Dispensa sul pensiero di Jürgen Habermas

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Walter Privitera
Dispensa sul pensiero di Jürgen Habermas
Jürgen Habermas (Düsseldorf 1929) è uno dei maggiori teorici della società. La sua teoria si colloca
a cavallo tra filosofia e sociologia e si dispiega in una complessa parabola di pensiero sviluppata per
più di mezzo secolo.
Sfera pubblica
Il punto di partenza della riflessione di Habermas è il concetto di sfera pubblica, cui è dedicato il
suo primo studio sistematico: Storia e critica dell’opinione pubblica (1962). In quest’opera sono
presenti numerosi motivi teorici ripresi dalla Kulturkritik di Horkheimer e Adorno, primo fra tutti la
sottolineatura del potenziale di manipolazione delle coscienze insito nei mass media. Habermas
tuttavia sviluppa fin dall’inizio una concezione della sfera pubblica che lo avvicina più a Kant che
ai teorici francofortesi di prima generazione. L’ascendenza kantiana, che lo accompagnerà per tutta
la sua parabola di pensiero, è riconoscibile nell’idea illuministica secondo cui la sfera pubblica è in
primo luogo l’ambito in cui si sviluppa la critica, e nel quale ci si può liberare da pregiudizi e
chiusure mentali. Per Habermas parlare di sfera pubblica significa indicare le possibili distorsioni
della comunicazione che in essa si possono verificare, ma soprattutto esplicitare il potenziale di
apprendimento critico e di emancipazione che le è insito.
La sfera pubblica (Öffentlichkeit) è cosa diversa dall’opinione pubblica. Non è la semplice
espressione di orientamenti di un pubblico, come quelli che si rilevano con le indagini
demoscopiche; indica piuttosto l’insieme dei processi comunicativi tramite cui le opinioni dei
singoli giungono a maturazione. Ogni seria discussione presuppone l’accettazione, da parte dei
parlanti, della peculiare forza di convincimento degli argomenti. Tale forza è il fenomeno che sta
alla base di ogni sfera pubblica ben funzionante. Ciò tuttavia non basta a costituire una sfera
pubblica; essa è infatti da comprendere anche storicamente, come il risultato di forme di vita molto
particolari (e ancora molto rare nel mondo) in cui malgrado le diseguaglianze di potere, ricchezza,
forza fisica che si producono spontaneamente in misura più o meno squilibrata in tutte le società, si
riesce ad affermare un principio discorsivo di riconoscimento dei buoni argomenti che vale
indipendentemente dallo status di chi li presenta: “Veritas, non auctoritas facit legem”, afferma
Habermas scrivendo della sfera pubblica, e indica così ciò che a suo parere segna la linea di
demarcazione tra le società stratificate e autoritarie del passato e le democrazie moderne. La sfera
pubblica è il risultato di un nuovo assetto della società, affermatosi con l’illuminismo, che trasforma
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il principio di legittimità dell’esercizio del potere. Non è più la tradizione o l’investitura divina a
legittimare chi governa, ma il consenso di liberi cittadini portatori di diritti di partecipazione
politica democratica.
Come si è detto, Habermas studia la sfera pubblica perché essa è l’ambito privilegiato in cui nelle
società moderne si produce la critica. Da questo punto di vista, quindi, la sfera pubblica non ha un
significato circoscritto soltanto ad un aspetto della vita sociale; rappresenta piuttosto il punto di
partenza per una riflessione più ampia che investe la teoria della società nel suo complesso e porta
in un certo senso a compimento il progetto della teoria critica di Horkheimer e Adorno. Comune a
tali teorici è lo sforzo di formulare una diagnosi della società che metta in risalto le patologie sociali
prodotte dalla società moderna nonché di individuare i potenziali di critica in essa presenti. Con tale
compito si misura anche la teoria di Habermas.
Weber, per esprimere la sua diagnosi dei nostri tempi (Zeitdiagnose), aveva usato la metafora della
“gabbia d’acciaio”. Con questa immagine si esprime l’idea che l’uomo moderno è soggetto ad una
serie di costrizioni tipiche del nostro tempo, e non può sottrarsi al tipo di vita che gli viene imposta
dalle due grandi novità prodotte dalla società moderna: l’economia capitalistica e la burocrazia. La
condotta che la sfera economica e quella amministrativa ci obbligano a osservare ci viene presentata
da Weber come una sorta di prigione mentale. Anche Adorno aveva ripreso questo motivo
weberiano quando aveva definito la realtà sociale dei nostri giorni come un “mondo totalmente
amministrato”. Al pari di Horkheimer, Adorno leggeva la realtà sociale a partire dall’esperienza
tragica dell’avvento del nazifascismo in Europa, della guerra e dell’olocausto, fenomeni che
apparivano ai loro occhi come il culmine di un processo storico di razionalizzazione che priva
l’uomo dell’autonomia individuale e di una prospettiva di emancipazione.
Habermas, che pure prende molto sul serio l’allarme weberiano e dei maestri francofortesi per un
mondo sociale autonomizzato, che invece di essere finalizzato alle esigenze dell’uomo impone ad
esso di adattarsi alla società così com’è, ritiene però che la società disponga anche delle risorse
necessarie per correggere le proprie patologie. Egli vede nella sfera pubblica quel luogo della critica
sociale che dopo il fallimento delle speranze riposte dal marxismo nella classe operaia sembrava
essere scomparso dalle mappe mentali del pensiero sociologico. In ciò Habermas è sorretto
dall’esperienza dell’Europa democratica del dopoguerra, in cui si fa strada lentamente una nuova
effervescenza della vita pubblica. Movimenti di protesta giovanile, pacifismo, trasformazioni che
impongono un profondo ripensamento delle tradizionali identità di ruolo e di genere, costituiscono
lo sfondo su cui egli avvia una complessa riflessione che parte dalla sfera pubblica e si concentra
poi sul tentativo di costruire una teoria capace di definire la natura dei potenziali di critica presenti
nella società moderna.
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Lo studio di Habermas sulla sfera pubblica rappresenta la prima approssimazione alla sua futura
teoria della società, e come tale illustra anche alcuni tra i problemi che tale teoria è chiamata a
risolvere. La domanda principale che sin dall’inizio muove la sua riflessione può essere espressa nei
termini seguenti: perché si può ritenere che la discussione in pubblico, nonostante tutte le possibili
e frequenti manipolazioni, contenga un potenziale di critica? L’intera parabola intellettuale
habermasiana può essere ricondotta a questo problema di fondo. Habermas tenta di rispondere a
questa domanda studiando la dimensione intersoggettiva dell’agire sociale. E’ infatti
nell’interazione sociale che si possono analizzare nella maniera più precisa le modalità
comunicative che trovano applicazione nella sfera pubblica.
