Esiste in Italia la mano invisibile?

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GIUSEPPE VEGAS
Esiste in Italia la mano invisibile?
La “mano invisibile” è una definizione coniata da Adam Smith e contenuta sia nella “Teoria dei sentimenti morali” che ne “La ricchezza delle nazioni”.
L’assunto di tale teoria è che le scelte economiche siano effettuate dagli individui più che dallo Stato, perché l’individuo persegue sì il suo interesse, ma
anche quello collettivo. Citando direttamente Smith, scopriamo che gli individui compiono scelte dettate dai loro desideri ma: “sono condotti da una mano
invisibile a fare quasi la stessa distribuzione delle cose necessarie alla vita che
sarebbe stata se la terra fosse divisa in parti uguali fra tutti i suoi abitanti e
così senza volerlo o senza saperlo fanno progredire l’interesse della società e
offrono mezzi alla moltiplicazione della specie”.
L’assunto principale, quindi, è che la migliore distribuzione della ricchezza
nel mondo non avviene per atto d’imperio ma per opera di scelte individuali.
Continua Smith: “quale sia la specie di attività produttiva interna cui il capitale potrà fornire occupazione e il cui prodotto avrà probabilmente il massimo valore è evidente che ciascun individuo nella sua posizione locale potrà giudicarlo molto meglio che un capo di stato o un legislatore”. In tale affermazione non
è dunque da cogliersi sfiducia nell’amministrazione pubblica o nello Stato, bensì convinzione nel fatto che ogni singolo possa decidere meglio per se’ stesso, rispetto allo Stato, per ciò che concerne le scelte di consumo o di risparmio.
Per capire se in Italia esiste la “mano invisibile”, ossia se esiste una vera
forma di capitalismo di mercato, bisogna analizzare la composizione del suo
sistema economico. Mentre l’analisi di Smith muove dalla contrapposizione
individuo-società, la nostra Costituzione, invece, all’articolo 2, fa riferimento
alle formazioni sociali. Non c’è differenza assoluta tra Stato e individuo, in
mezzo esistono dei corpi sociali che creano una aggregazione diversa dal singolo, aprendo quindi la strada alla considerazione della società come componente dello Stato o, meglio ancora, dello Stato-Nazione.
Vi sono anche altre tipologie di approcci culturali che si contrappongono
alla visione costituzionale. Ad esempio la Thatcher sosteneva che la società
non esiste ed è tutto basato sugli individui. Tale teoria parte da un concetto svi-
luppato dai filosofi della Grecia classica ed è basata sulla capacità degli individui di esser parte del governo della cosa pubblica piuttosto che sulla intermediazione della società.
Chiaramente, non si può non tenere conto del fatto che quella dell’epoca di
Adam Smith era una società più semplice rispetto all’attuale e che nel modello della polis greca era l’individuo il punto di riferimento dei rapporti con lo
Stato, non essendoci ancora l’esigenza, per l’esigua dimensione del modello
città-stato della polis greca, di una intermediazione tra cittadino e Stato data
dall’amministrazione della cosa pubblica.
Nel nostro meccanismo organizzativo dell’amministrazione pubblica, basato sul modello di Montesquieu (Lo spirito delle leggi, Ginevra, 1748), esiste
invece una tripartizione dei poteri (legislativo, esecutivo, giudiziario) con in
più un ulteriore ripartizione dei poteri a livello secondario perché è necessario
che si crei, in una società liberale, un insieme di pesi e contrappesi nell’esercizio del potere in modo da evitare che si arrivi ad un meccanismo di assolutismo o tirannide.
Paradossalmente, in alcuni casi, tale meccanismo di pesi e contrappesi ha
storicamente trovato applicazioni più efficaci ed efficienti in Stati totalitari e
molto meno in Stati democratici poiché, in tali ultimi, spesso una eccessiva
frammentazione del potere porta all’incapacità di decidere. Il sistema di pesi e
contrappesi è funzione del modello di democrazia adottato, ma è anche sicuramente un prodotto dell’incrostazione storica.
