14 - La Rivista della Scuola

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LA RIVISTA DELLA SCUOLA
Anno XXXIII, nov-dic. 2011, n.3/4
PRIMO LEVI E HANNAH ARENDT
Q
uella di Adorno, secondo cui Auschwitz è l’unico vero orizzonte
della filosofia, è la
posizione estrema, a tal punto che
egli arriva a chiedersi “se dopo
Auschwitz si possa ancora vivere”.
Ma questa non è l’unica posizione
sostenibile: diametralmente opposta è, a tal proposito, quella che
potremmo definire la “strategia in
due tempi”, così detta perché, subito dopo Auschwitz, si occupa del
problema shoah in maniera “radicale”, e, in un secondo tempo, lo esamina invece in maniera “banale”.
Vessilliferi di questa posizione sono
Primo Levi e, soprattutto, Hannah
Arendt. In un primo tempo, ci si
chiede come possa la cultura farsi
carico del disastro rappresentato
dalla shoah; e, secondariamente,
ammessa l’intrinseca fragilità della
cultura e il suo ineliminabile nesso
con la barbarie, si finisce per riconoscere che la barbarie stessa ha –
per quanto ciò possa sembrare
assurdo – una sua normalità o, per
dirla con Arendt, una sua “banalità”.
Ciò ben emerge in due scritti di
Primo Levi “Se questo è
un uomo” e “I sommersi
e i salvati”, risalenti il
primo al periodo immediatamente successivo ad
Auschwitz, il secondo a
diversi anni dopo. In “Se
questo è un uomo” impera
la radicalità del male: l’autore, appena giunto nel
lager, chiede a tutti con
insistenza
disperata
“Warum?” (Perché?) e un
compagno gli risponde
“Hier ist kein Warum” (qui
non c’è alcun perché). Da
ciò affiora la tematica portante dell’opera: forse quanto avvenuto nei lager non si
può comprendere, poiché
comprendere è giudicare e
mettersi al posto dell’autore
che ha vissuto sulla propria
pelle la catastrofe, ma ciò è
assolutamente impossibile. Il
male, così inteso, è radicale e
colui che lo compie è un essere disumano, un mostro il cui agire
non può essere in alcun caso compreso, perché, per comprenderlo,
occorrerebbe entrare nella sua personalità. A distanza di vent’anni da
“Se questo è un uomo”, Levi affronta il problema del male in una
mutata prospettiva, secondo quella
che potremmo definire la “zona grigia” e che possiamo facilmente
comprendere leggendo alcuni passaggi de “I sommersi e i salvati” in
cui parla dei carnefici:“erano infatti
della nostra stessa stoffa […], erano
esseri umani medi […] non erano
mostri […] avevano un viso come
il nostro”. Chi compie il male non è
più inteso come un mostro, come
una persona assolutamente diversa
da chi lo subisce; viceversa, è un
essere umano come gli altri e, proprio in ciò, sta la banalità del male,
il fatto che chiunque altro avrebbe
potuto compierlo. A tal proposito,
Levi adduce l’esempio dei “comandi speciali” con cui era affidato agli
ebrei stessi l’ingrato compito di
uccidere gli altri ebrei per ottenere
in cambio qualche mese di “non
morte”: questo è, secondo Levi, il
crimine più spaventoso che si
possa commettere, poiché si fanno
diventare colpevoli le vittime stesse. Centrale nell’opera è la scena
della partita di calcio disputata tra i
prigionieri del lager e i guardiani:
per un momento è come se si tornasse alla normalità, benché si tratti
di una partita disputata “davanti
alle porte dell’inferno”. Con la prospettiva della “zona grigia” subentra
un elemento di inquietudine che,
fino ad ora, non avevamo incontrato: nel nostro itinerario, infatti,
abbiamo preso in considerazione la
za di lei e la invia a Heidelberg da
Karl Jaspers, a cui ben presto – a
causa del suo dichiarato antinazismo e a causa del fatto che sua
moglie era ebrea - sono tolte la cattedra e la possibilità di pubblicare,
cosicché egli finisce per vivere una
sorta di esilio interno alla Germania. Nel dopoguerra – esattamente
nel 1945 – egli torna in cattedra e
tiene un corso sulla Schuldfrage,
ossia sulla “domanda inerente la
colpa”: di che colpa si sono macchiati i Tedeschi? Per rispondere a
questa domanda, Jaspers elabora
una casistica con quattro tipi di
colpa: 1) colpa criminale è la trasgressione della legge; 2) colpa
politica è quella che riguarda diversamente i cittadini a seconda della
loro posizione (sudditi, capi, ecc.),
benché resti vero che chi obbedisce e non si oppone è comunque
corresponsabile; 3) colpa morale è
quella che si commette quando si
violano le leggi prescritte dalla propria coscienza (come nel caso in
cui si uccide una persona benché
la coscienza ci inviti a non farlo); 4)
colpa metafisica è quella per cui, in
quanto uomini, siamo tutti corresponsabili di ogni torto perpetrato
nel mondo, cosicché Jaspers può
affermare che “il fatto di essere
ancora vivi [dopo Auschwitz] è una
colpa”.