Agire
L’elaborazione della proposta teorica habermasiana parte da una distinzione tra agire comunicativo,
che designa la prassi degli attori sociali nelle interazioni regolate normativamente, e agire
strategico, che indica la prassi degli attori sociali quando tentano di influenzarsi reciprocamente.
L’interesse di Habermas va allo studio dell’agire comunicativo, indubbiamente il fenomeno più
complesso e più utile per studiare le regole che presiedono alle relazioni interpersonali: regole
morali, giuridiche, abitudinarie, di etichetta che costituiscono insieme il tessuto simbolico del
mondo della vita sociale.
Può essere utile soffermarsi su questo modo di intendere le regole. Habermas sviluppa un concetto
di ragione comunicativa che va molto oltre i ristretti criteri della teoria weberiana. Egli critica, ad
esempio, il cosiddetto decisionismo weberiano, ossia l’idea secondo la quale in campo morale si
può parlare di razionalità solo in relazione a criteri di coerenza interna. Nel confronto fra concezioni
morali, invece, non è possibile applicare criteri razionali; In ultima istanza ciò che rimane è una
mera decisione, che non può essere giustificata razionalmente. Habermas, che come altri studiosi
della sua generazione è profondamente segnato dall’esperienza traumatica del nazismo, rifiuta tutte
le concezioni che sfociano in forme più o meno esplicite di relativismo morale. Il suo è un
approccio di cognitivismo morale (simile a quello di L. Kohlberg) la cui tesi di fondo è che, accanto
alle questioni relative al vero, anche le questioni relative al giusto possono essere discusse in modo
tale da poter distinguere gli argomenti buoni da quelli cattivi.
Ciò significa che alla razionalità tecnico-scientifica si affianca, kantianamente, una razionalità
pratica che possiamo ricostruire a partire dall’analisi della comunicazione linguistica nel fitto
intreccio di regole di cui consiste il mondo della vita sociale. Quindi la razionalità pratica non ha
bisogno di sorreggersi, come pensava Weber, sulla razionalità conforme allo scopo, ma deve
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piuttosto essere pensata come dotata di criteri propri, riconducibili al fatto che la vita sociale non è
determinata soltanto dal modo in cui l’uomo trasforma la natura esterna, ma risulta in modo
altrettanto importante dai rapporti intersoggettivi che innervano l’agire sociale.
Questa idea di agire ispira anche il modo in cui Habermas rielabora l’eredità di Marx. Egli apprezza
della teoria di Marx l’orientamento critico che lo induce a cercare i potenziali di emancipazione
sociale insiti nella prassi sociale. Ma per salvare questa ispirazione egli ritiene che occorra rivedere
dalle fondamenta l’impianto di questa teoria (Habermas, 1976), a partire dalla centralità che Marx
attribuisce al lavoro sociale.
La sua critica è simile a quella mossa a Weber. Poiché secondo Habermas la riproduzione della vita
sociale non avviene soltanto attraverso la trasformazione della natura esterna tramite il lavoro, ma
dipende anche dai rapporti intersoggettivi che legano i singoli gli uni agli altri, egli aggiunge
accanto alla categoria marxiana del lavoro anche quella di interazione. Una delle principali
conseguenze di questa distinzione è che l’emancipazione dell’uomo, che Marx affida al lavoro
sociale, non può essere veramente tale se pensata come un progetto che si gioca soltanto sul
versante del crescente controllo tecnico della natura e sul riscatto dei lavoratori dalla miseria; oggi,
in una società tendenzialmente opulenta, un progetto di emancipazione non può basarsi solo sulla
prospettiva di una crescita infinita della produzione di ricchezza; deve invece comprende anche la
critica di altre forme di oppressione legate alla dimensione dell’interazione: “la liberazione dalla
fame e dalla fatica non coincide necessariamente con la liberazione dalla servitù e dalla
degradazione” (Habermas, 1975, p. 47).
Sia che si parli della coppia di lavoro e interazione che del rapporto tra agire strategico e agire
comunicativo, alla base della elaborazione di Habermas rimane un impianto duale che distingue
analiticamente tra una razionalità tecnico-scientifica limitata al calcolo e a stretti criteri di efficacia,
corrispondente a ciò che nella tradizione della filosofia tedesca si chiama intelletto, e una più ampia
razionalità comunicativa, corrispondente a ciò che nella tradizione filosofica tedesca si chiama
ragione. Da qui il centro sistematico della teoria di Habermas, che consiste nello sforzo di ridefinire
l’idea di ragione in termini di agire comunicativo. Questa operazione molto ambiziosa di traduzione
dei principali motivi teorici della grande tradizione filosofica tedesca nei termini di una teoria
d’azione incentrata sul ruolo centrale della comunicazione linguistica è l’oggetto di ciò che
Habermas chiama “svolta linguistica”.
Svolta linguistica e agire comunicativo
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Riformulare grazie alla svolta linguistica il concetto di ragione e riproporlo in termini di agire
comunicativo significa affrontare uno sforzo imponente di trasformazione concettuale, tanto della
filosofia sociale quanto della teoria della società. Habermas però non è il solo a seguire questa
strategia. Il XX secolo è profondamente influenzato da questo mutamento di prospettiva, che porta
dalla coscienza solipsistica di un soggetto conoscente e agente ad un nuovo paradigma che prima
ancora di occuparsi della coscienza riconosce nel linguaggio il meccanismo originario che ci
consente di pensare e fare. Da Wittgenstein a Saussure, da Heidegger a Mead il linguaggio diventa
il principale oggetto della riflessione teorica del nostro tempo. Habermas introduce la svolta
linguistica nell’ambito della teoria della società tramite il concetto di agire comunicativo, che
risponde ad una sorta di trasformazione materialistica dell’impostazione teorica kantiana. Come
Marx aveva messo coi piedi per terra la dialettica idealistica di Hegel, trasferendola dallo spirito alle
dinamiche della vita sociale, così si potrebbe affermare che Habermas mette con i piedi per terra
l’idealismo kantiano trasformandolo in una teoria empirica della società che mette al posto del
soggetto trascendentale il linguaggio e il suo contesto di mondo della vita sociale. Il linguaggio è
infatti per Habermas il meccanismo costitutivo di qualsiasi attività sociale, e lo strumento principale
di coordinamento dell’agire. Ciò significa che la comunicazione linguistica non va pensata come
mero strumento di trasporto di informazioni tra soggetti preesistenti. Sono piuttosto le identità
individuali a costituirsi grazie al linguaggio nei processi di socializzazione. In una parola: prima
viene l’interazione linguistica e poi la soggettività.