La mano invisibile, dunque, è un meccanismo consono ad uno Stato più
semplice o ad una società più complessa? Soprattutto, oggi la società è davvero più complessa di quella greca o romana? La società attuale prevede un meccanismo più complicato ed una elaborazione della dottrina economica più avanzata, ma alcuni canoni fondamentali, tuttavia, restano.
Lo Stato oggi interviene in economia per far fronte ai cosiddetti “fallimenti del mercato”, ossia quando quest’ultimo non è in grado di assicurare un’equa distribuzione delle ricchezze. Lo Stato oggi si pone un problema di distribuzione che una volta non gli apparteneva. Lo Stato moderno ha infatti superato da poco e ancora a fatica il problema del mantenimento dell’ordine e della garanzia di un livello ragionevole di sussistenza e quindi può ora dedicarsi
a dare risposte a domande che non siano richieste di soddisfacimento di bisogni primari di una società.
Ma se esiste il fallimento di mercato, allora esiste anche il caso reciproco
di fallimento dello Stato? Probabilmente si verificano più spesso fallimenti del
mercato e, di fatto, se si guarda all’economia di mercato, si deve constatare che
meccanismi non in grado di svolgere un compito di equa distribuzione della
ricchezza rischiano di far saltare in questo modo anche i meccanismi politici.
Nel giro di un tempo breve è stato dimostrato come le teorie economiche,
applicate astrattamente, non siano riuscite a reggere il passo con la realtà portando inevitabilmente ed inesorabilmente a modificare altresì il modello poli-
tico che le aveva generate. E’ accaduto quindi che il fallimento dello Stato provocasse danni superiori rispetto a quelli provocati dai fallimenti del mercato,
anche perché in questi ultimi casi si tratta spesso di fallimenti circoscritti a determinati settori e di conseguenza più facilmente rimediabili.
Riguardo, poi, ai fallimenti dell’economia di comando è lecito supporre che
questi si siano verificati a causa di un inefficiente meccanismo di distribuzione delle risorse. In tali tipologie di economie la domanda è stata a lungo soddisfatta da beni prodotti sulla base di scelte politiche le quali si presupponeva
interpretassero adeguatamente i gusti e le necessità dei consumatori e non invece sulla base di specifiche richieste di questi ultimi. In tali economie ciò che
interessa a chi decide, a chi detiene il potere, non è il consumatore con le sue
richieste ed esigenze, ma il processo di produzione. Tutto si svolge in funzione di quest’ultimo.
È chiaro quindi come in una struttura siffatta si possano verificare delle
inefficienze. Essendoci infatti un regime dei prezzi non libero, la distribuzione dei beni avviene in modo non equo causando eccessi di domanda o eccessi di offerta e, comunque, provocando una dispersione di efficienza e di ricchezza e creando un meccanismo che porta all’impoverimento complessivo
del sistema economico.
Il sistema di capitalismo di mercato, invece, permette una migliore distribuzione di beni e servizi perché basandosi su un sistema di domanda e offerta i prezzi si adeguano a entrambe, trovando comunque un equilibrio soddisfacente. Un meccanismo di economia di mercato, dunque, consente un migliore soddisfacimento della domanda e ciò comporta maggiore efficienza e
sprechi ridotti al minimo.
L’ottica da cui si guarda il fenomeno economico, pertanto, varia a seconda
che ci sia un’economia più orientata al sistema collettivistico o a quello di mercato. Nel mondo attuale, ad esempio, è difficile definire il predominio di una
economia assolutamente di mercato o di comando, mentre è molto più semplice discorrere di sistemi orientati più verso l’uno o verso l’altro.
