di quanto aveva fatto Luigi XIV mandando la sua flotta
a bombardare nel 1682 Algeri 78, nonostante che quella reggenza (come poi ricordoÁ Genovesi) schierasse in prima linea i prigionieri sudditi francesi, esposti al fuoco amico: difficoltaÁ angosciosa che non
spostoÁ minimamente la violenza dell'azione militare e ne rafforzoÁ il
significato emblematico. Dunque Pallante chiedeva forza internazionale e coraggio nella difesa degli interessi nazionali: doti che non eÁ
facile acquisire ex abrupto, quando abitudini e tendenze plurisecolari
hanno consolidato la realtaÁ di rapporti internazionali sperequati e
sono diventate formae mentis di una popolazione e di un ceto politico.
EÁ da notare una coincidenza cronologica significativa, anche in
riferimento alla narrazione che saraÁ il contenuto del seguente capitolo: l'anno 1774 fu un momento critico dello scontro commerciale.
Marsiglia in special modo era divenuta un approdo malfido per le
navi battenti bandiera napoletana. Peraltro, Tanucci aveva attaccato
proprio il cuore del sistema mercantile francese nel Mediterraneo,
raddoppiando la tariffa dei diritti d'uscita delle merci regnicole non
trasportate su legni nazionali. Il 9 aprile 1774, nel corso di un burrascoso colloquio con il primo ministro, l'ambasciatore francese e
quello inglese avevano esposto le ragioni del loro dissenso per questa
misura. A muso duro Tanucci aveva loro risposto che «tous les Rois
eÂtaient les maõÃtres chez eux [...], ce droit [cioeÁ quello d'imporre tasse]
ne regardait que les marchands, ne pouvait en aucune manieÁre inteÂresser les cours». L'ambasciatore francese Breteuil, come egli stesso
racconta, avrebbe voluto controbattergli che tutte le nazioni commercianti si sarebbero subito rivoltate contro la soluzione protezionistica adottata, e che il Regno correva il rischio di trovarsi isolato
nel contesto internazionale. Tuttavia, conoscendo, da un lato, la
«purezza» etica che ispirava le azioni politiche del ministro, e con78
Per le cit. da Pallante, ivi, pp. 120 e 176 (Aragonesi), 228-9 (collegi e milizia), e
232 (Algeri).
268
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
vinto, dall'altro, che la misura non sarebbe durata a lungo, preferõÂ
non insistere 79.
Se nelle aspre dichiarazioni ufficiali, nelle confidenze agli amici
e nella concreta azione di Tanucci abbiamo visto una faccia della
medaglia delle relazioni franco-napoletane lungo la seconda metaÁ del
Settecento, l'altra faccia, quella francese, eÁ scarsamente conosciuta.
Un documento interessante dell'ideologia che ispirava la politica di
«potenza» praticata dal governo francese nei confronti delle Due
Sicilie eÁ rappresentato dalle anonime Observations relatives aux inteÂreÃts de la Cour de France aÁ Naples, datate 1776 80. In una sessantina di
79
L'azione di Tanucci diretta a sostenere la marineria napoletana incontrava (oltre
alle opposizioni esterne, qui prese in particolare considerazione) enormi difficoltaÁ interne,
poste in essere dagli interessi parassitari che si erano modellati anche in base all'assetto
internazionale. Unanimemente Genovesi ed i suoi allievi (cfr. infra, i doc. editi da Cancila,
nt. 95 e s.) notarono che fino a quando il mercato dei noli fosse rimasto `privativo' di altre
nazioni, una qualunque politica di sostegno dell'economia napoletana sarebbe fallita: chi
trasporta, impone il prezzo della merce. Intorno a questi problemi, Tanucci acquisõÂ dal
docente di commercio una chiara sensibilitaÁ specialmente dopo la caduta di Montealegre, di
cui avversava, anche per gelosia politica, lo spirito di avventura. Tuttavia, in tema di
commercio, il rapporto tra quadro internazionale ed interno era giaÁ chiaro prima delle
diagnosi di Genovesi. Eloquenti sono, a questo proposito, le quattro memorie, redatte
tra il 1732 ed il 1737, di Federico Valignani di Cepagatti (Riflessioni), di Gregorio Grimaldi (Considerazioni), di Giuseppe Borgia di Valmezzana (Relazione), ± pubblicate recentemente in «Frontiera d'Europa», a cura risp. di Giuseppe de Tiberiis, di Renata Pilati e
di Raffaele Ajello, le prime due nel numero doppio 1-2 del 2001 e la terza nel n. 2 del 2002:
cfr. in part., della terza, il cap. XI, «Del Commercio dentro e fuori regno» ± e la Memoria
per la riforma del Regno, di Giovanni Pallante, di cui infra, nt. 77). Gli statisti che
cercavano di difendere l'economia delle Sicilie erano destinati alla sconfitta dall'oggettiva
convergenza delle opposizioni internazionali ed interne. All'origine delle difficoltaÁ meridionali era la debolezza militare del regno: di qui la politica di armamento navale di Acton e
Maria Carolina, consigliata da Ferdinando Galiani e destinata a produrre il fallimento del
bilancio statale e delle banche napoletane, ossia il collasso prima interno e poi internazionale delle Sicilie. Tutto questo eÁ la riprova che i piccoli Stati non potevano realizzare una
politica di difesa dei loro interessi essendo vasi di coccio tra quelli di ferro. Come si puoÁ
leggere nell'abreÂge premesso alla Relazione di Borgia, Galiani (ispirandosi al pensiero
realistico di Machiavelli) aveva compreso appieno questa legge, ossia l'ineluttabilitaÁ dell'oppressione dei forti sui deboli, e percioÁ non chiedeva piu commercio, ma «armamento e
virtu militari».
80
A.A.EÂ., Naples, MeÂmoires et documents, vol. 1. Il documento eÁ numerato da p. 119 a
148, ma possiede una sua numerazione originale da p. 1 a 60. Anonimo, contiene annotazioni di pugno di Vergennes. Le Observations si dividono in quattro parti: MeÂmoire sur les
preÂtentions du Roi de Naples de n'eÃtre tenu aÁ aucun des traiteÂs contracteÂs par les Rois ses
preÂdeÂcesseurs, fonde sur la possession de ces Etats aÁ titre du droit de conqueÃte (pp. 123-5),
V. Oltre la metaÁ del secolo
269
pagine, corrette ed annotate di pugno dal ministro Vergennes, sono
enucleate in ordine cronologico tutte le colpe di cui si sarebbe reso
responsabile il governo borbonico nei confronti della monarchia
francese. Il documento inizia con il tono e con le argomentazioni
di chi pensa che, non solamente «il n y a plus des PyreneÂes», ma che,
con l'avvento al trono napoletano di Carlo di Borbone, «il n'y a pas
des Alpes, ni des Appennines»:
«lorsque la France a procure l'eÂtablissement d'un Prince de la maison
de Bourbon sur le troÃne des deux Siciles, elle s'est flatteÂe sans doute
que le nouveau Roi, inspire par la reconnaissance, et par la notion de
son inteÂreÃt, aurait pour elle toute la deÂfeÂrence convenable, et qu'il
formerait entre les deux couronnes un lien, d'autant plus durable,
qu'il serait assure par l'avantage commun» 81.
Secondo l'estensore della memoria, la falsa opinione del principio di
sovranitaÁ nazionale per diritto di conquista portoÁ Carlo di Borbone
ed il suo ministero ad allontanarsi dalla strada della giuste relazioni
con la famiglia dei Borbone di Francia:
«la cour de Naples fournit, peut eÃtre, le premier exemple d'un prince
sans Etat qui aurait gagne une couronne par les secours d'autres
puissances, pour les regarder ensuite comme libre de tout engagement avec elles, parce qu'on Lui donnait les moyens de conqueÂrir
son Royaume» 82.
Un'ingenuitaÁ commessa dalla corte francese fu invece di non prevedere nel trattato di pace del 1738 un'esplicita norma regolatrice
dei rapporti tra le due nazioni. Allora, da parte francese «on s'est
contente de garantir au nouveau Roi les secours de la France et de
l'Espagne» 83. Ma l'Infante aveva conquistato il trono in nome e per
MeÂmoire sur les griefs que la Cour de France a justement aÁ reprocher aÁ celle de Naples (pp. 12529), MeÂmoire sur les avantages qu'offre le commerce des deux Siciles (p. 129-31), MeÂmoire sur
les inconveÂnients qui reÂsulteraient de la visite des baÃtiments francËais dans les Etats de sa majesteÂ
sicilienne (p. 131-48).
81
Ivi, MeÂmoire sur les preÂtentions du Roi de Naples, p. 123v.
82
Ibidem.
83
Ibidem.
270
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
conto di suo padre Filippo V e, pertanto, «le royaume de Naples et
de Sicile ont eÂte reÂunis aÁ la monarchie espagnole. Les traiteÂs qui
existeÁrent entre Sa majeste catholique pour tous ses Etats avec les
puissances eÂtrangeÁres comprennent les dites Royaumes» 84. Invece,
«Le ministeÁre napolitain ne tarda pas aÁ adopter un systeÁme destructif
des avantage de cette conqueÃte. Il eÂtablit hautement [? o falsamente]
comme le principe de ses mesures avec les puissances eÂtrangeÁres, que
le roi de Sicile posseÁdent ses Etats par droit de conqueÃte, et n'eÂtant
tenu a aucun des engagements signeÂs par les Rois ses preÂdeÂcesseurs» 85.
Rispetto alle argomentazioni usate dalla diplomazia francese per la
Spagna ± nelle quali il topos centrale rimaneva quello arcaico di una
questione dinastica regolata da un diritto familiare ± i riferimenti
agli obblighi del regno di Napoli verso la Francia vengono in questo
MeÂmoire ricondotti tutti all'interno della logica di un diritto internazionale, come quadro di riferimento supremo. Alla base di questo
diritto si collocava una questione di «morale» politica: le Sicilie
erano tornate alla Spagna perche occorreva far fronte ad una probabile rottura justi potentiae equilibrii in Italia per «le pouvoir exorbitant de la Maison d'Autriche» 86. Ma le Sicilie erano da subito
divenute nemiche delle logiche dello sviluppo economico francese, e
il suo ministero «osa enfin porter un coup deÂcisif par l'eÂdit du Roi
Charles pour la formation d'un tribunal du commerce en 1739» 87:
«ces eÂtablissements eÂtaient contraires aux privileÁges des nationaux,
autant [...] des eÂtrangeÁres. Les premieÁres profiteÁrent d'une circonstance heureuse pour deÂterminer sa majeste sicilienne aÁ reteindre les
faculteÂs de ce tribunal, sur tous les points ou il leur reÂussit».
84
Ivi, p. 125v.
Ivi, p. 119v. A margine eÁ scritto che di quest'atteggiamento s'erano sempre lamentati gli ambasciatori francesi a Napoli.
86
A margine, Vergennes segnalava che l'articolo del preliminare del trattato in questione prevedeva che «le Royaume de Naples et de Sicile appartiendront au Prince qui en
est en possession, et qui sera reconnu Roy par toutes les puissances qui prirent part aÁ la
pacification»: ibidem.
87
Ivi, p. 120. L'ostilitaÁ francese contro quella magistratura ne prova la validitaÁ.
85
V. Oltre la metaÁ del secolo
271
12. Vergennes contro la giurisdizione napoletana di commercio
Le circostanze relative alla nascita del Supremo Magistrato del
Commercio, lo spirito per il quale era stato creato e le vicende
successive alla sua introduzione sono state descritte con efficacia
da Raffaele Ajello 88. Istituita proprio sul modello francese, questa
magistratura s'inquadroÁ nell'ampia politica realizzata da Montealegre al fine di rilanciare la produttivitaÁ delle Sicilie. La strategia fu
sviluppata sul versante interno e su quello internazionale.
Sul piano della politica interna, la creazione del Supremo Magistrato del Commercio ed ancor piu dei Consolati di terra (che si andavano ad aggiungere a quelli di mare giaÁ esistenti), avrebbero dovuto
sottrarre la materia commerciale alle vecchie magistrature, realizzando una giustizia dotata di specifica competenza, rapida ed efficiente. Il tentativo s'inquadra nella strategia diretta a sviluppare la
produzione economica del Regno ed il commercio internazionale.
Per ottenere questo scopo era necessario sia creare un organo tecnico
e giurisdizionale, diretto per un verso ad individuare gli intralci alla
produttivitaÁ ed a consigliare al governo provvedimenti per migliorarla, e per un altro verso capace di rimediare alle lungaggini del
sistema giudiziario napoletano. Inoltre, mediante le sezioni periferiche, s'infliggeva un duro colpo alle corti feudali.
L'iniziativa era chiaramente ispirata al modello che era stato
faticosamente realizzato in Francia dal cancelliere Michel de l'Hospital tra il 1560 ed il 1563 a Parigi ed in molte altre cittaÁ del reame.
Alla istituzione napoletana furono attribuiti analoghi compiti, nel
quadro di una politica di rilancio dell'economia e del commercio. Ma
mentre in Francia l'audace iniziativa del cancelliere aveva suscitato
una serie interminabile di resistenze da parte dei parlamenti, che
erano stati privati di un potere esclusivo gelosamente custodito, nei
88
Sulla istituzione di questa magistratura (30 ott. 1739), gli ampi compiti giurisdizionali, la lotta intrapresa contro di esso dalle magistrature ordinarie e dalla feudalitaÁ, e la
progressiva riduzione delle sue funzioni in coincidenza del «tramonto del ``tempo eroico''»,
cfr. R. Ajello, Il problema della riforma giudiziaria e legislativa nel Regno di Napoli durante la
prima metaÁ del secolo XVIII, I, La vita giudiziaria, Jovene, Napoli 1961, pp. 146-68 e La vita
politica napoletana cit. in nt. 77, pp. 650-1.
272
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
regni di Napoli e di Sicilia (dove le opposizioni dei togati furono
altrettanto forti e nel giro di pochi anni prevalsero, portando ad un
drastico ridimensionamento della magistratura) il nuovo tribunale
suscitoÁ in particolare la reazione della feudalitaÁ 89.
Dalla riforma, voluta da Montealegre e realizzata da Francesco
Ventura e da Pietro Contegna, fedeli amici di Giannone, fu dunque
particolarmente colpita la giurisdizione baronale, poiche il rito semplificato, il minor costo della procedura e le maggiori garanzie delle
nuove magistrature periferiche, cosõÂ istituite, sottrassero una parte
cospicua di potere giurisdizionale alla feudalitaÁ, e dimostrarono che
lo stato era anche lõÂ presente. I risultati della riforma furono molto
positivi, tanto eÁ vero che NiccoloÁ Fraggianni, dall'inizio ostile al
tentativo, riconobbe i meriti della magistratura, e scrisse: il Consolato «che qui [a Napoli] si eÁ stabilito si sperimenta giaÁ profittevole».
Contemporaneamente lo stesso giurista e magistrato pugliese si adoperoÁ a far pervenire al principe Bartolomeo Corsini «i lumi necessari
per poter riuscire questo nuovo magistrato in sollievo quiete e beneficio del pubblico» anche in Sicilia 90.
In ambito internazionale il segretario di Stato Jose JoaquõÂn de
Montealegre, marchese e poi duca di Salas, puntoÁ sul momento
particolarmente felice dei rapporti tra la madre patria spagnola e
le Sicilie per tentare quanto lo stesso imperatore Carlo VI si era
adoperato a realizzare in varie occasioni, con esiti fallimentari. Lo
statista sivigliano, uomo di cultura moderna afrancesada, d'accordo
con Genovesi e con la migliore scienza economica e politica del
Mezzogiorno continentale ed insulare, era convinto che l'involuzione delle Sicilie derivasse dalla debolezza della sua economia nel
quadro degli spietati rapporti di forza dominanti nel Mediterraneo
centrale 91. Tutta la parte bassa dello Stivale, dal Garigliano a Pan89
Sull'istituzione di questa magistratura in Francia, cfr. L. Petris, La plume et la
tribune. Michel de l'Hospital et ses discours (1559-1562), Droz, GeneÁve 2002.
90
NiccoloÁ Fraggianni, Lettere a B. Corsini (1739-1746), a cura di Elia del Curatolo,
Jovene, Napoli 1991, let. XXX, pp. 66-7, 16. gen. 1740.
91
Supra, nt. 79. Con Tanucci l'accordo fu in gran parte limitato dallo scontro delle
due politiche personali e divenne pieno in una fase, per cosõÂ dire, `postuma', ossia successiva al 1746, ossia alla caduta del governo di Montealegre.
V. Oltre la metaÁ del secolo
273
telleria, era stretta a tenaglia da una duplice pressione: del sottosviluppo islamico nordafricano e dalmata, esportato attraverso le
razzie piratesche, e dalla protezione che a quelle imprese espoliative
era accordata a piene mani dalla potenza francese. Quest'ultima
ricavava due chiari vantaggi da quell'alleanza, uno diretto ed uno
indiretto: l'efficace penetrazione commerciale nelle instabili organizzazioni politiche islamiche, che vivevano prevalentemente di
pirateria, e la quasi totale preclusione all'autonomo sviluppo dei
noli ed in genere delle attivitaÁ mercantili delle Sicilie, stato di fatto
per cui l'economia del Mezzogiorno era tenuta ad un livello di
dipendenza coloniale, di cui si avvantaggiava il commercio francese.
Quando si nota la positivitaÁ del bilancio commerciale napoletano
a vantaggio del grande Paese transalpino, bisogna tener presente cioÁ
che due acuti osservatori siciliani scrissero alla fine degli anni ottanta: frase giaÁ in parte riportata in questo libro, ma cui eÁ necessario dare
la massima importanza perche in poche righe sintetizza il punto
focale dei rapporti economici tra la Francia e le Sicilie:
«Le nostre derrate tanto vagliono quanto gli esteri incettatori vogliono che valessero»; la nostra economia «viene offesa e ridotta al
niente dalla pirateria dell'Africani, e diressimo meglio se diressimo
dalle avide mire di alcune nazioni europee, che la fomentano per il
vantaggio del loro commercio» 92.
Situazione di dipendenza coloniale, di cui era chiara l'influenza
sull'involutivo modello sociale: «le vessazioni continue [...], avendo
scoraggiata la nazione, l'hanno intieramente distolta dal proficuo
esercizio della nautica», e agiscono come una palla al piede sui progressi delle manifatture e del commercio 93. Il circolo vizioso cosõÂ instaurato avrebbe potuto esser spezzato solo se il regno di Napoli
avesse potuto mettere in campo un forte potere militare marittimo:
tentativo cui si pensoÁ piu tardi, per effetto delle velleitaÁ di potenza
92
Cit. da Orazio Cancila, Problemi e progetti economici nella Sicilia del riformismo,
cit. cap. IV, nt. 61, p. 231 e p. 230.
93
Ibidem.
274
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
di Maria Carolina, consigliata da Ferdinando Galiani e da Acton.
Per alcuni aspetti i rimedi furono peggiori del male. Nel primo
decennio del regno indipendente Montealegre, uomo di Stato avventuroso ed ardito al limite della temerarietaÁ, si fidava anche troppo dell'appoggio militare spagnolo. Tra il 1735 ed il 1744, il governo
napoletano cercoÁ di sottrarre le Sicilie alla condizione di passiva
sudditanza economica dalle grandi potenze economiche e marittime:
in effetti la sua azione fallõÂ ad opera dei nemici interni, non delle
potenze estere. Il re Carlo fu sempre ostile all'idea d'impegnarsi su
quel terreno minato, che era del tutto estraneo alla sua vecchia e
statica visione nel mondo, e quindi della sovranitaÁ.
A riprova che l'iniziativa napoletana diretta a creare una magistratura commerciale aveva investito un punto cruciale dei rapporti
internazionali delle Sicilie disponiamo ora dei documenti di parte
francese: eÁ significativo che il ministro Vergennes si soffermoÁ molto
attentamente su quell'episodio ed aveva notizie precise di quei precedenti molto lontani nel tempo. Il suo interesse mostra che quel
governo vigilava affinche il Mezzogiorno continuasse a fungere da
zona di espansione per l'economia nazionale: in particolare il Sud era
una riserva di materie prime a buon prezzo ed un mercato sostanzialmente libero per le manifatture. Gli impedimenti e gravami doganali napoletani addirittura giovavano, perche incrementavano il
livello dei prezzi, ed erano facilmente aggirati grazie o al piccolo
cabotaggio, indirizzato direttamente verso le fiere, o al contrabbando, praticato negli stessi porti, con legni di elevato tonnellaggio, il cui
carico era nascosto dal divieto di visite a bordo.
Prima Montealegre, poi Tanucci avevano cercato d'invertire la
tendenza ad accettare passivamente tutto questo; ma l'inerzia era
l'effetto anche di un certa insensibilitaÁ culturale e mentale per i temi
del commercio e della produttivitaÁ. Era un atteggiamento tipico di
una societaÁ dominata da due ceti, gli ecclesiastici ed i togati, entrambi impegnati ad esaltare le loro immagini sacerdotali, ed a procurarsi da vivere con eccessi di pudore e di finzioni; comportamenti
che si trasmettevano alle mentalitaÁ collettive, e creavano false scale
deontologiche e gravi ambiguitaÁ. Erano gesti gravi, perche si aggiun-
V. Oltre la metaÁ del secolo
275
gevano al finto disinteresse per la ``vil moneta'', che era stato tipico
della spiritualitaÁ medievale e che era rimasto proprio della nobiltaÁ
(un tempo formato da uomini di spada, ed allora da redditieri). In
definitiva tutti tendevano a mostrare di non sapere e di non voler
badare a questioni ed attivitaÁ definite volgari, ed vantarsi di quella
incapacitaÁ. Lo stesso Tanucci finiva per esserne condizionato. Re
Carlo era l'immagine vivente di quel tipo di gestione economica.
Non a caso la stessa storiografia meridionale d'indirizzo idealistico
riprodotto inconsciamente segni di fastidio spirituale e morale che
erano tipici dell'antico regime, e mentre ha esaltato le complicazioni
gratuite di filosofi spesso visionari, come Vico, ha trascurato o considerato con sospetto e con evidente moralismo i rari tentativi diretti
ad invertire quelle inclinazioni ataviche. Questi sono segni di una
forma mentis in parte ancor oggi persistente, e che va corretta.
Il presidente del Supremo Magistrato del Commercio, uomo
d'intelligenza e di cultura superiore, universalmente stimato (anche
da Vico che gli dedicoÁ il De Uno e da Doria che scrisse per lui
l'importante trattato Del Commercio), fu accusato di aver creato
quella magistratura mercantile solo per riacquistare il forte potere
che aveva avuto nel Collaterale fino alla primavera del 1735, quando
quel Consiglio fu soppresso. Pietro Contegna, in una Memoria ancora inedita, difese il collega e dimostroÁ la validitaÁ dell'iniziativa, che
circa quarant'anni piu tardi, nel 1776, ancora Vergennes considerava per gli interessi francesi un pericolo, contro cui la diplomazia
parigina si era a suo tempo adoperata con ogni mezzo.
Egli ricordava la continua contrattazione tra poteri sulla materia dei limiti della magistratura commerciale napoletana, e citava
l'esempio della «componenda» ottenuta dalla CittaÁ di Napoli nel
1746, «aÁ l'occasion de la demande d'un don gratuit» 94. Com'eÁ noto,
i donativi erano gli strumenti mediante cui i difensori dello status
quo ottenevano che esso fosse appieno restaurato ogni volta che era
94
MeÂmoire sur les preÂtentions du Roi de Naples, cit. in nt. 80, a margine, p. 120r: «On
peut juger par les remontrances de la ville de Naples aÁ Sa majeste sicilienne en 1746, aÁ
l'occasion de la demande d'un don gratuit». L'episodio eÁ ricostruito da Ajello, La vita
politica napoletana, cit. in nt. 77.
276
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
stato anche minimamente scalfito. Alle pressioni interne s'erano
sommate quelle delle «nazioni amiche commercianti», dove, per
Tanucci, governava il connubio mercantilismo-assolutismo: come
dire la logica della sopraffazione contro il diritto delle genti, la
prepotenza di una ragion di Stato che avrebbe continuato a trionfare
su un'Italia da tempo coinvolta in una crisi allora irreversibile:
«on sentit en France les inconveÂnients qui doivent reÂsulter du tribunal de Commerce. On fit de des repreÂsentations au ministeÁre napolitain, qui fit envisager ces eÂtablissements sur un point de vue avantageux, de sorte que la cour de France y consentit sur les conditions
annonceÂes par celles de Naples» 95.
Da quel momento ± lamentava ancora Vergennes ± «le ministeÁre
napolitain n'a jamais abandonne son systeÁme, et ne s'est jamais eÂcarte du principe sur le quel il part» 96. Mancava l'interesse francese a
stipulare un trattato di commercio tra le due nazioni. Bisognava
fingere di voler condurre le trattative e procrastinarne sine die la
conclusione. Un riferimento di Vergennes riguarda approcci ufficiali
realizzati negli anni 1751-1755: vi lavorarono congiuntamente il
marchese Fogliani e l'ambasciatore marchese Pierre Paul d'Ossun 97.
Ma i personaggi coinvolti nelle discussioni non parevano ne d'alto
profilo, ne concludenti. Nell'ambiente degli Affaires EÂtrangeÁres del
Vergennes le quotazioni dell'ambasciatore d'Ossun erano basse.
Una spia in Spagna lo aveva informato che il d'Ossun, avendo risieduto «aupreÁs du Roi d'Espagne depuis plus de vingt ans sans interruption et sans eÃtre revenu en France», era alla fine divenuto «plus
espagnol que francËais». SiccheÂ, egli «regarde la protection particulieÁre du Roi d'Espagne comme l'appui le plus suÃr pour conserver son
ambassade», e «en conseÂquence il ne s'occupe essentiellement comme
95
A margine: «M. de Maurepai, ministre de la Marine, le manda positivement par une
deÂpeÃche aÁ M. de l'Hopital, qui lui avait adresse un meÂmorial relatif aÁ l'eÂtablissement du
Tribunal du Commerce» (p. 120r).
96
Ivi, p. 120v.
97
Ibidem. A margine eÁ scritto che non si trova di questa elaborazione alcuna traccia
dei depositi del ministero degli affari esteri, ma si afferma che M. l'Hopital e D'Ossun
erano intervenuti nella stesura del testo.
V. Oltre la metaÁ del secolo
277
M. de Grimaldi qu'aÁ plaire aux Espagnols». Inoltre, egli teneva un
comportamento «passif» nel negoziare con la Corte spagnola. Infine,
l'espion aveva concluso il suo ritratto con una dichiarazione sull'assoluta mancanza di professionalitaÁ del diplomatico francese: «on ne
veut pas dire que M. D'Ossun trahõÃt pour cela son ministeÁre. Il en est
tout aÁ fait incapable. C'est un treÁs honneÃte homme» 98.
Quando Tanucci sostituõÂ Fogliani nella segreteria di Stato agli
Esteri, il 1ë giugno 1755, inizioÁ una fase di stasi nelle discussioni sul
trattato commerciale, riapertasi bruscamente durante il periodo
1762-1763. Tanucci aveva intenzione di praticare un certo rigore,
a suo giudizio il massimo, ma che in realtaÁ era soltanto (sul piano
razionale e prescindendo dalle circostanze) il minimo: dunque poca
cosa, ma totalmente nuova e giudicata dai francesi blasfema. Infatti,
dopo una fase di stasi, i rapporti tra i due paesi peggiorarono, percheÂ
«le ministeÁre napolitain par une longue expeÂrience est devenu plus
hardi». Affermazione tanto significativa quanto compromettente,
perche ammetteva che l'esperienza aveva fatto nascere l'ardimento:
strategia giaÁ adottata da Montealegre e da Parigi temuta.
Da allora in poi la diplomazia francese, cosciente che non erano
favorevoli ai suoi interessi le nuove condizioni create dalla presenza
di un personaggio dal carattere solido, scorbutico, scostante e da una
gestione politica che cercava di migliorare il suo livello di razionalitaÁ
e d'indipendenza, adottoÁ la pratica della dilazione e dei «veti incrociati», usata anche dagli inglesi. Rispetto a questi ultimi, tuttavia, la
politica francese era del tutto diversa, perche era netta la differenza
delle rispettive condizioni geografiche. Gli albionici erano soliti
praticare (come Galiani descrisse, e lo si eÁ visto) il contrabbando nei
confronti delle coste e delle popolazioni ad esse prossime, mentre
con le Sicilie cercavano di stipulare patti, e (logicamente) li volevano
A.A.EÂ., Espagna, MeÂmoires et documents, Observations particulieÁre sur le MinisteÁre
d'Espagne, datate 24 novembre 1773, vol. 207, p. 153v. Anonime, tuttavia l'autore potrebbe essere individuato attraverso alcuni dettagli da lui rilevati sulla sua attivitaÁ, essendo
un membro dell'ambasciata francese in Spagna. Egli dice infatti: «Je n'ai pont vu toute la
correspondance avec la Cour de Madrid. Je ne connais bien que celle qui a rapport aÁ la
deÂlimitation de deux Navarres dont Monseigneur (cioeÁ d'Ossun ndr) m'a charge».
98
278
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
iniqui, leonini, perche non si eÁ mai visto una pecora che prova a
vessare una belva. I trattati non pervenivano a conclusione per altri
motivi: la ricompra napoletana degli arredamenti, avviata tra mille
difficoltaÁ, procedeva in modo disordinato e non era possibile offrire
alla controparte inglese le condizioni chiare e stabili, che essi, abituati a programmare ed a far calcoli esatti, richiedevano.
Eugenio Lo Sardo, che ha studiato con eccezionale acume e su
fonti archivistiche inglesi l'andamento delle trattative tra Londra e
Napoli, riferisce le opinioni di Giuseppe Palmieri, il piu realista degli
illuministi meridionali: «I trattati non convengono ai popoli deboli: i
patti non sarebbero convenzioni della volontaÁ libera delle parti, ma
leggi dettate dalla piu potente imposta alla piu debole» 99. Lo stesso
governo inglese, secondo Galiani, aveva dichiarato durante la guerra
dei Sette anni «di non conoscere il diritto delle genti»: fantastico codice, ad essi ignoto, che comunque non aveva «luogo nel suo paese» 100.
EÁ un'affermazione di cui eÁ da lodare la sinceritaÁ, dote che i
francesi non potevano mettere in mostra perche non potevano riconoscere e dichiarare la veritaÁ, che invece eÁ rivelata da Lo Sardo: essi
traevano giovamento dagli «alti dazi» posti da Napoli, grazie a cui le
merci di contrabbando ricevevano un'aggiunta di prezzo oltretutto
comoda ed economica da esigere 101. I francesi non avevano interesse
a forzare la mano sul piano dei diritti del leone: si mostravano miti,
distratti ed incerti, poiche potevano aggirare gli ostacoli ed ottenere
risultati migliori senza stipulare patti. Essi erano in una situazione
simile a quella in cui si trovavano le reggenze nordafricane: era
impossibile compensare il reddito delle rapine, e gli eventuali accordi e pagamenti valevano solo come corruzione personale dei rais,
personaggi che tuttavia cambiavano continuamente, e di rado per
morte naturale. La corruzione era impensabile nelle trattative con i
francesi: questa era una differenza basilare, che poneva le Sicilie in
un mondo nettamente diverso, rispetto a quello transalpino.
99
E. Lo Sardo, Napoli e Londra nel XVIII secolo. Le relazioni economiche, Jovene,
Napoli 1991, cit. p. 360.
100
Galiani, Opere, op. cit. (nt. 67), p. 719.
101
Lo Sardo, op. cit., nt. 104, p. 362.
V. Oltre la metaÁ del secolo
279
13. Il minuetto diplomatico dei francesi
Il MeÂmoire di Vergennes venne steso proprio nel pieno delle
trattative ufficiali degli anni 1769-1777, iniziate sotto Tanucci e
continuate dal Sambuca. Ma su questo argomento centrale della
politica estera del regno di Napoli di quegli anni torneremo piuÂ
avanti in maniera piu diffusa. Per ora basti accennare all'atteggiamento d'insofferenza del Segretario di Stato francese per i comportamenti assunti da Tanucci: «il n'aurait d'autre appui pour leur
garantir ses EÂtats que celui de l'Espagne, qui sera toujours insuffisant», e «si le Roi de Naples renonce aux traiteÂs, il fait une deÂclaration de guerre» 102. Salvo poi a rifiutar il progetto napoletano di
trattato commerciale, ricevuto, tra la fine del 1777 e i primi del
1778. In quel momento ± a dire di Ferdinando Galiani ± «si manifestoÁ subito di quanta poca sinceritaÁ erano state le offerte di prontezza del conte di Vergennes»:
«non volle piu sentirne parlare. Mai non ho avuta comunicazione di
quali precise parole si fosse servito quel ministro per distogliersi dal
venire ad una conclusione, che si trovava essersi sbilanciato a promettere. Solo mi fu detto in generale aver egli risposto che le occupazioni della guerra ardente coll'Inghilterra gl'impedivano di applicarsi ad altri oggetti» 103.
Come nei minuetti, la diplomazia francese faceva un passo avanti
ed uno indietro: questo era il movimento apparente, mentre quello
reale si svolgeva lungo le coste meridionali. Rispetto alla nuova posizione assunta in politica estera da Louis XVI, l'idea di fondo
concepita da Broglie, e diretta a realizzare un'unione intima delle
corone borboniche, appariva veramente arcaica: se dal protettorato
spagnolo le Sicilie fossero passate sotto la sfera d'influenza austriaca, per gli interessi francesi la questione non sarebbe cambiata afA.A.EÂ., Naples, MeÂmoires et documents, MeÂmoire sur les preÂtentions du Roi de Naples
de n'eÃtre tenu aÁ aucun des traiteÂs contracteÂs par les Rois ses preÂdeÂcesseurs, cit. nt. 80, p. 122r.
103
F. Galiani, Breve racconto di quel che eÁ a mia notizia rispetto al Trattato di navigazione e commercio colla Francia, pubblicato da Diaz, L'abate Galiani, cit. in nt. 73, p. 909.
102
280
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
fatto. Non si vede perche Vienna avrebbe messo a rischio il cuore
centroeuropeo della sua politica per un vecchio sfogo di pelle che
creava un sia pur forte prurito alle sue estremitaÁ meridionali. La
strategia s'inquadrava in una logica globale: da Fleury in poi, l'idea
che la Francia non avesse da operare una politica d'accrescimento
territoriale s'era andata pian piano imponendo. La monarchia francese doveva trarre la propria supremazia in Europa dal ruolo di
arbitro tra le nazioni europee, in una continua ricerca di un equilibrio politico. La ricchezza dello Stato e le bonheur dei sudditi erano
oramai legati al tesoro del commercio marittimo e coloniale. Liberata la Francia dai conflitti continentali, la sua classe dirigente
avrebbe dovuto solamente incrementare e proteggere ogni attivitaÁ
commerciale nazionale, per via diplomatica o manu militari.
In un percorso governativo lungo piu di un trentennio, tre ministri degli esteri ± Choiseul, d'Aiguillon e Vergennes ± dimostrarono
di non essere «meglio disposti d'animo verso Tanucci, e verso le
Sicilie». E in Francia la leggenda nera sul ministeÂriat di Tanucci
continuoÁ anche in anni piu lontani e in contesti politici oramai notevolmente mutati. L'11 floreale dell'anno quarto della Rivoluzione
francese, nel ricordare i rapporti franco-napoletani negli anni Settanta, con il tono requisitorio della damnatio memoriae, fu scritto:
«Il n'a jamais existe des TraiteÂs de commerce entre la France et
Naples. Les francËais, au contraire, longtemps avant la ReÂvolution
furent constamment exposeÂs aux vexations les plus reÂvoltantes dans
les ports des Deux Siciles. Nos consuls meÃmes se virent deÂpouilleÂs
d'une partie de leurs privileÁges par la malveillance du premier ministre
Tanucci. [...] Cependant l'ancien gouvernement fit proposer en 1772
aÁ celui de Naples par le Baron de Breteuil un traite de Commerce
qu'on regardait comme l'unique moyen de mettre un frein aÁ la malveillance de Tanucci, et de soustraire les marchandises aux droits
excessifs dont elles eÂtaient graveÂes. Mais ce ministre despote parvint
par son influence aÁ empeÃcher l'ouverture de cette neÂgociation» 104.
104
A.A.EÂ., Naples, MeÂmoires et documents, vol. 5, Du deÂpoÃt des relations exteÂrieures le
11 floreÂal an 4me (pp. 304r-5v).
V. Oltre la metaÁ del secolo
281
Le nazioni forti, quando hanno realizzato una posizione dominante
sul commercio dei paesi deboli, contraggono una specie di habitus
ad esercitare quella coazione, e giudicano un'offesa da punire con le
armi i tentativi di sottrarsi a quella dipendenza. EÁ una legge che
ebbe vigore costante durante l'Antico Regime e fu contraddetta
soltanto da pochi intellettuali cosmopoliti, ad esempio da Rousseau 105. Uomo di un genio esemplare, dimostrato anche in questa
occasione: egli non cadde nell'inganno di giudicare che fosse una
realtaÁ abortiva e contro natura ogni forza vitale, di ogni singolo e di
ogni popolo, ossia che fosse in genere da condannare la tendenza
della vita ad esser vissuta. Questi idioti ostracismi sono scelte moralistiche in realtaÁ molto nocive, poiche servono a nascondere la
veritaÁ ed a confondere le menti, in base alla (ben fondata) convinzione che quanto piu le idee diventano astratte, metafisiche, confuse, tanto piu si prestano ad essere eterodirette, ossia strumentalizzate. Il collaudo sperimentale sottrae le vittime ai santoni, che
possono dominare le menti solo rendendole inerti mediante l'oppio
delle posizioni non dimostrabili. Il sacerdote Antonio Genovesi
trasse dalla stessa linfa culturale, circolante nella vecchia quercia
europea, un realismo ideale simile a quello di Rousseau. Il maestro
comune fu Machiavelli.