Questa importante intuizione, che risale alla teoria di G. H. Mead, è ulteriormente sviluppata da
Habermas con l’aiuto della teoria degli atti linguistici di J.L. Austin. Secondo questo approccio
teorico, nella comunicazione della vita di tutti i giorni non è possibile distinguere nettamente il dire
dal fare. Quando, ad esempio, si promette qualcosa, l’enunciazione della promessa è già un fare:
coincide con la promessa. Secondo Habermas, nelle espressioni linguistiche considerate da un punto
di vista pragmatico (da non confondere con l’aspetto semantico o sintattico del linguaggio), si
possono distinguere due parti principali: la parte performativa e quella proposizionale. Prendiamo
ad esempio la frase “ti comunico che viene Patrizia”. “Viene Patrizia” è la parte proposizionale, che
fornisce informazioni su ciò che accade nel mondo. La parte performativa a volte rimane implicita,
ma è logicamente necessaria, perché fornisce informazioni irrinunciabili sul tipo di relazione che il
parlante instaura con chi ascolta. C’e differenza tra dire: “ti comunico che viene Patrizia”, o invece:
“ti assicuro (ti ricordo, ti prometto, ti avverto, ti confesso) che viene Patrizia”. Habermas sviluppa
l’analisi della comunicazione linguistica (che sta al centro della teoria dell’agire comunicativo)
prima nei termini di una teoria della competenza comunicativa che indica alcune capacità di
espressione linguistica di cui dispongono tutti i parlanti, poi nei termini di una pragmatica
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universale che mostra come la comunicazione, sebbene possa essere impiegata anche per finalità
strategiche, miri per sua natura all’intesa intersoggettiva. La tesi centrale della teoria habermasiana
è che in tutti i linguaggi naturali è insita una particolare struttura che fa si che in ogni serio atto
linguistico il parlante metta in gioco se stesso, con tutta la propria credibilità. In estrema sintesi, si
sostiene che ogni parlante che voglia essere preso sul serio, pretende implicitamente che ciò che
esso dice sia considerato valido dai propri interlocutori. Ciò significa che tutte le volte che noi
comunichiamo tramite il linguaggio, avanziamo implicitamente delle pretese di validità. Habermas
ne distingue tre: pretese di verità, pretese di giustezza (o adeguatezza) e pretese di veridicità. Tali
pretese di validità hanno due caratteristiche principali: sono universali, perché sono riscontrabili
empiricamente in tutti i linguaggi naturali, e sono inoltre criticabili, perché nella loro esecuzione
richiedono sempre (esplicitamente o implicitamente) una risposta, ossia una presa di posizione da
parte di chi ascolta. L’ascoltatore, infatti, quando risponde al parlante con un “Sì” o con un “No”,
prende posizione su una (o più) pretese di validità. Se, per esempio, in treno chiedo al bigliettaio di
portarmi un cocktail, egli con tutta probabilità si rifiuterà di farlo, e il motivo del rifiuto non potrà
che essere la tematizzazione dell’infondatezza della pretesa di validità insita nella mia richiesta.
Probabilmente il bigliettaio argomenterebbe che non è suo compito portare le bevande, mostrando
come la mia pretesa di validità, ossia la mia implicita pretesa di essere preso sul serio con la mia
richiesta di avere un cocktail, non sia adeguata alla situazione. Egli potrebbe poi estendere i motivi
della sua critica problematizzando la mia implicita pretesa di verità, visto che tutti sanno che non è
vero che in treno si vendono superalcoolici. E potrebbe infine mettere in dubbio persino la mia
sincerità (ossia la pretesa implicita di veridicità insita nella mia richiesta), sostenendo che la mia
vera intenzione non è comunicativa ma strategica; non si tratterebbe in realtà di avere una bevanda,
ma di umiliarlo davanti agli altri viaggiatori, attribuendogli un ruolo meno prestigioso di quello che
effettivamente ricopre.
L’analisi delle pretese criticabili di validità che noi inevitabilmente avanziamo nell’agire
comunicativo mette in luce un altro aspetto importante del linguaggio, ossia che la comunicazione è
finalizzata all’intesa. Naturalmente molto spesso nei fatti non si raggiunge un’intesa, e si discute, o
si polemizza per lungo tempo senza risultato. Tuttavia ogni controversia ha senso soltanto in
relazione all’idea di convincere l’altro, ossia di giungere ad un’intesa grazie alla forza
dell’argomento migliore. Si raggiunge un’intesa quando l’ascoltatore accetta come vere, giuste o
sincere le pretese di validità avanzate dal parlante. In caso di mancata intesa, si mettono in moto
processi discorsivi di problematizzazione delle pretese validità. Ciò può avvenire nella dimensione
ristretta di un piccolo gruppo, ma anche in gruppi più estesi, che mettono in discussione vedute o
standard di una intera società. Quando ad esempio una giovane generazione critica i modelli di
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comportamento dei padri, vecchie pretese di validità vengono sottoposte a vaglio discorsivo, e se gli
argomenti critici risultano convincenti, si affermano nuovi modi di vedere e nuove concezioni della
vita sociale.
Lo studio dell’agire comunicativo serve ad Habermas per analizzare le modalità con cui si coordina
l’agire nei contesti intersoggettivi della vita quotidiana. L’esempio del bigliettaio mostra che il
nostro agire comunicativo fa riferimento ad un consenso normativo di fondo condiviso. In questo
caso il consenso riguarda i compiti dei bigliettai, diversi da quelli dei camerieri. Si danno però casi
in cui è lo stesso consenso normativo di fondo ad essere chiamato in causa. In questi casi non si
discute delle pretese di validità che un parlante avanza in maniera più o meno appropriata in un
contesto della vita quotidiana, ma della validità delle norme su cui le pretese di validità poggiano,
ad esempio regole di tipo tecnico o nome morali. Si tratta di un livello di problematizzazione più
astratto, potremmo dire di secondo grado, che Habermas chiama discorso (Diskurs). Qui i
partecipanti al discorso (scienziati o filosofi), sgravati dalle urgenze della vita pratica, discutono
della fondatezza di norme che la vita sociale ha problematizzato. Con i suoi studi sull’Etica del
discorso (1983) Habermas sviluppa sistematicamente l’originaria tesi cognitivista secondo la quale
le controversie di natura pratica (etica o morale) possono essere discusse razionalmente allo stesso
modo in cui gli scienziati naturali discutono i loro differenti approcci teorici.
