Farmaci e Salute Mentale - L`Incompatibile

L’Incompatibile
A-Periodico di critica all’Istituzione psichiatrica
http://www.incompatibile.altervista.org
LO PSICOFARMACO NON È CICORIA
a cura di
G. Bonanno
«Tutte le scoperte della medicina
si possono ricondurre alla breve formula:
l’acqua bevuta moderatamente, non è nociva.»
Mark Twain
«Sono onesti nelle loro analisi e conclusioni
i teorici dell’Economia e del Controllo
scrupolosamente democratici.
Anche con quelle alimentano e promuovono
Controllo ed Economia.»
G. Bonanno
Eucarestia:
«Fonte di tutti i beni, anche temporali,
per coloro che ne fanno buon uso.»
Abbé Noël Chomel.
Noi vogliamo di più. Andare oltre. È solo nel flusso delle lotte intermedie che ci
consentiamo un percorso occasionale. Vorrei guardarmi dall’inganno d’una sostanza affabile e riguardosa nell’aspetto ma ingannatrice nella sua profonda intimità. Sia la Psichiatria che l’Anti-psichiatria rimandano ad una relazione autoritaria solo diversamente strutturata. In una comune e teorizzata relazionalità autoritaria, la sostanza non ha un destino diverso da ogni altra merce qualsiasi. Così il
suo assuntore. È per questo che ne vogliamo sapere di più. Al di là dello psicofarmaco è una questione di tecnologia i gestori della quale non appartengono alla nostra comunità. Dalla proposta per un consumo critico ad un’analisi del consumo
dello psicofarmaco in una mentalità manicomiale. Al di là d’una sostanza una
bomba economica e tecnologica.
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TRANS-PSICHIATRIA – Un modo di essere un modo per esserci
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A maggio del 2004 è uscito un libro, Farmaci e Salute Mentale, Atti del Convegno internazionale, a cura di Giuseppina Gabriele. (1)
Se si conosce la cosa non c’è bisogno di cercarla. Se d’altra parte non si può
cercare se non quello che si conosce già, nei confronti della ricerca della “mente” ci
troviamo a cercare una cosa che conosciamo già. Se invece guardiamo le promesse
della Scienza psichiatrica, che spostano il ritrovamento sempre più in là, sembra che
non sia stata ancora trovata. D’altra parte se la conoscessimo non ci sarebbe motivo
di cercarla. Ci troviamo allora nelle condizioni di stare cercando uno strumento con
uno strumento che non abbiamo ancora trovato. Così sembra nonostante le varie definizioni che la mente ha avuto nel tempo. In tale condizioni la mente viene affrontata a tentoni e per approssimazione fingendo di conoscerla per poter dire che la stiamo
cercando. Dicendo di non conoscerla per giustificare il bisogno e l’affanno del cercarla. Ma cosa importa tutto ciò. Che c’è di meglio che piantarla allora nel corpo che
ormai conosciamo fin dentro la cellula neuronica, da cui la mente emana come il
puzzo di cadaverina e putrescina del defunto nella bara. Una bella trovata.