Il Ginevrino, ligio e fedele al suo realismo ideale, comprese che
dalla concretezza dello Stato, quando eÁ (come era in Francia) espressione di un patto sociale liberamente condiviso, nasce anche la superiore concordia globale, ossia la valutazione fraterna delle esigenze vitali presenti ed incoercibili in ogni uomo, dovunque si trovi a
vivere. Il problema del terzo millennio eÁ la globalitaÁ, ed eÁ tanto piuÂ
sentito da ciascun popolo quanto piu la religiositaÁ metafisica si sia
105
«Considerando i nostri bei discorsi e i nostri orribili modi di procedere, tanta
umanitaÁ nei princõÂpi e tanta crudeltaÁ nelle azioni, una religione cosõÂ dolce e una cosõÂ
sanguinaria intolleranza, una politica cosõÂ saggia nei libri e cosõÂ dura nella pratica, dei
capi cosõÂ benefici e dei popoli cosõÂ miserabili, dei governi tanto moderati e delle guerre
tanto crudeli, a mala pena si riesce a conciliare queste strane contraddizioni: e la pretesa
fraternitaÁ dei popoli europei sembra solo un termine derisorio, usato per esprimere ironicamente la reciproca animositaÁ»: Jean-Jacques Rousseau, Scritti sull'Abate di Saint-Pierre, in
Idem, Scritti politici, a cura di Maria Garin, vol. II, Laterza, Bari 1971, p. 324.
282
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
tradotta in religione civile. Questa eÁ l'idea di Rousseau. PercioÁ la
transizione attraverso il culto della famiglia e poi una fase d'imperialismo nazionale costituiscono un percorso obbligato, imposto dal
senso innato della concretezza, che si soddisfa, si sazia, e chiede di
piuÂ, ossia postula ulteriori esigenze coerenti, piu ampie e piu alte: ma
cioÁ avviene solo se alla base di tutto sono posti sentimenti autentici,
non falsitaÁ.
La caduta di Tanucci s'iscrive nel trend di lunga durata, che per
alcuni, non marginali, aspetti di carattere economico internazionale
qui si eÁ cercato di tratteggiare. Quel ciclo ebbe inizio nel 1739,
quando si tentoÁ di avviare per le Sicilie una politica di recupero
dell'imprenditoria commerciale (anche con la prammatica del 1740
per il richiamo degli ebrei). La reazione contro il Supremo Magistrato del Commercio, espressa da un voto del Parlamento di Palermo,
fu giaÁ un momento della opposizione che poi il partito siciliano
avrebbe esercitato contro Tanucci e che prevalse totalmente solo
alla fine del 1776. La `tutela' economica sulle Sicilie, esercitata dal
governo francese ± influenza che era chiara a Tanucci e fu da lui
limpidamente espressa nella citata lettera a Cantillana (21 giu.
1766) ± fu un motivo costante ed ineluttabile, che ebbe le sue origini
ai tempi di Francesco I: fu richiesta dalla strategia del re Cristianissimo orientata verso est e diretta a creare un ponte tra la Francia e la
Porta ottomana. Alleanza con Venezia e soggezione delle Sicilie:
questi furono i capisaldi di quella politica. Di qui la protezione alla
pirateria nordafricana, i reiterati tentativi di riconquistare il regno
di Napoli dopo il crollo dell'estate 1528. Allora il fallimento della
spedizione francese del Lautrec e subito dopo il passaggio di Andrea
Doria dalla parte di Carlo V, nell'autunno di quell'anno, indussero
Francesco I a potenziare i vincoli con la potenza ottomana. L'influenza diplomatica poteva di piu di quanto non si realizzasse con gli
interventi armati.
D'altra parte, lo stesso Carlo III, dopo la caduta del governo
tanucciano, ch'egli non seppe evitare, si rese conto di doversi occupare di piu della `vile' materia commerciale. Nel 1778 Cadice, dov'era concentrata la piu importante colonia di case mercantili fran-
V. Oltre la metaÁ del secolo
283
cesi, fu privata di un netto privilegio, la gestione quasi esclusiva sul
commercio con le colonie. In seguito i ministri di Carlo III soppressero i vantaggi fiscali goduti da alcune manifatture francesi e, nel
1782, fu adottata una nuova tariffa doganale che intendeva proteggere le manifatture spagnole 106.
Nel periodo che corre tra la Dichiarazione americana d'indipendenza (4 luglio 1776) e l'anno 1783, Francia e Spagna fecero fronte
comune contro l'Inghilterra, con il pretesto di sostenere gli insorti
delle tredici colonie d'oltre Atlantico. Ancora prima del suo ingresso
in guerra, avvenuto nell'aprile 1779, la Spagna aveva infatti deciso
quella politica di appoggio alle rivendicazioni antinglesi. Dal 1776 al
1777 il conte d'Aranda, ambasciatore spagnolo in Francia, aveva
rimesso a Vergennes tre milioni di lire tornesi, destinate alle societaÁ
di Caron de Beaumarchais che rifornivano mercanzie ai rivoluzionari americani 107. In seguito la guerra fu sostenuta finanziariamente
in Spagna dal progetto di FrancËois Cabarrus: anche in questo caso
con la compartecipazione massiccia di capitali francesi 108.
14. Conclusioni: obbligati a non uscire dal medio evo
Prendere piena coscienza e dimostrare con documentazione inedita la tesi che la pressione economica e commerciale francese fu una
costante quasi obbligata, indotta dal trovarsi il Mezzogiorno sulla
via d'acqua piu gelosa per la corte parigina, eÁ uno dei punti d'arrivo
cui siamo pervenuti. Sono cosõÂ smentite le affermazioni di critici
poco attenti, secondo cui sarebbe presente nella storiografia qui
condivisa e sviluppata la tendenza a giudicare valide tutte le idee
ed iniziative che provenivano dalla Francia, mentre sarebbe errato,
passatista ed irrazionale tutto cioÁ che si rifaceva alla tradizione
spagnola. Esaltare lo spagnolismo come se fosse amor di patria eÁ una
forma di fideismo che si puoÁ spiegare solo come residuo di una mera
106
Cfr. Zylberberg, Une si douce domination, cit. (cap. I, nt. 47), p. 87 ss.
Cfr. P.C. De Beaumarchais, Oeuvres compleÁtes, Laplace, Sanchez et Cie, Paris
1876, vol. VII, p. 202.
108
Cfr. Zylberberg, op. cit. (cap. I, nt. 47), p. 265 ss.
107
284
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
ortodossia. Le ricerche di cui qui sono pubblicati i risultati si collocano nella corrente interpretativa che giudica attivo e propulsivo il
modello di sviluppo franco-inglese, dei cui benefici sviluppi l'Europa
si eÁ avvalsa moltissime volte, da Poitiers in poi. Molti dati di fatto
confermano la razionalitaÁ di quel paradigma. Non a caso fu adottato
anche in Spagna, in Italia ed altrove dai gruppi culturalmente piuÂ
progrediti. Non c'eÁ dubbio che esso si eÁ imposto nel mondo intero ed
ancora oggi vale dovunque, tranne che dove ci si ammazza per motivi in gran parte astratti. Siamo in attesa che contro quel modello ne
emerga un altro migliore, o comunque piu gradito alle popolazioni
che lo hanno adottato: ma non pare che questa soluzione sia in vista.
PercioÁ, rendersi conto di dove i caratteri della civiltaÁ francese
provengono non eÁ gratuito per noi come, ad esempio, studiare le
origini delle idee dei talebani. EÁ storia nostra; che oltretutto, per
contrapposizione, illumina molti limiti della civiltaÁ subalpina, che
ancora in parte sussistono. EÁ necessario risalire ai decenni di transizione tra evo antico e medio. Fu allora che la civiltaÁ franca vide
consolidarsi le sue basi, e Parigi divenne la capitale di un regno, che
poi sempre piu s'identificoÁ con un modo ben preciso di pensare la
collettivitaÁ, come portatrice di valori comuni e condivisi.
EÁ stato dimostrato di recente da Ajello che la sopravvivenza
della metafisica nella forma diabolica annulloÁ in parte il progresso
realizzato dalla logica parigina nel secolo dodicesimo, che fondoÁ i
progressi della conoscenza sul dubbio, sulla dialettica, sulla discussione tra tesi diverse. La sconfitta della magia celeste, ossia della
Predestinazione, intesa come forza coattiva ed invincibile, aveva
lasciato un certo spazio alla magia nera. Il colpo definitivo anche a
questa seconda assurditaÁ fu inferto nel 1580 da Montaigne, giurista e
magistrato capace di concepire il diritto come un segno delle condizioni esistenziali e non come una loro camicia di forza, cucita non si
sa bene da chi. Infatti, contemporaneamente, Bodin fu per la validitaÁ
della magia. Resi esperti dall'operare giornaliero, furono magistrati e
medici i riformatori francesi che, a partire dal Cinquecento, segnarono alla metaÁ del Seicento, quando morõÂ Cartesio, il culmine di un
processo iniziato circa mezzo millennio prima, cioeÁ quando Roscel-
V. Oltre la metaÁ del secolo
285
lino da CompieÁgne e poi Abelardo negarono ogni valore giuridico alla
magia celeste.
Per Robert Mandrou, quando Dio e Satana cessarono d'intervenire nella vita ordinaria degli uomini, questa nuova concezione restituõÂ al genere umano ed alla natura un'autonomia che la confusione
ammessa in passato tra naturale e soprannaturale rendeva impossibile 109. Mandrou scrisse che tale traguardo «fu un risultato raggiunto
dal funzionamento globale della macchina giudiziaria della monarchia (francese)». PercioÁ Ajello coglie in fallo Voltaire da cui non
correttamente fu sostenuto (nel Dictionnaire philosophique), che la
«filosofia da sola» aveva guarito gli uomini da questa «abominevole
chimera e aveva insegnato ai giudici a non bruciare gli imbecilli» (ad
vocem «Bouc»). In quella tesi antifilosofica eÁ presente la polemica del
philosophe contro il profilo tradizionale delle scienze. Ajello invece
giustamente ha sostenuto che nessuna scienza in Francia aveva agito
da sola: «fu filosofica l'opera dei giuristi e dei magistrati che trassero
dalla loro esperienza professionale e dal dibattito in corso in Francia
tra consuetudini e diritto romano, tanto da riconoscere come mere
abitudini le (pretese) strutture mentali ontologiche» 110. Le prove a
sostegno di quest'affermazione sono nelle biografie di Montaigne, di
Descartes, di Montesquieu e di alcuni altri, che segnarono con le loro
opere il percorso della civiltaÁ europea.
La sostanziale differenza tra la struttura costituzionale della
nazione d'Oltralpe da un lato, di quella spagnola e dell'Italia meridionale dall'altro, fu ad ogni pie' sospinto richiamata negli scritti
diplomatici o di politica internazionale di parte francese come la
radice del discrimen ch'essi operavano tra nazioni policeÂes e non. La
Francia e l'Inghilterra erano state molto prima del secolo XVIII
modelli di efficientismo politico ed economico da seguire. Come tra
i secoli XIII e XIV, Tommaso d'Aquino e Marsilio da Padova si
erano trasferiti a Parigi per trovarvi un ambiente adatto ai loro studi,
109
Magistrats et sociers an France au XVIIe sieÁcle. Une analyse de psycologie historique,
Plon, Paris 1968.
110
Ajello, EreditaÁ, cit. cap. I, nt. 24, p. 354.
286
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
cosõÂ durante tutto l'evo moderno i migliori intellettuali d'Europa
affluirono a Parigi per gli stessi motivi; ma nel Settecento gli spiriti
sensibili di Montesquieu e di Voltaire guardavano Oltremanica. Era
dunque nella percezione della superioritaÁ costituzionale della Francia
e dell'Inghilterra la vera ed unica giustificazione delle logiche prima
di dominio (durante gli anni di Luigi XIV), e, dopo la metaÁ del secolo,
d'influenza culturale e di controllo politico.
Durante le fasi che abbiamo descritto, a queste logiche s'ispirarono le iniziative tardomercantilistiche e le strategie estere francesi:
erano le stesse operazioni che a Napoli i contemporanei avvertivano
come privazione del proprio mare Mediterraneo, a loro estraneo e da
non affrontare, al massimo da contemplare. Al piu ± come descriveranno nel loro epistolario da Parigi a Napoli (e viceversa) due protagonisti di quelle vicende, Tanucci e Galiani ± del Mediterraneo ai
napoletani ed ai siciliani toccava fare un uso timido e minore, cioeÁ
quello della navigazione sotto costa, con feluche capaci di salvarsi
chiedendo soccorso ai remi, quindi capaci di procedere contro vento,
nella direzione preclusa ai legni di maggior tonnellaggio, che erano
attrezzati soltanto con le vele.
La differenza tra le due forze di trazione sul mare, la muscolare
e la eolica, fornisce un'immagine concreta dello stato d'inferioritaÁ
cui la marineria meridionale era stata per secoli condannata dalle
circostanze avverse: fu costretta a restare nel medio evo. Questa
condizione di disagio era la conseguenza di un circolo vizioso complessivo, da cui fu difficile uscire, poiche la concorrenza delle economie piu progredite vi si opponeva.
287
VI
LA CORTE DI NAPOLI
PROBLEMI E PROTAGONISTI DEGLI ANNI SETTANTA
1. Breteuil a Napoli: l'inizio della diplomazia «libertina»
Di recente eÁ stato dimostrato che, a metaÁ del secolo dei Lumi,
tra i ceti dirigenti delle maggiori nazioni europee emerse un corpo
diplomatico dotato di solidarietaÁ interna, e che in quel gruppo venne
a maturazione una nuova idea dell'Europa politica. Coscienti della
loro speciale posizione rispetto ai ceti dirigenti nazionali, i ministri
presso le corti straniere formavano un ambiente capace di elaborare
idee proprie. All'interno della loro specifica specializzazione professionale era possibile, spesso necessario, trasgredire alle istruzioni o
alle linee direttive imposte dalla politica centrale. I diplomatici possedevano propri codici deontologici, che si formavano e si adattavano alle varie realtaÁ di corte 1.
Tuttavia il loro spirito unitario era utile agli interessi dei loro
committenti ± monarchi, ministri, partiti nazionali e fazioni di corte ±
e una conversazione con un ministro di un'altra potenza poteva rivelare piu di un sofisticato atto di spionaggio. Ovviamente questa vita
intima alla diplomazia non puoÁ trasparire dagli atti ufficiali che ci pervengono. Spesso, il vero gioco diplomatico non era condotto nei luoghi
immaginati come deputati ad elaborare le decisioni del potere, ma nei
corridoi dei palazzi, nelle sfarzose feste in costume, presso i tavoli da
gioco, persino nelle alcove. Uno degli artefici di quello stile diplomatico fu l'ambasciatore francese a Napoli, Louis-Auguste Le Tonnelier,
barone di Breteuil, arrivato nella capitale partenopea nel luglio del
1772, e richiamato a Parigi nello stesso mese del 1774.
Egli era un personaggio politico di alto profilo nella Francia della
seconda metaÁ del Settecento. Nipote dell'abate de Breteuil, cancel1
Un'ottima messa a punto della «sociologia» diplomatica eÁ l'opera di BeÂly, op. cit.
(cap. I, nt. 13).
288
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
liere del duca d'OrleÂans, inizioÁ la sua carriera come militare. Notato
da Louis XV, sicuramente per gli uffici del duca di Choiseul, del quale
era amico e fedele, fu dapprima inviato a Copenhague e, nel 1758,
come ministro plenipotenziario, a Colonia e in Russia (1760-1763). In
seguito fu nominato ambasciatore in Svezia (1763-1767), in Olanda
(1767-1769), a Vienna (1770), a Napoli (1772-1774), e poi di nuovo a
Vienna (1774-1783). Tanucci scrisse che quest'ultima promozione fu
la ricompensa per aver destabilizzato lo politica delle Sicilie. Iniziato
al Secret du Roi il 26 febbraio 1760, egli impersonoÁ, fino alla partenza
per Napoli, la diplomazia parallela 2, tanto da esserne uno dei principali agenti.
SembroÁ che la nomina nella capitale delle Sicilie fosse stata per
Breteuil una sorta di punizione, inflittagli da Louis XV perche scoperto appartenere al partito di Choiseul 3. In quegli anni, per un
2
Cfr. la lettera di Broglie a Louis XV del 26 feb. 1760, pubblicata da G. De Raxis de
Flassan, Histoire geÂneÂrale et raisonneÂe de la diplomatie francËaise, depuis la fondation de la
monarchie jusqu'aÁ la fin du reÁgne de Louis XVI, 2ë ed., Paris 1811, t. VI, p. 289.
3
Cfr. la lettera di Broglie a Louis XV del 17 mar. 1771, pubblicata da AntoineOzanam, Correspondance secreÁte, cit. in cap. V, nt. 24, 2ë vol., let. n. 355: «J'ai vu hier en
arrivant aÁ Versailles M. le baron de Breteuil; il m'a paru peÂneÂtre de la plus vive douleur. Il
m'a communique la lettre qu'il a eu l'honneur de Lui eÂcrire, ou il expose les raisons qui
rendent sa preÂsence et ses services beaucoup plus utiles aÁ Vienne qu'ils ne pourraient l'eÃtre
aÁ Stokolm. J'ose espeÂrer que Votre Majeste daignera y avoir eÂgard [...]» e la risposta del re
del 18 marzo: «J'ai recËu la lettre du baron de Breteuil. C'eÂtait moi uniquement qui avais
imagine de l'envoyer en SueÁde dans ce moment-ci, comme plus au fait qu'un autre; il n'y
ferait pas le bien que j'en attendais. Je n'y pense plus. A l'eÂgard de Vienne, si c'eÂtait un
triomphe pour le parti Choiseul, il n'y irait pas non plus [...]», in Boutaric, Correspondance secreÁte, cit. in cap. V, nt. 24, 1ë vol., p. 419, në CCCXLVI. Tre giorni dopo
Vergennes fu nominato ambasciatore in Svezia, malgrado Breteuil «avait opeÂre le miracle
de la reÂunion de la cour avec notre parti et qui, ayant la confiance geÂneÂrale, aurait pu
rendre les plus grands services» (Broglie a Louis XV, 29 settembre 1769, in AntoineOzanam, Correspondance secreÁte, cit. in cap. V, nt. 24, 2ë vol., lettera n. 322). Poi, il 30
giugno 1771, d'Aguillon aveva detto al Breteuil che il principe Louis de Rohan era stato
nominato ambasciatore a Vienna al suo posto, assicurandogli che il re gli avrebbe offerto la
«premieÁre grande ambassade vacante» (A.A.EÂ., Correspondance politique, Autriche, vol.
316, f. 393), lasciandogli credere che sarebbe stato destinato a Londra (su questo affare,
cfr. Antoine-Ozanam, Correspondance secreÁte, cit. in cap. V, nt. 24, 2ë vol., le lettere n.
374, 376, 377). Ma durante l'estate del 1771 scoppioÁ uno scandalo provocato dal segretario del conte de Guines, ambasciatore a Londra e cugino di Breteuil. Tort de la Sonde
aveva accusato l'ambasciatore d'aver speculato su fondi inglesi, approfittando d'informazioni strettamente confidenziali. Pare che lo stesso Breteuil avesse chiesto al d'Aiguillon e
VI. La corte di Napoli
289
diplomatico che era stato titolare all'ambasciata di Vienna, ogni
trasferimento che non fosse un posto nel governo centrale sarebbe
stato una capitis deminutio. Come vedremo, con ogni probabilitaÁ la
sede napoletana non fu casuale. Certo eÁ che ± come i fatti seguenti
provarono ± l'influenza francese nel Mezzogiorno d'Europa fu oggetto di una partita decisiva, che si giocoÁ allora proprio nelle Sicilie;
appare comprensibile la strategia d'inviare sul posto un diplomatico
aggressivo, sfrontato, incline ad un certo avventurismo e pronto a
tutto per recuperare il suo credito che appariva in declino. Bisognava
tentare il tutto per tutto, se si voleva recuperare un'influenza che
per un verso, quello austriaco, appariva sfuggente e per un altro
verso, quello spagnolo, era da Tanucci condizionato da difficoltaÁ
tali, da apparire quasi offensive per la grandeur francese.
Il PreÂcis des instructions donneÂes aÁ M. le baron de Breteuil par M. le
duc d'Aiguillon, datato 1 maggio 1772, insisteva sul tema del Patto
di Famiglia, sulla successione delle Due Sicilie, sul ruolo di Maria
Carolina e sugli affari dei gesuiti di Corsica. Le istruzioni erano state
inviate da Broglie al re, che a margine vi aveva aggiunto alcune sue
disposizioni. Nel paragrafo relativo alla Compagnia di GesuÂ, alla
richiesta di Broglie e di Breteuil di conoscere le reali intenzioni del
re sui problemi della restituzione d'Avignone e dell'estinzione della
Compagnia, Louis XV scriveva:
«Nous n'avons plus de JeÂsuites en France depuis ma deÂclaration. Peu
m'importe qu'ils soient eÂteints ou non. Mais l'Espagne le deÂsire et
mon ambassadeur aÁ Rome est autorise aÁ seconder celui d'Espagne» 4.
E si premurava d'avvertire Breteuil affinche evitasse di seguire in
queste materie le idee di Choiseul, avvertendolo che «les principes
[de] Choiseul sont trop contraires aÁ la reÂligion et, par contre-coup, aÁ
l'autorite royale». E, quando Broglie e Breteuil chiedevano un ina Louis XV di mantenere l'ambasciata al cugino, per smentire le accuse di la Tort, cfr. J. de
Witte, Journal de l'abbe de VeÂri, t. I, Paris 1933, pp. 278-80, J.N. Moreau, Mes souvenirs,
t. 2, Paris 1901, pp. 125-42, SeÂgur, Au couchant de la monarchie. Louis XVI et Turgot,
Paris 1909, p. 207-16.
4
Il PreÂcis in A.A.EÂ., Correspondance politique, Naples, Supplements, vol. 5, ff. 13-5.
290
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
dirizzo preciso sul Patto di Famiglia, il re chiudeva seccamente ogni
apertura di discorso, ordinando a Breteuil di non intromettersi «de
ce qui ne le regarde pas».
Con questo viatico l'ambasciatore era arrivato a Napoli il 2
luglio 1772, accompagnato dalla figlia, AngeÂlique-Elisabeth, e dal
neo-genero, Louis-Charles-Auguste Gouyon conte di Mantignon,
che morõÂ, di lõÂ a poco, in un tragico incidente di caccia 5. Al seguito
v'erano Henri Gouguet, segretario, e il marchese Marc-Marie Bombelles, consigliere d'ambasciata 6. Nel corso dei due anni di vita
napoletana, l'ambasciatore francese ± definito dal Tanucci «brulotto, intraprendente, e intrigante», che «non facendosi mai carico neÂ
dei fatti, ne della ragione, si mette in tutto e nel discorso passa
subito ad inveire» ±, fu uno dei protagonisti della scena politica 7.
La sua attiva presenza a Napoli ± come denunciava Tanucci ± d'agente d'intrighi, di leghe e di complotti eÁ testimoniata dal fitto
carteggio ch'egli intratteneva con Versailles.
Nella capitale delle Sicilie, a partire dagli anni Settanta, la conquista del ``corazoÂn'' della regina divenne il primo impulso per carriere molto rapide e prestigiose; ed a sfruttare queste occasioni non
erano solo i nazionali, ma anche i diplomatici stranieri, per ragioni di
Il conte di Mantignon era nato nel 1755 e morõÂ a Napoli nel 1773. La giovane coppia
si era sposata in aprile, e il contratto di matrimonio era stato firmato a Versailles dal re e
dalla famiglia reale. Era questa la ragione per cui la partenza di Breteuil era stata differita.
Per Broglie, il genero di Breteuil era «un des meilleurs partis du royaume», cfr. lettera a
Louis XV del 22 mar. 1772, in Antoine-Ozanam, Correspondance secreÁte, cit. in cap. V, nt.
24, 2ë vol., let. n. 388.
6
Henri Goguet fu ammesso al Segreto il 24 luglio del 1771, con la paga di 2.000 lire
tornesi annue, cfr. A.N., K 157, në 46, Louis XV a Broglie, A CompieÁgne 24 luglio 1771.
Secondo Breteuil, giunto a Napoli Goguet si dedicoÁ «aÁ tous les exceÁs de la passion la plus
effreÂneÂe pour le jeu», cfr. A.A.EÂ., Personnel, 1 seÂrie, t. 35, ff. 386-98. Marc Marie marchese
di Bombelles (1744-1822) entrato in servizio statale nel 1757, partecipoÁ alla guerra dei
Sette anni. In seguito prestoÁ servizio, a titolo di privato, per Breteuil, che seguõÂ in Olanda
(1767-1769), a Napoli (1772-1774), ma come consigliere d'ambasciata. Fu ministro plenipotenziario a Ratisbona (1775), ambasciatore a Lisbona (1785-1788), poi a Venezia (17891791). Con la rivoluzione si dimise dall'incarico e fu uno degli agenti piu importanti
dell'emigrazione. Dopo la morte della moglie, fu ordinato prete, divenendo vescovo di
Amiens nel 1817 (A.A.EÂ., Personnel, 1 seÂrie, t. 9, f. 266-95). Fu iniziato al segreto alla
partenza per Napoli, con la gratifica di 3.000 lire tornesi.
7
Tanucci, Epistolario, 1774, cit. in cap. II, nt. 23, a Losada, 26 lug. 1774. let. në 340.
5
VI. La corte di Napoli
291
carriera (l'inteÂreÃt) e per affari internazionali (la foi) 8. Di lõÂ, nei tardi
anni Settanta, ad opera specialmente degli ambasciatori spagnoli e
torinesi, si diffuse una gran mole di rivelazioni sulla pericolosa mistura di sesso e di potere nella corte napoletana e sui costumi dei
regnanti. Alcune di quelle affermazioni furono tanto ben documentate e talmente gravi da far nascere il timore che la coppia reale
finisse per esser destituita. Precocemente rispetto a questa gravissima vicenda, giaÁ nell'ottobre del 1774 Tanucci scriveva al Losada:
«Grazie doviamo alla Divina Providenza per averci liberati dall'ambasciatore BreteuõÈll. Oltre l'insofferenza, e irritabilitaÁ estrema, e
iraconda, e maldicenza continua con ogni genere di persone, si scoprõÂ
gran cabalista, qual egli non difficoltava di manifestarsi, e professarsi; aveva giaÁ cominciato a praticar la cabala colle femine, per esse
si metteva negli affari, e giaÁ aveva spesse conferenze colla Regina, la
quale ha totalmente preso; e, secondo li documenti della Termoli, con
mostrarsi disgustata, e continuamente querelandosene, ha soggiogato
il buon marito, il quale conosce, soffre, e compiace per quieto vivere.
Sia detto questo a V. E. colla dovuta riserva. Io l'avrei volentieri
tenuto in seno, anche perche confidatomi dal Confessore del Re, col
quale la M. S. si spassiona, se non mi sentissi vicino a finire, e al
dover prima di finire metter questa veritaÁ in notizia d'un amico del
Re Padre, che possa farne il piu discreto uso. La Regina aveva giaÁ
data la sua confidenza a BreteuõÈll. Beata cotesta Corte [ossia quella di
Spagna], ove non usa il francesismo di farsi gli affari colle femine! 9»
La notizia, fornita con tanta precauzione, era chiaramente diretta
alle orecchie del re Carlo, di cui Jose Miranda Ponce de LeÂon, duca
di Losada, era stato il piu intimo e fedele tra gli amici d'infanzia.
Era l'unica persona che, vivendo giornalmente insieme al re, poteva
parlare in assoluta confidenza al sovrano, assicurare il segreto ed
evitare il pericolo di uno scandalo, da molti atteso, ma che Tanucci
stesso voleva evitare: volontaÁ dimostrata dall'aver scelto il duca
come destinatario della confidenza. Come si sa, la corti vivono di
8
9
Cfr. infra, par. 6, Guerra dei sessi e potere nella «cour de Naples».
Tanucci, Epistolario, 1774, cit. in cap. II, nt. 23, let. në 464, 18 ott. 1774.
292
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
questa materia torbida, eÁ il loro pane quotidiano, e molti spagnoli
aspettavano rivelazioni di quel genere, per dimostrare la folle leggerezza, la frivola superficialitaÁ, la scandalosa mancanza di gravitaÁ
del modo di vivere italiano, che invece era stato esaltato anche
troppo dalle defunte regine: prima da Elisabetta e poi, per breve
tempo, ma ancor piu intensamente, da Maria Amalia 10.
Il nuovo ambasciatore francese a Napoli, il barone di Breteuil,
era uomo di cui Tanucci intuitivamente diffidava, anche perche il
suo stile di vita era stato sempre, anche da giovane, l'opposto di
quello che il francese ostentava. E questi si riveloÁ, alla fine, non solo
un libertino entrato in sospetta «confidenza» con la regina, ma un
pericoloso «gran cabalista». Tardi lo statista toscano si rese conto
che quelle «cabale» avevano uno scopo molto grave dal punto di vista
non solo internazionale ma anche personale: la sua rovina.
Quando Breteuil era in procinto di chiudere la sua fase napoletana ed era in attesa di altra destinazione, Tanucci fu spinto a
denunciare i suoi sospetti sulla tresca regale e superoÁ i comprensibili
indugi ed ogni riserva. Il motivo piu attendibile di questa imprudenza eÁ che solo cosõ poteva scongiurare l'eventuale pericolo d'un ritorno a Napoli del francese. Costui, infatti, rimpatriando, si aspettava
la probabile nomina al piu alto grado del governo francese: la prima
Segreteria di Stato. Se non fosse riuscito in quell'impresa, il ritorno
in una sede tanto fortunata e (per vari motivi) gradita, sarebbe stato
probabile. Ma nella competizione, alla fine, il diplomatico fu sconfitto dal suo antico rivale di carriera, il conte di Vergennes. Proprio
in questo caso la destinazione napoletana si sarebbe realizzata e
Tanucci, comunque, la aveva evitata.
Sulle circostanze del siluramento di Breteuil, l'abate de VeÂri
offre una testimonianza interessante, se sfrondata da alcuni elemen10
Il brillante carteggio tra Maria Amalia e Tanucci, conservato in vari legajos dell'Archivo General de Simancas, eÁ stato trascritto da Pablo VaÂzquez GestaÂl, e saraÁ a breve da
lui pubblicato, nel quadro di una collaborazione italo-spagnola. Il giovane storico galiziano
eÁ specificamente esperto della vita di corte, come ha dimostrato nel suo pregevole El espacio
del poder. La corte en la HistoriografõÂa modernista espanÄola y europea, Universidad de Valladolid, Valladolid 2005.
VI. La corte di Napoli
293
ti rivelatori dell'eccesso di narcisismo dell'autore. Per il posto di
ministro degli Affaires eÂtrangeÁres il nuovo re di Francia aveva da
scegliere tra due candidati: il nostro ambasciatore (che era amico
di Choiseul), e Vergennes, ambasciatore in Svezia. VeÂri assicura di
aver personalmente fatto pendere la bilancia in favore del secondo,
convincendo Maurepas che Breteuil era ambizioso, pericoloso e
«d'une droiture peu assureÂe»:
«Je sais qu'il passe pour avoir plus de talent que M. de Vergennes:
soit! Quoique je doute qu'il en ait de veÂritable, mais la droiture de M.
de Vergennes vous rassure sur le deÂfaut d'harmonie. Ce sera votre
affaire aÁ vous de suppleÂer ses lumieÁres puisque vous ne voulez pas
prendre ce deÂpartement comme je vous conseillais. Vous trouverez
chez lui une grande connaissance de deÂtails, un travail assidu et la
droiture d'intentions 11».
La testimonianza di Soulavie aggiunge altri elementi per la comprensione dei criteri di scelta del nuovo ministro, e tra questi spicca
l'equilibrio di Vergennes nei confronti dell'alleanza con l'Austria.
Da questa fonte sappiamo, quasi a convalidare la validitaÁ del giudizio di VeÂri, che
«Ce fut le Roi lui-meÃme, sans aucune influence de M. de Maurepas, qui
l'appela au ministeÁre; Mme AdeÂlaõÈde y contribua. Les meÂmoires du
feu Dauphin l'ayant indique d'ailleurs comme un politique pacifique,
sage et eÂleve dans la connaissance des inteÂreÃts de la maison de Bourbon, le Roi, ferme dans sa reÂsolution d'opposer un tel personnage aux
partis et aux intrigues que la Reine, Marie-TheÂreÁse, sa meÁre, et l'Empereur s'efforcËaient d'eÂtablir en France, deÂpeÃcha lui-meÃme deux courriers avant l'arriveÂe de M. de Maurepas» 12.
Dunque era stato il re in persona a decidere contro Breteuil. Questo
intervento fa supporre che il moscerino messo da Tanucci nell'orec11
Journal de l'abbe de VeÂri, pubblicato a cura di J. De Witte, Paris 1928-30, vol. I, pp.
106-8 (corsivo aggiunto).
12
J.L. Soulavie, MeÂmoires Historiques et Politiques du ReÁgne de Louis XVI, Paris An X
(1801), t. I, p. 285, e t. II, pp. 159-60. Sulla scelta in funzione anti-austriaca di Vergennes,
cfr. anche Mercy-Argenteau, Correspondance SecreÁte avec l'empereur Joseph II et le Prince
de Kaunitz, Paris 1884, t. I, p. 80.
294
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
chio di Losada abbia compiuto il suo segretissimo volo fino al re di
Francia, o che almeno fosse entrato nelle sue stanze piu intime. Non
era volatile da mandare in giro, specialmente da parte di chi conosceva le doti di Carlo (per altro ben note). Il figlio di Elisabetta
Farnese era uomo molto pio, timorato di Dio fino alla superstizione,
nei rapporti con l'altro sesso era estremamente controllato, gelosissimo custode della morale, del prestigio, del rigore: valori intesi in
una versione del tutto tradizionale, spagnolesca.
Il buon nome, l'immagine un po' greve, la serietaÁ e la severitaÁ
caratterizzavano l'intera sua corte; credibilitaÁ che, da quei punti di
vista, aveva subõÂto una falla profonda con Leopoldo De Gregorio e con
la Castropignano, entrambi di recente coattivamente rispediti a Napoli da Carlo, nonostante la sua singolare tendenza a sostenere il
proprio punto di vista, anche quando era palesemente sbagliato. I
comportamenti irreprensibili sul piano dell'etica e del costume erano
al primo posto nella deontologia del re: collocazione del tutto comprensibile nella mente di un uomo che vedeva il mondo fatto apposta
per fargli mettere in mostra lo splendore della sua regalitaÁ e la sua
sovrana magnanimitaÁ. Era la logica di Pangloss, tutt'altro che singolare nei decenni finali dell'Antico Regime: ad esempio, secondo la ben
nota immagine ironica di Voltaire, si riteneva che la forma del naso
fosse stata creata cosõÂ per sostenere gli occhiali. Il primato del prestigio
(insieme a ben piu validi motivi di politica internazionale) indussero il
re di Spagna a salvare piu tardi l'immagine pubblica di Ferdinando IV
e di Maria Carolina da uno scandalo internazionale che sarebbe stato
particolarmente inglorioso (ma forse utile) per la dinastia.
Dal canto suo, l'imperatrice d'Austria, per motivi politici, avrebbe preferito Choiseul o Breteuil. Tuttavia, Vergennes non dispiacque
a Maria Teresa, con la sola riserva per i rapporti che lo legavano alla
casa di Rohan, da lei odiata per via dell'incidente diplomatico che
Louis de Rohan, il famoso «cardinal collier», aveva provocato nel
periodo della sua ambasciata a Vienna 13.
13
Mercy-Argenteau, Correspondance SecreÁte avec Marie-TheÂreÁse, Paris 1875, t. II,
pp. 187-8.
VI. La corte di Napoli
295
2. Due protagonisti, tra libertinismo e politica: Breteuil contro Tanucci
La scelta di Vergennes quale primo Segreterio di Stato del re di
Francia piacque ed incuriosõÂ gli ambienti della corti di Spagna e di
Napoli, come testimonia una lettera inviata da Tanucci a Grimaldi il
5 luglio 1774:
«V. E. mi fa la grazia di comunicarmi il nuovo Teatro, che ha aperto
nella sua Corte il giovane Monarca nella Sua Francia colla mutazione
totale del Ministero, e mi fa l'altra di spiegarmi il carattere che V. E.
medesima scoprõÂ in Annover di Vergennes, quando era problematica
l'union di quella Corte colla Spagna. Dio voglia ch'egli abbia conservata quella savia opinione di fortificar l'unione, la quale, se salvoÁ li
francesi nell'ultima guerra, presentemente dal grado di utile eÁ passato a
quel di necessaria. Furon poco fa li soli Inglesi che ordiron di negare il
Dritto delle Genti sulla frivola controversia per d'Eon; ma li divisori
della Polonia calpestan totalmente tutti li vincoli della societaÁ. Non eÁ
piu sicura l'Europa, e l'Asia dalle incursioni dei Goti, dei Longobardi,
dei Vandali, dei Tartari. Tutta quella barbarie sovrasta alle nazioni
culte, innocenti, morigerate, religiose, quando saraÁ colla Regina Imperatrice spenta in quelle parti la religione. Talento, e applicazione di
Vergennes anche dal nostro Ludolf mi veniva scritta, quando egli
era ambasciatore di Francia alla Porta. Ludolf, per compiere il carattere, diceva trovarvi qualche poco presuntuosa l'ostinazione nelle sue
opinioni, la quale, se non si eÁ moderata cogli anni, e con qualche
disgrazia che l'indecente suo matrimonio gli portoÁ, potrebbe nuocere
agli affari nell'alto Ministero, nel quale eÁ tanto necessaria quella docilitaÁ, che Salomone chiedeva a Dio per ben governare li suoi popoli» 14.