Torniamo ora alla sfera pubblica e alla domanda iniziale circa la sua capacità di mettere in atto
processi di emancipazione, o, per usare un’espressione habermasiana, forme di comunicazione
libera dal dominio. In Teoria dell’agire comunicativo si sviluppa un complesso modello analitico
per comprendere come si produce la critica sociale, ossia come funzionano quei processi di
apprendimento che vediamo in atto nella sfera pubblica quando essa funziona liberamente (quando
non è svilita da processi di manipolazione dell’opinione). In questo libro, troppo complesso per
poter essere ricordato in tutti i suoi aspetti, l’argomentazione di Habermas procede su molti livelli
tra loro interconnessi. Nel primo volume l’analisi dell’idea di agire comunicativo si incentra sul
problema di dimostrare come la comunicazione linguistica, per quanto utilizzabile anche per fini
strategici o manipolativi, nella sua struttura intrinseca non possa che essere orientata alla ricerca di
un’intesa senza secondi fini. La tesi principale di Habermas è che ciascuno di noi non può fare a
meno di utilizzare il linguaggio orientandolo anche all’intesa. Una prassi sociale con attori che
agissero solo strategicamente sarebbe secondo Habermas incapace di coordinare l’agire. Inoltre, se
comunicare fosse davvero nella sua essenza soltanto uno dei tanti modi di esercitare potere o
ascendente sugli altri, non potremmo prenderci veramente sul serio quando ci scambiamo opinioni
diverse su questioni che ci stanno a cuore, la stessa idea di menzogna non avrebbe più senso e
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processi di fondamentale importanza come la socializzazione infantile diventerebbero per noi
incomprensibili.
Per riassumere: la teoria dell’agire comunicativo dimostra che la comunicazione del linguaggio di
ogni giorno è il meccanismo principale di coordinamento dell’agire, e nella sua struttura più
profonda è orientato all’intesa reciproca che si instaura grazie all’uso delle pretese di validità.
Naturalmente ciò non esclude che di fatto non si possa comunicare anche per fini strategici. Le
comunicazioni di tipo strategico sono anzi molto frequenti nella vita quotidiana. Habermas però
parla di intesa in termini normativi. Ciò significa che l'idea che si comunichi per raggiungere
l’intesa è una premessa inevitabile, senza la quale la stessa idea di comunicazione non avrebbe
senso. Anche quando si usa il linguaggio a fini strategici, la condizione perché l’intento strategico
riesca è che si tenga in vita la finzione che si tratta di una comunicazione rivolta all’intesa. Per usare
un’espressione di Habermas possiamo dire che con le pretese di validità che usiamo nell’agire
comunicativo irrompe un momento di idealità nella vita quotidiana, un’idealità costitutiva della
prassi sociale, su cui “riposa l’umanità dei rapporti tra gli uomini”. Quindi potremmo dire che
questi momenti di idealità sono parte della realtà fattuale, aspetti ineliminabili dell’agire sociale,
come ineliminabile è l’uso del linguaggio in cui essi si producono. Ignorarli significa per Habermas
precludersi la possibilità di comprendere adeguatamente la realtà sociale.
Sistema e mondo della vita
Nonostante l’importanza attribuita all’agire comunicativo, Habermas è consapevole che la società
non può essere compresa adeguatamente usando soltanto categorie di teoria dell’azione. Egli
riconosce che in molti casi la vita sociale si svolge anche grazie a meccanismi anonimi del tutto
indipendenti dall’iniziativa degli attori sociali e quindi estranei alla logica dell’agire comunicativo.
Un esempio è il mercato, che impone le sue leggi indipendentemente da ciò che noi possiamo dire o
pensare. Sarebbe quindi riduttivo costruire un modello di società la cui riproduzione è affidata
soltanto all’agire comunicativo. Per questo motivo Habermas propone un modello teorico in cui
all’approccio di teoria dell’azione se ne affianca uno sistemico. L’analisi degli ambiti sistemici
risulta da una ripresa di aspetti del funzionalismo di N. Luhmann. Lo studio dell’ambito analitico in
cui si applica la teoria dell’azione avviene invece utilizzando il concetto di mondo della vita
(Lebenswelt), ripreso dalla sociologia fenomenologica di A. Schütz. L’ambito sistemico comprende
sfere funzionali come l’economia o la sfera politico-amministrativa (la burocrazia statale) integrate
funzionalmente grazie a specifici mezzi di regolazione (per esempio, per la sfera economica, il
danaro); invece nell’ambito del mondo della vita la società è integrata socialmente, ossia attraverso
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la continua riproposizione (o trasformazione) intersoggettiva, tramite l’agire comunicativo, di
norme condivise.
Quello di mondo della vita è un concetto molto importante nella riflessione habermasiana. Con esso
è possibile comprendere meglio il significato di quella trasformazione del pensiero di Kant in
termini materialistici cui si è già accennato sopra. La comunicazione linguistica rappresenta solo
una parte del complesso di competenze e abilità implicite presenti nel mondo della vita che nella
concezione di Habermas assumono un ruolo di equivalente alla soggettività trascendentale nella
costituzione della la realtà sociale. L’elenco di questi saperi impliciti è pressoché inesauribile. Si
tratta di esperienze ma anche di “proposizioni grammaticali, oggetti geometrici, gesti, atti
linguistici, testi, calcolo, asserzioni logicamente concatenate, azioni, rapporti o interazioni sociali”
(Habermas 1999, p. 15) e molte altre abilità pratiche condivise che fanno da sfondo alla prassi
sociale. In ogni caso si tratta in genere di forme di comportamento guidato da regole, il che spiega
la peculiare normatività del mondo della vita. E’ importante a questo proposito sottolineare che il
mondo della vita non può essere conosciuto per intero. Si tratta piuttosto di un continente
sconosciuto che può essere reso esplicito solo un po’ alla volta, a mano a mano che un problema o
un conflitto ci induce a problematizzare qualche aspetto della nostra vita sociale.
Nel quadro teorico di Habermas, la distinzione tra sistema e mondo della vita è certamente molto
importante, ma non va reificata. Non si riferisce a due entità sociali effettivamente esistenti. Risulta
piuttosto da una distinzione analitica, creata dal teorico per poter disporre di uno strumento che
consenta di orientarsi meglio nella complessità della realtà sociale. La realtà stessa, tuttavia, non
conosce mai delle distinzioni così nette. E’ anzi un campo in cui è ben difficile separare
chiaramente di volta in volta ambiti funzionali/sistemici da ambiti comunicativi.
La coppia sistema/mondo della vita è l’oggetto principale del secondo volume di Teoria dell’agire
comunicativo. Qui Habermas illustra la distinzione tra ambiti sistemici e ambiti di agire
comunicativo, e mostra come essa sia il risultato di un lungo processo di razionalizzazione, che egli
illustra in forma stilizzata. Da una parte la teoria della razionalizzazione ricostruisce
retrospettivamente come si sia sviluppato il potenziale di razionalità insito nelle strutture
comunicative del linguaggio. Dall’altra mostra come si siano lentamente costituiti, per
differenziazione, gli ambiti sistemici.