I metodi di neuroimaging forniscono informazioni sulla struttura e
sull’anatomia cerebrale, consentono di investigare lo stato funzionale in vivo del cervello umano. Da qua al neurone il passo è breve: la parola va a modificare l’assetto
biochimico all’interno del neurone. E se non lì, dove? La parola s’incontra nel neurone. L’immaginazione lavora. Diventa più che tangibile ligneità. Così, anzi di conseguenza, per un processo inverso, se andiamo a modificare, manipolare, l’assetto
biochimico dentro il neurone, questo cambiamento dovrebbe portarci alle parole che
vogliamo. Come? Sempre con una specie di sistema ex adiuvantibus. Nell’organo,
una nota stonata ci fa capire che è necessaria al suo interno una modifica in una corda che ci restituisca la nota voluta. Col neurone la cosa è ancora più sofisticata. Già
la parola, senza un intervento chimico dall’esterno, produce un nuovo assetto biochimico (struttura qualcosa) per come noi vogliamo. Questa è la parola terapeutica,
nella terapia della parola; la parola giusta. Da ciò deduciamo che, con una ristrutturazione chimica, farmacologica, dall’esterno, che agisce sulla struttura biochimica del
neurone, possiamo riottenere le parole che volevamo. Produciamo, con una manipolazione dall’esterno, quella ristrutturazione di cui, come abbiamo detto, è in grado
pure la parola. Certo la facciamo con meno tempo e con più risparmio. Se c’è
un’anemia possiamo inghiottire un quintale di spinaci e un quintale di lenticchie, ma
ci sbrighiamo prima con una pillolina di ferro concentrato. Se riusciamo a manipolare quel neurone, un po’ con la parola, un po’ con la sostanza abbiamo curato la mente. Nel cancello d’un garage c’è una mente, a metà, sì, ma c’è una mente: suono il
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) - Giuseppina Gabriele, psicologa del Dipartimento di Salute Mentale della ASL Roma C,
nel 2004 Presidente della Farmacap del Comune di Roma
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clacson e mi si apre il cancello. È proprio una comunicazione tra l’interno e l’esterno
dove il suono cambia qualcosa nel cancello che lo fa aprire. Manca l’altra metà, che
però c’è nel meccanismo della parola e della biochimica del neurone: quando si apre
il cancello non fa suonare il mio clacson. Ma prima o poi questo vuoto si dovrà colmare. Forse non ho capito molto sulla mente. A parte che, con la capacità che hanno
le parole (ma solo le parole? Il denaro non fa venire la vista ai ciechi?) di andare a
modificare l’assetto biochimico dei miei neuroni, uno potrebbe anche dedurre che
basterebbero solo le parole giuste per correggere l’assetto biochimico che a noi serve
dentro i nostri neuroni e creare il nuovo assetto corretto. Sembra che sia su questo
meccanismo profondamente psico-biochimico che si fonda lo psicofarmaco. Quello
dell’elettroshock era meglio conosciuto nel suo meccanismo psico-fisico. Tanto più
quello degli psicofarmaci di ultima generazione. Se zummiamo sul fenomeno, è come se noi, su un grande scacchiera, spostassimo le pedine a seconda del quadro che
ci serve creare, senza però toccare o far cadere le pedine non coinvolte. Anche nel
puzzle succede così. Psicofarmaci mirati si chiamano. Lavorano per il sottile: spostano componenti biochimiche, fino agli atomi, e li risistemano all’interno dello stesso
neurone a seconda delle parole che ci serve produrre, o a seconda delle parole che
vogliamo andare a correggere. Certamente, non andiamo a sistemare lo psicofarmaco
all’interno del neurone con le mani come facciamo con gli scacchi. Ma non importa.
Lo psicofarmaco sa dove andare, cosa fare e come farlo. Sono le parole giuste che ci
indicano la quantità giusta di psicofarmaco da somministrare: quando dall’assuntore
siamo riusciti ad ottenere il pronunciamento delle parole giuste, vuol dire che la dose
di psicofarmaco è quella giusta. Non se ne usa né di più né di meno. Basta solo avere
chiaro quali sono le parole giuste. Ma anche le azioni, i comportamenti, la posizione
nello spazio e nel mondo, il gioco, l’alimentazione, l’irrequietezza nei bambini,
l’inquietudine negli adulti. Tutto. È una questione biochimica. E lo psicofarmaco è
come un bisturi che taglia solo dove c’è il male e come il chirurgo che cuce solo dove c’è la ferita. Selettivi sono. Prima non si capiva niente degli psicofarmaci. Ma non
togliamo la parola di bocca – la macchina stava scrivendo il pane di bocca – agli
scienziati. Non parliamone più.
Ma poi questa mente s’è trovata o no? Non importa.
Il rapporto con la sostanza rimane un rapporto personale e del tutto individuale. Dove qualcosa questo percorso ostacola, se la mia situazione mi spinge oltre la
singolarità della mia individualità, vorrei avere meno paura.
Tanta della sofferenza e dell’angoscia del quotidiano è determinata, il più delle volte in un millimetrabile rapporto di causa ed effetto, da una realtà che ci sfugge
sempre più dalle mani; ma anche dalla promessa, mai mantenuta e sempre tradita,
della possibilità e dei mezzi per un maggiore controllo e una maggiore autogestione.