Per Tanucci, specialmente in quel momento, l'aggettivo «frivolo» era
quasi sinonimo di «barbaro», indicava comunque qualcosa di nettamente contrario a «cultura, innocenza, morigeratezza, religione». In
una lettera del 14 giugno 1774 a Losada (come vedremo) aggiunse a
questi caratteri negativi la perfidia greca e l'inganno sopraffino di
Sinone. Miscuglio luciferino cui egli contrapponeva la «convenevole
misura» umanistica, ossia la trasformazione dello status quo in deon14
Tanucci, Epistolario, 1774, cit. in cap. II, nt. 23 (corsivi aggiunti).
296
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
tologia, secondo lo stile di Baldassar Castiglione e di monsignor Della
Casa. Il Galateo di quest'ultimo, secondo lui, era stato inviso a Giannone, che lo aveva stravolto, perche trascinato dal suo «spirito libertino e britanno». Cosõ lo statista aveva scritto oltre vent'anni prima,
il 13 febbraio 1751 15, ed ora, nel 1774, riceveva di quelle idee l'ennesima, dolorosa conferma. I francesi avevano adottato il modo di
pensare britanno guardando oltre Manica, e percioÁ avevano nettamente voltato le spalle all'Italia. Egli stesso stava per farne le spese.
In linea generale, secondo Tanucci, a quella epocale e disastrosa
deviazione non poteva esservi che un rimedio: la «docilitaÁ», dote
fornita da Dio stesso agli uomini di Stato «per ben governare». Non
eÁ necessario compiere nessun volo di fantasia per vedere, dietro
questa netta contrapposizione di valori, il conturbante profilo di
Maria Carolina. La capacitaÁ di ponderare senza impazienze, era la
dote di Carlo di Borbone che Maria Carolina aveva messo, con un
crescendo impressionante, a dura prova. La intellettuale intimitaÁ
della regina con Ferdinando Galiani non aveva certo aiutato la giovane regina alla prudenza, che in genere non faceva parte dell'educazione impartita alle figlie di Maria Teresa. La difficoltaÁ di rapporti
tra suocero e nuora era ovvia: lei possedeva tutti gli aspetti caratteriali che erano odiosi al re di Spagna. In primo luogo, il gusto delle
novitaÁ e del gioco intellettuale, la vivacitaÁ e la spregiudicatezza: per
Carlo erano offese alla `gravitaÁ' insopportabili.
Leggendo la serie (a volte giornaliera piu che settimanale) dell'Epistolario tanucciano, si nota che solo dopo aver sofferto la stagione
del terremoto politico palermitano (che esamineremo), ossia dopo
aver sopportato tutto il seguito delle rivolte siciliane, lo statista grafomane comprese che Breteuil era un suo nemico, non generico, ma
specifico. Prima, osservando quei comportamenti, si fece distrarre da
altri aspetti, che erano piu mondani e di corte, e che egli vide come
espressione di un carattere poco diplomatico. Forse in Breteuil il
riuscito tentativo di realizzare una certa intimitaÁ con la regina fu
15
Ajello, Arcana juris. Diritto e politica nel Settecento italiano, Jovene, Napoli 1976,
pp. 247-8.
VI. La corte di Napoli
297
soltanto lo strumento gradevole della sua vera missione a Napoli:
distruggere l'apparato dell'influenza spagnola nel regno italiano, sistema aggrappato ad un gancio molto solido, Tanucci. In realtaÁ lo
scontro si estendeva ad una contrapposizione di stili e di modi di
vivere, che era stata innescata dalla cultura francese fin dal sedicesimo secolo e che si fondava sulla dialettica tra ortodossia e critica.
Indubbiamente Roma era la capitale della prima, Parigi della seconda.
Passando dal tema serio della teoresi (non eÁ questo il luogo dove
trattarlo) al gusto mondano della prassi, il contrasto era tra la «frivolezza» francese e la «gravitaÁ» spagnola. Il colto letterato toscano
possedeva un ingegno agile, dunque incline piu a mordere che a
masticare. Ma non gli mancava uno stomaco robusto, atto a ruminare ed a digerire anche le pietre. Alcune forti esperienze esistenziali
si erano sovrapposte a quel gusto giovanile e naturale incline alla
spigliatezza, per cui esso si era fuso con una tendenza assai piuÂ
pesante, addirittura plumbea, al moralismo. Aveva agito su di lui
la formazione giuridica, che eÁ causa, in chi non ha dote di scetticismo e d'ironia, di una pesantezza paralizzante; quella «rogna» (cosõÂ
scrisse) gli era stata trasmessa da Giuseppe Averani. Contro quella
`malattia' aveva cercato di reagire giaÁ a Pisa con tutte le sue forze:
poi era riemersa specialmente attraverso il contagio letterario.
La causa piu energica della trasformazione `seriosa', subõÂta
quando era giaÁ maturo, venne dalla naturale idiosincrasia che in ogni
spirito autentico e schietto nasce da una carriera politica, quando
essa eÁ sfortunata e subordinata, ossia quando si eÁ costretti a vivere
da cortigiano: allora o ci si piega o ci si spezza. Tanucci si era piegato,
non si era spezzato. Una realtaÁ oscena aveva agito nell'appesantire,
ed in effetti nel render piu cauto il suo estro brillante: la constatazione di quanto fossero futili quei valori mondani, di quanto fossero
volgari e vuoti quegli interessi spirituali ed universali in ogni momento vantati ed insozzati, di quanto fosse intessuta di finzioni la
vita apparentemente splendida e disgraziata di quei servi umilissimi,
vestiti da padroni 16. Il disgusto che la sua fondamentale e robusta
16
Per cogliere questi aspetti del carattere di Tanucci eÁ necessario leggere alcune
298
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
moralitaÁ gli suggeriva, lo aveva condotto a ritornare sui suoi passi.
Non completamente, peroÁ.
A condurlo verso una sintesi nuova fu la formidabile conoscenza
della letteratura classica. Essa costituiva per lui un patrimonio che (al
contrario di quanto era avvenuto in Montaigne, uomo dotato di ben
diverse doti teoretiche) non gli dava scetticismo e leggerezza, anzi lo
ancorava a qualcosa di solido. Il compromesso tra le due tendenze fu
singolare e fu la `cifra' del suo stile: il suo spiritello mordace fu
frenato, ingabbiato in una paludata veste umanistica. Unione spuria
che, sfortunatamente, lo spinse contro la cultura illuministica: i philosophes, per essere integralmente realisti e pragmatici, dovevano
attentamente spogliarsi di tutti i fronzoli, anche se non fossero ammennicoli, ma sostanza; per demolire il tono ieratico della vecchia
cultura, dovevano armarsi d'ironia, che da sempre eÁ lo strumento
capace di rimuovere le piu tenaci scorie dell'ipocrisia.
Ma ritorniamo dalla descrizione dei personaggi ed all'esame dei
problemi. Se si considera quanto erano forti, profondi, radicati nel
commercio, nella navigazione e nella politica orientale, oltre che
nell'economia, gl'interessi francesi per il periplo delle coste meridionali, ci si rende conto che la contrapposizione tra l'ironica leggerezza
volterriana e la plumbea gravitaÁ umanistica nascondeva altre due
coppie di atteggiamenti dialettici: binomi che, a loro volta, riguardavano due aspetti contrapposti della realtaÁ specificamente italiana.
Per un verso l'empirismo ed il problematicismo illuministico si collocavano contro il dogmatismo, e questa era a sua volta legato alla
difesa dello status quo. Per un altro verso la libertaÁ di pensiero ed il
liberismo afrancesado agivano contro gli interessi economici francesi,
protezionisti in patria e liberisti all'estero.
A parte il contrabbando, che era piu facile da praticare proprio
dalla Provenza verso il Mezzogiorno, il commercio, grande e piccolo,
di quella nazione non poteva fare a meno di costeggiare la Calabria e
lettere scritte da lui prima e durante il suo approccio ed apprendistato nella corte borbonica
e pubblicate con la consueta intelligenza e finezza da Imma Ascione, Al servizio dell'infante
duca. Bernardo Tanucci alla corte di Carlo di Borbone nell'estate del 1733, in «Frontiera
d'Europa», anno VI, 2000, në 1, pp. 37-144.
VI. La corte di Napoli
299
di passare attraverso lo stretto di Messina. Le reti create per gli
scambi in frode dei dazi erano minute, ed avevano reso quelle coste
quasi domestiche. Percorrendo i fianchi della Corsica si sarebbero
potute evitare le insidie dell'alto Tirreno; ma la parte bassa di quel
mare e lo Jonio non potevano in nessun modo essere aggirati. Il
commercio francese verso l'oriente aveva il suo polmone nel Sud,
e rischiava la morte per asfissia se quella via fosse stata bloccata: a
parte quest'ipotesi remota, ogni nuova vischiositaÁ giuridica generava
nei naviganti e mercanti francesi un'asma insopportabile, e Tanucci
di quel diritto era un maestro, anzi un professore.
Rievocando i motivi della scelta di Breteuil per l'ambasciata
francese a Napoli, Tanucci aveva scritto che «ne Londra, ne l'Haya
lo vollero, ne Vienna. A noi si propinoÁ dal capriccioso Choiseul per
mezzo del suo penitente Grimaldi» 17. Il che equivaleva a dire che,
con Breteuil a Napoli, Tanucci si era ritrovato a «navigare» tra una
«Scilla Choiseul» e un «Cariddi Grimaldi». Ancora nel mese di maggio del 1774, lo statista toscano, malgrado il cardinale Bernis l'avesse
avvertito, non aveva pienamente chiara la situazione politica francese: con la morte di Louis XV, gli choiseulistes, fedeli alla nuova regina,
erano rientrati in gioco, proprio in virtu della protezione che Vienna
accordava loro. Il loro uomo di punta era proprio lo sgradito ospite
francese, illuminista e libertino, di cui ci stiamo occupando:
«Non credo risuscitabile Choiseul in Francia. Non intendo come lo
tema il cardinale Bernis. Questo nostro Breteuill eÁ amico grande di
Choiseul, che V.S. illustrissima suppone tanto amato dallo stesso
Bernis. Non era Choiseul amico della femina ultima; questo forse eÁ
il suo solo merito. Penseranno bene Mauperas ed Aiguillon il tenerlo
lontano» 18.
E, in quello stesso mese, Tanucci aveva scritto al re Cattolico, che,
nella lotta politica condotta all'interno del circuito delle corti euro215.
17
Tanucci, Epistolario, 1774, cit. in cap. II, nt. 23, a Catanti, 10 mag. 1774, let. në.
18
Ivi, a Centomani, 4 giu. 1774, let. në. 260.
300
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
pee, le «cabale» che ordivano contro di lui Breteuil e Wilzeck avevano come contropartita l'ambasciata viennese per il francese e l'ingresso della figlia di Maria Teresa nel Consiglio di Stato delle Due
Sicilie:
«Li colori piu neri contro me sono stati quelli che sono stati usati dal
ministro di Vienna e dall'ambasciatore di Francia, che ora sono collegatissimi per l'interesse privato dell'Ambasciatore che aspira all'Ambasciata di Vienna. Il duca d'Aiguillon ha risposto persuaso. Non ho
veduto come di Vienna abbia risposto. Forse non saraÁ la risposta nelle
settimanali, ma nella mensuale che vien per corriere espresso. Certamente Wilsek ha perorato sullo stile dell'Ambasciatore» 19.
Poi, nel giugno del 1774, il ministro napoletano si era reso conto
che il clima politico in Francia era mutato, e che Breteuil era in
predicato di divenire primo ministro:
«Umilio li fogli di Roma che Alfani spera ora superflui per la mutazione avvenuta in Francia, ond'eÁ qui capitata una fregata del Re per
portare in Francia questo suo Ambasciatore colla figlia vedova di
Mantignon, e il parto della medesima. Par che abbia a divenir qualche
cosa di piu del ministero dell'Illustrissimo, dicendo le lettere di Caraccioli in buona vista e confermandolo tale il tenor della lettera
scrittagli dal duca d'Aiguillon con questa fregata» 20. «Abbiamo qui
una fregata di Francia venuta a prendere questo ambasciatore colla
figlia, vedova di Mantignon, e col parto fresco della medesima. GiaÁ
era destinato da piu mesi a questo viaggio, ma le lettere venute di laÁ,
dopo la mutazione della scena, aggiungono che questo baron di Breteuill entreraÁ, probabilmente, nel nuovo vortice di quel ministero» 21.
«Qui abbiamo uno che tra due giorni va a quella fornace, cioeÁ il
barone di Breteuil, che eÁ riuscito quale all'Haya misto di Achille e
di Ulisse per non dir Sinone. Caraccioli lo mette tra i possibili e
predicati dalli congetturanti di Parigi» 22. «Questo ambasciatore, caldo
19
Ivi, al Re Cattolico, 10 mag. 1774, let. në. 219.
Ivi, al Re Cattolico, 7 giu. 1774, let. në. 269.
21
Ivi, a Grimaldi 7 giu. 1774, let. në. 266.
22
Ivi, a Grimaldi 14 giu. 1774, let. në. 276. Sinone, personaggio importante delle
vicende troiane, messo in valore da Virgilio, eÁ sinonimo di perfidia greca, in quanto
inventore e protagonista dell'inganno contro la cittaÁ (l'introduzione del cavallo nelle mura).
20
VI. La corte di Napoli
301
e intrigante, se ne va giovedõÂ in una fregata mandatagli dal Re suo. Il
corpo diplomatico lo ha dichiarato intrattabile. Tale lo qualificano li
stessi suoi francesi e lo stesso console di quella nazione. A me eÁ
toccato soffrirlo con una dose di pazienza che si puoÁ solamente avere
dopo 40 di ministero e 76 di etaÁ. Dicono che eÁ creatura di Choiseul.
Veramente egli ne ha le furie, ma non ne ha la mente» 23.
Tra i meriti che il francese poteva annoverare nel suo cursus honorum figurava anche una calda raccomandazione di Maria Carolina
alla sorella regina di Francia:
«Anche qui si eÁ detto, che la Regina abbia raccomandato in Francia
alla Sorella Regina Breteuil. Io lo credo, perche egli con gran franchezza ebbe qui lunghe conferenze colla Regina. Una lunga che ne ha
avuta col Re produsse a me l'ordine di una specie di contentamento, e
di elogio da scriversi al nuovo re Illustrissimo. Forse speroÁ Breteuill
di entrar con questo nel nuovo ministero» 24.
3. I pertinenti giudizi di Breteuil
Una lettura comparata tra la politica «ufficiale», la diplomazia
segreta e la descrizione degli avvenimenti in corso, dimostra che
l'azione di Breteuil nella corte napoletana s'ispiroÁ al doppio gioco tra
la fedeltaÁ alla corona e quella al progetto degli choiseulistes. Insomma,
aiutare l'Austria per servire la Francia. Destinato dalla malevolenza
del suo re ad un posto di terza fila nel teatro politico dell'Europa
settecentesca, Breteuil cercoÁ di rimettersi in corsa per le sue ambizioni. Per far cioÁ egli utilizzoÁ tutto l'armamentario di rappresentanza
e di spionaggio appreso durante il lungo tirocinio nelle corti del NordEuropa. Il vero obiettivo della sua azione era eliminare il primo
ministro napoletano, unico ostacolo alla presa del potere assoluto
di Maria Carolina, sorella della futura regina di Francia.
Tanucci non ebbe chiaro il fatto che gli aspetti caratteriali rivelati in modo evidente ed indiscutibile dal comportamento di Bre23
24
Ivi, a Losada, 14 giu. 1774, let. në. 277.
Ivi, a Losada, 5 lug. 1774, let. në. 308.
302
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
teuil, in primo luogo le tendenza all'intrigo («alla cabala») ed al
libertinismo, non erano soltanto espressioni di una stile cortigiano,
acquisito con la carriera ed in parte coerente con inclinazioni personali e costituzionali. Il 6 settembre del 1774, Scrisse a Losada:
«V. E. nella riverita lettera, della quale mi ha onorato nel dõÂ 15
d'agosto, pensa colla solita saviezza che non saraÁ buono per noi il
ritorno di Breteuill. Non eÁ solamente veemente, e violento: eÁ o incapace, o insofferente d'un discorso ragionato, e placido, ma ancora eÁ
portatissimo all'intrigo, alla cabala, e a mettersi in tutto con aria
d'imporre e d'estorquere quel che intraprende. Con questo suo oggetto ei si mischiava negli affari del Governo, e dei particolari, e
frequentava le case anche dei togati, e dei curiali, promettendo, e
intimorendo. Egli eÁ cosõÂ dato a questo tenor di vita, che crede lodevole, e in conversazione anche meco ha vantato quel che similmente
ha fatto nelle altre Corti, e particolarmente in Pitemburg, raccontandomi i dialoghi, che ha fatti colla Regnante Zarina, per li quali vi eÁ
nato qualche sospetto, ch'egli possa essere stato una delle tante cagioni, che han prodotto in quella Signora l'avversione ai francesi» 25.
Forse l'astuto diplomatico accentuava le manifestazioni di un carattere prepotente, narrava i precedenti successi ottenuti grazie a quel
suo modo naturale di essere (prima che di agire), per nascondere la
strategia molto lucida che intendeva perseguire. Con ogni probabilitaÁ, quel suo temperamento era stato uno dei coefficienti che avevano indotto il governo di Parigi a preferirlo per Napoli, dove si
riteneva fosse necessario usare le maniere forti contro Tanucci.
Questi si mostrava indocile e riottoso; e lo era non tanto per natura
(la forma mentis machiavelliana lo induceva a meditare), quanto
perche convinto che, per l'economia meridionale, la via di ripresa
e di riscatto, passava attraverso il contenimento dell'invadenza
francese. Di tutto questo si era reso conto con qualche ritardo.
25
Ivi, let. 401. Il riferimento ai «togati e curiali» appare non casuale se si pensa che
proprio contro di loro stava per esplodere la rivoluzionaria iniziativa di riforma tanucciana,
di cui anche da altre considerazioni eÁ stato di recente ipotizzato (sulla base di copiosa
documentazione), un intento anche punitivo nei confronti delle magistrature centrali:
cfr. Pier Luigi Rovito, L'immutabilitaÁ dell'antico. Uomini e vicende dell'arretratezza meridionale, Vereja edizioni, Benevento 2009, pp. 349-89.
VI. La corte di Napoli
303
Segni autentici della strategia adottata dall'ambasciatore francese sono nei suoi documenti personali, ossia redatti per dar conto al
governo parigino. Nel corso delle pagine seguenti useremo, percioÁ,
gli occhi dell'ambasciatore per leggere la vita politica napoletana di
quegli anni.
«Depuis un an que j'ai l'honneur d'eÃtre ambassadeur aÁ la Cour de
Naples, j'ai borne mes deÂpeÃches au courant des affaires, et je n'ai
rendu aucun compte de l'eÂtat geÂneÂral de ce Royaume. J'ai peu parleÂ
du Roi et de la Reine. Je n'ai rien dit de leurs courtisans, ni des
ministres. J'ai voulu me donner le temps de fixer mon opinion sur
tous ces objets, et en connaõÃtre les deÂtails» 26.
CosõÂ Breteuil al duca d'Aiguillon (7 settembre 1773), nella lettera
d'accompagnamento ad una sua ampia relazione sulla corte napoletana. Il MeÂmoire dell'ambasciatore francese fa l'histoire-cabale e
l'histoire-portrait di quella corte nel periodo che va dall'istituzione
della Reggenza fino al 1773. Questo testo va, peroÁ, integrato con un
altro memoriale anonimo, le Observations sur le Royame de Naples et
de Sicile, datate 1774 e provenienti da Napoli. Negli Archives quest'ultimo documento si trova nell'ordine subito dopo la relazione
Breteuil e, dietro l'apparenza di un'asettica analisi socio-istituzionale del Regno, esso critica la mancanza di un indirizzo riformistico
nella politica napoletana. Una ragione evidente per la quale i due
documenti possono considerarsi come due facce della stessa medaglia eÁ individuabile nel movente politico che li ispira, ossia il tentativo di mostrare che il governo di Bernardo Tanucci era arcaico e
desueto. Una seconda ragione riguarda, invece, la destinazione
d'uso di essi: mentre il MeÂmoire di Breteuil appartiene al dominio
dell'informazione segreta, il secondo documento eÁ rivolto ad un
pubblico piu vasto del mondo diplomatico-politico.
Sul modello costruito dai MeÂmoires di Louis de Rouvroy, duca di
A.A.EÂ., Naples, MeÂmoires et documents, vol. 1, MeÂmoire sur la cour de Naples par le
baron de Breteuil, anneÂe 1773, (pp. 81-101r-v). Il MeÂmoire eÁ datato Naples 7 set. 1773, ed eÁ
allegato ad una lettera (datata Naples 8 set. 1773) inviata al duca d'Aiguillon, per il tramite
di M. De La Borde, «premier vallet de Chambre du Roy».
26
304
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
Saint-Simon, il documento di Breteuil si concentra esclusivamente
sulla nozione di «cabala», quale costruzione sociale provvisoria che
opera negli ambienti cortigiani e ai vertici dell'amministrazione statale al fine d'ottenere vantaggi per i propri aderenti. Le reti di
cabale, o di clans e partiti, se partono dalla sommitaÁ della casa reale,
tuttavia lasciano intravedere migliaia d'individui (ministri, diplomatici stranieri, potenti burocrati, alti magistrati, finanzieri, gran signori, gente di qualitaÁ, militari e prelati) che si uniscono o si dividono attorno ad esse. Le Observations combinano, invece, le configurazioni generali del MeÂmoire (come la coesistenza bi-generazionale
e bi-nazionale al potere delle Sicilie di Carlo III e di Ferdinando IV,
o il quadro di riferimento delle influenze politiche internazionali
diviso tra Spagna e Austria) con l'analisi delle forze socio-politiche
e socio-religiose in campo nel loro rapporto dialettico, con la realtaÁ
economico-commerciale delle Due Sicilie e con quella socio-istituzionale, con i problemi politici irrisolti.
Breteuil mette al centro delle sua histoire cabale/portrait l'idea
etno-centrica della coesistenza di due realtaÁ nazionali in forte contrasto nel regno meridionale: la siciliana e la napoletana. La conflittualitaÁ tra le due nazioni, ch'egli paragona a quella esistente in Gran
Bretagna tra inglesi e scozzesi, diviene il motore di ogni combinazione politica possibile, e i gruppi nobiliari, le loro fedeltaÁ e clientele
etno-centriche sono al centro della sua analisi politica. Il vero potere
eÁ, per Breteuil, nelle mani delle dinastie mandarinali ± in questo
caso dei siciliani ± che lavorano per abbattere il governo spagnolo
di Tanucci.
Nel suo testo Breteuil racconta dell'esistenza di due cabale,
corrispondenti all'asse bi-generazionale della regalitaÁ ispano-napoletana. In cioÁ, esso differisce dallo schema coevo di Broglie-Favier,
dove la configurazione del potere monarchico era invece trigenerazionale: re di Spagna/re di Napoli/erede al trono di Napoli. Un'altra
differenza fondamentale rispetto all'analisi di Broglie riguarda la
previsione di Breteuil circa la trasformazione della famiglia reale
di Napoli in una coppia cripto-monarchica (Maria Carolina e futuro
amante). Per quel che riguarda la decodificazione dei conflitti di
VI. La corte di Napoli
305
potere Breteuil utilizza lo schema capacitaÁ/incapacitaÁ di governo.
Ma vediamo piu da vicino la descrizione della casa del re di Napoli
offerta dall'ambasciatore francese.
Breteuil conferma che il partito del re di Spagna a Napoli aveva
giaÁ iniziato il proprio processo di decadenza con l'emergere della
cabala della duchessa di Castropignano, proprio intorno agli anni
Cinquanta. Antonio Genovesi nella sua Autobiografia racconta che i
Castropignano erano notoriamente tra le famiglie piu corrotte e
venali del Regno. Il marito, Francisco Evoli, «teneva mano ad alcune
furberie che si commettevano nelle promozioni militari», la moglie,
Zenobia Revertera, cercava «di tutto vendere per cioÁ che appartiene
a magistrati del governo civile». Tuttavia la duchessa, godeva di un
grande ascendente sulla regina, Maria Amalia, ben vista da tutti, per
cui «si credeva dal pubblico» che essa fosse «oppressa» dalla «dominazione di questa ambiziosa e avara donna» 27. Forse la giovane etaÁ
della regina, l'educazione aulica e formale ricevuta, ed il clima di
generoso ed astratto idealismo in cui anche Carlo viveva, costituirono i fattori che fecero cadere la regina in una trappola ordita molto
attentamente. La doppiezza della duchessa, che riusciva a mostrarsi
la piu religiosa, devota, pia e timorata di Dio, scrupolosissima dama
della corte, faceva un'incredibile presa sulla giovane ed inesperta
regina sassone. Pur travolti nel 1754 da un grosso scandalo, che
costoÁ loro il confino, le qualitaÁ della duchessa permisero alla famiglia
Castropignano di esercitare un grande potere nella vita pubblica
napoletana, e di giungere ad influenzare, anche se indirettamente,
l'educazione e la formazione del futuro re di Napoli. Breteuil e
Tanucci testimoniano che l'aio del re, Domenico Cattaneo, principe
di San Nicandro, aveva pagato la Revertera per quel posto d'educatore. Infatti, quando Carlo di Borbone salõÂ sul trono madrileno,
lascioÁ nelle mani del principe di San Nicandro il compito di curare
l'educazione dell'erede.
27
A. Genovesi, Autobiografia, in Autobiografia e Lettere, a cura di Gennaro Savarese,
Feltrinelli, Milano 1962, pp. 40-1.
306
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
4. Ferdinando secondo Breteuil: un'educazione mostruosa
Quali furono gli effetti di questa educazione e dell'ambiente di
corte sul giovane re di Napoli? Disastrosi, secondo Breteuil. Se
«le Roi de Naples a les meilleurs qualiteÂs de l'aÃme: il est doux, compatissant, porte aÁ la justice, et de l'abord le plus facile», e se «ce Prince a
recËu de la nature une conception aiseÂe qui l'aurait rendu susceptible
de l'eÂducation la plus rechercheÂe, et la plus avantageuse aÁ son rang
dans tout les genres», purtroppo il principe di San Nicandro «ne fut
pas meÃme capable de s'associer pour l'eÂducation de son pupille des
personnes en eÂtat de suppleÂer son peu de geÂnie et son ignorance».
Il risultato conseguito fu devastante per l'immagine interna ed
esterna della regalitaÁ napoletana («le Roi de Naples n'a pas recËu
un seul principe de gouvernement, ni aucune instruction politique
des affaires du dehors»), e la descrizione degli effetti educativi, cioeÁ
la singolare e quasi mostruosa fisionomia psicologica di Ferdinando
IV, collima perfettamente con quella (qui giaÁ utilizzata, e non meno
pertinente) di Giacomo Casanova e con le testimonianze di molti
altri contemporanei.
Tra queste, ad esempio, spicca il giudizio di un personaggio
d'eccezione, l'imperatore Giuseppe II. Per l'austriaco, il cognato
napoletano era un uomo privo di coerenza, vittima «dell'infame
educazione ricevuta», e sempre in bilico tra il tradizionalismo del
padre e l'antiformalismo lazzaronesco. Andava in giro seguito da
«due o tre grossi cani, che hanno il privilegio di entrare dappertutto,
di dormire su tutti i mobili ± che tanto a Portici quanto a Napoli
sono effettivamente superbi e di gusto eccellente ± e di riempire con
le loro sozzure tutte le camere». E poi, Ferdinando «non solo detesta[va] leggere, ma quasi piu ancora coloro che lo fanno». Scrisse del
re di Napoli l'ambasciatore francese,
«on ne a lui donne aucune des premieÁres ideÂes, ni meÃme le maintien
exteÂrieur de son rang. On lui a laisse prendre un deÂgouÃt pour toute
espeÁce de geÃne qui lui fait supporter trop impatiemment la moindre
repreÂsentation, et qui l'a trop eÂcarte des eÂtiquettes habituelles, que la
VI. La corte di Napoli
307
deÂcence et le respect du troÃne en rendent inseÂparable. Ce Prince, neÂ
affable, en aurait conserve tout le charme, si son caracteÁre avait eÂteÂ
maintenant aÁ cet eÂgard dans des bornes eÂclaireÂes par le devoir de sa
position; mais, abandonne sur ce point au peu de retenue de la
jeunesse, il est devenu d'une familiarite sans mesure, et sans distinction, dont la plupart de ceux qui l'approchent abusent trop souvent,
et d'ou il suit neÂcessairement un ton souvent peu fait pour la cour
d'un grand Prince, ainsi qu'un choix des personnes aussi peu faites
pour l'habiliter» 28.
Per Breteuil, Ferdinando conosceva la lingua tedesca e quella francese, e giurava che qualche volta il re di Napoli gli aveva rivolto la
parola in queste lingue. Tuttavia egli fu persuaso ad usare esclusivamente la lingua del suo paese, «de manieÁre qu'il ne parle meÃme
presque jamais le bon italien, mais le napolitain, qui est un patois
que le bas peuple seul parle». Il perche di una cosõ perfida manipolazione dell'erede al trono, viene individuata da Breteuil nel bisogno di tenere il futuro re in uno stato di sudditanza psicologica
verso i suoi cortigiani:
«on doit croire que l'objet des entours de son enfance, en le reÂduisant
aÁ l'usage de ce meÂchant langage, a eÂte de le tenir davantage dans leur
deÂpendance» 29.
Ma, coll'andare degli anni, questo piano non ha sortito alcuno effetto. Anzi, una volta raggiunta l'etaÁ della ragione, Ferdinando reagõÂ
con il prendere «dans la plus grande aversion tout ceux qui y ont eu
une partie directe». Purtroppo, il giovane re si eÁ alla fine circondato
di gente peggiore di quella che l'aveva allevato: «n'a appele aupreÂs de
lui que les jeunes gens les plus livreÂs aÁ la dissipation». E Sannicandro, anziche avvertirlo e correggerne le cattive attitudini,
«s'est preÃte par faiblesse autant que par ambition aÁ tout ce qui pouvait
eÂcarter le Monarque de l'application, du travail, et des connaissances
28
29
MeÂmoire cit. in nt. 26, p. 83v.
Ivi, p. 84r.
308
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
qui en inspirent le gouÃt. On n'a pas cherche aÁ lui donner celui de la
lecture, ni de ces entretiens qui eÂtendent les ideÂes et meÁnent aux
reÂflexions. On n'a preÂsente aÁ l'ardeur de sa jeunesse que la chasse,
la peÃche, le ballon; enfin, tous les exercices du corps les plus violents» 30.
Ne migliore parte nella sua educazione aveva presa l'unico individuo della corte napoletana libero da impegni di partito o di ceto e
fedele al re padre: cioeÁ Bernardo Tanucci. Allo statista toscano si
debbono gli unici due capolavori dell'educazione politica del re di
Napoli: l'anticlericalismo e il misogallismo:
«M. de Tanucci s'est borne aÁ lui donner de l'aversion pour Rome, et
en geÂneÂral de l'inquieÂtude sur le systeÁme eccleÂsiastique, qui depuis
longtemps, n'est pas assureÂment fort aÁ redouter, et est bien aujourd'hui dans la deÂpendance du pacte de famille. Mais, ce que Sa Majeste napolitaine sait le moins, c'est ce qu'elle a droit d'attendre aÁ
tous eÂgards, ou ses obligations, comme le Prince de la maison de
Bourbon. Ses ideÂes sur ce point ne sont gueÁres fixeÂes que sur le
Roi d'Espagne, son peÁre, ce ne sera pas ma faute, si elles ne s'eÂtendent pas davantage sur l'origine de sa grandeur et sur plus solide
appui».
«Le gouÃt que le Roi de Naples a montre depuis quelques anneÂes
pour le militaire, bien dirigeÂ, aurait pu aiseÂment retirer ce Prince
avec grande utilite de son inattention et inapplication aux choses
essentielles; mais au lieu de profiter de ce germe heureux, pour le
deÂvelopper avec avantage, on a trouve le moyen de n'en faire qu'une
pueÂrilite destructive en tout sens pour le vrai militaire; eÂgalement
nuisible aux finances du Roi, et aÁ la deÂcence exteÂrieure de la cour.
On construit aÁ grands frais dans les maisons de plaisance de sa Majeste des petites forteresses, ou le service et un sieÁge ne sont retraceÂs
que par des enfantillages. On eÂtablit des campements, de manoeuvres, et des attaques du meÃme genre, au lieu de se servir pour perfectionner son gouÃt naissant pour les exercices et la discipline militaire, du ReÂgiment des Gardes Italiennes et Suisses ou des autres
corps qui composent la garde habituelle de la ville de Naples, le Roi a
creÂe pour son amusement guerrier un corps des cadets d'abord de
30
Ivi, p. 84v.
VI. La corte di Napoli
309
cent jeunes gens pris sans distinction d'eÂtat, et porte ensuite aÁ preÂs de
quatre cent de la meÃme espeÁce» 31.
Breteuil spiega che il re ha inoltre creato un gruppo di quattrocento
marinai, «d'abord sous le nom de Liparotes, et ensuite sous celui de
Volontaire royaux de la Marine». Inoltre, «les hommes qui composent ce petit corps sont choisis pour la taille sur toute l'armeÂe, et
sont d'une grande beaute» 32.
Nonostante il re di Spagna abbia disapprovato la creazione di questo battaglione, cioÁ non ha impedito a Ferdinando di costruire degli
stabili per avere questi due corpi vicini, e gli «chef des maisons les plus
considerables se sont dispute les plus petits emplois dans ces deux
corps». Inoltre, vestendo il Re abitualmente l'una o l'altra uniforme,
«la cour a pris et conserve toujours l'air d'un quartier geÂneÂral» 33. Di
fronte ai dissesti che queste spese apportano all'erario regio, «M. de
Tanucci a l'air d'en geÂmir souvent, mais il ne met pas le meÃme empressement a faire sentir les conseÂquences de ce surcroõÃt de deÂpense
inutile. On peut croire qu'il n'est pas faÃche que le Roi preÂfeÁre les
exercices militaires au soin geÂneÂral du gouvernement» 34.
A questo punto Breteuil inserisce un argomento di grande importanza sul ruolo che Tanucci gioca nel regno di Napoli:
«Il est certain que sa Majeste sicilienne le lui [cioeÁ Tanucci] a abandonne absolument. Elle consideÁre et respecte dans la personne de ce
Ministre l'homme de confiance du Roi son PeÁre, et ses volonteÂs ce
Prince est tellement accoutume a croire que le droit de deÂcision
appartient aÁ M. de Tanucci, qu'il ne se permet pas le plus leÂger eÂcart
des vues de son ministre» 35.
Anche se ± aggiunge l'ambasciatore francese ±, a volte, da atti e
parole detti da Ferdinando, si comprende ch'egli inizia a maltollerare il ministro:
31
32
33
34
35
Ivi,
Ivi,
Ivi,
Ivi,
Ivi,
pp. 85-86v.
p. 86v.
p. 86v-87r.
p. 87r-v.
p. 87v-88r.
310
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
«il perce quelquefois des choses, et des mots qui peuvent faire croire
que Sa Majeste verra sans peine, et a meÃme une sorte d'impatience
pour le moment de se saisir de son autoriteÂ: de sorte qu'on ne peut
gueÁre juger ce prince avant l'eÂpoque ou la mort du M. de Tanucci l'aura
rendu aÁ tous les droits de sa couronne et de son raisonnement» 36.
Secondo Breteuil, Ferdinando avrebbe dovuto trovare un ministro
che «en sut assez le langage, et qui voulut assez lui en apprendre la
marche pour ne le pas fatiguer d'abord des deÂtails inutiles, et lui
rendre le travail agreÂable»: ma intorno a Ferdinando non si vedono
personaggi di quella caratura 37.
Il ritratto che Breteuil fa del San Nicandro eÁ impietoso, e spiega
l'ascesa del personaggio con l'appartenenza alla cabala dei Castropignano, che imperoÁ a Napoli dopo la caduta di Montealegre 38. La
«segreta amicizia» tra il San Nicandro e la duchessa di Castropignano era stata giaÁ notata da Tanucci nel 1760, in occasione di «un
discorso fattomi in gennaro da S. Nicandro di non far grande opposizione ad un affare della Duchessa, in aria di avvertirmi a non mi
tirar l'odio della Regina» 39.