Anche l’idea di razionalizzazione ha una matrice kantiana: parte dall’assunto che l’uomo è un
essere razionale che vive in un mondo pieno di contingenze irrazionali. Da ciò segue che esso cerca
di intervenire nel mondo per renderlo più razionale. Già la teoria weberiana della razionalizzazione
si rifaceva a questa figura di pensiero, per esempio quando riconosceva alle grandi religioni del
passato, con le loro immagini del mondo, un contributo di razionalizzazione di fondamentale
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importanza. Weber tuttavia nella sua Sociologia della religione si faceva guidare da una concezione
sostanzialmente culturalistica del processo di razionalizzazione, mentre secondo Habermas parlare
di razionalizzazione significa soprattutto studiare differenti principi di organizzazione della società
legati alla graduale differenziazione delle pretese di validità insite nel linguaggio. Grazie a tale
approccio è possibile ricostruire la storia della società in tre grandi fasi: quella delle società
arcaiche, basate su strutture parentali e contraddistinte da una scarsa differenziazione tra nessi di
validità dell’agire e nessi pratici di efficacia dell’agire; la fase delle società tradizionali, basate su
un’autorità politica di tipo statale e contraddistinte da una chiara differenziazione tra nessi di
validità dell’agire comunicativo e nessi pratici di efficacia dell’agire; e infine la fase delle società
moderne, basate sulla presenza determinante di ambiti funzionali come i mercati e le burocrazie, e
contraddistinte da un agire comunicativo in cui le differenti pretese di validità sono completamente
dispiegate e oltre a ciò si sono istituzionalizzate modalità sistematiche di problematizzazione della
validità delle pretese stesse che Habermas chiama discorsi (Habermas, 1986, p. 697 sgg.).
Tale concezione habermasiana della razionalizzazione implica un impianto debolmente
evoluzionistico. Qui evoluzionismo significa che si studia la storia sociale sotto il profilo delle
soluzioni che rispetto ad altre si sono rivelate più adatte ad affrontare e risolvere alcuni problemi e
per tale motivo si sono imposte. Ad esempio società organizzate con un sovrano politico si sono
rivelate più adatte delle società parentali ad affrontare i problemi legati alla crescita demografica, e
per questo motivo si sono diffuse come la risposta evolutiva più efficace per lo sviluppo sociale.
Ciò tuttavia non significa che ci sia in Habermas una nozione di progresso storico nel senso di una
filosofia della storia, che indica la direzione di marcia della storia. L’idea di progresso evolutivo è
sempre il frutto di una concezione provvisoria e rivedibile che costruiamo noi, a partire dalle
domande e dalla prospettiva dei nostri tempi. In base a questa concezione noi possiamo cercare di
ricostruire la storia passata mettendo in luce tendenze che hanno favorito le trasformazioni che
hanno portato fino ai nostri giorni, ma non possiamo in alcun modo predire alcunché rispetto al
futuro, che rimane per noi del tutto oscuro (Habermas, 1976).
Sviluppi della teoria dell’agire comunicativo
A partire dalla teoria dell’agire comunicativo Habermas sviluppa due filoni di ricerca: uno riguarda
la diagnosi delle patologie sociali del nostro tempo; l’altro la teoria della modernità.
Per quanto riguarda lo studio delle patologie sociali, la sua analisi si riallaccia alla tradizione dei
classici della teoria della società, a partire da Marx e Weber. Com’è noto, per Marx le patologie
sociali discendono dalla struttura stessa del sistema capitalistico, e si traducono in condizioni di
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miseria della classe sfruttata e in lavoro alienato. Weber, che pure sviluppa una teoria per molti
versi ben distanta da quella di Marx, nella diagnosi delle patologie sociali ne segue il solco, anche
se individua le cause delle patologie sociali non nel dominio di classe capitalistico ma in un
fenomeno più generale: l’affermazione incontrastata e unilaterale di una razionalità conforme allo
scopo che permea di sé sia il capitalismo che altre sfere sociali, come la burocrazia. Capitalismo e
burocrazia sono legate per Weber ad un assetto sociale disincantato in cui la principale patologia
sociale è data dal tendenziale prosciugamento della risorsa sociale del senso.
Habermas riprende queste due ispirazioni teoriche e ricava, nel quadro della sua teoria dell’agire
comunicativo, una propria idea delle patologie sociali del nostro tempo, riconducibile alla tendenza
ad una colonizzazione del mondo della vita. Si può parlare di colonizzazione del mondo della vita
quando ambiti integrati secondo una logica sistemica si espandono al di là dei contesti economici o
politico-amministrartivi di provenienza e impongono i propri imperativi al mondo della vita sociale.
Quando sfere integrate normativamente come quella della cultura, della vita affettiva o dei valori
vengono piegate alla logica del mercato; o ancora quando l’apparato burocratico-amministrativo
dello Stato organizza la vita sociale prevalentemente in funzione degli imperativi di accrescimento
del controllo del territorio, si ha ciò che Habermas chiama colonizzazione del mondo della vita. La
società con un mondo della vita colonizzato è quindi una società in cui lo sviluppo economico, di
scienza e tecnica non si traduce in migliori condizioni di vita per tutti, ma produce invece fenomeni
di mercificazione o di burocratizzazione delle relazioni umane che contrastano con le forme di
integrazione sociale del mondo della vita e quindi con le concezioni normativa degli attori sociali.
Questo approccio critico espresso dalla teoria della colonizzazione è completato da una teoria della
modernità che rielabora la stessa intuizione circa lo squilibrio tra ambiti sistemici e ambiti del
mondo della vita sociale come criterio di interpretazione storica. Habermas ricorda come il vero atto
di nascita della modernità culturale – l’illuminismo - contenesse in sé originariamente due aspetti:
l’entusiasmo per i progressi della razionalità tecnico-scientifica (che sarà poi ripreso e portato
avanti dal positivismo) e la promessa di felicità insita nell’idea di una organizzazione della vita
sociale a misura d’uomo ispirata a principi di libertà e uguaglianza. La storia degli ultimi 250 anni è
una storia di straordinari progressi della razionalità tecnico-scientifica ma di ben più lente e
tormentate conquiste sul versante della razionalità comunicativa e dei suoi principi di libertà e
uguaglianza. Per questo motivo Habermas parla di una modernità dimezzata: sul versante tecnicoscientifico essa ha prodotto una razionalizzazione ormai del tutto dispiegata ed efficiente; su quello
della razionalizzazione del mondo della vita sociale non si è ancora data una soddisfacente
realizzazione pratica delle originarie promesse dell’illuminismo. Come diagnosi, quella della
modernità dimezzata offre un quadro non molto diverso da quelli che la critica sociale di
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Horkheimer e Adorno avevano elaborato nella prima fase della Scuola di Francoforte. Ciò che in
Habermas muta è la prognosi: mentre i primi francofortesi non riuscivano a ricavare dal proprio
strumentario teorico alcun elemento che potesse dare adito ad una speranza di trasformazione verso
uno sviluppo più equilibrato della modernità, Habermas sostiene che l’illuminismo non debba
essere considerato, alla maniera dei postmoderni, un fenomeno che ha tradito le proprie promesse
originarie e che in quanto tale si è storicamente concluso con un fallimento. L’illuminismo va
piuttosto inteso come un progetto storico incompiuto, che attende ancora di vedere, accanto ai
progressi tecnico-scientifici, anche la realizzazione di una società libera ed egualitaria. I potenziali
di critica che spingono in questa direzione sono secondo Habermas quelli insiti nella struttura
dell’agire comunicativo, che de-tradizionalizza il mondo della vita sociale.
