Parte 2-1

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PARTESECONDA
La visione
Il cervello riceve impulsi elettrici e poi aggiunge, sottrae, riorganizza e
codifica le informazioni sensoriali che gli arrivano per fornire
un’interpretazione il più possibile esatta del modo esterno. Questo processo
si chiama percezione.
Il nostro apparato visivo è uno strumento complesso, eppure talvolta viene
ingannato da illusioni ottiche.
Queste illusioni, in realtà, dimostrano un dato di fatto: che i nostri sensi, la
nostra vista, è ingannevole.
E non solo quando ci accorgiamo dell’inganno: “ciò che noi vediamo” è infatti
sempre il frutto dell’elaborazione centrale di informazioni provenienti dalle
retina e non da un’immagine reale presente nel nostro cervello o nella realtà.
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Date uno sguardo a questa immagine e ditemi se ritenete sia più lungo il tavolo di sinistra
o quello di destra.
E quale è più largo dei due?
Poi, prendete un righello e misurate…
L’illusione di Shepard (Roger Shepard, psicologo e scienziato cognitivista, 1981
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gioca sulla nostra tendenza a rendere reali alcune interpretazioni che nella realtà
non esistono.
L’illusione è maggiormente amplificata nella figura della pagina che segue, in cui gli
oggetti sono colorati: i due tavoli, apparentemente differenti, hanno i lati uguali a
due a due.
Questa illusione viene anche chiamata “costanza di forma” ed è talmente forte che non
possiamo cancellarla dalla nostra mente: continuiamo a vedere i tavoli diversi, anche se
sappiamo benissimo (avendoli misurati) che sono di lunghezze identiche.
Non siamo abituati a pensare che gli oggetti che vediamo quotidianamente sono in realtà
costruzioni del nostro cervello: noi vediamo il mondo attraverso gli stimoli elettrici che ci
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sono situate
posteriore
nostro cervello.
nella parte
(occipitale) del
L’illusione percettiva è dovuta alla presenza della 3° dimensione (le gambe del tavolo).
Se provate ad eliminare le evidenze prospettiche della terza dimensione, l’illusione percettiva perde di
efficacia e le due superfici tornano ad essere uguali.
Il nostro cervello viene cioè ingannato dalla presenza della tri-dimensionalità dei tavoli:
siccome il tavolo di sinistra si ‘allontana’ da noi, per il nostro cervello deve per forza
rimpicciolire, come farebbero le rotaie di una ferrovia.
Ma, se rimpicciolisce, allora il nostro cervello ci comunica che il tavolo di sinistra deve
essere in realtà più lungo di quanto non sia ( e dunque più lungo della larghezza del tavolo
di destra).
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Che la percezione visiva fosse ingannevole è ben noto sin dall’antichità. Vi propongo un
veloce excursus storico, perchè chi ne è interessato possa avere una riprova della
dimensione del problema.
Ippocrate di Kos (V secolo a.C.) scrisse: «...e dal cervello e soltanto daí cervello prendono origine i
nostri piacere, la gioia, il riso, il gesto, come pure la tristezza, il dolore, la depressione, le lacrime.
Attraverso il cervello pensiamo, vediamo, ascoltiamo e distinguiamo il bello dal brutto, il male dal
bene...». Purtroppo la lezione di Ippocrate di circa duemila e cinquecento anni fa, con cui si inizió
lo studio dei processi mentali, é stata per molto tempo dimenticata.
Giá Alcmeone di Crotone, medico della Scuola di Pitagora, concepì una semplificazione della
percezione visiva; ritenne infatti, rifacendosi a Democrito, che la percezione delle cose fosse una
conseguenza di simulacri emessi dall’ambiente esterno (detti eidola) che impressionano l’occhio.