I meccanismi di economia statalista hanno maggiore considerazione delle
problematiche inerenti la produzione. I meccanismi di una economia di mercato, invece, considerano più i problemi riguardanti il soddisfacimento delle
esigenze del consumatore perché questi, secondo l’assunto di base dell’economia di mercato, è in grado di decidere meglio quale sia l’allocazione più razionale delle risorse per se’ stesso ed in definitiva per la società. Concepire l’economia attraverso la lente del consumatore, in un’ottica sistematica, consente,
quindi, rispetto ad una economia di comando, di ridurre gli sprechi.
A questo punto, per cercare di rispondere al nostro quesito di partenza, occorre vedere se la legislazione del nostro paese sia più orientata alla tutela dei
produttori o a quella dei consumatori.
È però necessario aprire una parentesi di carattere culturale: quando si parla di economia di comando o economia socialista non si usano altri aggettivi
qualificativi, perché nel nostro subconscio è già inteso il messaggio che l’equa
ripartizione delle risorse sia uno strumento positivo. Un governo che preveda
questo tipo di economia, pertanto, ha una connotazione positiva.
Al contrario la stessa cosa non accade per il capitalismo o liberismo economico, al quale si accosta, nel linguaggio comune, sempre l’aggettivo “selvaggio”,
come se la connotazione relativa alla libertà del sistema economico contenesse la
valutazione negativa di non riuscire a tutelare i bisogni dei più deboli, finendo, di
conseguenza, per essere considerato alla stregua di un sistema iniquo.
Ciò non è del tutto vero. Infatti - a dirla tutta - a livello sociologico un modello improntato seppur inconsciamente ad una economia di comando si presenta come un modello suggestivo per via del fenomeno dell’espansione della spesa pubblica e delle tasse, che comporta la sottrazione delle risorse dal circuito del reddito provocando altresì, inconsapevolmente, il declino dell’autorità che ha applicato questo modello.
Per meglio comprendere quando finora detto, si prenda l’esempio degli stati dell’Europa occidentale che negli ultimi cinquanta anni hanno avuto un periodo di crescita con contestuale impennata della spesa pubblica con la conseguenza, però, di rallentare o azzerare la crescita medesima. A questo punto della nostra storia recente si è iniziato a qualificare il capitalismo con l’aggettivo
“selvaggio”, cioè non in grado di far fronte ai bisogni dei più deboli.
Alla fine del secondo conflitto mondiale gli Stati si trovavano con una tassazione raddoppiata rispetto a quella esistente prima della guerra, e con una liquidità ben più elevata. Si trovarono dunque nella situazione di dover decidere come utilizzare questa liquidità in eccesso. La scelta fu non di restituire il
danaro ai cittadini, bensì di riutilizzarlo per il bene di questi ultimi, creando il
sistema dello stato sociale.
La causa della creazione di questo nuovo sistema di Stato è da ricercare nell’eccessiva disponibilità di liquidità, che ha permesso l’ampliamento dell’offerta di servizi ai cittadini a fronte, però, di un rafforzamento del potere politico. Il meccanismo della crescita della tassazione, tuttavia, anziché un bene è
diventato probabilmente un male.
Attualmente il livello di tassazione è talmente elevato da non consentire più
ai contribuenti di disporre delle risorse sufficienti per provvedere alla propria
vita, creando così seri problemi di crescita del sistema economico. Da ciò si
evince come non sempre le tasse servano a redistribuire (mentre a volte esse
hanno solo una funzione “politica”) e non è detto che la funzione redistributiva corrisponda alla realtà, perché i sistemi fiscali contemporanei hanno una tale complessità che spesso è difficile capire dove vadano a finire i soldi e se vi
sia una crescita incontrollata della spesa per un servizio che si crede pubblico.
L’esigenza per cui nel nostro sistema la sicurezza deve essere comunque
garantita dovrebbe essere resa gradualmente compatibile con meccanismi che,
parallelamente ad un po’ più di rischio, permettano di smuovere la società.