La teoria della democrazia deliberativa
La tesi della modernità come progetto incompiuto mostra che la teoria dell’agire comunicativo non
si limita a rendere visibili i rischi di colonizzazione del mondo della vita; essa fornisce anche gli
strumenti analitici per individuare processi opposti, che spingono verso forme di vita emancipate.
Detto nei termini di Habermas, nel mondo della vita sociale, accanto alle tendenze alla
colonizzazione, si manifestano tendenze ad una razionalizzazione del mondo della vita sociale, che
contengono i potenziali per controbilanciare le tendenze alla colonizzazione. A partire dagli anni
’90 Habermas concentra la propria attenzione sull’analisi di tali tendenze all’interno di un progetto
di ricerca di ampio respiro che pone al centro della propria analisi il rapporto tra diritto, politica e
morale.
Per affrontare questo tema occorre ritornare brevemente alla teoria dell’agire comunicativo e
approfondire il funzionamento della coppia sistema/mondo della vita. Qui Habermas distingue
analiticamente, come si è in parte già visto, tre ambiti della vita sociale: l’economia di mercato, le
amministrazioni burocratiche e il mondo della vita sociale. I primi due sono integrati in termini
sistemici, il terzo è integrato socialmente grazie all’agire comunicativo. Nel caso dell’integrazione
tramite i mercati lo strumento di regolazione è il denaro. Nel caso dell’integrazione tramite il
sistema politico-amministrativo lo strumento di regolazione è il potere. Nel caso dell’integrazione
del mondo della vita sociale lo strumento di integrazione è la solidarietà. L’imperativo funzionale
cui sottostà l’ambito economico è l’accrescimento del denaro; l’imperativo funzionale cui sottostà
l’ambito politico-amministrativo è l’accrescimento del potere.
Già questo modo di analizzare la realtà sociale indica il problema di fondo che Habermas deve
affrontare: mentre i sistemi economico e politico-amministrativo dispongono di strumenti di
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regolazione sufficientemente stabili ed efficaci, la risorsa della solidarietà non è altrettanto efficace
nell’assicurare forme durature all’integrazione sociale nel mondo della vita sociale. Considerata da
questo punto di vista, la tesi della colonizzazione può essere riformulata nei seguenti termini:
l’integrazione sistemica resa possibile dal denaro e dal potere è più efficace rispetto al tipo di
integrazione che la solidarietà può garantire nel mondo della vita sociale. Il pregio di uno schema
tanto astratto è che riesce a comprendere al proprio interno il nocciolo di verità delle precedenti
maggiori teorie sociali. Così la problematica marxiana della mercificazione e dell’alienazione viene
riformulata nei termini di una invadenza del denaro nelle forme solidali di integrazione sociale del
mondo della vita sociale, mentre la problematica weberiana della crescente burocratizzazione
espressa nella metafora della gabbia d’acciaio trova una traduzione nei rischi di invadenza
colonizzatrice del potere nei confronti del mondo della vita sociale.
Si è detto però che anche il mondo della vita sociale è portatore di una propria razionalizzazione.
Nelle società moderne la razionalizzazione assume le forme di una modernizzazione, ossia di una
generale fluidificazione discorsiva che rende accessibili alla critica tutti gli aspetti della vita sociale,
e si riflette anche in stili di vita post-tradizionali orientati ai contenuti umanistici, letterari, artistici
della modernità. Tuttavia tali conquiste, affidate soltanto alla risorsa della solidarietà sarebbero fin
troppo fragili e facilmente revocabili di fronte all’efficacia e alla capacità di penetrazione del denaro
e del potere. Se la razionalizzazione del mondo della vita sociale nonostante tutto ha potuto finora
contrastare, almeno in parte, l’invadenza di denaro e potere, ed è riuscita ad assicurare una relativa
stabilizzazione delle proprie conquiste civiche, politiche e sociali (si pensi, ad esempio, alle
conquiste sociali del movimento operaio europeo), ciò è dovuto al fatto che gli attori del moderno
mondo della vita sociale possono contare su un importante strumento: il diritto.
Il rilievo del diritto come strumento della solidarietà nel moderno mondo della vita sociale risalta
bene quando lo si confronta con le società premoderne, in cui, pur in presenza di forme di
giuridificazione, l’integrazione sociale in ultima istanza era garantita non dalle leggi, bensì
dall’autorità incontrastata di una eticità tradizionale. L’ethos premoderno aveva la peculiare
caratteristica di prescrivere a ciascun singolo in maniera molto dettagliata tutti gli aspetti della
propria vita. In queste società tutto era proibito tranne ciò che era esplicitamente previsto dalla
tradizione. Condotte di vita anticonformiste non erano tollerate (come dimostra l’esempio di
Socrate). Quando invece il diritto si impone, e nelle società moderne diventa il principale strumento
di istituzionalizzazione delle nostre intuizioni di solidarietà, il principio base dell’integrazione si
capovolge: tutto è consentito tranne ciò che è espressamente vietato dalla legge,. In tal modo si apre
la strada al moderno pluralismo e anticonformismo culturale (Habermas, 1992).
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Habermas mette in luce in numerosi scritti il potenziale di emancipazione insito nel diritto. In
quanto strumento della solidarietà, il diritto è la risorsa che consente al mondo della vita sociale di
generare norme legittime, ossia norme che non vanno rispettate solo per il timore di possibili
sanzioni, ma anche perché esse istituzionalizzano anche qualcosa dei nostri orientamenti eticomorali. La morale è per Habermas una cosa da tenere ben distinta dal diritto. Tuttavia le norme
giuridiche legittime esprimono sempre qualcosa della sensibilità morale diffusa, traducendola nel
proprio specifico linguaggio. I diritti civili e politici, ma anche le conquiste sociali del movimento
dei lavoratori dai suoi albori fino ad oggi non sarebbero pensabili se non avessero potuto tradursi
nella forma di leggi, che garantiscono che le intuizioni di solidarietà su cui si basa l’integrazione
sociale non si disperdano o si dimentichino nel tempo, ma ottengano invece grazie alla loro forma
giuridica caratteristiche di obbligatorietà e di persistenza temporale. Insomma, se non siamo
costretti a ridiscutere sempre di nuovo il nostro diritto a votare alle elezioni, ad essere curati in
ospedale o a mandare i figli a scuola, lo dobbiamo all’esistenza di leggi.