La concezione dell’occhio considerato come trappola di simulacri luminosi fu accettata da
Aristotele (384-322 a.C.) il quale sostenne che il cervello, in quanto fondamentalmente composto di
acqua, era freddo e che di conseguenza non poteva avere la natura di un organo predisposto alla
comunicazione delle sensazioni. Infatti comunica il caldo, non u freddo, pertanto gli elementi vitali
capace di effettuare un naturale trasporto di informazione vennero considerati quelli maggiormente
irrorati di sangue in quanto il calore del sangue fu inteso come comunicatore di sentimenti e
pensiero. Di conseguenza, contrariamente ad Ippocrate, per Aristotele le sensazioni come l’amore
furono considerate funzioni del cuore e l´intelligenza stessa si pensó che dipendesse maggiormente
dal funzionamento del fegato e degli organi vitali che non del cervello, la cui funzione principale si
ritenne fosse quella di raffreddare il sangue.
Diversa fu l’interpretazione di Epicuro di Samo (342-270 a.C.), u quale rifacendosi a Pitagora,
anch’egli di Samo (570-497 a.C.), ritenne che la percezione fosse da considerare come un percorso
dell´informazione inverso a quello descritto da Aristotele; cioé Epicuro pensó che l’occhio si
comportasse come un faro dell’anima; si ritenne infatti che l’anima vitale venisse irradiata
dall’occhio per esplorare l’ambiente circostante ed arricchire la conoscenza di ciascun individuo.
Tale impostazione della percezione visiva, lá dove il cervello venne considerato come l’organo
dell’anima sensibile, tese a riconoscere che vediamo il mondo come apparenza, in seguito ad una
interpretazione soggettiva ed imperfetta dell’anima umana.
Per Epicuro ed alcuni suoi seguaci l’attivitá percettiva non ci fa vedere il mondo oggettivamente
come é, ma solo come ci risulta utile, in quanto lo percepiamo secondo le esigenze umane di
sopravvivenza nell’ambiente.
Nella cultura della Magna Grecia, oltre alla controversia tra occhio come trappoia di luce, e occhio
come faro dell’anima, venne proposta anche una posizione intermedia che attribuiva all’occhio la
funzione di ínterfaccia tra universo esterno e mondo interiore, capace di tradurre l’informazione
luminosa che viene recepita dall’occhio, e renderla comprensibile alla ricerca di riconoscimento
dell’informazione realizzata dal cervello.
Rammentiamo che di questa terza impostazione interpretativa della percezione visiva fu precursore
Platone (427-347 a.C.), ed in seguito una simile concezione fu sostenuta anche da Empedocle di
Agrigento (492-432 a.C.) e poi da Galeno di Pergamo (129-200 d.C.). Platone fece infatti
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riferimento ad una doppia direzione dell’azione comunicativa del calore (interiore ed esterno) che
impressiona l’occhio per determinare la visione. Mentre le metafore dell’occhio trappola di luce e
dell’occhio
o faro formulavano un’azione «monodirezionale» dell’ informazione, per Platone il calore
esterno ed il calore interiore proveniente dal cervello impressionavano l’occhio determinando la
percezione visiva degli oggetti. La percezione del mondo venne cosi ritenuta u frutto dell’incontro
bidirezionale di processi di informazione associati alle differenze di calore interiore ed esterno;
Platone scrisse a questo proposito nel Timeo:
«...un fuoco puro che partendo dall´interno dell ‘occhio va incontro ad un altro simile fuoco
proveniente dagli oggetti e con cui finisce per determinare un corpo unico ed omogeneo».
La «percezione visiva» secondo la scienza moderna
Vediamo ora le ragioni per cui la lezione ippocratica é stata ben poco considerata anche in seguito
nell’ambito delle origini concettuali della scienza moderna. Rícordiamo che fin dagli inizi della
scienza contemporanea, giá con Galileo Galilei (1564-1642), comparve il problema della necessaria
separazione concettuale tra le quantitá primarie e le qualitá secondarie. Infatti, Galileo si rese conto
che per definire lo studio scientifico delle quantitá oggettive, quelle cioé che esistono di per se
stesse indipendentemente dall’osservatore, era necessaria tale netta separazione. Per Galileo, i sensi
dovevano considerarsi ingannevoli (soggettivo infatti, nel contesto della scienza galileiana, significa
ció che soggiace a fattori non quantizzabili).