5. Origini della crisi etica: l'influenza dei Castropignano (1746-1766)
Il nome dei Castropignano rievoca l'emergere delle debolezze
antiche e strutturali nel governo delle Sicilie, difficoltaÁ pregresse che
erano state in parte attenuate, in parte nascoste dalla protezione
generosamente esercitata da Elisabetta Farnese sul regno del suo
figlio prediletto. Merito di quella regina, e fattore d'ordine per il
Mezzogiorno era stato in primo luogo un certo controllo da lei eser36
Ibidem.
Ivi, p. 88r.
38
«Mais le Prince de Saint Nicandre, trop au dessous par ses talents d'un emploi si
distingueÂ, et n'y eÂtant parvenu qu'aÁ l'aide de l'intrigue et de beaucoup d'argent distribue aÁ
la Duchesse De Castropignano qui avait alors tout pouvoir sur le creÂdit preÂpondeÂrant de la
Reine d'Espagne» (ivi, p. 83r-v).
39
Tanucci a Losada, Portici 18 nov. 1760, in Tanucci, Epistolario, vol. IX, 1760-61, a
cura e con introd. di Maria Grazia Maiorini, Storia e Letteratura, Roma 1985, let. në. 82,
p. 117.
37
VI. La corte di Napoli
311
citato nella scelta dei collaboratori di Carlo, in secondo luogo la
prosecuzione delle linee teoriche e programmatiche create e sperimentate fino al 1736 da Jose PatinÄo (uscito definitivamente di scena
in quell'anno), e poi impersonate ed intelligentemente impostate dai
suoi allievi ed ex collaboratori. L'influenza di quel grande statista,
riconosciuta dalla storiografia spagnola, non riesce ancora ad illuminare le vicende del governo napoletano nel primo decennio del regno
borbonico, nonostante la grande mole di documenti in questi ultimi
anni pubblicati.
Poi, la fase 1746-1766 (dalla morte di Filippo V al motõÂn di
Squillace) mise in luce l'incapacitaÁ delle Sicilie di stare in piedi senza
una protezione esterna specifica e disinteressata, essendo la fisionomia del Mezzogiorno giaÁ da molti decenni segnata come regione ad
economia coloniale. EÁ singolare che questa dipendenza dalla Spagna
di Elisabetta e di PatinÄo dal 1734 al 1746 sia trascurata da certa
storiografia che, mentre esalta il potere dei re cattolici, non valuta
la profonda differenza tra le personalitaÁ di tre sovrani che ebbero
ben poco in comune sul piano della politica di governo e che espressero linee molto diverse, in gran parte divergenti: FilippoV (di cui
sono da distinguere le due fasi precedente e seguente il matrimonio
con la Farnese), Ferdinando VI e Carlo III. Si esalta il potere spagnolo, ma non se ne valuta la direttiva che era e non poteva che
essere incerta e molto oscillante; si discredita il riformismo napoletano degli anni 1735-1746, e si trascura che fu possibile grazie alla
copertura internazionale spagnola. Forse per mero nazionalismo, si
celebra (errore che fu compiuto giaÁ da Michelangelo Schipa) la fase
successiva al 1746, senza tener conto delle testimonianze coeve che
dichiarano e dimostrano un'involuzione gravissima, un calo verticale delle speranze e delle forze morali, fattori involutivi faticosamente contrastati soltanto dall'ottimismo programmatico di Genovesi (che realizzava cosõÂ l'ideale propulsivo della sua funzione pubblica, ma era gravemente scoraggiato e che, come Celestino Galiani,
morõÂ disperato), dal lavoro compiuto della cultura critica e dissenziente da lui seminata e coltivata, e dal rigore alquanto antiquato,
politicamente poco integrato, culturalmente prevenuto e mal ag-
312
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
giornato di un uomo spigoloso, ma amante del bene pubblico come
Bernardo Tanucci.
La fase che indichiamo come caratterizzata dall'influenza disastrosa dei Castropignano eÁ cronologicamente databile in rapporto
alla disgrazia politica di Montealegre, ed eÁ dimostrata da parecchie
fonti contemporanee, oltre che dal nostro Breteuil. Tanucci segnalava continuamente i movimenti politici, la rete di clientele, la corruzione e la venalitaÁ di quel clan, dal quale dipendevano tutte le
distorsioni e le irrazionalitaÁ della vita politica e specialmente della
corte napoletana, in primo luogo una finanza di espoliazione e senza
controllo, la caduta verticale di ogni difesa e tutela degli interessi
pubblici. Politica che si riveloÁ disastrosa dopo il 1759 anche in
Spagna, proseguõÂ quasi per inerzia fino al 1766, poi crolloÁ in seguito
alla rivolta popolare, che insegnoÁ al re di non fidarsi dei suoi vecchi
collaboratori, scelti malissimo anche dall'ingenuitaÁ della regina.
La regina sassone era stata conquistata dalla Castropignano con
il parlare «di religione, di miracoli, di vita celestiale, di monaca di
Capua, di quella dello Splendore, del padre Savastano». Infatti l'amica consigliera e falsa bigotta seguõÂ la coppia regnante in Spagna,
dove aveva «molto accumulato, Dio sa come». Un anno piu tardi, la
morte di Maria Amalia fece scrivere a Tanucci che «la disgrazia»
occorsa a Carlo comportava comunque il «bene» di vedere finire
«quella stizza» che il re nutriva verso «l'insolente e malcreata Castropignano, la quale, secondo tutte le lettere di cotesta corte, era il
vero diavolo della casa e la vergogna della Spagna e dell'Italia» 40.
Scaricata subito e «con insulto» anche dall'ambasciatore francese,
con la cui nazione aveva vecchie relazioni quasi oscene (sostanzialmente da spia, secondo quanto emerge dai documenti segreti francesi), la Castropignano ritornoÁ a Napoli, dove «mostr[oÁ] di volersi
godere quel bene che [aveva] acquistato colle [sue] `onorate' fatiche,
celebri in Italia e Spagna» 41. Il ritorno a Napoli segnoÁ il declino del
suo potere: «ha qualche amico» ± notava Tanucci ± e «tra questi sono
40
41
Ivi, Tanucci a Iaci, Portici 25 nov. 1760, let. në. 98, p. 142.
Ivi, Tanucci a Iaci, Portici 11 nov. 1760, let. në. 67, pp. 103-4.
VI. La corte di Napoli
313
li due capi di corte S. Nicandro e Riccia, che a lei devono le piazze
loro; eÁ credibile che le abbiano comprate, ma convien loro dissimularlo» 42. Se, di questa potente famiglia, il culmine del successo corrisponde alla crisi delle riforme avvenuta nel regno con la fine della
stagione montealegrina, la sua caduta, nel 1766, coincise con l'ascesa
politica di Tanucci all'interno della Reggenza.
Nel 1750 l'ambasciatore piemontese Ludovico Solaro di Monasterolo aveva segnalato l'esistenza di due partiti che si contendevano
l'influenza delle decisioni politiche nel regno napoletano: quello
spagnolo del duca di Miranda, compagno d'infanzia e amico inseparabile del re Carlo, e quello vicino alla Francia della Castropignano,
amica di Maria Amalia. Il savoiardo descrisse i due schieramenti
come «due fazioni [...] tendenti ognuna di esse a distruggere l'altra,
onde prevedo molte turbolenze in questo picciolo mare, che diviene
assai burrascoso» 43.
Leopoldo De Gregorio fu nominato segretario d'Azienda nel
1753 anche grazie alla intercessione di questo clan, e la sua nomina
segnoÁ l'apogeo del potere dei Castropignano. Secondo un ampio
memoriale inedito, redatto in quegli anni da un anonimo molto
addentro alle vicende curiali,
«La Regina aveva lasciato prendere alla duchessa di Castropignano
tanto ascendente sopra il suo spirito che il marchese Fogliani per
mantenersi crede doversi attaccare a questa dama e divenne suo
cortigiano, per modo che [...] niente si fece che per volontaÁ della
Regina e per il parere del duca e duchessa di Castropignano [...] Il
duca Miranda medesimo, che sino allora aveva sostenuto il partito
spagnuolo, fu strascinato per il torrente dalla parte del favore, e la
corte di Napoli si vide governata a piacere del principe d'Aragona e
del duca e duchessa di Castropignano, principali confederati della
Regina. Essi tentarono tosto di allontanare il marchese Fogliani per
sostituirgli una loro creatura: ma il Re, che si pentiva internamente di
aver lasciato prendere tanta autoritaÁ alla Regina, fu sordo alle insinuazioni di questa Principessa. Il Ministro, d'altra parte, diffidando
42
43
Ivi, Tanucci a Iaci, let. 67 e 98, cit. supra, nelle nn.tt. 40 e 41.
A.S.T., mazzo 9, 15 dic. 1750.
314
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
della costanza del suo Padrone e vedendo troppo tardi che egli s'era
lasciato soggiogare senza avere bastante coraggio ne bastanti risorse
in se stesso per scuotere il giogo, avrebbe desiderato di vedersi scaricare il fardello troppo pesante per lui e di rimpiazzare il principe di
Ardore nella sua imbasciata in Francia. Egli sentiva d'altra parte che,
nel disordine estremo in cui eran gli affari, sarebbe stato bisogno di
un ministro di una capacitaÁ superiore e che egli non era nel caso» 44.
Queste ultime affermazioni, ed in genere la diagnosi dell'anonimo,
che era un afrancesado, coincidono perfettamente con i penetranti
giudizi coevi, espressi da un amico personale di Tanucci, il senatore
Lionardo Del Riccio, in alcune lettere da Napoli nel 1751, recentemente pubblicate da Raffaele Iovine 45. Quando Antonio Genovesi
rifiutoÁ l'incarico d'istitutore dei due figli dei duchi di Castropignano,
il governo francese riuscõÂ ad introdurre in quella famiglia un suo
agente segreto, tale La Tour 46. Questi, entrato nell'intimo della Castropignano (Zenobia Revertera), pote spiare la corte di Napoli e
divenne uno strumento di pressione in favore della Francia. La coerenza di questi giudizi, provenienti da fonti diverse, portano ad una
conclusione ormai certa: la caduta di Montealegre e la crisi della sua
politica si risolsero in un governo che, lungi da dimostrare «una
capacitaÁ superiore» a quello precedente, segnoÁ un'involuzione cui
incominciarono a porre rimedio, dopo la partenza della coppia regnante per Madrid, la forte volontaÁ e la tenacia di Bernardo Tanucci.
Carlo, tuttavia, dimostroÁ appieno la sua inesperienza politica
strutturando la Reggenza in modo da concedere un potere paraliz44
B.N.N., ms. I C 16. Su questi due ultimi documenti, piu volte segnalati da Ajello,
I filosofi e la Regina, cit. cap. IV, nt. 67, e La parabola settecentesca, nel vol. misc. Il
Settecento, Electa Napoli. XY.
45
Cit. in cap. IV, nt. 73.
46
L'episodio relativo a Genovesi eÁ raccontato nella sua Autobiografia, in Autobiografia
e Lettere, a cura di Gennaro Savarese, Feltrinelli, Milano 1962, pp. 38-39. Inoltre, l'abate
salernitano racconta dello scandalo che aveva coinvolto il duca per le forniture all'esercito,
compito al quale egli era addetto, e dell'episodio dell'esilio della Minervino, amante di
Losada, nipote di Francesco Ventura, invisa alla Revertera (rispettivamente alle pp. 40-1 e
39-40). Per l'espion La Tour, cfr. A.A.EÂ., Naples, Correspondance politique, vol. 5, 1750, f.
168 e passim. La spia in casa Castropignano eÁ segnalata anche dall'ambasciatore spagnolo:
A.G.S., leg. 5857, ff. 127 e 161.
VI. La corte di Napoli
315
zante ad aristocratici siciliani e napoletani che erano privi di senso
dello Stato e capacissimi di sacrificare la razionalitaÁ della pubblica
gestione agli interessi loro e dei loro amici. La Reggenza divenne il
luogo in cui il particolarismo irrazionale ed asociale diventava norma
di Stato. L'eccezionale competenza di Maria Grazia Maiorini, qui
piu volte chiamata in causa, subisce spesso una sorte di eclissi degli
storici che vogliono costruire sintesi preconcette, senza aver letto le
carte di archivio e senza tener conto di chi ha lavorato per anni nel
pubblicarle, annotandole con cura ed intelligenza.
In definitiva, fu reso vano il vantaggio delle Sicilie di avere al
vertice della Reggenza e come uomo di fiducia del Re un intellettuale
colto, dotato di rigore e disposto ad impegnarsi per migliorare l'andamento della disastrata macchina statale. Nell'attivitaÁ del governo
una fortuna anche maggiore fu poco utilizzata ed in gran parte
dissipata: l'insegnamento di Genovesi, che tuttavia si diffuse su
un altro piano, quello della societaÁ e della cultura media ed alta.
Insomma, neanche allora le condizioni furono propizie a realizzare
l'obiettivo, da secoli ripetutamente mancato: l'inserimento delle
Sicilie in Europa come soggetto di diritti, non come luogo di sottosviluppo ed oggetto di sfruttamento e di arbõÂtri.
6. Guerra dei sessi e potere nella cour de Naples: Maria Carolina
Ad un tratto della sua relazione sulla corte napoletana Breteuil
prefigurava la futura chiave di volta dell'intero sistema di governo
delle due Sicilie, sostenendo che alla caduta di Tanucci «la Reine aura,
si elle le veut, la principale partie de l'autorite», giacche «tout annonce
et prouve son ascendant sur le Roi» 47. L'uomo di Choiseul s'affrettava
a rassicurare i suoi destinari, aggiungendo un fine ritratto psicologico,
tutto teso a dimostrare l'innocuitaÁ di Maria Carolina per la Francia:
«Rien ne montre que cette Princesse en ferait un mauvais usage, ni
qu'elle ait encore les deÂsirs de l'ambition. Elle se borne aujourd'hui aÁ
47
A.A.EÂ., Naples, MeÂmoires et documents, vol. 1, MeÂmoire sur la cour de Naples par le
baron de Breteuil, anneÂe 1773, ms. cit. (nt. 26), pp. 88r-91v.
316
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
obtenir des petites graÃces pour ses entours, et ne parait pas chercher
aÁ entrer dans les objets les plus importants» 48.
CosõÂ, nei primi anni settanta, i lineamenti principali del ritratto di
Maria Carolina erano stati giaÁ fissati dalla diplomazia francese.
Tuttavia essi s'induriranno in seguito, via via che la regina, molto
prima del grande trauma del 1799, diverraÁ oggetto di una vera e
propria campagna d'opinione sulla scena europea. Furono proprio le
recriminazioni della Francia, che temeva l'autonomia delle Sicilie
dal proprio condizionamento marittimo ed economico ± a seguito
del nuovo indirizzo anglofilo in politica estera intrapreso intorno alla
metaÁ degli anni ottanta dal governo napoletano ± a convincere del
tutto Floridablanca a chiedere la detronizzazione della regina di
Napoli, cosõÂ come era giaÁ accaduto nel 1772 a Carolina Matilde di
Danimarca. Di questa vicenda recoÁ testimonianza autorevole il fratello di Maria Carolina, Leopoldo, il granduca di Toscana 49. I due
fratelli Asburgo, dal canto loro, erano ben consapevoli dell'indipendenza della sorella rispetto le loro indicazioni politiche, e ne constatavano una vivacite di carattere, causa del malgoverno siciliano 50.
48
Ivi, p. 90v.
Su questa vicenda cfr. la ricostruzione ben documentata di Ajello, I filosofi e la
regina, cit. (cap. IV, nt. 67), I parte, p. 406 e ss. Ivi per la reazione di Carlo III.
50
«Pour moi j'avertis, je conseille et je preÃche la Reine autant que je puis, mais je
crois que cela ne fait gueÁre d'effet. Elle est trop vive et de trop premieÁre impression,
soupcËonne trop et en meÃme temps se confie trop facilement aÁ tout plein de gens qui ne le
meÂritent point, et en abusent»: Leopoldo a Giuseppe, 11 giugno 1786, in Joseph II und
Leopold von Toscana, Ihr Briefwechsel von 1781 bis 1790, a cura di Alfred Ritter von
Arneth, BraumuÈller, Wien 1872, vol. II, p. 28. Uguale dinamiche comportamentali segnalava il Breteuil: «la reine a de l'esprit, et assez de culture. Son caracteÁre est doux,
bienfaisant et ouvert: mais cette dernieÁre qualite est peut-eÃtre plus la suite de l'indiscreÂtion que de la franchise. Ses amitieÂs pour les Dames qui l'approchent le plus sont variantes,
mais pendant leur dureÂe, la Reine ne connaõÃt aucune borne aÁ sa confiance. Et son choix
dans ce sentiment, trop peu conduit par la reÂflexion, l'a souvent compromise. Cette
Princesse le sait, le dit, mais n'apprend pas meÃme par de cruelles expeÂriences a modeÂrer
l'exceÁs de sa confiance, ou aÁ la mieux placer» (A.A.EÂ., Naples, MeÂmoires et documents, vol.
1, MeÂmoire sur la cour de Naples par le baron de Breteuil, anneÂe 1773, ms. cit. (nt. 26), p. 90rv). E il 12 aprile 1788 Giuseppe II segnalava all'ambasciatore Thugut: «J'y vois avec peine
les deÂsordres qui reÁgnent aÁ Naples, et les chagrins ineÂvitables qu'en doit ressentir la Reine,
mais aÁ ce mal il n'y a pas de remeÁde, car il prend sa source dans le moral et en grande partie
dans le physique de la Reine» (Joseph II und Leopold von Toscana, Ihr Briefwechsel von
49
VI. La corte di Napoli
317
Non molto tempo fa, indagando sulle ragioni della mancanza
d'interesse della storiografia del Novecento per la corte napoletana
della fine del Settecento, Raffaele Ajello, in un saggio finalmente
chiarificatore del regno di Ferdinando IV, della figura della regina e
dei rapporti tra intellettuali e potere, aveva individuato alcuni intralci che si frapponevano alla piena e chiara comprensione delle
dinamiche socio-politiche che precedevano la crisi finale dell'antico
regime nel regno meridionale 51. Un primo ostacolo era subito nato
con il grande trauma del 1799, a seguito delle pesanti accuse che
contro la figlia di Maria Teresa d'Austria furono avanzate in modo
unanime dai memorialisti contemporanei e dagli storici di poco successivi. Gorani, Cuoco, Lomonaco, Michelet, Colletta ± per citarne
solo i maggiori ± con le loro feroci critiche erano apparsi talmente
estremi e duri nei giudizi sulla regina, da sembrare totalmente accecati dal furore ideologico del clima postrivoluzionario. Nel corso
dell'Ottocento, la montante sensibilitaÁ nazionale italiana aveva
compiuto il resto della demolizione, creando un ulteriore intralcio
per la serena analisi di quella vicenda. Requisitoria pienamente avallata da Benedetto Croce che riconobbe intelligenza e vivacitaÁ in
quella donna, ma che denunzioÁ l'incapacitaÁ ad incanalare quelle doti
verso la pubblica utilitaÁ. La regina non era in grado di concepire lo
Stato in modo moderno, avendo in testa un guazzabuglio d'idee
diverse, sempre disposte a piegarsi di fronte a pulsioni di origini
tutt'altro che intellettuali. A parziale rettifica di tutto si aggiunse
nel corso del Novecento l'abbandono della storia diplomatica, l'attrazione per lo studio della cultura illuministica e una nuova sensi1781 bis 1790, cit. supra, p. 174). Ma giaÁ nel 1773, Breteuil testimoniava che i rapporti tra
Maria Carolina e il fratello non erano buoni: «la Reine conserve un grand respect, et
beaucoup d'attachement pour l'ImpeÂratrice sa meÁre, tant que l'ImpeÂratrice vivra, ses
vues et son creÂdit seront aÁ ses ordres. Mais elle est bien loin de ce sentiment pour
l'Empereur son freÁre. Elle n'estime ni son coeur, ni son esprit. Elle croit que l'une et
l'autre ne connaissent que le mouvement de son inteÂreÃt. Elle est persuadeÂe que l'ambition
de l'Empereur le compromettra plus souvent qu'elle ne le servira» (A.A.EÂ., Naples, MeÂmoires et documents, vol. 1, MeÂmoire sur la cour de Naples par le baron de Breteuil, anneÂeÁ
1773, ms. cit. (nt. 26), p. 90v).
51
Ajello, I filosofi e la regina, cit. (cap. IV, nt. 67), parte I e II.
318
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
bilitaÁ verso gli aspetti storici strutturali e sociali, e ± non ultima ± la
tendenza femminista a rivalutare o giustificare l'opera dei piu famosi
personaggi storici del gentil sesso.
Ai precisi e ben documentati giudizi di Ajello, va aggiunto un
rilievo su una piu sfumata difficoltaÁ che oggi si frappone alla demolizione degli idola storiografici nati sulla scorta della leggenda nera di
Maria Carolina. Questo ostacolo eÁ creato dalla mentalitaÁ ed emotivitaÁ contemporanee relativamente al rapporto tra sessi. In un tempo
che colloca cosõÂ in alto i valori femminili e chiede riservatezza e
libertaÁ per la sfera del privato femminile, riesce piu difficile giudicare
una donna di potere anche sulla base della sua condotta intima. E si
tende a diffidare inconsapevolmente di chi, invece, esprime giustamente una stima complessiva della biografia d'una regina del Settecento. Eppure il giudizio storico sulla regina di Napoli deve avere
consapevolezza della sensibilitaÁ europea del tempo, fortemente caratterizzata da un esplicito antifemminismo e da una crisi dei valori
del legittimismo monarchico. Semmai occorre distinguere nel coacervo pubblico/privato della vita di una regina l'uso ideologico e politico
che della sua intimitaÁ si fece. Inoltre, bisogna tenere presente che nel
corso della seconda metaÁ del Settecento andava presentandosi nel
mondo occidentale una nuova semantica dei sentimenti, con l'emersione prepotente di una nuova sintesi di plaisir e amour 52.
Alla fine del secolo dei Lumi, l'amour passion iniziava ad essere
visto come felicitaÁ coniugale, che esigeva l'inclusione della sensualitaÁ
in un processo di reciproca formazione della forma psichica e spirituale 53. Di lõÂ a poco, la semantica dell'amore troveraÁ la forma del Romanticismo, contro il vecchio codice matrimoniale in uso tra i ceti elevati,
che puoÁ essere stigmatizzato nella formula di Montaigne: «un bon
mariage, s'il en est, refuse la compagnie et les conditions de l'amour» 54.
52
Particolarmente efficace il tentativo di sintesi di questi temi della matura cultura
dell'etaÁ dei Lumi su una scala comparata europea di N. Luhmann, Amore come passione,
Laterza, Bari 1985 (trad. ital), alla quale rimandiano anche per gli approfondimenti bibliografici.
53
Ivi, spec. le pp. 128 ss..
54
Montaigne, Essais, Gallimard (BibliotheÁque de la PleÂiade), Paris 1950, p. 952.
VI. La corte di Napoli
319
Il rifiuto di Tanucci per l'introduzione nella corte napoletana di costumi francesi («beata cotesta Corte, ove non usa il francesismo di farsi
gli affari colle femine»), fondato sui presupposti della sua cultura umanistica, procedeva di pari alle reazioni di altri paesi e di altre letterature
verso i modelli francesi 55. A Versailles e negli strati piu alti di quel
paese, la liberazione dei rapporti sessuali era progredita a tal punto,
ch'essa andava contro l'ormai matura tendenza europea di una possibile integrazione di amore e sessualitaÁ 56.
In Europa l'esempio della regnante napoletana fu tutt'altro che
isolato. Accanto a lei si collocavano Caterina di Russia, Carolina
Matilde di Danimarca, Maria Luisa di Parma, moglie di Carlo IV
di Spagna, e le altre sorelle Asburgo, poste sui troni di Parma e di
Parigi. Proprio quest'ultimo caso, dimostra in maniera inconfutabile
che la campagna d'opinione pubblica contro Maria Antonietta, prima e dopo il 1789, mantiene come repertorio di base due figure
obbligate. La prima ha i contorni di marca politica: la regina eÁ una
straniera che vuole trarre vantaggi per il suo paese d'origine, approfittando della debolezza di Luigi XVI. La seconda, nata da un pettegolezzo di corte, intende pescare nell'immaginario collettivo i motivi della repulsione morale verso la regnante: a fronte della notoria
impotenza del marito, la regina eÁ una donna la cui sessualitaÁ eÁ capace
di tutte le dissolutezze 57. GiaÁ nel 1775 la stessa Maria Antonietta
55
La lettera di Tanucci a Losada, Tanucci, Epistolario, 1774, cit. in cap. IV, nt. 23,
let. në. 464, giaÁ cit. supra, nt. 9.
56 Á
E la tesi di Luhmann, che condividiamo in linea generale. La contemporanea
letteratura francese abbonda di esempi di questo genere (Laclos, de Sade etc.). Ci piace
qua citare quello della madame d'EÂpinay, donna straordinariamente intelligente e sensibile.
Dettagli su questa materia si possono cogliere nelle sue lettere ad un uomo di uguale spirito,
Ferdinando Galiani (La signora d'EÂpinay e l'abate Galiani. Lettere inedite (1769-1772) e Gli
ultimi anni della signora d'EÂpinay. Lettere inedite all'abate Galiani, ambedue con introduzione e note di Fausto Nicolini, rispettivamente Laterza, Bari 1929 e 1933).
57
Su Maria Antonietta, cfr. il classico ed insuperato S. Zweig, Maria Antonietta,
Milano, Mondadori 1984 (trad. it., la prima edizione in lingua tedesca eÁ del 1932).
Come nel caso del regno governato da Maria Carolina, studiato da Raffaele Ajello (ma
che andrebbe analizzato anche dopo il 1786, termine ad quem scelto dallo storico napoletano, ed oltre il quale si muove la ricerca della giovane Cinzia Recca), il quadro francese ed
internazionale appare oggi molto piu chiaro grazie a nuove letture offerte da alcuni storici
statunitensi sulle responsabilitaÁ rivoluzionarie dell'immagine scandalosa della regina, a
320
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
confidava alla madre che nelle canzoni satiriche che andavano moltiplicandosi in Francia lei era diventata persino lesbica 58. Poi, le
argomentazioni sulla sessualitaÁ anomala della regina saranno sfruttate politicamente sino al parossismo e all'inaudito da HeÂbert, con la
produzione davanti il tribunale repubblicano della testimonianza del
figlio di otto anni, che accusa la madre regina di giochi incestuosi 59.
Le analogie del caso della regina francese con quelle della sorella
napoletana sono sconcertanti, per non pensare a possibili contaminazioni, proprio a partire dalla costruzione di portraits da parte dei
diplomatici stranieri. Le immagini di ambedue hanno poi finito per
contribuire al processo di degradazione della percezione collettiva
della regalitaÁ durante gli ultimi anni dell'antico regime.
Nei primi anni settanta la coppia regale ancora non eÁ arrivata ai
quei livelli di crisi che Ferdinando IV descriveraÁ al padre in una
famosa lettera dalla forte carica di umorismo involontario 60. Per
Breteuil, «leurs MajesteÂs vivent dans la meilleure intelligence, et
sont reÂciproquement assez occupeÂes des attentions capables de la
maintenir, sans qu'aucun sentiment bien vif en soit le fondement».
EpperoÁ, mentre Maria Carolina, se non dissimula gelosia, tuttavia
tenta d'allontanare con ogni mezzo le amanti del marito dalla corte,
il paziente Ferdinando eÁ costretto a provvedere per il rinnovo delle
partire dalla ``feminist history'' (L. Hunt, C. Thomas, S. Maza e J. Revel). Il punto della
situazione storiografica, cui si rimanda anche per gli opportuni riferimenti bibliografici, in
V.R. Gruder, The question of Marie-Antoinette: The Queen and Public opinion before the
Revolution, in «French Historical Studies», 2002, n. 16, pp. 269-298. Cfr., ancora, l'importante studio sull'austrofobia in Francia alla vigilia della rivoluzione di T.E. Kaiser,
Who's afraid of Marie Antoinette? Diplomacy, Austrophobia and the queen, in «French History», 2000, n. 14, pp. 241-71, mentre sul ruolo politico svolto dalla regina di Francia, cfr.
J. Hardman, French politics 1774-1789 from the accession of Louis XVI to the fall of the
Bastille, Londra 1995, pp. 198-215 ed il giaÁ cit. M. Price, Preserving the monarchy: the comte
de Vergennes, 1774-1787, Cambridge 1995 e Id., The fall of the French monarchy. Louis XVI,
Marie-Antoinette and the baron de Breteuil, Cambridge 2002, pp. 7-17.
58
Maria Theresia und Marie Antoinette, Ihr Briefwechsel, a cura di Alfred Ritter
von Arneth, BraumuÈller, Leipzig-Paris-Wien 1866, p. 211.
59
Cfr. J. Revel, Maria Antonietta, in Dizionario critico della rivoluzione francese, a cura
di FrancËois Furet e Mona Ozouf, Bompiani, Milano 1988, p. 389.
60
Ajello, I filosofi e la regina, cit. (cap. IV, nt. 67), parte I, p. 422.
VI. La corte di Napoli
321
lenzuola della moglie ad un continuo movimento di promoveatur ut
amoveatur dei suoi amanti:
«Ce n'est pas qu'on puisse croire que son coeur souffrit de ses infideÂliteÂs: mais son amour propre en serait blesseÂ, et elle [Maria Carolina] connaõÃt assez le caracteÁre napolitain pour ne pouvoir se dissimuler qu'elle se trouverait dans l'abandon le plus absolu, si le Roi
avait pour elle des neÂgligences assez marqueÂes et des recherches du
meÃme genre pour une autre femme. Au reste, touts ces calculs n'empeÃchent pas la Reine de se laisser aller aÁ des coquetteries. Il y a trois
ans qu'elles eÂtaient en faveur d'un jeune eÂcuyer, nomme Gualingui.
L'indiscreÂtion de ses bonteÂs pour ce jeune homme, ne permit pas au
public de les ignorer longtemps, et bientoÃt le Roi fut assez instruit
des bruits publics, pour en parler aÁ la Reine. Cette princesse vint
aiseÂment aÁ bout de donner aÁ ces propos les couleurs de la noire
calomnie, et pria le Roi d'eÂloigner le jeune homme qui en eÂtait l'objet. Cette princesse en faisant ce sacrifice, veilla cependant aÁ la fortune de son favori, et l'a fait placer Lieutenant colonel d'un ReÂgiment de Cavalerie. A la suite de cet eÂveÂnement, la Reine a eÂteÂ
quelque temps sans montrer de preÂdilections pour personne, mais
depuis un an, elle l'a fixeÂe sur un officier du corps des cadettes,
nomme Don Louis Galeotta, homme de qualiteÂ, et freÁre cadet du
Duc de la Regina. Son gouÃt pour ce jeune homme est conduit avec
trop peu de meÂnagement pour laisser des doutes sur son sentiment.
Depuis six mois, la Reine l'a fait faire Colonel, et nommer aÁ une
place de Majordome de semaine, qui le lie journellement dans l'inteÂrieur de la Cour. La figure de ce jeune homme, ni son esprit n'ont
rien de fort piquant. Son maintien, et son langage commencent aÁ
devenir celui d'un favori» 61.
61
In fatto di abitudini e di «gouÃt» personale, «Le Roi en a deÂjaÁ manifeste de peu
conformes aux moeurs conjugales. Mais qui n'ont eu aucune suite. Sa Majeste s'est occupeÂ,
il y a un an, de Madame la Marquise de Santo Marco, femme du Capitaine de ses Gardes, et
dame du Palais. La reine s'est apercËue de ce gouÃt, et n'a eu aucune peine aÁ l'arreÃter. Le Roi
lui a tout avoueÂ, et lui a sacrifie cette femme de qualiteÂ, de manieÁre aÁ ne pas donner sitoÃt
envie aÁ d'autres de courir le meÃme danger. La Reine a eÂloigne sans aucune mesure Madame
de Santo Marco de toutes les occasions particulieÁres ou sa place et sa naissance lui donnent
le droit d'eÃtre inviteÂe aÁ la Cour. On ne lui a laisse que la liberte de faire son service, mais
Madame De Santo Marco, pour se soustraire aux deÂgouÃts trop publics qu'elle eÂprouvait,
s'est relieÂe quelque temps aÁ la campagne. Madame de Santo Marco est d'une figure, et
surtout d'une taille fort distingueÂe, elle n'eÂtait pas dangereuse par son esprit, mais elle
322
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
A questo punto, Breteuil inizia a parlare di Maria Carolina:
«ce quelle m'a dit plusieurs fois aÁ ce dernier eÂgard, m'a fait voir plus
de gouÃt pour le repos, que pour l'activiteÂ, qu'exige la preÂpondeÂrance»; [ma poi aggiunge] mais cela peut tenir aux affections du
moment» 62.
E ne fa il ritratto psicologico:
«La reine a de l'esprit, et assez de culture. Son caracteÁre est doux,
bienfaisant et ouvert: mais cette dernieÁre qualite est peut-eÃtre plus la
suite de l'indiscreÂtion que de la franchise». [Inoltre] «Ses amitieÂs pour
les Dames qui l'approchent le plus sont variantes, mais pendant leur
dureÂe, la Reine ne connaõÃt aucune borne aÁ sa confiance. Et son choix
dans ce sentiment, trop peu conduit par la reÂflexion, l'a souvent
compromise. Cette Princesse le sait, le dit, mais n'apprend pas
meÃme par de cruelles expeÂriences aÁ modeÂrer l'exceÁs de sa confiance,
ou aÁ la mieux placer» 63.
Breteuil attacca il nodo gordiano dei rapporti di Maria Carolina con
la sua famiglia:
«La Reine conserve un grand respect, et beaucoup d'attachement
pour l'ImpeÂratrice sa meÁre, tant que l'ImpeÂratrice vivra, ses vues
et son creÂdit seront aÁ ses ordres. Mais elle est bien loin de ce sentiment pour l'Empereur son freÁre. Elle n'estime ni son coeur, ni son
esprit. Elle croit que l'une et l'autre ne connaissent que le mouvement de son inteÂreÃt. Elle est persuadeÂe que l'ambition de l'Empereur
le compromettra plus souvent qu'elle ne le servira» 64.
Di grande interesse eÁ la descrizione di cioÁ ch'ella pensa di Giuseppe
II. E per quel che riguarda la Francia, Breteuil si propone di giocare
sul carattere della Regina, mostrandole molta attenzione, e solletipouvait le devenir pour la sante du Roi, par sa mauvaise conduite»: A.A.EÂ., Naples, MeÂmoires et documents, vol. 1, MeÂmoire sur la cour de Naples par le baron de Breteuil, anneÂeÁ 1773,
ms. cit. (nt. 126), p. 88r-v.
62
Ivi, p. 90r.
63
Ivi, p. 90r-v.
64
Ivi, p. 90v.
VI. La corte di Napoli
323
cando la sua vanitaÁ: «je crois que ses dispositions aÁ notre eÂgard
meÂritent d'eÃtre cultiveÂes». Tuttavia, sostiene Breteuil:
«J'ai meÃme remarque que le blaÃme qu'elle y donne est plutoÃt l'effet
de la vanite qui veut faire voir ses reÂflexions, que celui du deÂsir de les
mettre aÁ profit. Au reste, elle y trouverait une opposition treÁs deÂcideÂe
dans la preÂpondeÂrance du M. De Tanucci, mais ce n'est pas laÁ ce qui
la retient. La Reine hait et meÂprise ce Ministre. La protection du Roi
d'Espagne qui le soutient, lui est treÁs importune, et sa prudence ne
sait pas assez le cacher» 65.
7. Tanucci: limiti dello statista e della corte, secondo Breteuil
Dopo la descrizione dei reali di Napoli, Breteuil si sofferma
sugli uomini della corte e del governo napoletano. Il centro del suo
discorso eÁ subito conquistato dalla critica ai modi di gestione del
potere ed alle tecniche di governo dell'uomo piu rappresentativo
della classe dirigente napoletana, ed anche percioÁ molto discusso
ed oggetto di critiche mavevoli: Bernardo Tanucci.
«[...] Le marquis De Tanucci ne porte jamais aÁ ce conseil d'eÂtat
aucune affaire ni du dedans, ni du dehors, qui en meÂrite le nom.
Jamais on n'y a lit une seule deÂpeÃche des ministres dans le cours
eÂtrangeÁres. Le Marquis de Tanucci ne traite les affaires de ce genre
qu'avec le Roi. Quant aux affaires de l'inteÂrieur, le marquis de Tanucci suit la meÃme forme, si elles sont de son DeÂpartement et ont de
l'importance».
A livello istituzionale, spiega Breteuil, il Consiglio di Stato ± l'organismo voluto da Carlo per disciplinare il periodo della Reggenza ± «n'a
un veÂritable effet que sur le deÂpartement des secreÂtaires d'eÂtat». Ma,
anche lõÂ, il giudizio di Tanucci «sur ceux de ses confreÁres est toujours
preÂpondeÂrante», anche se «il est vrai que ses confreÁres ne sont gueÁres
capables d'en avoir une qui meÂrite grande attention» 66. E a questo
65
66
Ivi, p. 91r.
Ivi, p. 92r.