Habermas tuttavia non sottovaluta l’altra faccia del diritto, che lo rende idoneo ad essere uno
strumento di oppressione con cui si esercitano in maniera particolarmente efficace forme di potere
sociale. Tradotto nel linguaggio della sua teoria questa tensione pone un problema centrale: il
modello classico delle teorie democratiche è ancora utilizzabile in società complesse, o i sistemi
economico e politico-amministrativo si sono a tal punto autonomizzati da rendere impossibile una
loro regolazione da parte degli attori del mondo della vita sociale?
Nelle concezioni democratiche basate sull’idea della sovranità popolare il processo politico è
pensato nei termini di un legislatore sovrano che tramite la legge produce effetti su se stesso. Il
popolo sovrano con i suoi rappresentanti emana le leggi, e queste predispongono le modalità della
loro applicazione tramite gli apparati amministrativi dello Stato. Habermas ritiene che questo
modello che immagina la società come una sorta di associazione democratica in formato allargato
sia inadeguato a riflettere la complessità delle società moderne.
Il problema di fondo è che in società complesse gli orientamenti espressi dal popolo sovrano si
devono tradurre in disposizioni vincolanti messe in atto da una amministrazione burocratica, e nel
corso di questa traduzione si producono strutturalmente effetti diversi da quelli voluti. Il motivo di
ciò è che quando il diritto da strumento della solidarietà si trasforma in potere politicoamministrativo, esso deve obbedire alla logica sistemica che regola gli apparati politicoamministrativi. Si tratta in fondo di una analisi in termini sistematici di un problema ben presente a
tutti coloro che conoscono la storia moderna: quello della riforma (o rivoluzione) che sfugge di
mano e sortisce effetti diversi da quelli voluti. Proposto nei termini più astratti della teoria di
Habermas, il problema è il seguente: come può il potere che proviene dall’agire comunicativo
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(potere comunicativo) tradursi nel linguaggio sistemico degli apparati (potere politicoamministrativo) senza tradire se stesso?
In Fatti e norme (1992) la risposta a questo interrogativo sta nella sua teoria della democrazia
deliberativa. Per il lettore italiano questa formula può ingenerare qualche confusione, perché nella
nostra lingua deliberare è sinonimo di decidere (si pensi ad es. alle delibere comunali). Ciò che
Habermas intende è invece l’opposto. In inglese “Deliberation” significa consultazione, o
discussione approfondita di tutti gli aspetti di un problema. Nella concezione deliberativa
habermasiana la democrazia quindi non è una modalità di negoziazione tra gruppi con interessi
contrastanti, né la semplice interpretazione da parte degli eletti di una volontà del popolo sovrano
che si esprime solo una volta ogni cinque anni e poi tace. Non basta il voto a maggioranza in
parlamento. I parlamentari possono varare leggi pienamente legali, ma perché esse siano anche
democraticamente legittime occorre che la loro genesi democratica (ossia il processo di discussione
che ne ha preceduto il varo) sia quanto più ampio e trasparente possibile. Così il vero segreto della
legittimità, ciò che impedisce nel modo più efficace che il potere comunicativo proveniente
dall’agire comunicativo venga tradito quando assume le forme del potere politico-amministrativo, è
la qualità partecipativa delle procedure di maturazione delle leggi. Ciò significa che quando tra
espressioni spontanee della vita quotidiana, articolazioni della società civile, istanze consultive di
vario genere, sfere pubbliche mediatizzate e rappresentanze politiche istituzionali si instaura un
processo di comunicazione che le rende porose le une rispetto alle altre, ci si avvicina ad un
modello capace di autocorreggersi e di rimanere quanto più vicino possibile all’obiettivo di una
implementazione efficace del potere comunicativo. Va detto che in questo modo Habermas
trasforma la stessa nozione di sovranità popolare, che cessa di essere pensata come la concreta
fotografia della somma delle volontà dei singoli cittadini elettori, e diventa invece il risultato della
trasformazione processuale della volontà popolare attraverso i filtri della deliberazione democratica.
Per questo motivo Habermas parla di “sovranità popolare come procedura”.
Nonostante la complessità dell’analisi habermasiana, in ultima analisi il senso della sua concezione
di democrazia deliberativa è chiaro: il consenso che si genera discorsivamente nella genesi
democratica delle leggi non possiede alcuna garanzia di infallibilità, ma produce “una aspettativa di
qualità ragionevole dei suoi risultati” (Habermas, 1992, p. 360).
Così in un certo senso il cerchio si chiude: dopo i primi studi sulla sfera pubblica in cui si esprime
l’intuizione secondo cui nelle società democratiche “veritas, non auctoritas facit legem”; e dopo la
teoria dell’agire comunicativo che dimostra come la propensione a imparare gli uni dagli altri
(tramite le pretese di validità) sia l’aspetto più importante del nostro profilo di attori sociali,
Habermas ritorna, con Fatti e norme, a occuparsi della qualità dei processi politici, e presenta, con
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la teoria della democrazia deliberativa, un modello in cui in ultima analisi la stessa sovranità
popolare coincide con gli incessanti processi collettivi di apprendimento di cui è fatta l’elaborazione
discorsiva pubblica dei problemi di una società. Quindi di nuovo, anche se in un senso più
processuale, “Veritas, non auctoritas facit legem”.
Il progetto cosmopolitico
Con Fatti e norme Habermas mostra il potenziale di emancipazione, ancora lungi dall’essere
esaurito, insito in quella costruzione prettamente moderna che è lo Stato di diritto democratico.
Tuttavia proprio negli stessi anni in cui egli completa questa imponente opera, si manifestano con
grande rapidità nuove tendenze che pongono alla sua teoria problemi inediti. Il fenomeno della
globalizzazione, con la nascita di una sfera economica interconnessa a livello planetario e con la
parallela costituzione di una società civile globale, determina una situazione di vero e proprio
capovolgimento dell’assetto socio-politico degli ultimi due secoli, con la conseguenza del
ridimensionamento del ruolo dello Stato di diritto democratico nella forma in cui storicamente si è
affermato: la forma dello Stato nazionale.
La costellazione postnazionale (1999) è il primo testo con cui Habermas analizza la situazione
venutesi a creare nel mutato quadro della globalizzazione. Nella sua analisi il problema principale è
che la globalizzazione mette in crisi il tradizionale primato della politica esercitato all’interno delle
garanzie dello Stato di diritto democratico. Mentre fino a pochi decenni or sono la politica degli
Stati nazionali rappresentava senza eccezione il quadro di riferimento incontrastato entro le cui
compatibilità l’economia doveva muoversi, oggi la situazione appare capovolta: sono i mercati e i
grossi attori economici transnazionali che dettano agli Stati nazionali il quadro delle compatibilità.