Se la percezione di per sé é íngannevole come ritiene Galileo — disse di conseguenza Isaac
Newton (1642-1727) nel suo discorso sull’Ottica — é necessario considerare i colori come
phantom, cioé puri spettri privi di realtá fisica, proprio in quanto l’uomo puó immaginarli ed anche
sognarli, cosi che essi debbono considerarsi pure emozioni.
La ricerca di oggettivitá della scienza tese quindi ad eliminare l’influenza del soggetto
dall’osservato, cercando di stabilire una netta separazione tra soggetto ed oggetto della conoscenza.
Gli alchimisti medioevali ritennero invece che tale netta separazione tra oggetto e soggetto, che si
riflette poi nel tentativo di scindere quantitá da qualitá osservate, non fosse umanamente
concepibile. Infatti per l’alchimista sia la ricerca della pietra filosofale, sia la trasformazione in oro
dei metalli non nobili, fecero parte di un sistema unitario di indagine rappresentato dall’’uroboro, il
serpente che si mangia la coda, simbolo del fatto che intenzioni mentali e forze naturali si integrano
per trasformare la realtá in una unitá inscindibile e perfettibile.
Altresì la scienza moderna, basandosi sulla misura strumentale delle quantitá, ha definito un
modello riduzionista della realtá meccanicamente misurabile che, escludendo il soggetto e con esso
le sue sensazioni qualitative, ha finito per escluderne il cervello come realtá fisiologicamente
oggettiva a cui ogni interpretazione umana, compresa quella della scienza, deve pur fare
riferimento.
La tendenza scientifica generale, tesa a ragionare in termini quantitativamente oggettivi, é stata poi
giustificata, proprio nell’ambito della interpretazione della percezione, da assunzioni ad hoc che
hanno avuto lo scopo di garantire la possibilitá di ammettere una netta separazione tra ciò che é
oggettivo e riproducibile, e ciò che é soggettivo ed opinabile. Per ciò che riguarda la percezione,
René Descartes (1596-1650), scrisse nella Diottrica: «Le immagini dell’oggetto non si formano
soltanto nel fondo dell ‘occhio, ma vanno oltre fino a raggiungere il cervello».
Per quanto Descartes citi esplicitamente il cervello é necessario precisare che secondo lui la
significazione percettiva della informazione trasmessa dalla luce avveniva tramite la «ghiandola
pineale» che congiungeva il sistema fisico all’anima. Cartesio inoltre, nel suo «Discorso sul
metodo» (1637), fece capire che la scienza, escludendo l’anima umana quale unico mistero
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irraggiungibile con ragion pura, sarebbe stata progressivamente capace di interpretare ogni altra
cosa ed evento sulla base di modelli meccanici quantitativi, ivi compreso il funzionamento del
cervello.
Ben diversamente da Ippocrate, il cervello stesso fu quindi inteso esclusivamente in termini di
struttuna fisica materiale, cosi che esso venne incluso come elemento di studio tra le res extensa,
ponendo una netta distinzione con quanto il cervello esprimeva come sentimento, pensiero e
coscienza (res cogitans), concezioni queste ultime che venivano escluse dal pensiero scientifico in
quanto appartenenti ad una ideazione spirituale non indagabile secondo criteri e metodi scíentifici.