Arendt, attenta lettrice e grande
amica di Jaspers, intende la sua
nozione di “colpa metafisica” equivalente a quella di “colpa collettiva”
e obietta al filosofo tedesco che
dire che tutti sono colpevoli è, in
fin dei conti, come dire che nessuno lo è, quasi come se, dalla colpevolezza generalizzata, risultasse una
altrettanto generalizzata assoluzione. Si tratta invece – prosegue
Arendt – di accertare i singoli gradi
di responsabilità nei singoli casi.
Sulla base di questi presupposti,
esaminiamo ora le tre maniere –
corrispondenti a tre momenti della
sua vita – in cui Arendt concepisce
il male. La prima maniera – quella
della normalità e dell’incommensurabilità del male – si afferma specialmente nel carteggio che la filosofa tiene con Jaspers nel 1946 sul
problema della colpa: alla tesi
jasperiana della colpevolezza collettiva, ella contrappone la nozione
di “colpa organizzata”. Come è
noto, nel processo di Norimberga, i
nazisti cercavano di discolparsi presentandosi come meri ingranaggi
della macchina dello sterminio,
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come nazista? Sicuramente quando
egli teorizza la superiorità della
presunta razza ariana e quando
assegna ad un dato popolo una missione particolare.Tre sono le possibili interpretazioni della responsabilità individuale: 1) si può essere
nazisti a prescindere dalla propria
filosofia (è il caso di chi aderì al
nazismo benché fosse kantiano); 2)
si può essere nazisti perché la propria filosofia non presenta elementi di oppo-
E NON STATALE
lizzata a dare la morte; c) la gerarchicità più totale, come in un esercito.
Il lager – nota Arendt – applica tutti i
tratti fondamentali delle istituzionalità della modernità e, in particolare,
quello che Weber definiva l’agire
razionale rispetto allo scopo, intendo - con tale espressione - un agire
mirante esclusivamente al fine (lo
sterminio degli ebrei) e incurante
dei valori e delle conseguenze. Non
appena a quegli
“onesti padri di famiglia” era dato agire
con quello sgravio
di impunità morale,
il gioco era fatto:
diventavano carnefici a tutti gli effetti. La grande
modernità
di
Auschwitz sta allora,
secondo
Arendt, nel fatto
che, oltre a poggiare sulle istituzionalità tipiche
del moderno, il
male è compiuto da persone
come le altre, da
“onesti padri di
famiglia”, gentili ed educati
con i propri
figli e con le
proprie mogli.
Dal canto suo,
Jaspers propone come
terapia ad
Auschwitz un
ritorno generale all’umanesimo di
Goethe e si spinge anche più in là
della Arendt, forse in virtù del fatto
che egli era psicologo ancor prima
che filosofo: “la colpa […] assume
un connotato di satanica grandezza”; egli avverte tuttavia il rischio
che, parlando come fa Arendt di
male incommensurabile, si finisca
per farne una velata esaltazione,
quasi come se ella trasformasse “l’orrore in mito”, cosicché – egli conclude – “mi pare che si debbano
ricondurre le cose alla loro banalità”: per spiegare questo punto scivoloso, egli ricorre all’immagine dei
batteri che, pur così piccoli e insignificanti, sono in grado di produrre
mali immensi; tale è ciò che è accaduto coi nazisti. Ma Arendt rifiuta
risolutamente la proposta di Jaspers
e lo fa in nome del paqoV: “ad
Auschwitz non si è commesso un
male superficiale, si è tentato di
estirpare dal mondo il concetto stesso di uomo”.
Quale strategia di resistenza propone allora la Arendt, di contro al
ritorno (forse anacronistico) a
Goethe prospettato da Jaspers? Ella
propone semplicemente una strategia tanto classica quanto inefficace:
un’etica della responsabilità che
muti il male in un fardello di cui l’umanità è chiamata a farsi carico, una
sorta di vergogna che ciascuno
deve provare all’idea di far parte di
quell’umanità che ha commesso
quel male. É una proposta che sicuramente suona bene e, a livello teorico, pare davvero potente; tuttavia,
se tradotta in pratica, fa acqua da
tutte le parti. Con la stesura de “Le
origini del totalitarismo”, del 1951,
si volta pagina: Arendt passa dall’incommensurabilità alla radicalità del
male, identificando Auschwitz col
male assoluto, icasticamente tratteggiato in questi termini:“il male assoluto, impunibile e imperdonabile,
che non poteva più essere compreso e spiegato, coi malvagi motivi
dell’interesse egoistico, dell’avidità,
dell’invidia, del risentimento e che
quindi la collera non poteva vendicare, la carità sopportare, l’amicizia
perdonare, la legge punire”.