Per un individuo che vive una condizione e situazione di Disagio Relazionale
l’informazione maggiore che a lui ma anche a noi proviene è quella di una persona a
cui sfugge più di prima e più degli altri una relazionalità funzionale con la propria e
l’altrui realtà, quella che siamo abituati a chiamare autogestione e controllo della realtà. Se così è, non è improbabile che ogni sforzo si voglia dirigere nella ricomposizione di una relazionalità circolare funzionale tra individuo e cosa che porti anche
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entrambi ad un effettivo controllo più che alla esclusiva sensazione di una maggiore
possibilità di reciproco controllo per una reciproca fiducia. Non è improbabile pensare che il nostro controllo sia legato alla mano e a tutto ciò che è a portata di mano.
Forse allora la tecnologia, distanziatasi enormemente dalla nostra mano fino a tagliarcela, e i suoi sofisticati prodotti hanno come principale loro caratteristica quella
di sfuggire impunemente non al nostro dominio quanto al nostro controllo. Uno psicofarmaco, dall’alto contenuto di tecnologia, sfuggente ad ogni possibile e pensabile
nostra comprensione, che possibilità avrà mai di ricomporre la relazione con la realtà
che mi sfugge sempre più dalle mani tenendosi sempre più fuori dalla mia portata
quindi dalla mia gestione? Eppure il mercato dello psicofarmaco raggiunge livelli
sempre più alti all’interno dei progetti dell’Economia ma anche di preoccupazione e
di paura.
A Roma, il 14 maggio 2004, a 26 anni dalla legge 180, si è tenuto un convegno presso l’Istituto Superiore di Sanità. Gli atti del convegno sono stati pubblicati in
un libro: "Farmaci e Salute mentale". Un gruppo di psichiatri e studiosi propone, in
quanto lo reputa possibile, un consumo critico dello psicofarmaco. Ormai non stanno
più tanto a sottilizzare sulla esistenza o meno della malattia mentale quale patologia
su cui concordano ma denunciano come di fatto attualmente, nella Salute Mentale e
non solo, la via più breve e preferita alla cura sia il ricorso allo psicofarmaco, merce
come un’altra. L’Istituzione non si fa scrupolo ad estendere la pratica dell’intervento
psicofarmacologico anche a bambini per i quali un’altra diagnosi è stata approntata,
la Sindrome da Iperattività con Deficit di Attenzione (ADHD) e il farmaco somministrato è il Ritalin (metilfenidato). Per dichiarazione degli stessi esperti, anche in questo caso gli studi devono essere approfonditi ma, nonostante l’incertezza sui dati, dai
dubbi vengono tratte conclusioni operative; quindi dubbi come dati assodati dai quali
deve scaturire una decisionalità operativa, un’azione terapeutica. Detto in altri termini, si scartano, sicuramente dalla pratica e dalla reale organizzazione dei servizi,
tante altre modalità e metodologie, molto più a portata di mano, se non altro per la
loro comprensibilità, per affrontare problemi, difficoltà, disagi, si coltiva un contesto
dove tali disagi oltre ad essere provocati non possono essere affrontati e si ricorre allo psicofarmaco proponendolo come strumento di guarigione. Per la discussione sul
Ritalin possiamo stare tranquilli, dicono gli esperti, perché ai bambini non vogliamo
dare una droga al posto della merenda. Che bravi però!
La critica degli autori si rivolge anche agli psicofarmaci di ultima generazione
che non danno i risultati miracolistici promessi.
Non stiamo parlando di una prostatite, di una tubercolosi, di un diabete. Allora già il titolo, “Farmaci e Salute Mentale” mi suona da depistaggio: tutti sono nella
categoria dei farmaci, anche le pillole che prendo per il bruciore di stomaco, ma non
tutti sono psicofarmaci. Per quella cosa in comune che hanno tutti i farmaci gli psicofarmaci sono farmaci come gli altri ma non sono farmaci come tutti gli altri. Questi
hanno una pretesa in più che gli altri farmaci non hanno. Essi non ci interessano per
tutti gli altri aspetti comuni che hanno con tutti gli altri farmaci, ci riguardano in
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quanto “psico-farmaci”; proprio per quello “psico” in più che hanno rispetto agli altri
e che da tutti gli altri li distingue.