La scienza classica, perseguendo il paradigma meccanicistico di Descartes, ha quindi costruito
un’ottica geometrica in cui raggi inesistenti di luce descrivono una costruzione fisico-matematica
della percezione; si perviene in tal modo ad un modello di ottica senza sguardo, che non presuppone
l’esistenza di un reale osservatone umano che vede tramite le proprie istanze biologiche, le quali
carattenizzano il funzionamento genetico del cervello umano; nei libri di fisica infatti, al posto
dell’osservatore viene generalmente disegnato un genenico occhio de-cerebrato, schematico e fisso,
propnio in quanto si suppone che nella retina giá si formi automaticamente l’immagine del mondo,
rovesciata a causa della inversione di direzione dei raggi oltre il punto del loro incrociarsi.
Anche quando si capi che la radiazione luminosa é composta da onde elettromagnetiche (famosa a
questo proposito fu la memoria sui colori di J.M. Maxwell - 1860), non si abbandonó il rifenimento
ai raggi di luce; si disse infatti che essendo le radiazioni visibili di lunghezza d’onda relativamente
corta, il modello dei raggi poteva essere pur sempre accettato, eccezion fatta per i casi particolari,
quali la spiegazione dei fenomeni di interferenza ed altri eventi di interazione tra luce e materia, in
cui il ricorso alla forma d’onda diviene una necessaria precisazione.
In sostanza, nella concezione meccanica ed oggettivista della scienza, al cervello rimase la sola
funzione di raddrizzare nel verso giusto le immagini, giá definite sulla retina dell’occhio; solo oggi
comprendiamo come tale ipotesi, la quale assume che la funzionalitá della retina sia in pratica
quella di uno specchio e l’occhio sia paragonabile ad una camera oscura con una fenditura aperta
all’ingresso dei raggi di luce, sia servita proprio per definire la possibilitá generale di ammettere una
netta separazione tra soggetto ed oggetto della osservazione. Oggi sappiamo per certo che tale
modello concettuale non é soltanto inadeguato, ma anche del tutto falso.
La radiazione luminosa visibile provoca infatti nei coni e bastoncelli della retina una reazione
fotochimica oscillante, che risponde a particolari variazioni delle caratteristiche fisiche del campo
elettromagnetico della luce, cioé a variazioni di intensitá (bastoncelli) e di intensità e frequenza
(coni). Sulla retina dell’occhio non si impressiona in effetti alcuna pre-descrizione speculare del
mondo esterno.
E altresì il cervello che analizza ed interpreta le variazioni di intensitá e frequenza tradotte in
segnali chimici ed impulsi nervosi e le trasforma in costrutti mentali tramite il funzionamento
biochimico di varie aree cerebrali che integrano l’informazione re-cepita dall’esterno con
l’informazione memorizzata in precedenza sulla base di una determinante interpretazione ereditata
geneticamente.
L’ereditá genetica é quella che probabilmente fornisce gli archetipi dei costrutti mentali che
definiscono la rappresentazione visiva. Ad esempio, i colori sono stati percepiti da insetti e uccelli
ancor prima dell’esistenza dell’uomo, al fine di riuscire a distinguere facilmente in volo cromaticità
differenti dei fori e dei frutti nel contesto di un bosco o dell’erba di un prato uniformemente verde;
pertanto la complessitá della formazione dell’immagine é anche conseguenza della difficoltá di
capire l’evoluzione dell’informazione genetica e come essa venga a confrontarsi nel cervello con
l’apprendimento del sistema visivo; ricordiamo infatti che un bambino appena nato non é ancora
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capace di vedere in quanto la percezione dipende anche dalla evocazione della memoria, che
nell’infante non é ancora formata.
E’ opportuno riflettere con attenzione sul fatto che la percezione abbia una
componente determinata dall’apprendimento e quindi dalla memoria per capire
come la separazione cartesiana tra res cogitans e res extensa, sia soltanto una facile
semplificazione di qualcosa che é ben più complesso ed ancora in gran parte da
comprenderre.