324
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
punto del suo racconto, l'ambasciatore francese prende a parlare dei
consiglieri e dei segretari di Stato. Vale la pena riportarne l'intero
brano, che eÁ una testimonianza autorevole ± se sfrontata da alcune
punte d'estrema malizia, necessaria a convalidare l'importanza dell'histoire cabale ch'egli crea ± sugli attori della vita politica napoletana:
«Ils sont quatre, y compris M. de Tanucci. Ils ont chacun un jour de
la semaine pour rendre compte au conseil des affaires de leur deÂpartement. M. De Tanucci a son jour comme les autres pour la forme. Il
n'y parle jamais que des miseÁres dans ses diffeÂrents deÂtails [...] Le
Prince di Jaci reÂunit aÁ la charge de Conseiller d'Etat, celle de Capitaine geÂneÂral des armeÂes, et de colonel des Gardes Italiennes. Sa
place de Capitaine geÂneÂral lui fit partager une partie de l'autoriteÂ
militaire avec le Ministre de la Guerre, mais il n'a aucun creÂdit sur
l'esprit du Roi. On a souvent porte des plaintes contre lui, avec
succeÁs et fondement. C'est un homme avide, d'un caracteÁre violent,
vindicatif et impeÂrieux. Il ne reÁgne jamais entre lui et le M. De
Tanucci qu'une intelligence apparente. Au reste, rien ne prouve
mieux l'oisivete des hommes dans ce pays, que la carrieÁre brillante
que celui ci a parcouru. Il n'a nulle instruction, et preÁs que point de
connaissance des affaires, quoi qu'il ait eÂte 18 ans ambassadeur en
Espagne, et qu'il se soit trouve honore de ce caracteÁre et de la
confiance du Roi de Naples pendant la longue maladie de Ferdinand
six. M. le Prince de Jaci fait profession d'attachement aÁ la France.
C'est un homme de 78 ans. Le Marquis de Saint George, qui a eÂteÂ
ambassadeur en France sous le nom de Prince d'Ardore, est plein de
reconnaissance pour le Roi, et un homme treÁs vertueux, sans geÂnie,
sans creÂdit, et sans connaissance des affaires. Il a au moins 76 ans, et
est plus vieux que son aÃge. Le Prince de Camporeale, reÂunit aÁ sa place
de conseiller d'eÂtat, celle de PreÂsident du Conseil de Sicile. C'est un
tribunal qu'il tient dans sa maison, et qui prononce en dernier ressort
sur les appels des sentences rendues par les tribunaux supeÂrieurs de
Sicile. Cet emploi est treÁs lucratif, et devrait lui donner autant d'influence que de consideÂration. Mais sa paresse et son incapacite en
livrent l'exercice aÁ des subalternes malfameÂs. Cet homme a plus de
80 ans, et touche au terme de sa carrieÁre. Don Antonio Del Rio,
ministre de la guerre, plus qu'octogeÂnaire, a l'inertie de la caduciteÂ.
Ses commis deÂsolent et pillent le militaire sous son nom. Le Marquis
Don Carlo De Marco est secreÂtaire d'eÂtat, de graÃce, justice et affaires
VI. La corte di Napoli
325
eccleÂsiastiques [...] Ce ministre a geÂneÂralement la reÂputation d'un
homme juste, bienfaisant et deÂsinteÂresseÂ. Il a peu d'esprit, et est
sans nerf. Il meÂrite le reproche d'avoir trop envie de plaire, et de
se laisser subjuguer par les sollicitations des grands, ou du creÂdit ce
que ce caracteÁre entraõÃne neÂcessairement d'irreÂgulariteÂs dans son
administration, il a l'adresse de persuader qu'elles sont l'ouvrage
d'une autorite supeÂrieure, et autant qu'il peut, il deÂsigne sous ce
jour le Marquis De Tanucci, avec lequel il est brouilleÂ, et aÁ qui
doit son eÂleÂvation. Le Marquis Don Juan De Goyzueta, secreÂtaire
d'eÂtat de l'azienda et du commerce, et surintendant des finances,
c'est le ministre le plus expeÂditif et le plus laborieux qu'il y ait aÁ
cette cour. Il ne vit que dans son cabinet, et se vante de n'avoir
jamais sa besogne arrieÂreÂe d'une semaine aÁ l'autre. Sa manieÁre de
traiter est franche et loyale. Souvent en butte aÁ la haine et aÁ la
jalousie de M. De Tanucci. Il a le courage de lui reÂsister. Il blaÃme
ouvertement l'ascendant qu'il a pris, censure l'usage qu'il en fait, et
ne dissimule pas qu'il le souffre impatiemment. Le roi de Naples aime
M. De Goyzueta, parce qu'il le trouve et l'a trouve deÁs son enfance
toujours preÃt aÁ lui fournir tous le moyens peÂcuniaires qui pouvaient
satisfaire ses fantaisies connues et inconnues, et surtout celles qui
eÂprouvaient des contrarieÂteÂs de la part de M. de Tanucci. Le marquis
de Goyzueta a de l'esprit naturel, mais aucune espeÁce de connaissance dans l'administration. Son talent se borne aÁ de l'activite et de
l'exactitude dans son travail. Le deÂbut de sa fortune a eÂte d'eÃtre
commis dans le bureau de la guerre aÁ Madrid. Le murmure contre
l'avidite de sa femme, paraõÃt eÃtre aussi fondeÂ, qu'il est geÂneÂral. On lui
impute les manoeuvres les plus avilissantes pour satisfaire son insatiable avarice. Elle vend tout: et cela est au point qu'il n'est gueÁre
possible qu'elle n'ait son mari pour complice. Le marquis De Goyzueta a beaucoup d'ambition. Bien de gens croient qu'il succeÂdera aÁ
M. le Marquis de Tanucci. Le Roi de Naples l'aime, et il a des
protecteurs puissants aÁ Madrid. Il me fait souvent de grandes protestations de son profond respect pour la France, et du deÂsir qu'il a
d'y faire assez connaõÃtre son attachement pour meÂriter la protection
du Roi. Je le crois sinceÁre, et je lui reÂponds en conseÂquence. Le
Marquis Cavalcanti n'est pas secreÂtaire d'Etat, ma sa place de Lieutenant de la Chambre des Comptes lui donnant beaucoup d'autoriteÂ.
Je le placerai ici. C'est un homme fort instruit des lois et des affaires
inteÂrieures. Il a toute la consideÂration de sa place, et celle d'un
homme d'esprit, applique et honneÃte. Il est toujours en opposition
326
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
avec le marquis de Tanucci, et a beaucoup d'appui aÁ la cour de
Madrid. Je le regarde comme le plus capable parmi ceux qui ont
part aÁ l'administration, et le plus fait pour jouer un roÃle principal.
La vanite a eu peu trop de droits sur lui» 67.
Dopo questa descrizione, Breteuil si sofferma a fare il ritratto di
Tanucci. Ancora una volta rimandiamo all'efficace ed elegante documento diplomatico:
«Le M. De Tanucci joint au titre de SecreÂtaire d'Etat, le deÂpartement
des affaires eÂtrangeÁres, de la maison du Roi, les Postes, la place de
secreÂtaire de la Reine, les biens allodiaux de la maison Farnese, les
TheÂaÃtres. Ce ministre a porte dans l'administration l'eÂrudition, l'enteÃtement, les formes, et les subtiliteÂs d'un professeur. C'est un homme
heÂrisse de toutes les difficulteÂs scolastiques, qui ont fait la base de son
premier meÂtier, et dont les vieux preÂjugeÂs deÂfavorables aÁ ses vues n'ont
pu eÃtre suffisamment corrigeÂs par sa position. On peut dire, quant aÁ ses
principes sur les puissances avec les quelles Naples a des relations, qu'il
hait l'Autriche, craint l'Angleterre, qu'il a eu de l'animositeÂ, et
conserve de grandes preÂventions contre la France. Qu'il envisage la
Sardaigne comme rivale, qu'il a opinion de Venise, qu'il a horreur et
meÂpris pour Rome, et qu'il ne meÂnage l'Espagne que par respect et
encore plus par besoin du monarque qui la gouverne. Le M. De Tanucci
est au moins aÃge de 76 ans, quoique sa sante soit forte, et sa teÃte encore
bonne, son aptitude au travail n'est plus la meÃme. Cependant, il tient
fort aÁ sa place, et parait tous les jours plus jaloux de son autoriteÂ.
Malgre cela il parle sans cesse de se retirer, mais il n'y a aucune apparence qu'il sache jamais se faire cette justice. Il attire plus que jamais les
affaires aÁ sa personne, preÂfeÁre de les cumuler, aÁ la satisfaction de les
voir terminer. Rien n'est dans l'activite convenable. Tout languit. Le
M. De Tanucci est ne sans geÂnie, mais il a de la finesse dans l'esprit, et a
eÂte de bonne heure livre aÁ l'eÂtude, avec une excellente meÂmoire il parle
et eÂcrit avec graÃce et preÂcision. Quant aÁ son caracteÁre, on pourrait se
dispenser d'en parler, parce qu'il est connu depuis longtemps. Et qu'il y
a plus de mal a en dire que de bien. Il est faux, et ment sans pudeur,
pour peu que de mensonge soit utile aÁ ses vues. Sa faveur et la suÃrete de
sa position lui ont donne une peÂtulance qui permet difficilement la
67
Ivi, pp. 91r-96v.
VI. La corte di Napoli
327
discussion, cependant la fermete lui en impose, quand on ne lui la lui
montre qu'avec meÂnagement pour sa vaniteÂ. Au reste, le M. de Tanucci
a la reÂputation d'eÃtre deÂsinteÂresseÂ, et je crois qu'il la meÂrite, quoiqu'il
ait acquis de grands biens en Toscane: mais son eÂconomie, et la graÃce
treÁs consideÂrable dont il jouit depuis longues anneÂes, ont pu suffire aÁ
ces acqueÃts. L'avidite de sa femme qui le gouverne absolument, ajoute
tous les jours beaucoup aÁ sa fortune, et pourrait donner des doutes sur
son deÂsinteÂressement. Cette femme concilie les dehors d'une pitieÂ
eÂdifiante, avec une cupidite sans borne. Ce qu'elle retire des emplois,
des digniteÂs, et d'autres graÃces dont son ascendant sur son mari, la fait
disposer, forme un objet immense. Md. de Tanucci voudrait porter son
freÁre le Marquis Catanti, ministre de Naples aÁ Turin, aÁ l'adjonction de
son mari. On dirait? Que depuis quelques mois, M. de Tanucci s'est
livre aÁ ce projet de l'ambition de sa femme, et qu'il en a tente le succeÁs
en Espagne, mais infructueusement. Et ce qu'on dit de M. De Catanti,
prouve que le Roi d'Espagne a eu raison de ne pas proteÂger cet arrangement. Malgre cela, je ne doute pas que Mad.me De Tanucci n'engage
son mari aÁ des nouvelles tentatives [...]. L'art de M. De Tanucci et sa
marche la plus ordinaire entre son maõÃtre et le Roi d'Espagne est de
forcer le premier a faire ses volonteÂs, en les faisant adopter au Roi son
PeÁre, ou d'excuser les choses faites sans approbation du Roi d'Espagne,
sur la volonte fort et preÂcipiteÂe de son fils. C'est ainsi que ce vieux
Ministre se joue de ses deux maõÃtres dans tout ce qu'il rencontre
d'obstacles aÁ ses vues, de part ou d'autre» 68.
A questo punto Breteuil fa un osservazione interessante, sostenendo che di tutti i Segretari di Stato solo De Marco eÁ nazionale. EÁ il
pretesto per attaccare la nobiltaÁ napoletana, per sostenere la presenza in atto d'una cabala ordita dal ceto dirigente siciliano, l'unico
in grado di garantire la governabilitaÁ del paese, ed in ultimo, per
screditare la capacitaÁ di governo di Tanucci, reo di non aver neppure immaginato delle ipotesi di sviluppo per il regno meridionale:
«Le Marquis de Tanucci dans une aussi longue carrieÁre ministeÂrielle,
aurait pu rendre un service bien important aÁ ce Royaume, si pourtant
son attention sur les veÂritables vues d'un administrateur, et presque
68
Ivi, pp. 93r-94v.
328
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
d'un fondateur, il eut pense aÁ la reforme des moeurs et aux encouragements qui donnent du ressort aux hommes, et au geÂnie. Mais il
laissera peu de choses preÁs le Royaume dans l'eÂtat ou il eÂtait, lorsqu'il
en a pris l'administration, parce qu'il a plus reÂgi en eÂconome, qu'il n'a
gouverne en homme d'eÂtat, et parce qu'il est trop vieux aujourd'hui
pour les grandes speÂculations qui changent les formes vicieuses, ou
tiennent en activite celles qui peuvent donner au gouvernement l'action et l'eÂclat dont il est susceptible» 69.
Nella descrizione che fa da contrappunto alla mancanza di ogni
stimolo riformatore della classe dirigente napoletana, Breteuil delinea quello che saraÁ un topos classico della letteratura sul Meridione
d'Italia: un paradiso abitato da poveri diavoli 70.
69
Ivi, p. 97v.
«Le Royaume des Deux Siciles devrait eÃtre la puissance preÂpondeÂrante de l'Italie.
Son eÂtendue, la fertilite de son sol, la rarete et la richesse de ses productions, les nombres de
ses ports, sa situation heureuse pour le commerce, la paix dont il jouit, depuis preÂs de 40 ans,
auraient duà le rendre un des eÂtats le plus peupleÂ, et le plus florissant d'Europe» (p. 98r).
Purtroppo, secondo Breteuil, nulla si eÁ fatto per liberare i redditi dello Stato impegnati negli
arrendamenti: «m. de Tanucci ne s'est jamais occupe de les retirer, et n'a eu sur cela que des
ideÂes qui s'eÂvaporent dans la conversation» (p. 98r-v). Se solo il Re di Napoli ritornasse
proprietario delle dogane, allora cesserebbe il contrabbando, il resto potrebbe essere investito
nella flotta (composta allora da «deux vaisseaux de guerre, deux freÂgates, huit chebecs, quatre
galeÁres, et six galliotes»), sõÂ da impedire «les insultes que l'Angleterre peut d'un moment aÁ
l'autre renouveler» (pp. 98v-99r). E si chiede Breteuil come mai la Spagna non abbia mai
pensato a fortificare il Regno (p. 99r-v). Altri passaggi salienti della relazione riguardano la
drammatica situazione socio-istituzionale (pp. 96v-101v). La nobiltaÁ partenopea eÁ «livreÂe aÁ la
barbarie, et aÁ l'ignorance qui suivent les temps de trouble, a eÂte bien des anneÂes sans
ambitionner les premieÁres places, et n'aurait pas eÂte capable de les remplir. Elle affectait
d'ailleurs l'indeÂpendance, et entraõÃnait des liaisons suspectes qui devaient bannir la
confiance. Elle est soumise aujourd'hui, et ne conserve plus rien des vieux preÂjugeÂs qui la
rendaient si preÃte aux mouvements. Elle connaõÃt le prix du creÂdit et de l'autoriteÂ, mais le
genre de l'eÂducation publique et particulieÁre, est peu propre aÁ faire sortir les talents naturels,
et ne donne ni les connaissances, ni l'application neÂcessaire aÁ l'exercice des grandes places.».
L'ambasciatore francese paragona la nobiltaÁ napoletana a quella russa, che egli aveva conosciuto 15 anni prima: «la vanite des titres, du faste le plus mal entendu, et dirige tous les pas
de la jeunesse napolitaine, sans que rien puisse la rappeler au raisonnement, ou aÁ la neÂcessiteÂ
du travail. Le militaire ne repreÂsente pas assez de deÂbouche». I giudizi di Breteuil sulle
attitudini militari della nobiltaÁ meridionale, sull'educazione militare di Ferdinando IV e sullo
scontro politico in atto tra Napoli e Sicilia erano stati giaÁ utilizzati nell'ottimo saggio di A.M.
Rao, Esercito e societaÁ a Napoli nelle riforme del secondo Settecento, in «Studi storici», a. 28
(1987), lug.-set., pp. 623-77. Si paragoni quest'ultima notazione dell'ambasciatore sulla
mancanza d'interesse della nobiltaÁ partenopea verso la carriera militare con il tema, ricor70
VI. La corte di Napoli
329
Alla fine della sua relazione Breteuil sostiene l'impossibilitaÁ di
una previsione su chi saraÁ il successore di Tanucci, ne quando lo
statista pisano lasceraÁ il timone del governo del regno:
«On pense en geÂneÂral que l'opinion du Roi d'Espagne fixera celle du
Roi son fils, et qu'il lui fera prendre une eÂtrangeÁre. La nation donnerait peut eÃtre aÁ ce choix la preÂfeÂrence sur les nationaux, mais je
crois la Reine treÁs opposeÂe aÁ ce systeÁme, et le Roi peu porte aÁ l'adopter. Au reste je n'imagine pas que ce Prince s'occupe souvent de cette
reÂflexion. Il est trop dissipe pour preÂvoir» 71.
rente nelle lettere di Tanucci del 1774, della «militarizzazione» della corte partenopea, cfr. ad
indicem. Per quanto riguarda l'amministrazione civile Breteuil aggiunge che tutti i ruoli sono
occupati da persone di ceto piu basso, giacche «le preÂjuge ne permet pas aux gens de qualite de
s'y destiner», di modo che «les charges de cour sont la seule ressource de l'eÂmulation et de
l'ambition». Degli uomini che rivestono incarichi a corte dice Breteuil: «il y a quatre grandes
charges de la cour: celle de grand maõÃtre de la Maison du Roi est occupeÂe par M. le Prince de
Belmonte Ventimiglia; celle de grand eÂcuyer par M. le Prince De Stigliano, de la Maison
Colona; celle de grand chambellan, par le Prince de la Riccia, et, enfin, celle de Capitaine des
gardes du corps par le marquis De Santo Marco. Ces quatre personnes ne meÂritent de
consideÂrations, que celle qui est attacheÂe aÁ leurs places. Le grand maõÃtre de la Reine, le Prince
de la Scalea, est un homme qui ne manque pas d'instruction, ni d'esprit, mais qui n'a de vues
que celle de son plaisir et de son repos. Le Prince de la Cattolica, grand eÂcuyer de la Reine, est
un homme deÂvore d'ambition qui se croit propre aÁ tout, et preÂtend ouvertement aux emplois
les plus importants. Il a eÂte plusieurs anneÂes ambassadeur en Espagne. Peu deÂlicat sur les
moyens d'arriver aÁ ses vues, il y met plus de suite et d'adresse qu'on ne devrait l'attendre de
son air eÂpais, et de son caracteÁre peÂtulant». Un posto a parte Breteuil dedica al principe di
Marsiconuovo, ch'egli considera come « celui de tous le courtisans qui montre le plus d'ambition dans ce moment»: «il est gouverneur et lieutenant de police de cette ville, sous le titre de
ReÂgent de la Vicarie. C'est un homme remuant, d'une grande cupiditeÂ, de peu d'esprit, et
sans instruction. Il en impose par ses relations, par son activiteÂ, et par une tournure plus aiseÂe
qu'on ne l'a ordinairement aÁ Naples». Le sue ambizioni lo portano a tentare di sostituire
Tanucci, ma Breteuil non lo crede capace, soprattutto dopo che il conte di Aranda, di cui lui eÁ
nipote e «fort proteÂge», eÁ caduto in bassa fortuna alla corte madrilena. Poi Breteuil inizia a
parlare del duca di Gravina: «(...) fils du Cardinal Orsini, est de tous les courtisans, celui aÁ qui
le Roi marque le plus de bonteÂ. Ce n'est pas un homme de beaucoup d'esprit, mais il est sage,
et a des principes d'honneur et de vertu. Son ambition serait de succeÂder aÁ M. le Marquis
Caracciolo dans l'ambassade aupreÁs du Roi, et je crois qu'il fera tout ce qui pourra deÂpendre
de lui pour faire obtenir ici aÁ cet ambassadeur une place convenable, mais qui lui fasse quitter
son ambassade». E un posto particolare egli dedica a Caracciolo: «quant au Marquis Caracciolo tout le monde pense qu'il a de l'esprit et de l'acquit. On le nomme comme capable de
succeÂder au Marquis De Tanucci. Mais le Roi de Naples ne le connaõÃt pas. Il n'y a point
d'amis, point de parents aÁ la Cour, et le Roi d'Espagne a des preÂventions contre ses maximes
sur la religion. Il n'y a nulle apparence qu'il arrive au MinisteÁre» (p. 100v).
71
Ivi, p. 101r.
330
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
Ma nell'ultimo passo della sua relazione, l'ambasciatore lascia intravedere uno squarcio di una realtaÁ politica in fieri. EÁ necessario
che la classe dirigente francese conosca i nuovi protagonisti di un
processo politico in atto, i cui esiti potrebbero diventare imprevedibili sul piano interno e su quello internazionale:
«Je ne dois pas passer sous silence les Siciliens. Ils forment aÁ la cour
un corps de nation treÁs distinct, et toujours en rivalite avec les Napolitains. Il est impossible d'eÃtre plus anime l'une contre l'autre, que
le sont ces deux nations, quoique reÂunis sous une meÃme autoriteÂ.
Mais le siciliens sont dans ce moment les plus forts aÁ la cour. Outre
qu'ils ont entre eux un systeÁme suivi, et de reÂunion pour leurs inteÂreÃts, il faut convenir qu'ils ont aussi en geÂneÂral une meilleure eÂducation et plus d'esprit naturel, joint aÁ une grande activite» 72.
Pietro Beccadelli Bologna e Reggio, principe di Camporeale, Giuseppe Bonanno Filangieri, principe di Cattolica, Salvatore Naselli,
dei principi di Aragona, Emanuele Giuseppe Ventimiglia, principe
di Belmonte, Stefano Reggio e Gravina, principe di Aci, erano gli
uomini indicati da Breteuil come «les plus forts aÁ la cour de Naples», come a dire i piu fieri avversari della politica tanucciana in
Sicilia e a Napoli. L'uomo di punta del gruppo sembrava essere il
principe di Camporeale, presidente della Giunta di Sicilia e padre
del successore di Tanucci. Nei decenni precedenti egli aveva acquistato in seno al Consiglio di Reggenza un profilo da arbitro tra i due
schieramenti che si erano venuti a creare dentro l'organismo (Tanucci, Reggio ed Aci, da una parte, e S. Nicandro, Centola, Sangro,
dall'altra), divenendo il massimo esponente dell'azione politica
della nobiltaÁ siciliana. Notava lo storico Francesco Renda che il
Camporeale, nella sua qualitaÁ di presidente della Giunta di Sicilia,
ebbe nei fatti il governo dell'isola: «in pochissimi casi il Tanucci
riuscõÂ a spuntarla, e ad avere il sopravvento» su di lui 73. Francesco
Barbagallo ± peraltro poco preciso nella cronologia del biografato ±
72
73
Ivi, p. 101r-v.
F. Renda, Dalle riforme al periodo costituzionale, cit. (cap. VII, nt. 2).
VI. La corte di Napoli
331
ha scritto del Camporeale ch'egli era «d'ingegno modesto, culturalmente sprovveduto, di carattere fiacco ed insicuro», e che si serviva
della sua rilevante posizione politica solo per «modesti» intrighi e
per tentare d'accrescere il suo patrimonio personale; ma ha trascurato di ricordare il ruolo da lui assunto tra il 1750 e il 1751 alla
corte di Vienna, e che con il figlio fu uno dei protagonisti dello
sganciamento del regno di Napoli dalla sfera d'influenza spagnola 74.
Da Napoli a Palermo, il gruppo d'interesse costruito attorno al
Camporeale aveva come punto di riferimento il di lui cugino, l'abate
Alfonso Airoldi, giaÁ segnalatoci dal BeÂrenger nella sua relazione sulla
caduta di Tanucci, come «confideur et le conseil de tous les siciliens» 75. Un fratello dell'abate, Stefano, dal 1772 presidente della
Gran Corte civile e criminale, era giaÁ stato presidente del Tribunale
del Concistoro (1761) e presidente del Tribunale del Real Patrimonio (1770). Di lui aveva detto il marchese Caracciolo a Ferdinando
Galiani (20 dic. 1781):
«Il Papa del foro siciliano eÁ il presidente Airoldi, barbaro ed ignorante come tutti gli altri, peroÁ scaltro, souple, immorale, indifferente
al sõÂ ed al no [...]» 76.
I fatti successivi dimostreranno che Breteuil aveva indovinato appieno la sua previsione. Su Maria Carolina (vedi il ritratto ch'egli ne
aveva dato: indipendente, pericolosa, ma non troppo, amante dell'adulazione, legata alla madre, ma non al fratello Giuseppe) occorreva fare presa. Mettere sempre un favorito filo-francese accanto a
lei sarebbe stata una garanzia. E magari un ministro non spagnolo.
Sicuramente Breteuil, piu di Broglie (che diffidava di Maria Caro74
F. Barbagallo, Camporeale, Pietro Beccadelli Bologna e Reggio, principe di, in Dizionario Biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Treccani, Roma 1974, vol. 17,
pp. 584-85. Sulla famiglia cfr. F. San Martino de Spucches, Storia dei feudi e dei titoli
nobiliari di Sicilia dalla loro origine ai nostri giorni (1924), Scuola tip. «Boccone del Povero»,
Palermo 1924, vol. II, pp. 193-6.
75
Cfr. infra, cap. VII, par. 4.
76
Riportato in B. Croce, Uomini e cose della vecchia Italia, seconda ediz. riveduta,
serie seconda, Gius. Laterza e figli, 1943, p. 106 nt. 2.
332
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
lina, e la riteneva troppo austriaca), aveva la sensibilitaÁ di capire che
le donne di casa Asburgo avrebbero detenuto il potere in Europa
per i prossimi anni.
Mediante la lettura dei documenti redatti da Breteuil abbiamo
visto descritta in atto la cabala della regina, di cui l'ambasciatore
francese eÁ narratore e allo stesso tempo co-autore. Restava da capire
quando, dove e come sarebbe avvenuto il «renversement des alliances» del regno di Napoli. E poi, i siciliani della regina, come si
sarebbero mossi? Di lõÂ a pochi giorni, una prima risposta sarebbe
arrivata da Palermo, sotto le forme di una strana rivolta difficile a
leggersi, sospesa come fu la cittaÁ tra manifestazioni di fanatismo
religioso, di vero furore popolare e di manifesta regõÂa teatrale nel
momento della «cacciata del vicere». Dopo Tanucci, Fogliani era
l'altro uomo piu rappresentativo del «partito spagnolo» nel regno,
amico da sempre di Carlo di Borbone. La sua «cacciata» dalla capitale siciliana agli occhi degli osservatori esterni sembrava preludere
al congedo definitivo della Sicilia dalla Spagna. Era il vero definitivo
finis Hispaniae?
333
VII
LA CADUTA DI TANUCCI: SICILIE ASBURGICHE?
DALLA RIVOLTA DI PALERMO ALL'INTRIGO
1. La «fiera guerra» siciliana diventa guerriglia urbana (1773)
«Preturi, malatia, esposizioni,/Medicu, tagghiu, petra, midicini,/Mastranzi, granni, nichi, afflizioni,/Vari, libaÁni, curuni di spini,/Cira,
vuti, viaggi, orazioni,/Dijuni, pedi scausi, disciplini/Rusarii, litanii,
cumunioni,/Armi bianchi, pistoli e carrubbini./Carzara, focu, tri casi,
scausuni,/Cavallaria, suldati, paisani,/Spati, scupetti, sciabuli, cannuni,/Palazzu, fora sinnacu e Fogliani,/Frusta, tumultu, porti, bastiuni,/Ripari, parlamenti, guardiani,/Cunsuli, mastri, nobili, garzuni/Armi, runni, badagghi e milinciani/».
CosõÂ, in due curiose canzoni di pochi versi erano elencati in cadenze
metriche gli avvenimenti che avevano messo a soqquadro la capitale
della Sicilia dal 14 settembre 1773 e per tutto il mese successivo 1.
Nel giro di pochi giorni, a Palermo gli organi istituzionali ed amministrativi regi vennero spazzati via, l'esercito fu sconfitto senza battaglie ne spargimento di sangue, il vicere costretto a fuggire, imbarcato su una scialuppa, mentre al suo posto venne istituito un governo
provvisorio, con a capo l'arcivescovo della cittaÁ 2.
Secondo alcuni testimoni diretti (in particolare il marchese di
1
Cit. in F.M. Emanuele e Gaetani marchese di Villabianca, Diari della cittaÁ di
Palermo dal secolo XVI al XIX, in Biblioteca storica e letteraria di Sicilia, vol. XVI, Luigi
Pedone Lauriel, Palermo, 1875, p. 108.
2
Cfr. Apologie de son excellence Monsieur le Marquis de Fogliani, ci-devant vice-roi de
Sicile, avec les causes de la dernieÁre reÂvolution de la Ville de Palerme, Amsterdam 1774 (la
copia, qui utilizzata in A.G.S., Estado, leg. 6109); Emanuele e Gaetani, in op. cit. nt. 1,
voll. XV-XVI; G.E. Di Blasi, Storia cronologica del VicereÂ, Luogotenenti e Presidenti del
Regno di Sicilia, Palermo 1842, Stamperia Oretea, pp. 629-30; N. Caeti, La cacciata del
vicere Fogliani, in «Archivio storico siciliano», n.s., aa. Palermo 1909, XXXIV (1909),
XXXV (1910), XXXVI (1911); F. Renda, Dalle riforme al periodo costituzionale (17341816), in Storia della Sicilia, vol. VI, SocietaÁ editrice Storia di Napoli e della Sicilia, Napoli
1978, p. 233-8; G. Giarrizzo, Illuminismo, in Aa.Vv., Storia della Sicilia, Palermo 1990,
vol. IV (ora anche in Id., La Sicilia dal Cinquecento all'UnitaÁ d'Italia, in V. D'Alessandro -
334
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
Villabianca, di fede aristocratica) quel tumulto era stato «disciplinato» ed «esecutu cu gran rispettu a lu nomu Reali» (don Pietro Scarpuzza, ecclesiastico dalla sensibilitaÁ popolare): contraddizione palese
e che la corte spagnola si guardoÁ bene da prendere sul serio. Infatti le
modalitaÁ di svolgimento della rivolta sembrarono a chiunque, in un
tempo, strane e sconcertanti 3.
E tali apparvero anche agli osservatori stranieri. Per Breteuil,
sebbene «quoique personne de plus consideÂrable ne paraisse l'avoir
excite [le mouvement populaire], il est bien difficile de croire, qu'il
n'y ait sous le feu des gens au dessus du peuple». Il disarmo delle
truppe, quello dei bastimenti ormeggiati nel porto, la custodia della
cittaÁ eseguita con meticolositaÁ dai privati, la forte carica simbolica e
rituale dei pochi saccheggi effettuati lasciavano intendere che un tale
comportamento «n'appartient, ni aÁ la populace, ni aux mouvements
subits de la fureur».
La causa era sicuramente tutta scritta nelle «veÂxations du sous
ordre», al quale l'etaÁ avanzata e la «paresse» del vicere aveva abbandonato gli affari dell'amministrazione. Tuttavia, per l'ambasciatore
francese il vero oggetto del conflitto non era la mera conquista del
«Palazzu», luogo fisico di un intreccio inestricabile d'interessi speculativi che erano cresciuti attorno all'annona palermitana e che avevano il motore nel vicere e nella sua segreteria. Nella sua analisi
ritornava, piuttosto, il tema del nazionalismo siciliano: il motivo di
coagulo delle aspettative rivoluzionarie era sicuramente riposto nel
repubblicanesimo dei «siciliens», nel loro anti-legittimismo, le cui
radici pescavano nella diversitaÁ socio-istituzionale dell'isola rispetto
al continente, che li portava «aÁ se croire pluÃtot reÂpublicains, qu'entieÁrement soumis aÁ des loix monarchiques». La «cacciata» di Fogliani
era, dunque, un episodio della «fiera guerra» (cosõÂ l'aveva definita
G. Giarrizzo, La Sicilia dal Vespro all'UnitaÁ d'Italia, Storia d'Italia diretta da G. Galasso,
vol. XVI, Utet, Torino 1989.
3
Emanuele e Gaetani, Diari della cittaÁ di Palermo, cit. (nt. 1), vol. XX, p. 218 e P.
Scarpuzza, Vera storia di la sollevazioni accaduta a Palermu lõÂ 19 e 20 settembre 1773. Poema
sicilianu, in B.C.P., ms. 4. Qq.A18, Canti 44-45.
VII. La caduta di Tanucci: Sicilie asburgiche?
335
Tanucci) in corso tra le due nazioni 4. Con l'affronto subito dal vicereÂ
la regalitaÁ borbonica era stata desacralizzata.
Il protagonista apparente di quella vicenda era dunque stato il
popolo palermitano, guidato dai capi delle corporazioni artigiane. Da
qualche tempo, il vicere era la causa dei malumori popolari, che
dilagavano a seguito del rincaro dei prezzi annonari e dell'inasprimento della pressione fiscale. Ancora il poeta popolare Scarpuzza
riferisce che il popolo palermitano «cussõÂ pubblicamenti di lu bonu
Fogliani murmurava», immaginandolo al centro di intrighi e di complotti per il controllo dell'istituzione annonaria cittadina:
«D'undi ni veni, chi quantu si fa'/a Palermu da Prituri, Capitani,/e
tutti l'autri; pri quantu si sa'/si fa' cu l'interventu di Fogliani./Addunca eÁ una solenni veritaÁ,/chiddu, ch'eÁ `n vucca di li paisani:/chi
quantu li Preturi annu esecutu,/eÁ statu di Fogliani dispunutu/Fogliani
fuÂ, chi l'aperturi/fici pagari a tanti puviromini./Fogliani fu lu veru
protetturi/di Giorgio, di tant'autri galantomini,/chi di la paci foru
destrutturi/di tanti famigghieddi, e di tant'omini./Fogliani fu di lu
famusu Rini/sustegnu, a di lu celebri Gazzini/» 5.
Ma l'ossessione della folla per un «complot de famine», organizzato
dai rappresentanti del potere politico napoletano, lasciava intravedere la silente apparizione sulla scena della «cacciata» dell'intera classe
dirigente della cittaÁ. Secondo un testimone di quella parte (ancora il
marchese di Villabianca), quest'ordine cittadino era stato leso dal
«dispotismo [...] usato dal duca Fogliani in tutti quasi i corpi amministrativi della cittaÁ di Palermo», politica che aveva portato ad una
degradazione della mastra senatoria di Palermo. Fogliani vi ammetteva gente ogni anno che era «di freschi natali e per lo piu oscurissimi» e che «non era capace di declinare un atomo dai voleri di detto
principe», venendo a costruire una nuova feudalitaÁ di clientele, al cui
4
Riguarda i tumulti di Palermo quasi tutta la corrispondenza diplomatica tra Breteuil
e il duca d'Aiguillon in A.A.EÂ, Naples, Correspondance politique, voll. 96 (1 mag.-31 dic.
1773), 97 (1 marz.-31 dic. 1774). In particolare, le citazioni nel testo corrispondono alle
lettere: Naples, 2 ott. 1773 (vol. 96, ff. 145r-146v); 9 ott. 1773 (vol. 96, ff. 152r-157r).
5
Scarpuzza, ms. cit. (nt. 3), canti 44-45.
336
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
interno i pretori riferivano direttamente al vicere «per non soggiacere
essi all'ingiuria della negativa di lor conferma nel pretorato che si era
introdotto biennale» 6.
Il giudizio del Villabianca sull'operato del vicere combaciava
perfettamente con l'opinione espressa da Tanucci per tempo (28
settembre 1773) al re Cattolico sul disordine che fu poi causa dei
tumulti: ulteriore prova sia di una profonda e realistica esperienza
della dialettica politica, sia di una vigilanza intelligente che lo statista
era in grado di realizzare. Da piu mesi giungevano a corte notizie
sicure di un Fogliani «attaccato di negoziazioni di grani», parziale
nella concessione delle «tratte», con al suo servizio un cameriere
«mischiato in tutti li partiti d'olio, cacio, carboni, carni, colli tre
mercanti Gazzini, Giorgio, Guasto». Questi tre «monopolisti» del
commercio annonario, «favoriti e protetti dal vicere», «da poveri che
erano, pervenuti a ricchezze considerabili». Ancora piu grave la colpa
di aver scelto pretori «li piu docili alle sue mire» e quella di un
assoluto «arbitrio» nella scelta di togati e «dignitaÁ ecclesiastiche»:
«tanto, che essendo caduto nell'odio della plebe per li cari prezzi dei
viveri, lo era anche di tutti li generi di persone» 7.
Il punto d'attacco della «cacciata» del vicere era stato la malattia
e la morte del pretore di Palermo, il principe del Cassaro, scelto dal
popolo come l'eroe popolare che lottava contro Fogliani e le sue
clientele:
«Appena la notizia nisciu/incerta ancora, chi Fogliani avia/a Cassaru
giaÁ elettu, un'murmuriu/si'ntisi pri Palermu, chi dicõÂa:/allegramenti,
lu tempu spiddiu/di li nostri mjserij; e ripitia/cu centu, e milli vucchi
unitamenti,/Cassaru eÁ lu Preturi, allegramenti./Vurria aviri d'Apelli
lu pinzeddu/pr'imprimiri ddi beddi attigiamenti/di ddu mastricchiu,
di du puvireddu,/ch'annu mangiatu pani scarsamenti./Unu ittava lu
vecchiu cappeddu,/e poi lu ripigghiava prestamenti,/e lu ittava arreÂ,
facendu festa,/ch'era di giaÁ passata la tempesta/» 8.