«Esiste una vera e propria ideologia del farmaco; essa è molto semplice: bisogna “sedare”, “rendere tranquille le persone agitate”; questo peraltro risponde a
due esigenze della nostra struttura sociale: il controllo ed il mercato. Entrambi hanno
interesse a ridurre il disagio psichico a malattia organica.» (Paolo Cogorno) (2).
Le informazioni che forniscono vari specialisti dell’Anti-psichiatria istituzionale, per esempio, sullo psicofarmaco, sul suo uso, abuso, sui suoi effetti collaterali,
sul suo funzionamento da merce come ogni altra merce, non sono inquadrabili certamente nella logica che qualche tempo fa si chiamava contro-informazione. I dati
riportati dall’Anti-psichiatria non istituzionale, proprio perché, per ovvi motivi, privi
di una ricerca di laboratorio, sono quelli che altri, anche all’interno della stessa Medicina psichiatrica, hanno riportato, o quelli di una loro rielaborazione. Poi ci sono
altri dati, quelli ricavati dalle stesse persone che hanno fatto uso di psicofarmaci e ne
raccontano effetti collaterali, anche pericolosi, che per qualche motivo non sembrano
entrare tra i dati della ricerca ufficiale o la cui rilevanza non è ritenuta tale da farli
prendere in seria considerazione. Questi dati, relativi alle sofferenze aggiunte collegabili con i cosiddetti effetti collaterali, vengono difficilmente considerati se non ignorati, anche quando l’assuntore li riferisce allo psichiatra prescrittore. Così ci possono essere dati di laboratorio e dati che, in un certo senso, consideriamo di prima
mano. Perché consideriamo con attenzione i dati di prima mano, di chi ha fatto esperienza diretta di psicofarmaci e di Psichiatria in Salute Mentale? Intanto perché sono
dati di un laboratorio altro, la carne stessa di chi assume il farmaco; poi perché non
sono i dati della Scienza ufficiale. Poi ancora perché quei dati, che non fanno numero
ma rappresentano le sofferenze di tanta gente che non fa numero, sono quanto più distanti da una logica e da una relazionalità dell’Economia. Ciò dicendo, pur rimanendo relativi pure quelli, stiamo volendo porre l’accento più sul dato proveniente dalla
persona e dal suo vissuto che non il dato del laboratorio. Anche i dati d’un Convegno
sono dati dell’Economia, delle Utilità; merce pure quelli alla pari di ogni altro farmaco e psicofarmaco.
Come quelle parole che si hanno sulla punta della lingua senza riuscire mai a
dirle, si cerca ancora ma non si trova la correlazione tra disturbi mentali e la loro base biologica. L’accanimento teso al pronunciare della parola inciampata è accanimento farmacologico. Nessun discorso, nessuna relazione si fonda su una parola unica, quella che non viene, se non la relazione di Potere. Il discorso continua per altre
vie, per altre strade, altre creatività, per altra relazionalità. Al di là della raffinata teorizzazione, non c’è verso di una tangibile corrispondenza tra mente e corpo. Così parliamo della base biologica, che si trova nel corpo, di un disturbo mentale che si trova...? Dov’è la sede del disturbo mentale? Se la pensassimo nel corpo non avremmo
bisogno di pensare ad un disturbo mentale; potremmo molto più semplicemente ed
esclusivamente parlare di un disturbo del corpo e nel corpo con un suo locus, un indi2
)
Paolo
Cogorno,
Neuropsicologo,
http://www.geagea.com/36indi/36_10.htm]
Psicoanalista
e
Psicoterapeuta
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rizzo e una residenza. La pensiamo fuori dal corpo? Evidentemente sì, se cerchiamo
una correlazione nel corpo. Dov’è fuori del corpo la residenza del disturbo mentale?
Intanto i mass-media danno la massima enfasi all’argomento col dichiarare accertata
una genesi organica dei disturbi mentali, da cui ne consegue la necessità di trattamenti farmacologici, come per tutte le altre malattie del corpo. Com’è poi possibile
che ci siano malattie che ammalano solo il corpo e malattie che ammalano solo la
mente nessuno è in grado di dircelo, anche quando tutti sono pronti a documentare
che ad una sofferenza dell’uno corrisponde sempre una sofferenza dell’altro. E
com’è che gli effetti collaterali intossichino solo il corpo e non la mente a cui quei
missili selettivi sono diretti. Un linguaggio da guerra: selettivi come missili intelligenti.