Se infatti prendiamo in considerazione il profilo evolutivo della crescita e
stabilizzazione delle dimensioni del cervello (vedi schema 1), notiamo che si possono
considerare tre fondamentali strategie evolutive:
1) neurogenesi - crescita del numero di neuroni,
2) sviluppo delle reti di interconnessione tra neuroni (dendriti),
3) selezione delle interconnessioni dendritiche in funzione della definizione di
processi preferenziali di integrazione della elaborazione cerebrale della informazione
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ANAT O M IA
I recettori (fotorecettori) sono costituiti da coni e bastoncelli si trovano nella retina.
Il loro compito -come quello di tutti i recettori- è di essere trasduttori di energia
a, di
trasformare cioè gli stimoli (in questo caso fisici, la luce) in elettrici (gli impulsi nervosi).
Possono essere ritenuti dei neuroni (cellule nervose) altamente differenziati, che
entrano in contatto con altri neuroni (interneuroni) ed altri ancora, i cui
prolungamenti assonici formano il nervo ottico.
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I bastoncelli (120 milioni per ogni occhio) sono responsabili della visione notturna o in
situazioni di carenza di luce.
Non sono in grado di distinguere i colori e sono organi ad alta sensibilità, con uno spettro
di sensibilità che copre tutto il visibile.
La sensibilità dei bastoncelli è di 1000 volte superiore a quella dei coni e questo ci permette
la visione notturna (o scotopica).
I coni (6 milioni per ogni occhio), invece, sono responsabili della visione diurna.
Mostrano una sensibilità più bassa dei bastoncelli, ma selettiva rispetto alle lunghezze
d’onda della luce.
Sono di 3 tipi e sono differenziati rispetto alla banda di sensibilità (blu- verde- rosso).
Sono 3 i tipi di fibre che arrivano a comporre il nervo ottico
o:
1. Fibre maculari: deputate alla visione distinta, provengono dalla macula.
All’interno del chiasma, si incrociano la 50% (metà fibre provenienti da un
occhio passa nel tratto ottico opposto).
2. Fibre temporali: provengono dal lato temporale (esterno) dell’occhio. NON si
incrociano.
3. Fibre nasalii: provengono dal lato nasale (interno), Si incrociano totalmente.
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Le fibre del nervo ottico entrano dunque nel cranio ed iniziano un percorso
abbastanza complesso, che le conduce alla corteccia visiva, dove si realizza
concretamente il processo della visione.
Punti fermi di tale tragitto sono:
o: deve il suo nome dal termine greco, che significa ‘incrocio’, da cui anche la
• Il chiasma ottico
lettera “X”.
Si trova al di sopra dell’ipofisi (e quindi della sella turcica che la ospita nell’osso
sfenoide). Forma parte del pavimento del III ventricolo cerebrale.
In corrispondenza del chiasma, le fibre dei due nervi ottici si incrociano parzialmente (come
già accennato in questa stessa pagina): le fibre mediali -provenienti dalla parte mediale della
retina e che raccolgono le immagini della metà laterale del campo visivo
o- si incrociano con
quelle del lato opposto. Assieme alle fibre della metà laterale del nervo ottico del lato
opposto, che non si incrociano, formano i due bracci posteriori del chiasma, detti tratti ottici.
Schema di chiasma e tratto ottico
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La base del cranio e la sella turcica
Il cervello, dal di sotto, con il chiasma
• Il tratto ottico: lo si definisce come il tratto compreso tra il chiasma ed il corpo
genicolato del talamo.
La disposizione delle fibre, nel tratto ottico, è assolutamente caratteristica:
il tratto ottico di destra, ad esempio, è composto dalle fibre nervose provenienti dalla metà
temporale della retina di destra e dalla metà nasale della retina sinistra (viceversa per il
tratto ottico di sinistra).
In pratica, ciascun tratto ottico contiene la rappresentazione completa della metà campo visivo
controlaterale.
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• Il corpo genicolato laterale del talamo è una parte del cervello preposta
specificamente al trattamento dell’informazione visiva, proveniente dalla retina.
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E’ composto da due strati principali: uno, adibito all’analisi delle caratteristiche di
movimento e profonditàà; l’altro, adibito all’analisi dii forme e colorii.