6
Emanuele e Gaetani, cit. (nt. 1), vol. XVI, p. 218.
In Lettere di Bernardo Tanucci a Carlo III di Borbone (1759-1776), regesti a cura di
Rosa Mincuzzi, Ist. per la storia del Risorgim. ital, Roma 1969, pp. 837-840.
8
P. Scarpuzza, ms. cit. (nt. 3), canti 56-57.
7
VII. La caduta di Tanucci: Sicilie asburgiche?
337
Nella sua opera di risanamento dell'enorme debito accumulato
dall'annona cittadina, Cassaro aveva dato garanzie personali alla
Tavola cittadina per un prestito frumentario di 40.000 scudi e aveva
costretto i precedenti colleghi a fare altrettanto per l'olio e il formaggio. La malattia e la morte, avvenuta dopo un intervento chirurgico
effettuato dal litotomista di fiducia di Fogliani, aveva aperto lo scontro tra la capitale e il rappresentante del governo napoletano.
2. Tanucci golpista?
Come rivela la lettura dell'Epistolario di Tanucci, per buona
parte dell'anno 1774 le attivitaÁ di Bernardo Tanucci furono concentrate sugli esiti della rivolta palermitana. La vicenda, gravida di pesanti conseguenze, rafforzava la sua tesi politica di fondo diretta ad
abbassare ai minimi termini il potere del «magnatismo», dacche «in
tutta la storia delle nazioni [...] le braccia fanno e sostengono i governi, non le pompe di pochi splendidi», ed eÁ «guadagno al governo il
poter colli suoi atti conciliarsi una parte del popolo, la quale diventa
soldato e sbirro e forza contro li malumori». La clamorosa conferma
palermitana di quei criteri aveva fatto scaturire nel ministro l'idea di
rispondere con mezzi politici nuovi ed inconsueti alla crisi in atto nel
regno di Sicilia 9. Egli intuiva con chiarezza che dietro la rivolta di
Palermo si celava una vera rivoluzione politica, pur non avendo una
piattaforma ideologica dichiarata ed un gruppo dirigente chiaramente individuabili.
Lo scontro s'iscriveva (secondo Tanucci) in una fase delicata
degli equilibri di potere a Napoli, come un episodio della «fiera
guerra» tra le due «nazioni» del regno, che «arde[va] ferocemente»
da tempo, e si era infiammata agli inizi degli anni '70. Se il fuoco
rivoluzionario fosse dilagato oltre Monreale, Agrigento, Marsala e
Mazara del Vallo, cioÁ avrebbe permesso ai nemici interni ed esterni,
stretti intorno alla regina austriaca, d'avviare immediatamente l'o9
La prima citazione eÁ tratta dalla lettera di Tanucci a Carlo, 31 gen. 1775, la seconda
da Tanucci a Carlo, 11 agosto 1767, in Lettere di Bernardo Tanucci a Carlo III di Borbone
(1759-1776), cit. (nt. 7), rispet. alle pp. 943-4 e p. 399.
338
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
perazione che avrebbe provocato lo sganciamento del regno meridionale dalla tutela spagnola. SiccheÂ, mentre i primi mesi dell'anno
furono dedicati alla gestione prudente della vita politica isolana,
dopo il Parlamento di Cefalu (luglio) e durante le ferie dell'anno
giudiziario (23 settembre), lo statista casentinese varoÁ la prammatica
sulla motivazione delle sentenze. Pur non rinunciando affatto al
crudo realismo ch'egli aveva adottato come metodo di governo nei
decenni precedenti, egli ritornava a vestire l'armatura della sociologia genovesiana, volgendosi questa volta contro le magistrature della
capitale partenopea, altro corno del «magnatismo».
La repentina, quanto sorprendente inversione di marcia testimonia che Tanucci aveva raggiunto una piena consapevolezza della larghezza e del respiro della crisi in atto. Sette anni dopo il motõÂn
d'Esquillace, un'altra rivoluzione esplodeva nei domini di re Carlo,
dimostrando che non tutto funzionava al meglio nella strategia di
governo attuata dal re e secondo cui erano stati scelti i suoi collaboratori. Fogliani era il frutto specifico di quella logica. Come la prima,
cosõÂ la seconda delle due rivolte ebbe un clamore ed effetti che
andarono ben oltre gli ambienti nazionali, creoÁ echi governativi
quanto meno europei. I «santiuffizii» della diplomazia inglese e francese ± fonti di continua disperazione per il ministro ± alimentarono
una campagna d'opinione, che diffuse nel continente la sensazione
che le basi del regno di Napoli non erano solide, poiche esplodevano
in Sicilia le contraddizioni di una monarchia che si fondava su due
«patriottismi» mal amalgamati, e che aveva rinunciato a percorrere la
strada delle «riforme».
Quest'ultima parola aveva significati quasi `magici' durante la
fase matura dell'illuminismo: quel sortilegio si eÁ poi tradotto spesso
nelle reformationes in peius, di cui, in molti settori che ci sono assai
vicini, scontiamo ancor oggi le conseguenze. Tanucci, intellettuale
molto consapevole della propria originalitaÁ, odiava, come tutte le
altre mode, anche quelle idee. La sua visione sociale nasceva dal
razionalismo machiavelliano, non dal pietismo di origine agostiniana
ed isidoriana. Egli dubitava fortemente di ogni idealitaÁ astratta; era
certamente un realista con propensioni all'empirismo: due premesse
VII. La caduta di Tanucci: Sicilie asburgiche?
339
indispensabili se si vuole essere idealisti senza equivoci, senza finzioni e senza produrre disastri. PercioÁ pensava che bisognasse agire sulle
cause sociali, individuare i catalizzatori politici dell'esplosione antigovernativa e provvedere subito a contenere la frana, con un intervento di chirurgia politica, molto piu preciso di quello che il litotomista di Pasquale aveva effettuato sul disgraziato pretore di Palermo.
Ma la storiografia sui tumulti di Palermo non si eÁ di molto
aggiornata. Al di laÁ del convincente lavoro di sintesi di Francesco
Renda (che al tumulto dedica poche pagine, ma del quale coglie le
premesse e la portata politica, le conseguenze sociali e gli esiti politici), le messe a punto piu recenti nulla aggiungono alla comprensione
di quella vicenda. L'analisi del tumulto va sicuramente riaffrontata
con una lettura piu attenta alla contesa che si era aperta attorno alle
regole scritte e non scritte che organizzavano il gioco sociale nella
capitale siciliana. Quello che ancora manca eÁ una storia del Senato di
Palermo e dell'inedito ruolo che la capitale siciliana aveva giocato per
tutto il secolo dei «lumi», accogliendo aristocratici e «piccole corti»
emigrate dalle province, in un continuo ed inesorabile processo di
depotenziamento delle altre realtaÁ urbane 10.
10
Dal canto suo, Francesco Renda, Dalle riforme al periodo costituzionale (1734-1816),
cit. (nt. 2), intuisce che dietro i protagonisti apparenti della rivolta si poneva il «baronaggio» siciliano, in contrasto con il governo tanucciano. Le esemplificazioni utilizzate dal
Renda ci restituiscono una vita politica contrassegnata da conflitti tra categorie dicotomiche (assolutismo borbonico/feudalitaÁ siciliana, nazionalismo siciliano/nazionalismo napoletano, Spagna/Austria), all'interno di una prospettiva unilineare dell'evoluzione dello Stato
moderno nella Sicilia ultra pharum. Seppure l'odierno senso comune storico ha una diversa
consapevolezza della pluralitaÁ delle vie che sono state percorse dalla societaÁ meridionale
verso un'organizzazione statuale di tipo «burocratico», tuttavia lo storico siciliano ha il
merito d'individuare i reali problemi attorno ai quali si scatena la rivolta: il problema della
gestione dell'eversione dell'asse gesuitico in Sicilia, la rivalitaÁ montante tra le due Sicilie e i
corrispettivi «partiti», nonche alcune delle variazioni intervenute nel sistema politico internazionale. Di recente una lettura dei tumulti eÁ stata compiuta da S. Laudani in Rivolte,
conflitti politici e sistema annonario nella Palermo del '700, in «MEFRIM», në 112, a. 2000,
fasc. 2, pp. 669-86, e ora in ``Quegli strani accadimenti'': la rivolta palermitana del 1773,
Viella, Roma 2005. L'autrice propone per questo caso uno dei modelli di spiegazione del
conflitto praticato dalla storiografia internazionale giaÁ a partire dalla seconda metaÁ degli
anni settanta (segnatamente S.L. Kaplan), e sembra accettare la tesi di parte palermitana
che ipotizzava un complotto politico, ordito da esponenti del governo napoletano (compreso Tanucci), e diretto a scacciare Fogliani dall'isola. L'attento esame della corrispon-
340
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
Uno degli errori piu frequentemente commesso dagli storici del
tumulto eÁ di aver utilizzato alcune testimonianze coeve, rilasciate da
chi era «esterno» ai fatti e non informato. Una cronaca in particolare
ha stabilito una matrice narrativa e un punto di riferimento per la
storiografia successiva: il Diario storico dell'infelice occorso seguõÂto in
Palermo contro il vicere duca Giovanni Fogliani de Aragona, e de'
successi altresõÂ dei tumulti, mossi dalla bassa plebe nell'anno 1773 di
Francesco Maria Emanuele e Gaetani, marchese di Villabianca. La
narrazione degli eventi scivola su due binari paralleli. Su uno scorre il
resoconto freddo e minuziosamente analitico dei fatti, sull'altro l'autodifesa delle classi dirigenti palermitane, che ex post teorizzavano
l'esistenza di un incredibile complotto politico organizzato contro il
vicere Fogliani dal governo napoletano e dai suoi esponenti in Sicilia
(Tanucci, Filangieri, Targiani, il principe di Pantelleria). EÁ stato un
tardo rigurgito dell'antinapoletanismo del secondo Settecento. In
realtaÁ, le prime istintive reazioni di re Ferdinando alla notizia di
quanto succedeva nella capitale isolana sembrano invece dimostrare
ch'egli aveva subito intuito le responsabilitaÁ dei siciliani presenti a
corte.
Inventore, ideologo e divulgatore di questa tesi filo-nobiliare ed
anti-governativa fu soprattutto il giaÁ citato marchese di Villabianca,
autore di ben venticinque volumi in folio sulla storia della cittaÁ di
Palermo ± che coprono l'arco cronologico 1743-1802 ± nonche di
svariati altri manoscritti su memorie patrie. Secondo Gioacchino
Di Marzo, curatore della prima edizione di quell'opera, le cronache
del marchese affrontano la vita cittadina «con tanta ricchezza di
notizie e sõÂ minuti particolari di storia in una molteplicitaÁ sõÂ ammirabil di cose, da non darsi lavoro di simil natura che meglio renda e
fino al piu intimo lo stato e la vita di Palermo per tutto quel tempo, e
in molta parte ancora della Sicilia» 11.
denza politica (tra cui, appunto, le lettere del primo ministro del regno) e di quella diplomatica internazionale, presenta un quadro piu complesso delle ragioni e delle forze che
hanno dato vita all'evento.
11
«PeroccheÁ ivi per lo spazio di ben sessant'anni giorno per giorno eÁ ragguagliato di
quanto avvenne, non sol di pubblici e segnalati fatti, ma pur di famigliari e privati, e di
VII. La caduta di Tanucci: Sicilie asburgiche?
341
Il marchese apparteneva ad una famiglia dell'aristocrazia capitolina, e nel 1775 ottenne la nomina a senatore della cittaÁ. Era una
carica cui egli aspirava da tempo, come testimonia una vanitosa nota
autobiografica apposta alla descrizione del tumulto. In quella sede
egli ammette d'essersi guadagnato il posto ai vertici dell'amministrazione cittadina per i servigi resi alla «patria» con la penna, descrivendo i fatti accaduti in due anonimi memoriali, che erano stati allegati
alle prime relazioni ufficiali del Senato di Palermo e della Deputazione del Regno per il governo napoletano. In quelle pagine, come in
quelle del Diario, veniva affermata la totale estraneitaÁ della nobiltaÁ
palermitana nel tumulto, si metteva in rilievo l'assoluta non spontaneitaÁ del moto e se ne addossava paradossalmente la regia ai napoletani Filangieri, Targiani e Pantelleria 12. Ricevuti i due memoriali, il
principe di Camporeale, intento a stilare la consulta della Giunta di
Sicilia per le prime provvidenze necessarie a sedare la rivolta, «fece
aneddoti e curiositaÁ di ogni genere: e peroÁ vi si notano e ampiamente rapportano gli atti
regii e viceregii, le prammatiche, le ordinazioni, i bandi ec., e i parlamenti, i donativi, le
grazie, i possessi de' vicereÂ, de' ministri del regno, dei senati e degli uffiziali della cittaÁ, le
nomine e promozioni a dignitaÁ ecclesiastiche e secolari, le regie concessioni di titoli e di
ordini equestri, le investiture o le alienazioni di feudi; e poi le mete de' viveri, le pubbliche
feste, gli spettacoli, le accademie, le fondazioni o abolizioni di chiese, case, instituti e di
ogni maniera pubbliche opere; e poi le disavventure di tumulti, tremuoti, carestie, le
infestazioni d' masnadieri e i continui supplizii, gli sponsali o le morti d'individui di nobili
famiglie, o d'illustri uomini, ed ogni altra cosa piu o meno degna di alcun ricordo, piu o
meno attevole a rendere l'aspetto de' tempi»: G. Di Marzo, Prefazione a Emanuele e
Gaetani, op. cit. in nt. 1, vol. XII, Palermo 1874, p. VI.
12
«E perche in tali epistole non si potea parlar con franchezza, come portava la
bisogna, dell'alta persona del duca Fogliani e di altri soggetti in particolare e ministri,
che credevansi cagione degli sconcerti, in venerazione del primo a causa della sua dignitaÁ,
e in riguardo ai secondi pe' lor caratteri di autoritaÁ, si fecero arrivare alla corte due lettere
anonime in forma di due compite allegazioni, con le quali si dileguarono, per quanto fu
possibile, le fitte ombre de' seguõÂti eccessi, difendendo con evidenti ragioni ed irrefragabili
monumenti la causa palermitana [...] Tutto quello che venne esposto nelle di sopra mentovate difese fatte dall'anonimo, appunto ritrovasi nel contesto di questa nostra storia ed
altresõ nelle sue annotazioni; giacche puoÁ dirsi essere state forgiate le dette lettere sulle
notizie di queste carte, o almeno la somma di esse essersi presa da quest'opera, siccome mi
assicuroÁ colui, che ebbe luogo di consultarle. Sicche io credo dover tornar pregevoli e niente
discare in avvenire queste memorie»: in Emanuele E Gaetani, op. cit. (nt. 6), vol. XVI,
Palermo 1875, p. 10 e nt. 1.
342
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
festa all'arrivo di questi due esposti, chiamandoli li cani corsi, che
guardan la patria dalle fauci de' lupi» 13.
3. Il disagio del sistema: segni di distacco di Tanucci dal `suo' Re
Le due scosse, del 1766 a Madrid e del 1773 a Palermo, erano
scricchiolii preoccupanti di un sistema di governo che procedeva, in
fatto di cultura e di coscienza della sovranitaÁ popolare, quasi al buio.
Se quel dato di fatto lo si vuole presentare in una versione meno
drastica, si puoÁ dire che la sovranitaÁ non era illuminata da gran luce di
pensiero. Tanucci, pur ammirando profondamente la Francia quando
ragionava a mente fredda (com'eÁ stato dimostrato limpidamente da
del Bianco 14), era tuttavia portato fuori strada dal suo nazionalismo
culturale di stampo umanistico e dimostrava spesso uno spirito antifrancese che aveva piu origine politica che storica, era espressione
dell'uomo di parte piu che di cultura. Inoltre, neanche lui era capace
di diagnosi lucidissima sull'illuminismo ed in genere sulla svolta teoretica di fine Settecento; era uomo molto ben dotato di strumenti
intellettuali e culturali, ma di formazione paleogiuridica.
Sarebbe interessante, mediante un'attenta analisi condotta sul
suo immenso carteggio (l'Epistolario, la maggiore impresa diretta a
raggiungere questo fine, promossa da Mario D'Addio, offre materiali
cospicui e si avvia ad essere la piu ricca ed importante tra le fonti per
la storia del Mezzogiorno nel Settecento), osservare e documentare
quante volte, in quali occasioni e con quale ritmo crescente si verificoÁ
che il re Carlo non seguisse i consigli di Tanucci, tanto che essi
finirono sprecati. EÁ stato notato, mediante un'analisi molto fine,
da un storico che dello statista pisano eÁ uno dei maggiori esperti,
ch'egli soffrõÂ una cocente delusione giaÁ nel 1763, quando il re non
riuscõÂ, pur avendo impegnato il suo prestigio, a mantener in vita in
Spagna l'exequatur, che aveva faticosamente introdotto, sulla base
13
Ibidem.
Lamberto Del Bianco, Ragioni, LumieÁres, prassi di governo nell'Epistolario di Bernardo Tanucci, nel vol. misc. Bernardo Tanucci nel terzo centenario della nascita, 1698-1998,
Edizioni ETS, Pisa 1999, pp. 66-70.
14
VII. La caduta di Tanucci: Sicilie asburgiche?
343
del modello napoletano, con prammatica del 18 gennaio 1762, ritirata diciotto mesi dopo 15. A differenza di molti altri politici, Tanucci
si muoveva in base ad una visione complessiva (solo in parte invecchiata), da studioso e da competente raffinato della storia e del divenire dei valori umani, e non era disposto a tradire quelle idee ed a
barattarle per conservare ad ogni costo il potere. In questa volgaritaÁ,
ancor oggi tanto frequente, egli non cadde mai, anche se fu costretto
ad adattarsi continuamente alle esigenze della corte. L'Epistolario
permette di documentare il suo continuo disagio, la sua refrattarietaÁ
alla contaminazione politica, che pure fu indotto ad accettare, essendo stato cooptato da quell'ambiente.
Sentendosi vicino al tramonto del suo `ministero' e `servizio'
(com'egli lo chiamava), le divergenze tra le sue idee e quelle del re
crebbero e furono molto chiare, stridenti in particolare durante la
rivolta palermitana. Alcuni fattori dalla politica spagnola emersero da
quegli avvenimenti e non fecero di certo crescere la fiducia dello
statista nel comportamento del Re: di lui era stata palese la tendenza
a manifestare un culto quasi trascendente ed astratto della sua sovranitaÁ, mal sorretto da una scarsa capacitaÁ di diagnosticare rapidamente il valore delle persone. Come era capitato, ad esempio, quando
aveva dato appoggio e ricchi emolumenti ad Ottavio Bajardi, un
personaggio tanto modesto quanto presuntuoso, che aveva ardito
addirittura prendere il posto di Celestino Galiani. Carlo era solito
concepire amicizie adamantine con uomini privi di ogni valore ed
essere con essi eccessivamente generoso; e poi s'impuntava, anche
per dare segno di rigore morale e di prestigio, nel difendere ad oltranza quelle scelte errate. Con un minimo di cautela, si sarebbero
potuti evitare quegli sprechi e quei, sempre troppo tardi, ripensamenti. Ad esempio, Fogliani non aveva nessuno dei «talenti» necessari a
chi dovesse ricoprire posti di grave responsabilitaÁ. La fine ingloriosa
che fece, facilmente prevedibile, sarebbe stata ammessa, da chiunque
l'avesse nominato, come un errore, cui mettere rapido riparo. Il re,
15
Del Bianco, ivi, pp. 115-25, ed in part. le pp. 121-2.
344
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
invece, s'intestardõÂ a difendere il suo protetto, mettendo in un vicolo
cieco se stesso e la monarchia napoletana.
Allora probabilmente Tanucci si convinse che fosse il caso di
procedere con maggior indipendenza di giudizio rispetto al suo sovrano. Poco dopo la rivolta palermitana, i dispacci emanati alla fine
del 1774 e che imponevano alle maggiori magistrature napoletane
l'obbligo di motivare le sentenze sulle leggi furono, sul piano teorico
oltre che politico, gesti molti indicativi di questa nuova linea piuÂ
indipendente. Se si prescinde dalle scarse possibilitaÁ che quella riforma, nelle condizioni in cui il Regno ed il suo governo si trovavano,
fosse realmente attuata, e se si valuta l'importanza del gesto in se e
per seÂ, emerge subito un aspetto che deve far riflettere: fu un'iniziativa di eccezionale significato, intelligente e rivoluzionario. In sintesi
si trattava di chiedere alle magistrature di render palesi i ragionamenti mediante cui arrivavano ad ogni delibera, d'imporre ad essi
d'indicare le norme «espresse e letterali» su cui ogni decisione era
basata, escludendo esplicitamente ogni mediazione dottrinale. Disporre che le sentenze cosõÂ motivate fossero pubblicate a cura e spese
pubbliche, in modo che ogni avvocato e cittadino potesse conoscerle
e regolarsi per l'avvenire, significava capovolgere due schemi costituzionali tra loro strettamente connessi. La ratio della riforma era che
il potere giudiziario deve dar conto di cioÁ che fa, ossia di come opera,
non solo al potere esecutivo, ma al pubblico, che eÁ titolare della
sovranitaÁ. Crollava cosõÂ la visione della giustizia come proveniente
da alto loco, da fonti quasi metafisiche, arcane, trascendenti e misteriose. Tramontava la sovranitaÁ come autoritaÁ deduttiva e non
induttiva, ossia proveniente dall'alto e non dalla societaÁ. Sul piano
logico ed ideale, il passo era rivoluzionario.
Ed erano concezioni non solo lontanissime dalla mentalitaÁ del re
di Spagna, ma addirittura con essa sostanzialmente inconciliabili, per
non dire ostili. Per avere un'idea di quale altezza raggiungesse la
visione maiestatica di Carlo, e quanto essa fosse estesa, quella mitologia terrena va commisurata ad un dato visivo: alle misure faraoniche delle regge da Carlo fatte costruire, in particolare quella di Caserta, e porre a confronto le dimensioni esagerate, quasi mostruose
VII. La caduta di Tanucci: Sicilie asburgiche?
345
(ad esempio, il diametro delle colonne frontali di quel palazzo), alla
miseria delle popolazioni meridionali. Lo sperpero egli riteneva fosse
la cornice indispensabile, appena sufficiente a dare un segno vago dei
valori assoluti dal re impersonati. La grandezza doveva apparire aliena rispetto alla statura consueta dei piu grandi palazzi costruiti per gli
aristocratici piu ricchi. Quelle dimensioni dovevano essere almeno
decuplicate, e l'opera (grazie all'artificio di cascate e di corsi d'acqua,
alimentati da arditi acquedotti) doveva dare il segno di come la
natura fosse felice di essere assoggettata a quella enorme, incommensurabile ``signorõÂa''. Che egli fosse, in sostanza, un ignorante, e che
nulla avesse fatto per dirozzare il primitivo livello della sua cultura,
non gli passava neppure lontanamente per la mente.
Ancora piu di questo aspetto della sua personalitaÁ, si puoÁ dire
che per Carlo la parola ``novitaÁ'', se non era sinonimo di ``disgrazia'',
poco mancava che lo fosse. Quando Elisabetta Farnese, avendo avuto notizia dell'iniziativa napoletana diretta a realizzare una codificazione carolina, scrisse il 6 settembre 1741 al figlio re di Napoli per
averne notizia, Carlo si affrettoÁ a rispondere (nel suo francese alquanto approssimativo): «pour ce qui regarde au Codice des loix du
Royaume, le diroy aÁ vostre M[ajesteÂ] qu'on ne le fait poin pour
suprimer les loix ancienes du Royaume, mais seulement pour les
mettres toutes en bon ordre, comme on aÁ fait plusieures foix dans
les gouvernements passeÂes» 16. Non era neanche sfiorato dal sospetto
che quelle leggi fossero contraddittorie, spesso desuete, e che le
volontaÁ da esse espresse fosse quasi sempre del tutto teorica, inutile,
16
La lettera fu citata da Ajello in Legislazione e crisi del diritto comune nel regno di
Napoli: il tentativo di codificazione carolino, poi in Arcana juris, cit. (cap. VI, nt. 13), p. 98
(«il tentativo di codificazione carolino [commentoÁ Ajello], disconosciuto dal re alla cui
gloria era destinato, si poteva considerare a quel punto fallito sul nascere»), poi nella
``voce'' Giuseppe Pasquale Cirillo del «Dizionario Biografico degli Italiani», vol. XXV,
1981, p. 799. Citazione esatta, poiche l'intera frase si ritrova, alla stessa data e con
riferimento allo stesso leg. 2612 dello Archivo HistoÂrico Nacional, alle pp. 223-4 di Carlo
di Borbone, Lettere ai sovrani di Spagna, III, 1740-1744, a cura e con varie introduzioni di
Imma Ascione, oltre alle due generali di Raffaele Ajello e di Pere Molas Ribalta, Ministero
per i beni e le AttivitaÁ culturali, Roma 2002 (nella nuova, ampia serie ricostruita dalla
Ascione, la lettera ha il numero 827, mentre Ajello indicoÁ il numero archivistico della
lettera ancora inedita, ossia il 118, interno a quel legajo).
346
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
perche non applicata. La risposta di Carlo fu sincera: non aveva la
benche minima intenzione d'innovare. Il programma della giunta era
diverso, moderatamente ambizioso. Com'eÁ ovvio, se le intenzioni
iniziali fossero state di ristampare le vecchie leggi cosõÂ come erano
state giaÁ pubblicate, non si sarebbe parlato di un Codice (parola usata
da Carlo giaÁ nel 1741) e poi di Codex nell'edizione a stampa di Elia
Serrao (Neapoli, 1789, in due volumi); non sarebbe neanche nato il
problema di quale lingua usare, dubbio che fu pessimamente risolto
scrivendo le nuove norme in latino (piu tardi fu aggiunta la traduzione italiana); innanzi tutto, nel testo poi edito, le norme erano
nuove, e sempre riscritte ex novo, non riportate nelle vecchie forme.
Quindi non si fece e non s'intendeva fare un riordinamento e una
ristampa (detta consolidazione). Le giunte impegnate in quella sine
cura lavorarono (anzi finsero di lavorare) durante non meno di tre
decenni. Le istituzioni, specialmente se comportano onori, nascono
spesso senza carico di funzioni, solo per sopravvivere sine die.
I dispacci che nel 1774 imposero la motivazione delle sentenze
sconvolgevano l'intero sistema, colpivano il difetto dell'apparato vigente, anche piu del Codice, nel suo centro, perche imponevano
comportamenti pratici, effettivi ai giudici, non agivano sulle forme
astratte, ma sulle azioni, ed avevano la pretesa di creare una giurisprudenza quale ancor oggi la intendiamo e secondo una ratio che in
Inghilterra funzionava giaÁ alla fine del secolo XII 17, e che in Francia
fu imposta dalla Rivoluzione. Insomma, i dispacci del 1774 non
sarebbero stati comprensibili nell'ottica carolina.
4. Il significato della caduta di Tanucci fu anche epocale?
Sulla caduta di Tanucci molto eÁ stato scritto e, seguendo il metodo adottato quasi in tutto il libro, si preferisce qui far parlare i
testimoni coevi. Il 25 novembre 1776 il diplomatico francese Laurent
BeÂrenger ± che fin dal 1767 fu, a fasi alterne, secreÂtaire e charge des
affaires presso l'ambasciata di Francia a Napoli ± comunicava al mi17
Sul tema, Ajello, EreditaÁ, op. cit. (cap. II, nt. 24), cfr. nell'indice dei nomi «Enrico
II Plantageneto».
VII. La caduta di Tanucci: Sicilie asburgiche?
347
nistro degli affari esteri, conte di Vergennes, alcune riflessioni sull'allontanamento di Bernardo Tanucci dal governo delle due Sicilie e
sugli scenari politici che si sarebbero probabilmente aperti di lõÂ a
poco 18. Ma il BeÂrenger, non credeva alle notizie ufficiali che prove18
A.A.EÂ., Correspondance politique, Naples, vol. 100 (sei ultimi mesi del 1776),
L. BeÂrenger a Vergennes, Paris, 25 nov. 1776, p. 320 e ss. Nato nel 1726, Laurent BeÂrenger
fu secreÂtaire di Louis-Auguste Le Tonnelier, barone di Breteuil, a Pietroburgo (1760-1763),
charge d'affaires in Russia (1763-1765), poi a Vienna (1767-1767), seÂcretaire del visconte di
Choiseul, ambasciatore a Napoli (1767-1771). Poi, alla partenza del diplomatico (avvenuta
nell'ottobre del 1771), rimase charge d'affaires, fino all'arrivo di Breteuil (2 lug. 1772),
quando riprese le funzioni di secreÂtaire. Nobilitato nel gennaio 1776, rientroÁ in Francia
dopo la caduta di Tanucci. In seguito, dal 1779 al 1785, fu secreÂtaire dell'ambasciatore
francese in Olanda. TerminoÁ il suo cursus honorum nell'amministrazione degli esteri francesi nel 1792, in qualitaÁ di ministro plenipotenziario a Ratisbona, dove si trovava fin dal
1786: cfr. A.A.EÂ., Personnel, PreÂmieÁre seÂrie, t. VII, ff. 77-170. Nella diplomazia europea le
«secreÂtaire d'ambassade» apparteneva ai ruoli degli Affaires eÂtrangeÁres, perche era di nomina
reale. Egli si distingueva dal «secreÂtaire de l'ambassadeur», che veniva scelto e stipendiato
dal capo della missione diplomatica, sfuggendo cosõÂ ad ogni forma di controllo governativo.
Sulla distinzione, cfr. A. van Wicquefort, L'ambassadeur et ses fonctions, Amsterdam
1730, p. 68 (la prima edizione del volume a L'Haye nel 1676). Questo funzionario, quasi
mai di origini nobili e scelto esclusivamente tra gli uomini di lettere (scrittori, o ecclesiastici
o giuristi), durante il Settecento era divenuto la figura centrale delle missioni diplomatiche,
dove svolgeva compiti che l'ambasciatore di solito riteneva ingrati, quali la preparazione, la
redazione e la cura degli atti e di memorie. Dietro questa tendenza si poneva, in realtaÁ, il
fenomeno della crescente affermazione tecnico-burocratica del governo, che avveniva per
mezzo di uffici costituiti da funzionari che venivano nominati direttamente, organizzati
gerarchicamente e dipendenti da un'autoritaÁ sovrana, con l'obiettivo di razionalizzare non
solamente le attivitaÁ esecutive, ma anche quelle di osservazione delle realtaÁ sociali, economiche e politiche dei paesi dove si svolgevano le missioni. Durante il secolo solo pochi
ambasciatori iniziarono a provenire dal ruolo dei funzionari (cfr. C.G. Picavet, La carrieÁre
diplomatique en France au temps de Louis XIV (1661-1715), in «Histoire, eÂconomie et
socieÂte», 1923, pp. 389-96 e J.P. Samoyault, La situation sociale du personnel des bureaux
des Affaires eÂtrangeÁres sous Louis XV, in «Revue d'histoire diplomatique», 1969, pp. 97-117).
Nel racconto di quest'anni eÁ apparso necessario porre in evidenza la stretta connessione tra
politica interna e politica internazionale, a lungo sottostimata dalla storiografia del Mezzogiorno d'Italia, legata alla tradizione ideologico-politica risorgimentista ed alle sue lunghe
± e, spesso, carsiche ± derive. Per far cioÁ abbiamo tentato di ricostruire la vita politica della
nazione meridionale attraverso la sua contestualizzazione in scenari politici internazionali,
utilizzando la prospettiva offerta dall'esistenza di un «sistema internazionale di corte».
Non eÁ il caso di ripercorrere l'intera tradizione storiografica meridionale, nei suoi vari modi
± diplomatici, positivistici, idealisti, marxistici, neo-illuministici ± di vedere l'oggetto storico dello Stato meridionale prima e dopo la partecipazione all'impero spagnolo. Ci basti
qui notare che, nel caso della ricostruzione e del racconto degli ultimi anni di governo del
ministro Tanucci, la storiografia a lungo manca di alcuni elementi, che invece oggi sono da
ritenere primari.
348
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
nivano dalla corte napoletana ed alle dichiarazioni rilasciate dallo
stesso statista pisano, che tendevano ad avvalorare la tesi dell'abbandono dei compiti governativi per stanchezza e per il sopraggiungere
di un etaÁ troppo avanzata. Egli, invece, sosteneva di aver visto, nel
corso della sua lunga missione presso la corte partenopea, «preÂparer le
changement de sceÁne». Ai suoi occhi esperti di maturo diplomatico,
le volontarie dimissioni si presentavano come un velo pietoso dietro
cui si voleva celare la rovinosa caduta di uno statista ancora lucido,
valido e combattivo, come Tanucci, dal vertice delle due Sicilie. E
per BeÂrenger, il mistero di quella fine era tutto scritto nel copione
«d'une intrigue puissante et habilment conduite», ch'egli s'apprestava a raccontare 19.
Nel 1774 Breteuil aveva scritto al ministro francese d'Aiguillon
che Laurent BeÂrenger era «le plus ancien des secreÂtaires d'ambassade», e che «y joint l'avantage d'avoir eÂte charge d'affaires dans les
cours les plus importantes». Oltre ad aver svolto compiti amministrativi, di ghost writer, di osservatore della societaÁ, delle istituzioni e
della vita politica dei paesi oggetto delle sue missioni, egli aveva
dunque maturato una buona esperienza proprio sul campo della negoziazione. La sua carriera era stata peroÁ ostacolata da «une trop
grande delicatesse, qui ne lui permit pas d'abandonner M. le vicomte
de Choiseul dans un moment ou il avait ici quelque embarras» 20.
Infatti era rimasto fedele al gruppo di potere di EÂtienne-FrancËois
comte de Stainville, e poi duc de Choiseul che, con madame Du
Barry, con i principi di Conty, si erano disputati corte e governo in
Francia dal 1758 al 1770. Il Duca era stato «le Ministre preÂpondeÂrante» durante oltre un ventennio di politica difficile, caratterizzata
dall'accesa dialettica tra la corte ed i Parlamenti, artefici, tra l'altro,
dell'azione contro i Gesuiti, di cui lo stesso Choiseul fu ritenuto
responsabile, anche se cercoÁ di discolparsene.
Jean Egret ha scritto che, durante quegli anni, «la lutte contre les
A.A.EÂ., Correspondance politique, Naples, vol. 100, L. BeÂrenger a Vergennes, Paris,
25 nov. 1776, p. 320 e ss.
20
A.A.EÂ., Correspondance politique, Naples, vol. 97 (1 mar./31 dic. 1774), Breteuil a
d'Aiguillon, Naples 9 apr. 1774, p. 29r.
19
VII. La caduta di Tanucci: Sicilie asburgiche?
349
Parlements devint, de plus en plus, la grande affaire du reÁgne» di
Francia. Il duca de Choiseul non era ostile ai «pouvoirs intermeÂdiaires», ma al fatto che le loro pretese diventavano sempre piu inaccettabili: egli riteneva assurdo che «la Constitution» della Francia potesse esser «changeÂe par des folies et par une reÂsistance ridicule» dei
«premiers Magistrats». Era arrivato a minacciare le maniere forti da
parte del re: «Cent hommes de ses trupes [...] seront suffisants pour
aneÂantir avec une pieÁce de quatre livre de balles le gran feu parlamentaire» 21. Questo era il tono dello scontro politico francese in quei
decenni. Con la disgrazia politica di Choiseul, BeÂrenger era rimasto
bloccato a Danzica per sei lunghi anni 22.
La nota informativa di questo diplomatico su Tanucci eÁ redatta
con lo stile asciutto che era tipico delle notizie riservate, e si rivolgeva
ad un ministro che, avendo trascorso tutta una vita agli affaires eÂtrangeÁres, conosceva bene i propri uomini, le loro aspettative di carriera e
21
Jean Egret, Louis XV et l'opposition parlementaire, Colin, Paris 1970, pp. 137-9.
A.A.EÂ., Correspondance politique, Naples, vol. 97 (1 mar./31 dic. 1774), Breteuil a
d'Aiguillon, Naples 9 apr. 1774, p. 29r. Il 3 dic. 1758 fu nominato segretario di Stato per gli
Affari esteri il duca di Choiseul (titolo portato dopo il 2 ago. 1758 dal conte di Stainville) a
seguito della rinuncia di Bernis, divenuto cardinale. Divenne ministre d'EÂtat, e le sue attribuzioni al governo variarono nel corso degli anni. Governeur di Touraine (27 lug. 1760), il 28
ago. 1760 ricevette la Surintendance geÂneÂrale des postes. Alla morte del maresciallo di Belle-Isle,
divenne segretario di Stato della Guerra, incarico che conservoÁ sino alla sua disgrazia politica,
avvenuta nel 1770, e che cumuloÁ con gli Affari Esteri e con la Marina, alternandosi in questi
dipartimenti con il cugino, conte di Choiseul. Quest'ultimo, titolato duca di Praslin dal 1762,
resse gli Affari Esteri dal 13 ott. 1761 al 10 apr. 1766, ed in seguito la Marina. Sugli Choiseul,
cfr. R. Butler, Choiseul, Father and Son, Oxford 1980. Sulla rottura tra Louis XV e i cugini
Conty, cfr. J. Woodbridge, La conspiration du prince de Conti (1755-57), in «Dix-huitieÁme
sieÁcle», t. 17, 1985, pp. 97-109; sui partiti di corte e sul ruolo giocato da Jeanne BeÂcu,
contessa Du Barry, favorita del re, cfr. su tutti M. Antoine, Louis XV, Fayard, Paris
1989, passim. Sulle posizioni assunte in politica estera dalla fazione Choiseul, cfr. oltre i
giaÁ citati Butler e Antoine, cfr. il vecchio, ma ancora utile A. Bourguet, Le duc de Choiseul et
l'alliance espagnole, Paris 1906. Noto l'odio di Tanucci verso il partito degli Choiseul, cfr. ad
esempio la lettera a Squillace del 1 aprile 1766: «[...] so per indubitato che e il duca di
Choiseul e il duca di Praslin sono due grandissimi nemici dei Borboni di Spagna e delle
Sicilie, e non so quanto siano amici dei Borboni di Francia. Erano certamente nemici del
morto Delfino e sono stati una delle cagioni della di lui morte». In realtaÁ il Delfino di Francia,
nato il 4 settembre 1729, era morto di tubercolosi il 20 dicembre 1765, e i reali dissapori tra
lui e gli choiseulistes dipendevano dalla resistenza che il figlio di Luigi XV opponeva ai
provvedimenti contro i gesuiti: cfr. Antoine, op. ibidem cit. Ma sulla politica degli choiseulistes nei confronti del regno di Napoli, al centro della vicenda qui narrata, si veda piu avanti.