Esiste dunque in Italia una mano invisibile? Esiste un orientamento più ver-
so il sociale o verso il mercato? In Italia i diritti di proprietà sono considerati
sacri o inviolabili?
La Costituzione pone dei limiti alla proprietà in relazione alla funzione sociale. Ciò vuol dire che manca la certezza della proprietà. Conseguentemente il sistema di mercato ne risulta pregiudicato, in quanto l’economia non è in grado di sviluppare il potenziale che potrebbe avere. La tangibilità della proprietà nel nostro
paese è un vincolo rispetto alla possibilità di piena realizzazione del mercato.
Altro vincolo allo sviluppo del mercato è la totale incertezza della durata
dei processi civili. Poiché non si possono esercitare diritti immediati, si cerca
di evitare di assumere rischi, abbassando in questo modo il livello del prodotto interno, penalizzando il meccanismo d’impresa.
Ma, in Italia, anche la libertà di impresa non è garantita completamente in
quanto si è vincolati a compiere determinati atti giuridici e burocratici che regolano la produzione, ma che spesso non la facilitano o la migliorano. Lo stesso valeva, prima della “riforma Biagi”, per il sistema del mondo del lavoro perché si tendeva a proteggere in maniera eccessiva chi già era parte del sistema
rendendo difficile l’ingresso di nuove risorse.
Un ulteriore limite è rappresentato dal sistema legislativo, diventato molto
complesso e sempre più ramificato, in quanto, oltre la legislazione statale già
ingerente nel mercato c’è anche quella regionale e quella europea di cui bisogna tenere conto.
La funzione della legislazione europea può essere riconosciuta nella unificazione o quanto meno uniformazione delle regole e quindi del mercato. Unificando i pesi e le misure, utilizzando standard comuni, le autorità europee perseguono l’obiettivo di creare un mercato comune in cui si possa contrattare con
tempi più ristretti.
Quando, invece, la legislazione mira a tutelare solo talune categorie di produttori tramite concessione di licenze di produzione ovvero regolamentando le
professioni - creando di fatto categorie a numero chiuso - è chiaro che si è di
fronte non ad un sistema a servizio del pubblico, ma piuttosto ad un sistema
che tutela se’ stesso. Lo stesso vale per la concessione di incentivi per le imprese. In questo modo si falsa il mercato perché si tende ad indirizzare il consumatore verso un bene piuttosto che verso un altro.
In Italia, la legge, tranne in rari casi, è sempre stata orientata a favorire i produttori, mentre il consumatore dovrebbe essere lasciato libero di scegliere ciò di
cui ha più bisogno, senza falsare il meccanismo dei prezzi. Se ciò accade, il mercato prima o poi si “vendica” creando un sistema industriale che non è in grado
di adattarsi alla concorrenza internazionale. Cessando infatti gli incentivi statali
l’impresa già “incentivata” si ritrova in una posizione svantaggiata avendo fino
quel momento goduto di un privilegio che si interrompe all’improvviso.
Il consumatore in questo modo non è in grado di scegliere ciò che desidera e il mercato si struttura in modo irrazionale, non essendo in grado di adattare l’offerta alla domanda. L’offerta è falsata, la domanda è artificiale e l’eco-
nomia è molto simile a quella di comando, creando inefficienza e sprechi.
Anche la fine di un’impresa è importante nel mercato, perché il costo di
tenere in vita un’impresa obsoleta si riversa sui cittadini limitandone la libertà economica.
Se non si assumono rischi anche e soprattutto politici, il pericolo è quello
di andare verso un sistema in cui la libertà economica finisca per essere pregiudicata e il mercato riesca a produrre solo una scarsa crescita.
Per arrivare ad un sistema nel quale sia possibile intravedere, anche in Italia, la mano invisibile occorre revisionare profondamente il nostro diritto positivo, passando però, come per tutte le riforme destinate a durare nel tempo,
da una profonda modifica della visione culturale dei cittadini italiani.
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