C’è un elemento su cui invito a riflettere: le fibre afferenti ai corpi genicolati dai tratti ottici
non sono più del 10-20%. Le restanti (80-90%) provengono dalla sostanza reticolare, dal
tronco cerebrale e da altre aree della corteccia cerebrale.
Unitamente alla complessità evidenziata dalla figura soprastante (che schematicamente
rappresenta il talamo con le sue principali connessioni e dove -in rosso- è rappresentato
anche il corpo genicolato), si vede quanto ampia sia la rete di correlazioni cui l’impulso
visivo retinico viene messo in contatto.
Questo tipo di connessioni potrebbe avere un ruolo chiave nell’’attenzione visiva
processo cognitivo che permette di selezionare stimoli ambientali, ignorandone altri).
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• La via ottica centrale è rappresentata dalla cd radiazione ottica del Gratiolett, che
connette il corpo genicolato
laterale con la corteccia
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visiva.
Circa l’80% delle fibre di ciascun tratto ottico si
arresta nel corpo genicolato laterale dello stesso lato, da cui origina la via ottica.
Le fibre che non si arrestano nel corpo genicolato laterale proseguono sino al
tubercolo quadrigemino superiore, da cui inizia la via ottica riflessa.
Il tubercolo quadrigemino si trova nella lamina quadrigemina del mesencefalo (parte alta
del tronco cerebrale): è in connessione con i nuclei motori spinali ed encefalici, a cui invia
impulsi motori conseguenti agli impulsi visivi ricevuti.
Attraverso questa via secondaria, non passante per i centri corticali, si attuano i
movimenti visivi riflessii, utilissimi per la difesa dell’organismo.
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• La corteccia visiva primaria è corteccia occipitale (attorno e nella scissura
calcarina
a). Ne esiste una per ogni emisfero cerebrale: quella di destra riceve
segnali riguardanti il campo visivo di sinistra e viceversa.
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E’ localizzata nel polo posteriore del lobo occipitale.
Nella corteccia occipitale avviene il processamento centrale della percezione visiva.
Si tratta della corteccia visiva più semplice, filogeneticamente più antica.
E’ specializzata per il processamento dell’informazione riguardante la forma e
collocazione di oggetti statici ed il loro movimento nel campo visivo.
•
La corteccia visiva pre-striata è quella che, in pratica, circonda la corteccia
visiva primaria.
Ha rilevanti connessioni con la corteccia visiva primaria.
E’ divisa in 4 quadranti, con una rappresentazione dorsale e ventrale negli emisferi,
che forniscono una mappa completa del mondo visivo.
E’ sintonizzata per caratteristiche semplici, quali orientamento, frequenza spaziale e
colore.
Le risposte di molti di questi neuroni sono anche modulate da proprietà più
complesse, come l’’orientamento di contorni illusori e del fatto che lo stimolo faccia
parte della figura o dello sfondo.
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Numerosi studi sperimentali hanno provato l'esistenza di un doppio sistema di
elaborazione delle informazioni visive.
Questo sistema è composto da due vie anatomo-funzionali distinte ma funzionanti in
parallelo: la via del “What” e la via del “Where”.
La prima via (occipito-temporale), detta ventrale è responsabile del riconoscimento
dello stimolo: l'elaborazione è suddivisa in due componenti, percettiva e semantica.
L'elaborazione percettiva analizza le caratteristiche salienti dell'oggetto e la loro
integrazione a livello percettivo: quella semantica recupera le conoscenze già
immagazzinate sull'oggetto, come l'”etichetta lessicale”, la sua funzione e gli
attribuisce quindi un significato.
La seconda via (occipito-parietale), detta anche dorsale, è coinvolta nella localizzazione
dell'oggetto nello spazio, nell'analisi delle relazioni esistenti fra le parti di esso, nella
percezione dei movimenti e nell'integrazione visuo-motoria.
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