22
350
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
di promozione sociale (l'argent), la loro osservanza politica (la foi), e
financo la loro intimitaÁ (l'amour). Queste tre molle dell'animo umano
da sempre erano state la lente privilegiata con cui si guardava agli
uomini addetti all'apparato degli esteri. E poi, i vertici della diplomazia francese subivano ancora lo smacco inferto dal d'Eon e dalla
sconcertante scoperta del doppio canale diplomatico, chiamato «Secret du Roi», per non avere ancora la mente irretita dalle maglie sottili
della diffidenza 23. Le ipotesi sostenute dal BeÂrenger risultano sicuramente affidabili, se non nella precisione dell'analisi politica, almeno
sotto il profilo delle buone intenzioni che animavano l'informatore.
Egli spiegava a grandi linee il perche della soluzione di continuitaÁ
di un lungo governo, che si era snodato lungo un arco temporale di
quarant'anni, tenendosi sempre fedele alla dinastia dei Borbone di
Spagna, piu che ai Borbone di Francia o ai Patti di famiglia. Il
successore di Bernardo Tanucci, Giuseppe Beccadelli-Bologna, marchese della Sambuca, era stato nominato alla prima Segreteria di
Stato malgrado un dato di fatto: «sa nomination deÂplaise aux napolitains», che «voyent avec peine les grandes charges, et les grands
emplois de la cour passer aÁ leurs rivaux» siciliani 24. Era proprio
«l'animosite entre les deux nations», «quoique marqueÂe avec moins
d'eÂnergie est aussi forte que celle qui a longtems regne entre les
anglois et les Ecossais», che aveva prodotto la rivoluzione nel governo delle due Sicilie 25.
Sul piano interno al regno «le deÂvouement de M. de la Sambuca aÁ
ses compatriotes [...] a beaucoup contribue aÁ son eÂleÂvation» 26. Questa
23
Sulla clamorosa vicenda che vide protagonista a Londra l'agente segreto e diplomatico Charles-GenevieÂve de Beaumont, al secolo cavalier d'EÁon (1728-1810), cfr. M. AntoineD. Ozanam, Correspondance secreÁte du comte de Broglie avec Louis XV (1756-1774), 2 voll, C.
Klincksieck, Paris 1956-1961, passim. Sullo strano personaggio indichiamo solamente le
opere che ci appaiono piu credibili: F. Gaillardet, La CheÂvalieÁre d'EÁon, Paris 1866; J.
Buchan Telfer, The strange career of tre chevalier d'EÁon de Beaumont, Londres 1885; O.
Homberg e Jousselin, Un aventurier au XVIIIe sieÂcle, le chevalier d'EÁon, Paris 1904; Pinsseau, L'eÂtrange destineÂe du chevalier d'EÁon, Paris 1945.
24
A.A.EÂ., Correspondance politique, Naples, vol. 100 (sei ultimi mesi del 1776), L.
BeÂrenger a Vergennes, Paris, 25 nov. 1776, p. 320 e ss.
25
Ivi.
26
Ibidem.
VII. La caduta di Tanucci: Sicilie asburgiche?
351
± assicurava BeÂrenger ± avraÁ come effetto di rinsaldare attorno alle
sfere governamentali i «siciliens», che «qui souvent diviseÂs entre eux
par des inteÂreÃts particulieres», e che «ne manqueront jamais de se
reÂunir pour leur inteÂreÃt commun» 27. E forniva i nomi dei cortigiani,
ch'egli vedeva come le menti dell'intrigo:
«Le grand maõÃtre, le grand eÂcuyer, le Cap.ne geÂneÂral, sont les chefs
de le parti, la princesse d'Yaci, femme du dernier en est le centre, et
elle est dirigeÂe par l'abbe Airoldi, le confideur et le conseil de tous les
siciliens» 28.
Sono gli stessi nomi che Tanucci citava ironicamente a Viviani in due
lettere del 3 marzo e del primo aprile 1777, indicandoli come i responsabili della congiura ordita contro di lui, e ch'egli apostrofava
con il titolo di «Ingrati innumerabili»: Giuseppe Emanuele Ventimiglia e Statella, principe di Belmonte, il principe di Jaci e consorte,
Giovanni Fogliani d'Aragona, il marchese della Sambuca, l'ambasciatore austriaco presso la corte napoletana, ed «altri pochi miei fratelli
ed amici» 29.
Per quel che riguarda le preoccupazioni della politica estera francese, BeÂrenger rassicurava il suo ministro che il Sambuca non avrebbe goduto di quell'indipendenza dalle regole del Patto di famiglia,
che invece aveva avuto il suo predecessore. Opinione condivisa,
come vedremo meglio in seguito, anche dall'ambasciatore Clermont
d'Amboise, che dal 31 maggio del 1776 si trovava a Napoli, per il
quale «il y a tout lieu d'espeÂrer que ce nouveau MinisteÁre produira
une reÂvolution avantageuse aÁ tous les eÂgards» 30. Diagnosi per altro
27
Ibidem.
Ibidem.
29
Bernardo Tanucci a Luigi Viviani, in . Viviani Della Robbia, Bernardo Tanucci e il
suo piu importante carteggio, Sansoni, Firenze 1942, vol. II, Lettere, 3 mar. 1777, p. 422, e 1
apr. 1777, p. 427.
30
Jean-Baptiste-Charles-FrancËois de Clermont d'Amboise, poi marchese di Reynel
(1728-1792), era stato ambasciatore a Lisbona dal 1769. Venne nominato ambasciatore a
Napoli in sostituzione di Breteuil. Nel febbraio 1776 prese congedo dalla corte di Versailles, per giungere a Napoli il 31 maggio 1776. Della moglie, Antoinette de Moustier, la
d'EÂpinay aveva scritto a Ferdinando Galiani: «elle a une naõÈvete plaisante et un petit air
28
352
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
quasi ovvia, poiche era nota l'appartenenza di Sambuca al `partito'
austriaco della Regina. Gli avvenimenti politici successivi daranno
pienamente ragione alle diagnosi di questi due diplomatici.
5. Conclusioni: la Francia dominava sia nella tesi sia nell'antitesi
EÁ altrettanto naturale che la reÂvolution avvenuta nel regno meridionale al vertice del suo governo procurasse un immediato incremento di vantaggi alla politica commerciale francese. Si rinsaldava
cosõÂ anche sul piano formale quello squilibrio di potenzialitaÁ e di
mezzi materiali che si era creato nei secoli della dominazione straniera e che, in seguito all'indipendenza del Mezzogiorno, si era cercato di correggere. Infatti, gran parte delle richieste che la corte
francese non era riuscita a soddisfare durante i governi di Montealegre e di Tanucci, nel giro di pochi mesi dopo il 1776 trovarono una
soluzione: dal pagamento delle ingenti somme dovute ad alcune case
commerciali francesi per la famosa causa sui grani di Marsiglia, all'eliminazione della tassa sull'estrazione delle merci dal regno di
Napoli su bastimenti stranieri, fino a giungere alla riformulazione
(vantaggiosa per la Francia) del trattato di commercio, al quale avevano da anni lavorato Tanucci e Domenico Caracciolo 31. La lettura
della corrispondenza diplomatico-consolare dimostra l'entusiasmo
della Francia per quel che andava guadagnando in termini di bilancio
commerciale con il regno di Napoli 32.
Le ragioni profonde di questo brusco mutamento nella politica
interna ed estera delle due Sicilie sono state fin qui analizzate, e
d'humeur treÁs original» (Gli ultimi anni della signora d'EÂpinay. Lettere inedite all'abate
Galiani (1773-1782), a cura di Fausto Nicolini, Laterza, Bari 1933, 5 sep. 1774, p. 118.
Galiani rispose cosõÂ: «Je suis ravi de la destination du chevalier de Clermont ici: rien ne
pouvait, plus que cela, me deÂdommager de la perte de M. de Breteuil. Sa femme ne me
ragarde pas. Je n'ai plus de dents pour des choses aussi croquantes. Elle trouvera ici de quoi
bouder aÁ son aise; mais, pour lui, il est tellement mon ami, je l'aime si tendrement, que je
regarde comme un vrai bonheur pour moi de le posseÁder ici» (Galiani a madame d'EÂpinay,
in L'abbeÁ F. Galiani, Correspondance, par Lucien Perey et Gaston Maugras, Calman LeÂvy,
Paris 1881, vol. II, p. 349, 24 sep. 1774).
31
Cfr. A.A.EÂ., Correspondance politique, Naples, vol. 100, passim.
32
Ivi, passim.
VII. La caduta di Tanucci: Sicilie asburgiche?
353
costituiscono lo sfondo del cambiamento di scena. CioÁ che si svolse
sul palcoscenico del governo fu solo l'epifenomeno della vicenda. La
pressione dei «siciliani» di Sambuca a sostegno della regina austriaca
costituõÂ l'immagine pubblica, esteriore di uno scontro che era stato,
nei suoi tempi e nei suoi contenuti di ben piu ampio significato. La
strategia del nuovo Regno, a rigor di logica, non poteva che esser
diretta a sottrarre almeno in parte l'economia del Mezzogiorno alla
tutela francese: dialettica sostanziale che aveva avuto inizio con l'indipendenza, aveva percorso tutto il cammino della militanza ministeriale di Tanucci, anche se egli ne era diventato protagonista oltre
vent'anni piu tardi del 1734. La relativa libertaÁ internazionale ottenuta allora sarebbe stata mera forma, se non fosse stata accompagnata dalla coscienza degli interessi economici `nazionali'. Nella gestione
politica centrale e nella societaÁ nacque infatti gradualmente un nuovo
impegno di efficienza diretto a recuperare la produttivitaÁ ed il benessere collettivo. Di qui il manifestarsi di sentimenti nazionali, la
cui presenza eÁ stata rilevata e messa in luce dagli storici come una
novitaÁ; ma questo fenomeno costituisce la regola in ogni comunitaÁ
che sia libera di esprimere i suoi interessi. Come si eÁ visto, invece,
all'inizio della parabola storica tracciata in questo libro, l'indifferenza per le sorti dei due regni era pressoche nulla ed ogni partecipazione
all'andamento del governo era assente, era sostituita da una quasi
totale indifferenza e passivitaÁ.
Questa novitaÁ era dunque una conseguenza naturale. EÁ da rilevare come un carattere specifico della storia meridionale del Settecento che la strategia nazionale avviata da Montealegre, e fu dotata
del sussidio di strumenti scientifici internazionali, teorizzata da intellettuali come Celestino Galiani, Bartolomeo Intieri ed Antonio Genovesi. Tanucci, per motivi politici personali, giudicoÁ negativamente
quella fase, ma poi adottoÁ una strategia simile proprio in quanto
contrastava la politica economica francese e mostrava di adeguarsi
al complesso teoretico-pratico di quel modello. PercioÁ la Francia fu
contemporaneamente amata ed odiata, secondo una compresenza e
divergenza di sentimenti che caratterizzano l'intera storia meridionale (come fu rilevato alla fine dell'Ottocento dai pregevoli studi di
354
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
Croce) e che risalivano, nello loro matrici teoretiche, addirittura al
Medio Evo: al crollo prima della magia celeste nel secolo XI e XII e
poi della magia nera nel XVI e XVII 33.
EÁ necessario ribadire l'esistenza in questa trama dei fatti storici,
di un tessuto unitario, omogeneo e forte, secondo cui si eÁ realizzata la
fisionomia della civiltaÁ europea e che da secoli fino ad oggi la caratterizza. Infatti se non si tiene conto di questa linea interpretativa,
ormai consolidata e comune a tutte le storiografie occidentali, la
congerie delle iniziative politiche e degli avvenimenti non disegna
alcun profilo fruibile; la storia medievale e moderna non eÁ comprensibile, ed il modello di sviluppo, adottato da tutte le democrazie
evolute ed oggi chiaramente vincente, si presenta come un caso fortuito e non come il risultato di un lavoro che ebbe inizio dopo il crollo
della civiltaÁ antica, sulle rinnovate basi poste dalla sensibilitaÁ e dalla
religiositaÁ cristiana: che eÁ realtaÁ storica, non dogmatica.
Nel 1776, alla fine (apparente) dell'antica e perdurante ambivalenza di odio e di amore verso la Francia, l'eccessiva disponibilitaÁ
verso gli interessi del commercio transalpino fu il prezzo che la corte
napoletana meridionale pagoÁ ai discendenti di Luigi XIV per l'aiuto
che essa aveva offerto all'Austria fin dal 1756, allo scopo di sottrarsi
alla travolgente spinta prussiana. Ma, in seguito a quel cambiamento,
gli equilibri dell'Europa non potevano sopportare il fatto che il legame Parigi-Madrid si prolungasse al centro del Mediterraneo occidentale, seguendo una linea quasi circolare, attraverso la Sicilia ed il
Mezzogiorno continentale, fino alle porte dello Stato Pontificio e,
sull'Adriatico, anche piu a nord di Roma. Quel cerchio appariva, per
il momento, innocuo, ma non poteva non preoccupare chi da esperto,
conosce l'estrema mutabilitaÁ degli equilibri storici. La presenza a
Madrid di un re che di certo non mostrava eccessi d'intraprendenza
e di combattivitaÁ, non attenuava l'immagine e la prospettiva preoccupante, in cui, infatti, era sempre pronta ad inserirsi la potenza
navale inglese.
33
Per un profilo d'insieme di questi fenomeni, si rinvia alla piu volte citata e recente
monografia di Ajello, EreditaÁ medievali, cit. (cap. I, nt. 24).
VII. La caduta di Tanucci: Sicilie asburgiche?
355
La caduta di Tanucci, avvenuta il 27 agosto del 1776, fu in
correlazione con il licenziamento del filo-francese ministro degli esteri di Carlo III, Girolamo Grimaldi (7 novembre 1776), sostituito con
il golilla Floridablanca, che per piu di un decennio reggeraÁ il timone
della governo spagnolo. L'intero contesto occidentale registroÁ proprio in quegli stessi anni grandi rivolgimenti, addensatisi nell'arco di
un quinquennio e avvenuti sotto la spinta delle rivoluzioni ± quella
americana soprattutto ±, delle guerres des farines e dei sempre piu acuti
conflitti politici che andavano sviluppandosi ovunque. Per rispondere alle domande sulla logica intima di queste novitaÁ bisogna guardare
a scenari politici piu ampi di quelli regnicoli, osservare il complicato
sistema internazionale delle corti.
D'altronde, lo stesso Tanucci, in una lettera del febbraio 1774,
aveva confessato di avvertire la morsa sempre piu soffocante del
rapporto parentale-pattizio con la Francia. Questa nazione svolgeva
un'azione di pesante influenza nei processi di formazione della volontaÁ politica in Spagna e a Napoli, ed era altrettanto determinante
nella costruzione di ogni decisione politica:
«Fatti, educati, abituati li francesi alla cabala, e pieni d'orgoglio e della
superbia nativa, ministri andando alle Corti portano cabala, ambizione
e presunzione di mettersi in ogni affare anche interiore delle nazioni,
ad quas. Non fanno della Spagna altro uso che quello che lor vien fatto
per loro proprio interesse. E con pochissima cura di coprirsi, fanno
quanto possono contro la Spagna e Appendici, formando complotti con
qualunque lor serva all'interesse del giorno, anche colli ministri delle
Corti, naturalmente contrarie ai parenti. Da Madrid a Parigi il re di
Spagna non ha amico che il re di Francia. Lo stesso avviene al re delle
Sicilie, di laÁ dall'isola dell'Elba e del Varo» 34.
Il suo giudizio andava oltre l'attacco sferratogli congiuntamente dalla
regina, dal partito filo-austriaco e dai diplomatici francesi che risiedevano a corte. Tanucci avvertiva il carattere arcaico di quegli assetti
oppressivi, inconciliabili con i fermenti d'impazienza che venivano
34
Ad Azara, da Caserta, 19 feb. 1774, in Tanucci, Epistolario 1774 (cfr. supra cap. V,
nt. 29), let. 82.
356
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
dal basso, dai popoli non piu disposti ad essere condotti passivamente
al pascolo, come greggi. Un'immagine di questo genere era riflessa
anche dal conflitto che si era aperto drammaticamente il 14 settembre
del 1773 a Palermo nelle forme di uno «strano accadimento» rivoltoso. I dispacci del 1774 che avevano imposto la motivazione delle
sentenze agli insindacabili patriarchi posti a difesa dell'Antico Regime, erano stati, in sostanza, un gesto (forse maldestro), ma di chiaro
significato costituzionale. Esso eÁ illuminato dalla riforma Maupeou,
iniziata a Parigi, tre anni prima, e proprio in quelle settimane conclusa con il totale fallimento, ossia con un'integrale restaurazione.
Anche quell'iniziativa era stata animata da un'energia generale e
nascosta, che potremmo dire `tellurica', e che aveva qualcosa in comune con gli altri sommovimenti indicati. Deporre dalla loro carica
167 tra i piu alti magistrati di Parigi, confiscarne gli uffici legalmente
ricoperti, non indennizzarli ed esiliarli (107 in tutta la Francia, e 60, i
meno ostili, «envoyeÂs dans leurs terres»), fu un provvedimeno che
alcuni giudicarono «une reÂvolution compleÁte et sourde», altri «une
atteinte aux maximes anciennes et aux lois du Royaume». In base a
quel precedente sarebbe stato possibile «aneÂantir toutes les lois» 35.
Gli apologisti della riforma rilevavano che i magistrati non erano,
come in Inghilterra, i rappresentanti del popolo, «puisque nous ne les
nommons point et ils ne nous rendent pas compte». I magistrati,
avendo comprata la carica, «ils n'eÂtaient vraiment sensibles qu'aÁ leurs
propres inteÂreÃts» 36. Infine, in quel modo, fu per qualche anno abolita
la venalitaÁ delle cariche, poiche i nuovi magistrati, scelti da Maupeou, non furono tenuti a sborsare nulla.
In realtaÁ proprio i meccanismi della sostituzione rivelarono le
maggiori difficoltaÁ. Quasi contemporaneamente all'emissione a Napoli dei dispacci sulla motivazione delle sentenze, la riforma del
cancellier Maupeou fu abolita, in seguito alla morte di Luigi XV ed
alla constatazione che non era possibile capovolgere il sistema mediante un semplice meccanismo legislativo. Ma la sensazione che
35
36
Egret, op. cit. (cap. V, nt. 19), pp. 178-9.
Ivi, p. 211.
VII. La caduta di Tanucci: Sicilie asburgiche?
357
bisognasse «bouleverser» tutto fu molto chiara. Era stato palese il
rifiuto da parte del governo francese di un'amministrazione della
giustizia che si attribuiva poteri arcani. Maupeou aveva interpretato
cosõÂ esigenze sociali e culturali generalizzate. Ferdinando Galiani e
madame d'EÂpinay commentarono quegli avvenimenti come il segno
di una crisi delle mentalitaÁ sociali, il crollo della «TheÂologie de l'admnistration» 37. Avvenimenti in apparenza non cruenti furono avvertiti
come uno scossone formidabile, che aveva fatto giaÁ temere lo scoppio
di una rivoluzione e che indusse molti benestanti ad uscire da Parigi
ed a soggiornare nelle case di campagna. La d'EÂpinay scrisse: «je vois
les esprits moins disposeÂs aÁ la violence qu'aÁ la desertion. Nombre de
gens pensent seÂrieusement aÁ s'expatrier» 38.
L'Antico Regime oscillava in tutt'Europa sotto i colpi che proprio il pensiero francese, anche piu di quello inglese, aveva dato a
quella vecchia e fatiscente costruzione. Per queste ed altre ragioni, gli
anni 1773 e 1774 furono non solo decisivi per le sorti politiche di
Tanucci, ma anche uno dei momenti piu delicati di un ciclo politico
che presto avrebbe trascinato lo Stato borbonico, e gran parte dell'Europa, nel crollo di un assetto sociale ed istituzionale millenario.
Anche la diplomazia piemontese, francofona e spesso francofila,
per ovvie ragioni molto attenta agli interessi transalpini, nella rovina
di Tanucci aveva visto precise responsabilitaÁ francesi. L'ambasciatore a Napoli, Incisa di Camerana, entrato in servizio a Napoli nel
febbraio 1775, aveva laconicamente commentato che «nella presente
circostanza la Spagna nulla sa ricusare alla Francia» 39. Egli confermava cosõÂ le capacitaÁ diagnostiche della diplomazia torinese che a sud
delle Alpi era diventata nell'ultimo secolo la piu matura dal punto di
37
Cfr., nel cit. vol. L'Abbe F. Galiani, Correspondance, a cura di L. Perey et Gaston
Maugras, Calman LeÂvy, Paris 1881, vol. I, p. 375 (Madame d'EÂpinay a Ferdinando Galiani, 11 avril 1771). Sulla riforma Maupeou resta fondamentale la sintesi del citato Egret
(cap. V, nt. 19).
38
Ivi, I, p. 383, Madame d'EÂpinay a Ferdinando Galiani, 11 avril 1771.
39
La testimonianza dell'ambasciatore piemontese Incisa di Camerana (a Napoli
dall'11 feb. 1775) eÁ stata utilizzata da R. Ajello, I filosofi e la regina, cit. (cap. IV, nt.
67). La cit. eÁ in I parte, p. 426.
358
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
vista tecnico, la piu obiettiva, ed anche la piu sensibile agli interessi
generali delle popolazioni italiane.
La «douce domination» della Francia sulla Spagna si ripercuoteva in un analogo effetto, meno dolce e specificamente economico,
sull'Italia in generale e sul Mezzogiorno in particolare. Ma erano
tempi in cui, aspra o dolce che fosse, ogni dominazione appariva
insopportabile. Proprio dalla Francia provenivano all'Italia due modelli a prima vista di segno opposto, ed in realtaÁ fondamentalmente
coerenti: un forte pensiero critico, ed un efficientismo economico
che non guardava a mezzi pur di assicurarsi il massimo successo.
Erano impulsi paralleli, ma si ponevano come cause di reazioni
molto diverse. L'osservatore dei fatti storici deve cogliere sia il parallelismo sia il contrasto, sia la coerenza sia la contraddizione: eÁ
importante che sappia far emergere la logica della coerenza, che
spesso eÁ la stessa della contraddizione, e colga l'architettura dell'insieme, che eÁ sempre un accordo di pieni e di vuoti, di linee orizzontali
e verticali. Limitarsi ad ammucchiar pietre ± fuor di metafora a
presentare fonti ed a descrivere meri fatti ± eÁ lavoro che, se eÁ eseguito con scrupolo e con specifico interesse alla oggettivitaÁ, eÁ filologico, non storiografico.
Per concludere, Ferdinando Galiani ± genio eccelso, ma sregolato e piu intuitivo che razionale (irrazionale nel senso che era del
tutto privo di una linea di coerenza morale) ± comunicoÁ alla d'EÂpinay
alcuni suoi pensieri da cui eÁ evidente che aveva capito molto di cioÁ
che sarebbe avvenuto nei due prossimi decenni. Non si riferiva alla
Rivoluzione, che non previde, ma all'assetto europeo ad essa successivo. In primo luogo comprese che la guerra contro «le despotisme de
la Robe», combattuta da secoli, non sarebbe stata vinta.
«Il y aura despotisme partout, mais despotisme sans cruauteÂ, sans
goutte de sang reÂpandu. Un despotisme de chicane e fonde toujours
sur l'interpreÂrtation des vieilles lois, su la ruse et l'astuce du Palais et
de la Robe; et ce despotisme ne visera qu'aux finances des particulieres. Hereux les robins, alor qui seront nos mandarins!» 40
40
Ivi, p. 388, 27 avril 1771, alla medesima.
VII. La caduta di Tanucci: Sicilie asburgiche?
359
Ma pensava che, al di laÁ del dispotismo legale e dello studio delle
vecchie leggi, avremmo avuto in Europa un sistema giuridico del
tutto nuovo: «Pour la jurisprudence, toutes les nations de l'Europe
auront un code particulier, et les lois romaines seront aneÂanties». Se
Tanucci avesse conosciuto questa previsione, ne avrebbe tratto un
incremento quasi letale del suo non lieve pessimismo. Intanto ± osservoÁ Galiani con il consueto acume ± «aÁ force de disputer su l'Esprit
des lois», cioÁ che avraÁ valore per «chaque nation» saraÁ «l'esprit de la
constitution»: ossia il culto civile de «l'ordre essentiel».
INDICE DEI NOMI *
* I nomi sono in tondo se presenti nel testo, in corsivo se indicati nelle note: se
compaiono in entrambi i luoghi non eÁ ripetuto il numero in corsivo.
Abarca y Bolea, Pedro Pablo, conte d' Aranda, 237, 283, 285, 329
Abelardo, Pietro, 27, 227, 235, 285
Acaya, Gian Giacomo, dell', barone di Segine, ingegnere militare, 132
Achille, eroe omerico, 300
Acquaviva, Giovan Girolamo, XIV duca
d'Atri e Grande di Spagna, 57, 67, 125,
128, 129, 131
Acquaviva di Conversano, famiglia, 128, 129
Acquaviva, Giulio, 128
Acquaviva, principe d', v. De Mari, Carlo
Acton, Giovanni, 203, 211, 260, 266, 268,
274
Adalberone di Laon, vescovo, 44
Afan de Rivera, Pedro, duca di AlcalaÁ, vicere di Napoli, detto anche `don Perafan' o
Parafan, 177
Aiguillon, Emmanuel-Armand de Vignerot
du Plessis de Richelieu, duca d', ministro
degli Affari Esteri francesi, 243, 245,
280, 288-9, 299, 300, 303, 348
Ajello, Raffaele, 5, 10, 14, 19, 31-2, 4-2, 45,
46, 56, 59, 84, 93, 109, 112, 123, 156,
177, 189, 191, 192-3, 198, 203, 217, 219,
226, 227, 238, 248, 252, 266, 268, 271,
275, 284-5, 296, 314, 316, 317, 318-20,
345, 346, 354, 357
AlabruÂs Iglesias, Rosa Maria, 152, 153, 160
Alberoni, Giulio, cardinale, 10, 217, 221
Alciato, Andrea, 27
Aldimari, Biagio, 127
Alessandro VIII, Pietro Vito Ottoboni, papa, 104, 139
Alighieri, Dante, 78, 195
Alker, Hayward R. jr., 165
Almirante de Castilla, v. Cabrera, Juan TomaÂs EnrõÂquez, de
Althann, Michael Friedrich d', cardinale e
vicere di Napoli, 56, 112, 177, 191, 192,
193
AÂlvarez de Toledo, Fernando, duca d'Alba,
vicere di Napoli, 92
AÂlvarez de Toledo, Pedro, marchese di Villafranca, vicere di Napoli, 44, 46, 47, 48,
51, 52, 56, 109, 110, 115, 119
AÂlvarez Osorio Gomez de Avila y Toledo,
Antonio Pedro, marchese di Astorga, vicere di Napoli,
Amelot, Michel-Jean, barone de Brunelles,
marchese de Gournay, ambasciatore francese, 185, 186
Anastasio, Filippo, vescovo di Sorrento,
141, 143-5, 153
AndreÂ, Louis, 151
Andreu, Francesco, 124
AngioÁ, casa d', 71, 73
AngioÁ, duca d', v. Filippo V
Angyal, Andras, 167
Aniello, Tommaso, detto Masaniello, 45,
67, 69, 70, 71, 88, 100, 103, 108, 116,
123, 125
Antoine, Michel, 230-1, 232, 243, 244,
246, 288, 290, 349-50
Antoni, Carlo, 25
Aragona, casa d', 71, 160
Aragona, principe di, v. Naselli Salvatore.
Aranda, conte d', v. Abarca y Bolea Pedro
Pablo
Arcos, duca d', v. Ponce de LeÂon, Rodriguez
Argento, Gaetano, 99, 145, 205
Arigliano, duchi d', 74
364
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
Arneth, Alfred Ritter, von, 316, 320
Aron, Raymond, 60
Asburgo-Lorena, famiglia reale, 11, 156-7,
160, 190, 241, 245-6, 316, 332
Ascione, Imma, 53, 54, 67, 176, 266, 298,
345
Ashby, William Ross, 167
Assante, Franca, 201, 265
Atri, duca d', v. Acquaviva Giovan Girolamo
Attendolo, Ambrogio, ingegnere, 132
Aumont, duca d', 243
Avellino, principe di, v. Caracciolo, Marino
Francesco
Azara, Giuseppe Nicola, 231, 355
Bacon, Francis, 42, 227
Baczko, Bronislaw, 80
Bajardi, Ottavio, 347
Baker, Keith Michael, 151
Ballesteros y Beretta, Antonio, 12
Barometro, Raffaele, 130
Barrio Gozalo, Maximiliano, 238
Bartolomeo di Capua, 129
Baudrillart, Alfred Henri Marie, 12, 34-5,
42, 136, 182, 183, 186, 189, 217, 219
Baviera, Giuseppe Ferdinando Leopoldo,
principe di, 43
Beccadelli-Bologna, Giuseppe, marchese
della Sambuca, 279, 354-7
Beccadelli-Bologna e Reggio, Pietro, principe di Camporeale, 324, 330-1, 341
Becher, Johann Joachim, 189
BeÂcu, Jeanne, contessa Du Barry, 243, 245,
348, 349
Bedmar, marchese di, v. La Cueva y Benavides, Isidor.
BeÂly, Lucien, 10, 62, 205, 217, 229, 246, 287
Benavides, Francisco, conte di Santisteban
del Puerto, vicere di Napoli, 54
Benavides y Aragon, Manuel de, conte di
Santisteban del Puerto, 242
Benigno, Francesco, 103, 108, 109, 111,
123, 124
BeÂrenger, Jean, 17, 190
BeÂrenger, Laurent, 331, 346, 347-9, 350-1
Bernal, Antonio Miguel, 174
Bernis, de Pierre, FrancËois-Joachim, cardinale de, 299, 349
Bertalanffy, Ludwig, von, 167
Bertelli, Sergio, 192
Bevilacqua, Piero, 170
Biersteker, Thomas J., 165
Biscardi, Serafino, 8-9, 15, 20-1, 41, 73,
77, 84-9, 93, 98, 105, 108, 112, 135,
141-2, 144-8, 150, 153, 163, 189-91
Bisignano, principe di, v. Sanseverino Carlo Maria
Bissy, conti di, 243
Bloch, Marc, 3
Bloufflers, Louis FrancËois de, maresciallo di
Francia e duca , 138
Blouin, Louis, signore di La Vienne, valletto di Luigi XIV, 138
Bobbio, Noberto, 166
Bodin, Jean, 158, 284
Bohr, Niels, 32
Bombelles, Marc-Marie, 290
Bonanno Filangieri, Giuseppe, principe della Cattolica, ambasciatore napoletano in
Spagna, 231, 329, 330
Bonaparte, Napoleone, 23, 24, 26, 33
Bonaparte, Carlo Luigi Napoleone, Napoleone III, 23, 24
Boncompagni-Ludovisi, Giovanni Battista
I, principe di Piombino, 57, 67, 125
Borbone, casa dei, 66, 75, 150, 196, 245,
329
Borbone-Conti, principi, 348, 349
Borgia di Valmezzana, Giuseppe, 198, 268
Boulainvilliers, Henri, conte di, 58, 59
Bourgeois, EÂmile, 151
Bourguet, Alfred, 349
Boutaric, Edgard, 229, 232, 288
Brambilla, Elena, 92
Brancaccio, casa, 79
Brancaccio, Giovanni, togato siciliano e Segretario d'Azienda di Carlo di Borbone,
23, 41, 45, 60, 192, 195, 210, 222, 280
Brancaccio, Giovan Francesco, IV marchese
di Pietracatella, 92
Braudel, Fernand, 93
Indice dei nomi
Breteuil, AngeÂlique-Elisabeth, Le Tonnelier, figlia del barone, 290
Breteuil, Louis-Auguste Le Tonnelier, barone di, 11, 233, 243, 267, 280, 28791, 296, 299-307, 309-312, 315, 316-7,
320, 321, 322-3, 326-32, 334, 335, 347,
348, 349, 351, 352
Broglie Charles-FrancËois, conte di, chef du
cabinet secret di Luigi XV, 13, 229-32,
238, 240-49, 280, 288, 289, 290, 304,
331, 351
Broglie, Victor-FrancËois, II duca di, 230
Bromley, John Selwyn, 220
Buchan Telfer, John, 354
Buondelmonti, Francesco Maria, 204
Burckley, Walter, 167
Butler, Rohan, 353
Cabantous, Alain, 170
Cabrera, Juan TomaÂs EnrõÂquez, de, XI Almirante di Castiglia, 124, 151, 154, 157,
159
Caillois, Roger, 212
Calabria, duca di, 66, 125
Campolieto, duchessa di, moglie di Tiberio
Carafa, 74
Cancila, Orazio, 196, 200, 268, 273
Cancila, Rossella, 103
Cantelmo, Giacomo, cardinale e arcivescovo
di Napoli, 70
Cantelmo, Restaino, II principe di Pettorano, VII duca di Popoli, IV duca di Belvedere e Grande di Spagna, 69, 70
Cantillana, Giuseppe Baeza y Vicentelo, conte di, ambasciatore napoletano a Parigi,
250, 262, 263, 282
Capece, Giuseppe, fratello del marchese di
Rofrano ed ambasciatore dei congiurati
di Macchia presso la corte di Vienna,
73, 76
Capecelatro, Francesco, 124
Capefigue, Jean Baptiste Honore Raymond,
25
Capua, Bartolomeo di, principe della Riccia,
129
Capuana, seggio di, 67, 130
365
Caracciolo, Carmine Nicola, V principe di
Santo Buono e duca di Castel di Sangro,
Grande di Spagna, ambasciatore spagnolo
a Venezia e vicere del PeruÁ, 57, 125, 128,
130-5
Caracciolo, Domenico, vicere di Sicilia,
203, 250, 329, 331, 352, 358
Caracciolo, famiglia, 126
Caracciolo, Giulio Cesare, 90, 109
Caracciolo, Marino, III principe della Torella, 129
Caracciolo, Marino, IV principe di Santo
Buono, 130
Caracciolo, Francesco Marino, III principe
di Avellino, 57, 66, 125-26, 127, 130
Carafa, Antonio, generale e maresciallo di
campo di Leopoldo I, 74
Carafa, Fabrizio, II principe di Chiusano,
padre di Tiberio, 74
Carafa, Gregorio, priore della Roccella, 67,
125
Carafa, Marzio, VII duca di Maddaloni, 126
Carafa, Tiberio, III principe di Chiusano,
20, 55, 62, 63, 64, 67, 68, 69, 72, 73, 74,
75, 76, 77, 78, 80, 81, 82, 83, 87, 91, 92,
97, 218
Carbajo Isla, MarõÂa Francisca, 162
Carducci, GiosueÂ, poeta, 79, 264
Carignani, Giuseppe, 124
Carlo di Borbone, re di Napoli e III come re
di Spagna, 10, 15, 179, 198, 203, 206-8,
213-5, 218, 219, 223, 233, 238, 241-2,
245-6, 248, 249-53, 259, 266, 269, 276,
278-79, 282-3, 291, 294, 296, 298-9,
300, 304-5, 308-15, 316, 323, 332,
336-8, 342-8, 356
Carlo II, d'Austrias, re di Spagna, 2, 7, 15,
17, 20, 37, 43, 55, 63, 65, 66, 68, 74, 77,
78, 94, 99, 100, 118, 121, 129, 156, 158,
174, 217-8
Carlo III d'Asburgo (poi VI come imperatore), 8, 154, 156, 161, 190, 192, 199,
272
Carlo IV, re di Spagna, 322
Carlo V, imperatore, 44, 48, 51, 67, 72, 92,
132, 249, 282
366
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
Carlo VIII, re di Francia, 18, 211
Carlo Magno, re di Francia, 19, 25
Carolina Matilde di Hannover, regina di
Danimarca, 316, 318
Carnap, Rudolf, 32
Carpio, De Haro y GuzmaÂn Gaspar Mendez, VII marchese del, vicere di Napoli 67
Cartesio, v. Descartes
Casini, Simone, 28
Cassaro, principe del, v. Gaetani e Leanza
Cesare
Cassirer, Ernst, 2
Castel, Charles-IreÂneÂe, detto l'abbe de SaintPierre, 8, 281
Castellaccia, duca della, v. Spinelli, Francesco
Castiglione, Baldassar, 296
Castiglione, principe di, v. D'Aquino,
Tommaso
Castrillo, GarcõÂa de Haro-Sotomayor y GuzmaÂn, conte di, vicere di Napoli, 126
Castropignano, duca di, v. D'Evoli Francesco
Castropignano, duchessa di, v. Revertera
Zenobia
Castropignano, famiglia, 305, 310, 311, 313,
314
Caterina II, imperatrice di Russia, 319
Cattaneo, Domenico, principe di San Nicandro, 247, 248, 305, 306, 310
Cavaciocchi, Simonetta, 174, 201
Cavazza, Silvano, 157
Cazes, Louis, 220
Celenza, Caracciolo, Francesco, duca di, 87
Centomani, Gaetano, 231, 299
Cernigliaro, Aurelio, 51, 59, 109
ChacoÂn Ponce de LeÂon, Juan, visitatore generale, 124
Chamillart, Michel, 176
Chapman, Sara E., 35
Charbonnier, Georges, 60
Chassignet, Francesco, 73
Chaussinand-Nogaret, Guy, 57, 59
Choiseul, CeÂsar Gabriel, conte di, duca di
Praslin, ministro degli Affari Esteri e della Marina, 231, 233, 243, 349
Choiseul, EÂtienne-FrancËois, duca di, conte
di Stanville, ministro d'EÂtat, governeur di
Touraine, segretario di Stato di Guerra,
degli Affari Esteri e della Marina, 230-1,
233-4, 243, 246, 250, 280, 288-9, 293,
294, 299, 301, 315, 347-9
Choiseul, partito di, 11, 230, 242, 288, 299,
301, 349
 lvaro, de, 151
Cienfuegos, A
Cirillo, Giuseppe Pasquale, 252, 345
Clark, George, 220
Clemente XI, Gianfrancesco Albani, papa,
152
Clodoveo, re dei Franchi, 19
Cohen, Deborah, 1
Coirault, Yves, 61, 66, 131
Colapietra, Raffaele, 110
Colbert, Jean-Baptiste, marchese di Torci,
35, 43, 61-2, 68, 136, 137, 140, 141,
142, 143, 183
Colbert, Jean-Baptiste, 169, 175-6, 185, 189
Colbert, famiglia, 138.