Ciò avviene grazie ad un potere di ricatto che risiede nella possibilità, da parte dei grandi soggetti
economici transnazionali, di sottrarre agli Stati nazionali capitali, posti di lavoro, introiti fiscali,
know how spostandosi in altri paesi. Ciò comporta conseguenze importanti per la vita democratica:
le scelte del popolo sovrano si trovano ad essere condizionate, permanentemente, dal potere dei
grandi attori economici e finanziari che operano a livello transnazionale. Tale situazione, ormai
evidente anche per ampi settori delle opinioni pubbliche nazionali non specializzate, incrina la
credibilità dell’idea che sia il popolo ad esprimere davvero, democraticamente, i propri orientamenti
sovrani come era accaduto nella vita democratica degli stati nazionali del ventesimo secolo, e pone
alla teoria normativa della società il problema di come riaffermare il primato della politica
democraticamente legittimata nei confronti dell’economia sfuggita al suo controllo.
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Secondo Habermas l’unica via percorribile per restituire alla politica il ruolo che le compete è la
giuridificazione degli spazi sovranazionali. Anche in questo caso l’ispirazione teorica principale
viene da Kant, che già nel suo scritto sulla pace perpetua aveva sostenuto la necessità della nascita
di un organismo giuridico sovranazionale. Come il diritto all’interno degli stati nazionali ha
emancipato l’uomo dallo stato di natura e sostituito all’arbitrio dei potenti l’imperio imparziale
della legge, così anche nelle relazioni tra gli Stati e nel contesto anarchico della società globale
dominata da grandi soggetti economici transnazionali un processo di giuridificazione dovrebbe
istituire un quadro di regole valido anche al di là dei confini degli Stati. Tuttavia tale progetto
secondo Habermas non deve assumere la forma di un megastato planetario. Questa prospettiva
infatti suscita molte fondate riserve rispetto all’enorme concentrazione di potere che essa
implicherebbe. La proposta di Habermas va invece nella direzione di una costituzionalizzazione del
diritto internazionale (Habermas, 2005), che dovrebbe tradursi in costituzioni sopranazionali senza
Stato, come la Carta delle nazioni Unite o i documenti fondanti di altri organismi internazionali. La
novità di tali organismi rispetto alle costituzioni degli Stati nazionali è che essi sono chiamati a
disciplinare e limitare gli abusi non soltanto del potere politico, ma anche dei grandi attori
economici transnazionali. Nel prefigurare ciò Habermas non immagina un modello puramente
astratto, ma cerca di interpretare i possibili sviluppi di tendenze già emergenti, come quella alla
moltiplicazione degli organismi sopranazionali, che si è andata affermando con crescente rapidità
negli ultimi anni. Tuttavia secondo Habermas questa nuova architettura internazionale che sembra
profilarsi potrà funzionare solo se si riuscirà a portare a compimento altre tendenze attualmente
osservabili, soprattutto quella alla costituzione di grandi soggetti politici regionali (come l’Unione
europea) capaci di sostenere assieme ad altri grandi attori politici globali l’autorevolezza delle
costituzioni sopranazionali. Ciò, a sua volta, faciliterebbe la creazione di una sfera pubblica
mondiale, a rafforzamento di tendenze già oggi osservabili, ad es. quando si tratta di affrontare
problemi comuni all’intera umanità, come quelli ecologici o quelli relativi alla gestione delle risorse
energetiche o idriche. Una tale sfera pubblica è già oggi in alcune occasioni una importante istanza
critica, e lo sarebbe ancor di più in presenza di un più fitto tessuto costituzionale cosmopolitico.
Sviluppi più recenti
Accanto ai lavori sulla costituzionalizzazione del diritto internazionale, Habermas ha prodotto in
anni recenti anche altri contributi teorici. Tra essi vanno ricordati gli scritti sul postsecolarismo e gli
studi sui dilemmi posti dalla genetica quali Il futuro della natura umana. I rischi di una genetica
liberale (2002) e L’occidente diviso (2005).
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A differenza di molti osservatori che si interrogano sul significato dell’attuale risveglio delle
religioni nella vita pubblica, Habermas si astiene dal valutare il fenomeno empirico. Il suo interesse
va alla dimensione normativa del problema, ossia al modo in cui ci si debba porre, in una società
moderna, nei confronti del fenomeno religioso. Egli non considera il processo di secolarizzazione
come un semplice allontanamento della vita sociale dalla religione. La secolarizzazione va piuttosto
intesa come un processo di graduale traduzione nel linguaggio laico moderno delle intuizioni morali
presenti nelle tradizioni religiose. Per esempio la nozione religiosa di colpa si è tradotta in quella
secolare di responsabilità, l’idea di fratellanza in quella di solidarietà ecc. Più in generale egli
sostiene che alla base del pensiero moderno, sia esso scientifico che filosofico, non c’è soltanto la
metafisica greca, ma anche la tradizione religiosa giudaico-cristiana. Da questa prospettiva la
secolarizzazione appare come un processo in gran parte avviato ma non ancora concluso. Habermas
argomenta da non credente, ma ciò non gli impedisce di vedere che le tradizioni religiose
rappresentano anche per i laici un grande serbatoio di intuizioni morali che possono fornire a tutti,
credenti e non credenti, ispirazioni importanti, soprattutto quando le concezioni morali laiche non
hanno ancora trovato sufficienti argomenti per dare di tali intuizioni morali una fondazione extrareligiosa. Un esempio di ciò è rappresentato dalle nuove possibilità di pianificazione genetica della
vita delle generazioni a venire che la scienza ci mette e sempre più ci metterà a disposizione. Di
fronte a prospettive inquietanti come quella di poter “progettare” a tavolino il corredo genetico di
un bambino, il problema non è tanto quello di tracciare una rigida linea di demarcazione tra laici e
credenti, quanto di cercare di approfondire il dialogo tra tutti coloro che rifiutano il cinismo
imperante della cultura di impronta neoliberale.
Per Habermas portare avanti tale dialogo significa anche riconoscere il valore e la specificità del
contributo che i credenti possono dare alle discussioni nella sfera pubblica.
A differenza dei non credenti, coloro i quali professano una fede religiosa conservano alla base
delle loro convinzioni un nocciolo non dimostrabile argomentativamente. Per questo motivo le
istituzioni non possono far proprie le posizioni né il linguaggio di chi argomenta da un punto di
vista strettamente religioso. Ciò non vale tuttavia per i contesti delle sfere pubbliche informali in cui
non può darsi preclusione di sorta nei confronti dei contributi alle discussioni pubbliche. Quindi la
società postsecolare non è per Habermas una società che revoca o considera un errore il processo di
secolarizzazione che ha accompagnato la storia dell’occidente moderno. Postsecolarismo significa
piuttosto che nel contesto secolarizzato della società contemporanea occorre abbandonare la
posizione un tempo molto diffusa che considerava le credenze religiose come un fenomeno
destinato a esaurirsi. Accettare in questi termini i punti di vista religiosi nella discussione pubblica
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non significa quindi per Habermas sminuire la natura laica dello Stato, ma aprirsi a contributi
discorsivi a partire dai quali tutti, credenti e non credenti, possono avere qualcosa da imparare.
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Bibliografia
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