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Da ciò si evince come l’eziologia
e la terapia siano messe entrambe
fuori gioco: con la shoah il filo
della tradizione è stato per sempre
reciso e si è concretato quello che
di ANTONIO FUNDARÒ
drammatica possibilità di finire noi
stessi vittime di un lager e, oltre a
questa, quella di diventare spettatori indifferenti del male; ora si
aggiunge l’altrettanto tragica possibilità di diventare noi stessi i carnefici, e ciò in base alla teoria della
banalità del male, secondo la quale
a compiere il male sono persone
“normali” e non mostri. Hannah
Arendt stessa si colloca su posizioni di questo tipo: ella rilascia nel
1965 un’importante intervista in
cui confessa di non sentirsi più una
filosofa ormai da diversi decenni;
ella si sente, piuttosto, una “scienziata politica”, con lo sguardo
sgombro da quell’impaccio che è la
filosofia; verso di essa Arendt nutre
grande sfiducia soprattutto da
quando – nel ’33 – ha constatato
che pressoché tutti i filosofi si allineavano al regime (Heidegger in
primis) e ciò non benché fossero
filosofi, ma per il fatto stesso che lo
erano. Decisivo fu poi, nel suo itinerario, Auschwitz, un “vero trauma”
con il quale si spalancò un abisso
sotto i suoi piedi: di fronte a ciò,
ella si sforza
Sidney Hoff - 195609 - Il ladro
in ogni
modo di addivenire ad una comprensione:“io voglio comprendere e
provo appagamento se altri comprendono come me”. Ma, nel caso di
Arendt, comprendere non equivale
né a dimenticare né, tanto meno, a
perdonare, bensì a portarsi consapevolmente sulle spalle il fardello del
nostro tempo. Da ciò nasce la sempre rinnovatesi esigenza di spazzare
il campo dai pregiudizi, in maniera
tale da poter affrontare la realtà
nella maniera più obiettiva e per
venire a capo della realtà del male,
del perché lo compiamo. Tre sono i
grandi momenti della riflessione
arendtiana sul male: a) normalità e
incommensurabilità del male; b)
radicalità del male; c) banalità del
male.
Sono tre modi di concepirlo in
base a tre questioni: 1) qual è la
natura del male?; b) qual è il suo rapporto con la modernità?; c) come
può la filosofia resistere ad esso?
Nell’immediato dopoguerra
tende a prevalere la concezione
della radicalità del male: Heidegger,
che di Arendt fu l’amante, si sbaraz-
“
nel processo di Norimberga,
i nazisti cercavano di discolparsi presentandosi come meri
ingranaggi della macchina
dello sterminio
------------------------------------------------cioè come semplici esecutori
degli ordini che di volta in volta
erano loro impartiti: pertanto Arendt
– alla stregua di Levi – ne evince
che i capi erano dei mostri, mentre
gli esecutori erano uomini come
noi, ingranaggi in quelle “fabbriche
della morte” che erano i lager. Questi ultimi – nota Arendt – sono caratterizzati da tre elementi essenziali: a)
l’impersonalità tipica delle grandi
burocrazie; b) la parcellizzazione
tayloristica, quasi come se si trattasse di una catena di montaggio fina-
Robert J. Day - 1956011 - La nevicata
sizione a ciò (compromissione debole); 3) si può essere nazisti perché la propria filosofia spinge in quella direzione (compromissione forte).
Nel caso di Arendt, si preferisce
comunemente parlare di “responsabilità indiretta”: quando ella scrive
a Jaspers circa la complicità della
filosofia col male estremo, pensa ad
una prospettiva in cui ciò che accade all’interno dei lager – e che a
tutta prima pare del tutto assurdo e
ineccepibile - diventa di una chiarezza imbarazzante se visto attraverso le lenti dell’ideologia, le quali
finiscono per dare fin “troppo
senso” al male. Il termine chiave a
cui far riferimento per capire a
questo punto il pensiero della
Arendt diventa allora quello di
ideologia: che cosa intende ella con
esso?
L’ideologia per Marx era una
forma di “falsa coscienza” poggiante
su quegli interessi di classe che
spingono a pensare in una maniera
involontariamente favorevole alla
propria classe sociale (tale è il caso
della borghesia che finisce col considerare il capitalismo come eterno
anziché come frutto di un determinato momento storico); spetta ai
critici dell’ideologia smascherare
tale falsa coscienza, mettendone in
luce la falsità.
Con Arendt il termine “ideologia”
si colora di significati nuovi e diversi: esso si riferisce ad una corrispondenza totale quanto impossibile tra teoria e prassi; è, in altri termini, la pretesa di far diventare in
tutto e per tutto reale la teoria,
senza accorgersi che le due sfere –
quella reale e quella teorica – fanno
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