Colletta, Pietro, 248, 321
Collins, James B., 176
Comparato, Vittor Ivo, 70
Conclubet, Andrea Casimiro, marchese d'Arena, 128, 129
CondeÂ, Luigi II di Borbone, IV principe di,
103
Confuorto, Domenico, 67, 126, 127, 128-9
Contegna, Pietro, 196, 272, 275
Contino, Elvira, 204
Coppini, Romani Paolo, 202, 208
Cornette, JoeÈl, 17, 91
Coronas Vida L. J., 162
Corsini, Bartolomeo, vicere di Sicilia, 199,
208, 272
Coxe, William, 219
Cozzetto, Fausto, 117
Cremades GrinÄaÂn, Carmen Maria, 220
Croce, Benedetto, 6, 20, 31, 33, 72, 166,
214, 218, 248, 317, 331, 354
Crouzet, FrancËois, 174
D'Addio Mario, 208, 238, 342
D'Alembert, Jean Baptiste Le Rond, 42
Indice dei nomi
D'Alessandro, Vincenzo, 334
D'Alessio, Silvana, 109
D'Andrea, Francesco, 9, 20, 53, 54, 67, 70,
71, 73, 83, 87, 145, 176, 177, 190
D'Aquino, Tommaso, Grande di Spagna, VI
principe di Castiglione, di Feroleto e di
San Mango, duca di Nicastro e conte di
Martirano, 2, 57, 66, 125
D'Avalos del Vasto, famiglia, 127
D'Avalos del Vasto, Casa, 127
D'Avalos, Andrea, principe di Montesarchio, 67, 74, 125,
D'Avalos, Francesco, principe di Troia, 67,
125
D'Avalos Giovanni, II principe di Troia, 67,
125
D'Avalos d'Aquino Mendoza, Cesare, VIII
marchese del Vasto 127
D'Avalos d'Aquino Mendoza, Ferdinando
Emanuel, marchese di Pescara, 127
D'Avalos del Vasto, Diego Francesco Emanuel, VII marchese del Vasto e marchese
di Pescara, 127
D'Avalos d'Aquino Mendoza, marchese del
Vasto
D'Eon, chevalier, Charles-GenevieÁve-LouisAuguste-AndreÂ-TimotheÂe d'EÂon de Beaumont, agente segreto e diplomatico, 295,
349
D'EstreÂes, CeÂsar, cardinale, 139
D'EstreÂes, Victor-Marie, marchese di Cúuvres, poi duca, 143
D'EstreÂes, FrancËois, ambasciatore, 139
D'EstreÂes, Jean, 126
D'Evoli, Francesco, duca di Castropignano,
87, 317
Daniel, Ute, 1
Davenant, Charles, 178,
Dawson, John Philip, 236
De BavieÂre, Charlotte Elisabeth, duchessa
di OrleÂans, 137
De Beaumarchais, Pierre-Augustin Caron,
283
De Castro, ConcepcioÂn, 179
De Charmont, monsieur, corrispondente
francese da Napoli, 154
367
De Clermont d'Amboise, Jean-BaptisteCharles-FrancËois, marchese di Reynel,
351, 352
De Cristofaro, Giacinto, avvocato e matematico, 54
De Francesco, Antonio, 14, 21, 22, 33
De Gregorio, Leopoldo, marchese di Squillace, ministro, 234, 237, 238, 252, 257,
258, 294, 311, 313, 338, 349
De Guevara, Inigo Velez, 105
De Janson, v. Forbin-Janson Toussaint de
De La Borde, Valet de Chambre, 303
De Lacerda, Luis Francisco, duca di Medina-Celi, 60, 61, 62, 63, 64, 68, 77, 78,
136, 140
Del Curatolo, Elia, 272
De Lancina, Rodriguez, 220
De Mari, Carlo, II principe d' Acquaviva, 68
De Mauro, Oronzio, amministratore della
Dogana di Napoli, 205
De Moustier, Antoniette, moglie di JeanBaptiste-Charles-FrancËois de Clermont
d'Amboise, 351
De Pontchartrain, Louis, 138, 176
De Pontchartrain, famiglia, 35
De Ponte, Giovan Francesco, 100
De Poussemothe de l'Estoile, Jean-Baptiste, cavaliere di Graville, espion, 62
De Raxis de Flassan, G., 288
De Rosa, Luigi, 84, 103, 173
De Rouvroy, Louis, duca di Saint-Simon,
34, 35, 57, 59, 61, 66, 94, 131, 136-7,
140, 303-4
De Sade, Donatien Alphonse FrancËois, detto il marchese, 319
De Salas Y Quiroga, Jacinto, 219
De Thiard, Anne-Claude, marchese di Bissy, 205
De Tiberiis, Giuseppe, 268
De Witte, J., 289, 293
De' Medici, Giuseppe, principe di Ottajano,
63, 66, 125
Del Bagno, Ileana, 53
Del Bianco, Lamberto, 205, 277, 346, 347
Del Curatolo, Elia, 199, 272
Del Giudice, Domenico, principe di Cella-
368
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
mare e duca di Giovinazzo, ambasciatore
spagnolo a Venezia e vicere della Vecchia
Castiglia, 57, 67, 125, 130
Del Giudice, Francesco, cardinale e vicere di
Sicilia, 35, 67, 140
Del Riccio, Leonardo, 207, 251, 314
Delille, Gerard, 130
Della Casa, monsignor Giovanni, 296
Dennis Hussey, Roland, 220
Descartes, ReneÂ, 41, 42, 284-5
Desmaretz, Nicolas, 176
Desmarets, Yves-Marie conte di Maillebois,
243
Dewey, John, 32
Di Blasi, Giovanni Evangelista, 337
Di Capua, Giovan Battista, principe della
Riccia, 129
Di Costanzo, Fulvio, marchese di Corleto,
100
Di Donato, Francesco, 44
Di Franco, Saverio, 53, 100
Di Marzo, Gioacchino, 340
Di Sangro, Carlo, principe di Sansevero, 73
Di Sangro, Giovan Francesco, principe di
Sansevero, 87
Diaz, Furio, 256, 262, 279
Dickson, Peter G. M., 178
Diderot, Denise, 42
DomõÂnguez Ortiz, Antonio, 220
Doria, Andrea, 282
Doria, Paolo Mattia, 64, 65, 75, 77, 278
D'Ossun, Pierre Paul, 276-7
Du Barry, contessa, vedi BeÂcu, Jeanne.
Duby, Georges, 44
Durand de Distroff, FrancËois-Michel, 232
Edelmayer, Friedrich, 157
Egido, TeoÂfanes, 150, 160
Egret, Jean, 226, 348, 356, 357
Elias, Norbert, 34
Elie, Paul, 2
Elisabetta Farnese, moglie di Filippo V, regina di Spagna 10, 13, 39, 135, 178,
196, 197, 198, 199, 206, 213, 214,
217, 218, 250, 251-2, 292, 294, 310,
311, 345
Ellis, Harold A., 58
Emanuel, Diego Francesco, 127
Emanuele e Gaetani, Francesco Maria,
marchese di Villabianca, 333, 334, 335,
336, 340, 341
Enciso Recio, Louis Miguel, 150, 152, 173,
174, 175
Enrico II Plantageneto, re d'Inghilterra, 346
Ensenada, marchese di, v. Somodevilla y
Bengoechea ZenoÂn
EÂpinay, Louise Tardieu d'Esclavelles, marchesa d', 226, 319
Escalona, duca di, v. Fernandez Pacheco de
Acuna Giovanni Emanuele, marchese di
Villena 61, 62,140, 141, 142, 152
Espagne, Michel, 3
Eugenio di Savoia, 73
Falletti, Giacinto, presidente della Camera
della Sommaria poi reggente del Collaterale, 146
Favier, Jean-Louis, 13, 229, 230, 238, 304
Federico II di Svevia, 2, 44,
Federico II, re di Prussia, 243, 245
Federico, Giovanni, 169
Fenicia, Giulio, 92
Ferdinando II, d'Aragona, detto il Cattolico, 19
Ferdinando IV, re delle due Sicilie, 242,
247, 248, 249, 291, 294, 301, 304-10,
317, 320, 328, 340, 355
Ferdinando VI, re di Spagna, 199, 220,
223, 311
Ferlito, Manuela, 248
FernaÂndez AÂlvarez, Manuel, 92
Fernandez De Medrano, Giuseppe, presidente della Gran Corte di Sicilia, 185,
187
Ferrante, Matteo, avvocato fiscale, 205
Fichte, Johann Gottlieb, 25
Filangieri, Serafino, arcivescovo di Palermo,
340, 341
Filippo I di Borbone, duca di Parma, 246
Filippo II, re di Spagna, 48, 92,
Filippo III, re di Spagna, 110
Filippo V, duca di AngioÁ e re di Spagna, 17,
Indice dei nomi
21, 33-4, 39, 42, 60, 65-6, 68-9, 77, 85,
112, 116, 128, 130-2, 136, 138, 140,
143, 145, 150, 152-3, 156, 158-9, 1778, 181, 182, 183, 185, 187, 196, 197-8,
199, 206, 217-8, 219, 221, 222, 226,
231, 234, 246, 250, 270, 311
Filomarino, Ascanio, arcivescovo di Napoli,
103
Finocchietti-Faulon, Giuseppe, 214
Fitou, Jean-FrancËois, 34
Flammermont, Jules, 230, 243
Fleischmann, Anselm Franz, von, consigliere di Carlo VI, 192, 193, 206
Fleury, AndreÂ-Hercule de Gerardo, vescovo
di Cambrai e cardinale de, 279
Fleury, Claude, 19
Floridablanca, conte di, v. MonÄino JoseÂ
Fogliani, Giovanni, 11, 12, 207, 251, 257,
313, 332-38, 340, 341, 343, 351
Fontenelle, Bernard Le Bovier, 42
Forbin-Janson, Toussaint, de, cardinale, 98,
132, 136, 140, 141, 143, 145
Fraggianni, NicoloÁ, 198, 199, 272
Francesco I di Valois, re di Francia, 210,
265, 282
Frangipane, Rosario, togato, 14
Furet, FrancËoise, 59, 176, 319
Fuscaldo, marchese di, v. Spinelli, Giovanni
Battista II
Gadda, Carlo Emilio, 27-8
Gaetani e Leanza, Cesare, principe del Cassero e marchese di Sortino, barone di
Ministeri, Bamini, Casalotto, Sant'Andrea e Chiusa, 336-7
Gaillardet, Frederic, 350
Galasso, Giuseppe, 67, 69, 72, 92, 101,
103, 104, 117, 334
Galiani, Celestino, 193, 196, 206, 252,
311, 343, 353
Galiani, Ferdinando, 203, 226, 249, 254-6,
258-63, 268, 274, 277, 279, 286, 319,
331, 351, 357-9
Galilei, Galileo, 27
Gallo, Fausta, 14
Gallucci de l'Hopital, Paul FrancËois, mar-
369
chese di Chateaneuf, ambasciatore, 205,
276
Gambacorta, Gaetano, principe di Macchia,
51, 61, 65, 66, 68-70, 83, 127-8, 133, 139
GaÂmez AmiaÂn, Aurora, 162
Gangemi, Maurizio, 201-2
GarcõÂa Sanz, Angel, 162
GarcõÂa-CaÂrcel, Ricardo, 13, 180, 219
GarcõÂa-Gallo de Diego, Alfonso,
Garin, Eugenio, 227
Garin, Maria, 282
Garofalo, Domenico, Preside di Calabria
Ultra, 146
Gazzini, mercante palermitano, 335-6
Gellner, Ernest, 30
Genovesi, Antonio, 42, 173,193, 199, 204,
206, 207, 210, 262-3, 267, 268, 272,
281, 305, 311, 314-5, 353
Gentile, Giovanni, 264
Geoffroy, Auguste, 244
Georgine, cantante svedese, amante del duca di Medina-Celi, 61
Gerardo, vescovo di Cambrai, 44
Giacomo II Stuart, re d'Inghilterra, 92
Giannone, Pietro, 9, 15, 65, 71, 75, 77-8,
81, 119, 123, 145, 192, 196, 205, 209,
265, 272, 296
Giano, divinitaÁ romana, 23
Giarrizzo, Giuseppe, 333
Giorgio, mercante palermitano, 335-6
Giovanni d'Austria, 67, 125-6
Giovanni da Parigi, v. Jean de Paris
Giovinazzo duca di, v. Del Giudice Domenico
Girard, Albert, 222
Giuseppe II d'Asburgo, imperatore, 190,
306, 316, 322
Godevini, Domenico, 98
Gojosso, Eric, 116
GoÂmez-CenturioÂn JimeÂnez, Carlos, 10,
GonzaÂles Enciso, AgustõÂn, 173
GonzaÂlez Mezquita, MarõÂa Luz, 151
Gouguet, Henri, 290
Gouyon, Louis-Charles-Auguste, conte di
Mantignon, 290, 304
Gramont, Antoine Charles, duca di, 62, 67.
370
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
GraciaÂn, Baltasar, 155
Granito, Angelo, 124
Graville, cavaliere di, v. De Poussemothe
de l'Estoile, Jean-Baptiste, 62
Gravina, Gian Vincenzo, 9, 145
Gray, John, 32
Gregorio XIV, NiccoloÁ Sfondrati, papa, 149
Grice-Hutchinson, Marjorie, 175
Grimaldi, Costantino, 198, 206,
Grimaldi, Girolamo, 231, 234, 250, 277,
295, 299-301, 355
Grimaldi, Gregorio, 198, 268
Grimani, Vincenzo, cardinale, 73
Grossi, Paolo, 26-7
Gruder, Vivian R., 324
Guascone, Salvatore, togato, 184
Guasto, mercante palermitano, 336
Guerci, Luciano, 256
Guerra y Sandoval, Juan Alfonso, 155
Gugliemo d'Orange, statoldo delle Province
Unite e III come re d'Inghilterra, 18,
158, 221
Guglielmo III, re di Svezia, 230
Guines, conte di, 288
Guisa, Enrico II di Lorena, duca di, 103
Guymard, Charge d'Affaires, 205
GuzmaÂn de Montealegre, Jose JoaquõÂn,
marchese e poi duca di Salas, segretario
di Stato, 193, 196, 198-9, 203-8, 214,
251, 257, 263-4, 268, 271-2, 274-7,
310, 312, 314, 352-3
GuzmaÂn y Pimentel, Gaspar de Olivares,
conte-duca, 124
Haas, Ernest B., 167
Habermas, JuÈrgen, 176
Harcourt, Henry-Claude, duca d', 35, 183
Harrach-Rohrau, Aloys Thomas Raimund,
conte d', 193
Haupt, Heinz-Gerhard, 4
Hazard, Paul, 28, 228
Herder, Johann Gottfried, 25
HernaÂndez SaÂnchez-Barba, R. J., 220
Himmelfarb, Gertrude, 32
Hintze, Otto, 3
Hobson, John Atkinson, 167
Holland M.L.-W., 137
Homberg, Octave, 354
Hopital, v. Gallucci
Hotman, FrancËois, 81, 228
Hospital, Michel de, 271, 272
Hume, David, 227
Hunt, Lynn, 318
Iggers, Georg G., 11
Imbruglia, Girolamo, 262
Incisa di Camerana, Giulio Vittorio, ambasciatore piemontese, 12, 358
Innocenzo XI, papa, Odescalchi Benedetto,
104, 138
Intieri, Bartolomeo, 193, 196, 252, 263, 353
Iovine, Raffaele, 204, 207, 251, 314
Israel, Jonathan Irvine, 32, 162
Jackson, Richard A., 58
Janson, cardinale, v. Forbin-Janson, Toussaint, de
JargleÂ, Ernest, 137
Jean de Paris, 27
Jùergensen, Jùrgen, 32
Jouhaud, Christian, 152, 154-5
Jousselin, Fernand 354
Jover Zamora, Jose MarõÂa, 157, 220
Kamen, Henry, 162, 217, 219
Kammerling Smith, David, 187, 188
Kant, Immanuel, 32
Kantorowicz, Ernst Hartwig, 44
Kaplan, Morton, 165
Kaplan, Steven, 343
Kaunitz-Rietberg, Wenzel Anton, von, 246,
293
Keers, ambasciatore d'Inghilterra, 223
Keohane, Robert O., 165
Knight, Carlo, 248
Kocka, JuÈrgen, 4
Kurzweil, Eduard, 230
La Cueva y Benavides, Isidor, V marchese
di Bedmar, vicere di Sicilia, 35
La TreÂmoõÈlle, Marie Anne, de (detta madame des Ursins), 136, 137, 138, 186
Indice dei nomi
La TreÂmoõÈlle, Joseph Emmanuel, cardinale,
136, 137, 142, 143, 145, 148
Labatut, Jean-Pierre, 58
Laclos, Choderlos, de, 323
Ladero Queseda, Miguel AÂngel, 162
Lanza GarcõÂa, RamoÂn, 163
Larcando Laco (pseudonimo di CalaÁ Carlo),
70
Laudani, Simona, 343
Lavisse, Ernest, 25, 103, 104
Le Roy Ladurie, Emmanuel, 34, 57, 137,
138
Le Tellier-Louvois, famiglia, 138
Lebow, Richard Ned, 157
Lenin, Vladimir, 167
Le Paige, Louis-Adrien, giurista, 226
Leopoldo I d'Asburgo, imperatore, 75-6
Leopoldo, Granduca di Toscana e II come
Imperatore, 320
LeÂvi-Strauss, Claude, 60, 167
Lieberman, Victor, 4
Ligresti, Domenico, 179
Lo Sardo, Eugenio, 281
Locke, John, 45,46, 192, 241
Longnon, Jean, 58
Longo, Giacomo, 14
 lvarez, Alejandro, 157
LoÂpez A
LoÂpez-CoÂrdon Cortezo, MarõÂa Victoria, 220
Losada, v. Miranda
Lo Sardo, Eugenio, 278
Los BalbaseÂs, marchese di, v. Spinola, Filippo Antonio
Losito, Francesco Saverio, 236
Louvois, FrancËois Michel, Le Tellier, marchese di, ministro di Luigi XIV, 176
Loyseau, Charles, 81, 228
Lucarelli, Sonia, 166
Luhmann, Niklas, 319
Luigi XIII, re di Francia, 18, 58
Luigi XIV, re di Francia, 2, 4-7, 12-4, 17-8,
21, 23-8, 34-5, 37-43, 45, 55-61, 65-8,
70-71, 73, 75, 77-8, 83, 87, 91, 93, 95,
99, 103-4, 113, 116, 121-64, 175-77,
182-3, 189, 210, 217-8, 221-2, 229,
235-6, 267, 285, 354-5
Luigi XV, re di Francia, 91, 221, 223, 226,
371
229-32, 234, 242-3, 245-6, 259, 288,
299, 349, 357
Luigi XVI, re di Francia, 11, 226, 242, 279,
289, 293-5, 300-1, 319
Luhmann, Niklas, 318-9, 322, 323
Luongo, Dario, 41, 83-4, 86, 141, 142, 144,
146, 148, 149, 189
Lynn, John Albert, 91
Maccarano, Domenico, 70
Macchia, principe di, v. Gambacorta, Gaetano
Machado, Consalvo, consigliere, 141
Machiavelli, NiccoloÁ, 158, 261, 264, 268,
281
MacIntyre, Alasdair, 32
Maffi, Davide, 92
Maillebois, conte, v. Desmarets, Yves-Marie 243
Maintenon, 136, 137, 138, 139, 186
Maiorini, Maria Grazia, 248, 252, 310, 315
Malamud, Carlos, 175
Mandrou, Robert, 34, 139, 285
Mantelli, Roberto, 84
Mantignon, conte di, v. Gouyon LouisCharles-Auguste
Maometto II, 106
Maravall Casesnoves, Jose Antonio, 75,
155, 220
Marcin, Ferdinand, conte di, 35, 140, 183
Maria Elisabetta d'Asburgo-Lorena, arciduchessa d'Austria, 231
Maria Amalia di Sassonia, regina di Napoli
poi di Spagna, 251, 292, 305, 310, 312-3
Maria Antonietta, regina di Francia, 11,
227, 231, 242-43, 319, 320
Maria Barbara di Braganza, prima moglie di
Ferdinando VI di Spagna, 218
Maria Carolina d'Asburgo-Lorena, regina di
Napoli, 11, 203, 233, 242, 260, 268,
274, 289, 291, 294, 296, 301, 304,
315, 316-22, 331-2, 352, 356
Maria Luisa Gabriella, prima moglie di Filippo V, 217
Maria Luisa di Parma, moglie di Carlo IV di
Spagna, 319
372
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
Maria Teresa, imperatrice, 241-42, 246,
293-4, 296, 300, 317
Marsilio da Padova, 2, 285
Masaniello, v. Aniello Tommaso.
Mastellone, Pietro Paolo, eletto del popolo,
63
Mastellone, Salvo, 70-1, 128
Maugras, Gaston, 226, 352, 357
Maupeau, ReneÂ-Nicolas-Charles-Augustin
de, cancelliere di Francia, 226
Maurepas, Jean-FreÂdeÂrc PheÂlippeaux, conte
di, 293, 299
Maza, Sarah, 151, 319
Mazzarino, Giulio Raimondo, cardinale,
24-5, 28, 124
Mazzoni Toselli, Ottavio, 78
Medina-Celi, v. De Lacerda, Luis Francisco, duca di
Meinecke, Friedrich, 10, 31
MeneÂndez Pidal, RamoÂn, 150, 157, 220
Menotti, Roberto, 166
Mercy-Argenteau, Florimond Claude, conte
di, ambasciatore, 243-44, 293-94
Mesnard, Pierre, 220
Messina, Pietro, 111
Mettam, Roger, 176
Michelet, Jules, 24-5, 317
Migliaccio, Aniello, 136, 149-50
Milano, Giacomo, marchese di San Giorgio,
128-29
Miletti, Marco Nicola, 54, 55, 66-7, 69, 71,
96, 104, 126-29
Minard, Philip, 169, 186
Mincuzzi, Rosa, 340
Minervini, Pantaleo, 65
Miranda, Jose Ponce de LeÂon, duca di Losada, 290-1, 294
Miro, Vincenzo, 141
Moioli, Angelo, 84.
Molas Ribalta, Pere, 345
Moltke von, Konrad, 11
MonÄino, JoseÂ, conte di Floridablanca, 92,
223, 224, 237, 316, 355
Montagu, Charles, cancelliere inglese, 178.
Montaigne, Michel Eyquem de, 25-6, 27,
42, 81, 227, 284, 288, 302, 322.
Montanari, Giuseppe Ignazio, 79
Monte, Antonio, 132
Montealegre, v. GuzmaÂn de Montealegre
Jose JoaquõÂn
Monteleone, duchessa di, v. Pignatelli Giovanna, 67, 125
Montenero, marchesi di, 74
Montesarchio, famiglia, 67, 125
Montesarchio, principe di, v. D'Avalos Andrea
Montesquieu, Charles-Louis de Secondat,
barone di La BreÁde e di, 172, 212, 214,
235, 285-6
Montmorency, principessa di, 243
Moreau, Jacob Nicolas, 289
Morgenthau, Hans J., 165
Morineau, Michel, 171
Morlino, Leonardo, 166
MoÈser, Justus, 25
Mousnier, Roland, 44, 45, 75, 81, 228
MunÄoz Perez J., 175
Muratori, Ludovico Antonio, 29,
Musi, Aurelio, 29, 57, 70, 75, 82, 93, 109,
113, 116, 117, 130
Mussolini, Benito, 31
Muto, Giovanni, 84
Nadel, Siegfried F., 167
Napoleone, Bonaparte, 23-4, 26, 33
Napoleone, Luigi, III, 23-4
Naselli Salvatore, principe di Aragona, 317,
334
Nef, John U., 174
Nefetti, Francesco, 202
Neurath, Otto V., 32
Nicolini, Fausto, 128, 160, 226, 258, 323,
356
Nicolini, Nicola, 67
Nieri, Rolando, 202, 208, 277
Nocera, duchi di, 74
O' Connor, Maura, 3
Oexle, Otto Gehrard, 44
Oliva Melgar, Jose MarõÂa, 220
Olivares, conte-duca, v. GuzmaÂn y Pimentel, Gaspar de, 124
Indice dei nomi
OnÄate, conte di, v. Velez de Guevara, InÄigo
OrleÂans, duchessa d', v. De BavieÂre Charlotte Elisabeth
OrleÂans, Filippo II, duca d', 91, 221, 288
Orsini, Flavio, principe degli, 136
Ossuna, vicereÂ, v. TeÂllez-GiroÂn, Juan, II duca di, 110
Ottajano, principe di, v. De' Medici, Giuseppe
Otto, Hintze, 3
Ozanam, Didier, 220, 230, 231, 232, 244,
288, 290, 350
Ozouf, Mona, 320
Pacheco Fernandez, Giovanni Emanuele,
duca di Escalona e marchese di Villena,
140-2, 152
Pacheco Tellez Giron, Giovan Francesco,
duca di Uceda, 63, 141
Paganini, Gianni, 32
Pallante, Giovanni, 198, 210, 266-8
Palmieri, Giuseppe, 278
Paolucci, Andrea, teatino, 124
Parker, David, 58
Parrot, David A., 91
Pasquier, EÂtienne, 81, 228
Pastor, Ludwig, von, 104, 138
PatinÄo, JoseÂ, 39, 180, 198-9
Pepe, Gabriele, 93
Perey, Lucien, 226, 350, 357
PeÂrez Aparicio, Carmen, 153
PeÂrez Picazo, MarõÂa Teresa, 150, 151
Perlongo, Ignazio, 14
PeÂronnet, Michel,
Petris, Loris, 272
PheÂlippeaux, v. Maurepas
PhiloxeÁne, Louis, marchese di Puyzieulx, ambasciatore, 205
Piano Mortari, Vincenzo, 226
Picavet, Camille Georges, 351
Pietracatella, marchesi di, 87
Pii, Eluggero, 42
Pignatelli Andrea Fabrizio, 67
Pignatelli Giovanna, duchessa di Monteleone, 67, 125
Pignatelli, NiccoloÁ, 67
373
Pilati, Renata, 46, 51, 109, 268
Pinsseau, Pierre, 354
Piola Caselli, Fausto, 84
Piombino, principe di, v. Boncompagni-Ludovisi, Giovanni Battista I,
Pirenne, Henri, 3
Pizzo, Antonietta, 62, 69
Pomeau, ReneÂ, 221
Ponce de LeÂon, Rodriguez, duca d'Arcos,
vicere di Napoli, 124
Pontchartrain, Louis, de, cancelliere, 35,
138, 176
Popoli, duchi di, 74
Poussin, eÂspion, 94
Price, Munro, 11, 320
Pulido Bueno, Idelfonso, 39
Puyzieulx, v. PhiloxeÁne
Quevedo, Francisco, de, 155
Radente, Francesco, 191, 192-3, 206
Raillard, Giacomo, 127
Rak, Michele, 78
Ranke von, Leopold, 11
Rao, Anna Maria, 29, 328
Recca, Cinzia, 319
Reinach, Joseph, 71
Renan, Ernest, 31
Renda, Francesco, 330, 333, 339
Revel Jacques, 319-20
Revertera Zenobia, duchessa di Castropignano, 87, 294, 305, 309, 311, 313, 314
Rialp, marchese di, v. Vilhena Perlas, Ramon
Ribot GarcõÂa, Luis Antonio, 76
Riccia, principe della, v. Di Capua, Giovan
Battista
Richelieu, Armand-Jean du Plessis de, cardinale, 17, 25
Richet, Denis, 45
Ricuperati, Giuseppe, 64-5, 75, 77, 78, 81
Ringrose, David R., 162
Rinuccini, Alessandro, banchiere toscano,
204, 252, 263
Rivero RodrõÂguez, Manuel, 92
Rizzo, Mario, 92
Rofrano, marchese di, 76
374
R. Tufano, La Francia e le Sicilie
Rohan, Enrico I, duca di, 158
Rohan, Louis, principe di, 288, 294
Romano, Ruggero, 170-1, 209, 262, 265
Roscellino da CompieÁgne, 284-5
Rota, Ettore, 23-5
Rousseau, Jean-Jacques, 8, 123, 213, 281-2
Rouvroy, Louis de, v. Saint-Simon
Rovito, Pier Luigi, 53, 101, 109, 302
Rowlands, Guy, 35, 90
Ruffo di Bagnara, moglie del principe di
Santo Buono, 131
RuigoÂmez De HernaÂndez, MarõÂa Pilar, 220
RuõÂz IbanÄez, J. J., 92
Russell, Bertrand, 32
Russo, Carla, 69, 248
Sabatelli, Carlo, zio di Pietro Giannone,
64-5
Sabatini, Gaetano, 84, 92, 103, 104, 162
Saint-Pierre, detto l'abbe de, vedi Castel
Charles-IreÂneÂe
Saint-Simon, Louis de Rouvroy, duca di,
34, 35, 57, 59, 61, 66, 94, 131, 136,
137, 140, 186, 308
Salomone, 295
Salvemini, Biagio, 15-6, 170-1, 173, 262
Sambuca, marchese della, v. Beccadelli-Bologna, Giuseppe
Samoyault, Jean Pierre, 351
San Giorgio, marchese di, v. Milano, Giacomo
San Giorgio, principi di, 74
Sansevero, principe di, vedi Di Sangro Giovan Francesco
Sanseverino, Ferrante, d'Aragona, principe
di Salerno, 72
Sanseverino, Carlo Maria, ottavo principe
di Bisignano, 57, 67, 125
Santisteban del Puerto, conte di, v. Benavides, Francisco, vicere di Napoli, 54
Santisteban del Puerto, conte di, v. Benavides y Aragon, Manuel, 219, 242, 248
Santo Buono, principe di, v. Caracciolo,
Carmine Nicola
Sapienza, Valeria, 57
Sauvel, Tony, 236
Scarpuzza, Pietro, 334-336
Schaeper, Thomas J., 175
Schaub, Jean-FreÂdeÂric, 13, 33, 175
Schipa, Michelangelo, 67, 101, 111, 124,
125, 315
Scott, Hamish, 10, 11
Seco Serrano, Carlos, 220
Segur, Pierre de, 229, 289
Senellart, Michel, 2
Serra di Gerace, Livio, 67
Serrao, Elia, 350
Sestan, Ernesto, 43
SieyeÁs, Emmanuel-Joseph, 79, 228
Simms, Brendan, 10
Sinone, 295, 299
Smith, Anthony, 3, 30
Smith, Jay M., 176
Smith, Michael Garfield, 167,
Solaro di Monasterolo, Ludovico, ambasciatore, 317.
Solimena, Francesco, 156
Somodevilla y Bengoechea, ZenoÂn, marchese di Ensenada, ministro spagnolo, 234
Soulavie, J.-L., 293
Spadaro, Carmela Maria, 93
Spedicato, Mario, 152
Spinelli Francesco, duca della Castellaccia,
73.
Spinelli, Giovanni Battista II, marchese di
Fuscaldo, 129
Spinola e Colonna, Carlo Filippo Antonio,
marchese di Los BalbaseÁs, 17, 66, 90,
126, 179-88
Squillace, marchese di, vedi De Gregorio
Stefano di Lorena, Gran duca di Toscana,
241
Sternhell, Zeev, 31
Storace, Giovan Vincenzo, Eletto del popolo, 52
Subrahmanyam, Sanjay, 32,
Suppa, Silvio, 78
Taine, Hippolyte-Adolphe, 31
Tanucci, Bernardo, marchese, 9, 11-2, 57,
201-2, 203, 207-8, 211, 231-5, 238,
242, 247, 249-68, 273, 274, 280, 282,
Indice dei nomi
375
286, 291-3, 294-300, 301-5, 308-15,
318-9, 323-54, 356-60
Targiani, Diodato, 341
Taylor, Charles, 32,
TeÂllez-GiroÂn, Juan, II duca di Ossuna, vicereÂ, 110
Tiquet, charge d'Affaires a Napoli , 205
Tocqueville, Charles-Alexis-Henri-Maurice
CleÂrel de, 25, 90-1, 226
Toledo, v. AÂlvarez de
Tommaso d'Aquino, 2, 27, 285
Tommaso di Savoia, 103, 124
Torcia, Michele, 29
Torci, ministro di Luigi XIV, v. Colbert,
Jean-Baptiste, marchese di
Torella, principe della, v. Caracciolo, Marino
Torrecuso, marchesi di, 74
Tort de la Sonde, 288
Tortarolo, Edoardo, 32,
Troia, principe di, v. D'Avalos Francesco
Tufano, Roberto, 21, 26, 29, 57, 188
Tutini, Camillo, 111
Venturi, Franco, 29
Verde, Marino, 111
Verga, Marcello, 29, 30
Vergennes, conte di, ambasciatore, 11, 268,
269, 270, 271, 274, 276, 279-80, 283,
288, 292-5, 320, 347, 348, 350
VernieÂre, Paul, 29
Vico, Giambattista, 64-5, 75, 77, 81, 128,
147, 275
Vilhena Perlas, Ramon, marchese di Rialp,
112
Villafranca, marchese di, v. AÂlvarez de Toledo, Pedro
Villari, Rosario, 92
Villena, marchese di v. Escalona, duca di,
Visceglia, Maria Antonietta, 16, 117, 170,
171, 173, 262
Viviani Della Robbia, Enrica, 351
Viviani, Luigi, 355
Volpe, Giocchino, 18
Voltaire, FrancËois-Marie Arouet de, 4, 25,
42, 43, 221-2, 285-6, 294
Uceda, duca di, v. Pacheco Tellez Giron,
Giovan Francesco
Ulisse, 300
Ungarelli, Giulio, 28
Ursins, Madame, v. La TreÂmoõÈlle, Anne
Marie, principessa
Walker, Geoffrey J., 177
Wallerstein, Immanuel, 167
Waltz, Kenneth N., 165-6
Weber, Max, 58, 60
Werner, Michael, 3
Whitworth, Charles, 178
Wight, Martin, 167
Wolff, Larry, 30
Woodbridge, John D., 349
Wright, Quincy, 168
Valignani di Cepagatti, Federico, 268
Van Wicquefort, Abraham, 347
VaÂsquez GestaÂl, Pablo, 10, 292
Vasto, marchese del, v. D'Avalos Cesare
Velez de Guevara, InÄigo, conte di OnÄate,
vicereÂ, 100
Ventimiglia e Statella, Giuseppe Emanuele,
principe di Belmonte, 329, 331, 351
Ventura, Francesco, reggente del Collaterale,
Caporuota del Sacro Regio Consiglio,
membro della Regia Camera di Santa Chiara e Presidente del Supremo Magistrato del
Commercio, 99, 196, 205-7, 214, 272,
274, 314
Yun Casalilla, BartolomeÂ, 162
Zabala Y Lera, Pio, 220
Zilli, Ilaria, 84
Zimmermann, Benedict, 4
Zoli, S., 29
Zotta, Silvio, 52, 101
Zweig, Stefan, 319
Zylbergberg, Michel, 13, 33, 175, 222, 224,
283
NOVEMBRE 2015
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