Tutto rimane sulla punta della lingua mentre il farmaco deve essere praticato
o ingerito in profondità, fin dentro il sangue, la linfa e fin dentro i nervi dove va ad
aggiustare ciò che nella loro sostanza biologica s’era distratto.
Il disturbo di attenzione nei bambini non è l’ultima trovata che immagina una
base biologica e che richiede uno psicofarmaco. Anche in questo caso, ancora oggi,
come per tutte le altre diagnosi psichiatriche, si sta cercando una malattia per un farmaco che già scorre a fiumi. Per il corpo, trovato che ho una malattia infettiva, assumo un antibiotico adeguato; per la mente, forse, c’è da seguire un processo inverso,
ex adiuvantibus: prima prenderò una sostanza che solo dopo mi dirà quale malattia
ho. Più l’Economia produce sostanze più la Psichiatria troverà malattie per quelle sostanze, più i servizi di Salute Mentale incarneranno la nuova mentalità manicomiale
sul territorio. Nella quotidianità dei servizi, quella che può essere un’eccezionalità,
un’occasionalità, contraddizione del metodo, ritorna a diventare metodo imposto coattivamente come percorso obbligato della conoscenza.
Il trattamento con il metilfenidato è discutibile e trova la comunità scientifica
totalmente in disaccordo; intanto è partito allargando il dominio medico psichiatrico
in campo pedagogico. Man mano la malattia si troverà, assicurano. Del Deficit
dell’Attenzione ed Iperattività già si elencano sette tipi e sottotipi del disturbo. Pirella
(3) dice: «Si può affermare che la diagnosi di DDA, con i suoi connessi, è una diagnosi psichiatrica inconsistente e pericolosa. (...) una diagnosi psichiatrica socialmente stigmatizzante e per il trattamento che mette a rischio la salute mentale del
bambino.»
Esigenze della diffusione di mercato di un prodotto, di commercializzazione,
manipolano, nascondono, minimizzano i più importanti dati sulla pericolosità di uno
psicofarmaco specie quando il suo uso diventa sempre più intervento d’elezione che
scarta, squalifica ed esclude tante altre modalità di assistenza e aiuto possibili, e comunque previste perfino istituzionalmente, ormai da anni, tra le buone pratiche. Sono tanti i problemi che vengono fuori da un’analisi dello psicofarmaco, come per esempio nella cura, quello di un orientamento massiccio ed esclusivo verso la scelta
del farmaco da parte degli psichiatri o quello della ricerca sul farmaco condotta da
parte degli stessi direttori delle case farmaceutiche come nel caso della Roche.
3
) – Docente di Psichiatria – Università di Torino
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Tra l’uso responsabile e il non uso responsabile della sostanza non ci dovrebbe essere tanta differenza se l’uno o l’altro attengono alla responsabilità individuale.
Se vogliamo riempire di contenuto la “responsabilità”, sia nell’uno che nell’altro caso, tra le cose che vogliamo chiederci, non ultimo vogliamo sapere di cosa stiamo
parlando; vogliamo e dobbiamo in altri termini sapere cosa stiamo assumendo quando stiamo assumendo qualcosa.
Che cosa stiamo assumendo quando stiamo assumendo uno psicofarmaco.
Ricordo con curiosità che mai sapevo cosa ingoiavo quando ingoiavo ciò che mia
madre mi dava, prima dal suo seno, poi in un pezzo di pane, in una ciotola o in un
piatto.
A questo punto ci troviamo di fronte ad un bisogno, ad una necessità ma anche ad una mitologia. Se il sapere ha uno spessore, una lunghezza, una profondità,
una sua tridimensionalità, che mi permette di poter pensare in una modalità relazionale e olistica la cosa, veramente non credo di poter essere in grado di sapere, quindi
di dire, cosa sto assumendo nemmeno quando mangio un piatto di cicoria. Di quel
piatto, quanto devo sapere del suo sapere per poter dire che mangiandola sto sapendo
cosa sto mangiando? Questo almeno se siamo d’accordo che la consapevolezza, alla
base della responsabilità, passa attraverso dati o informazioni. In qualsiasi punto io
mi trovi nel flusso del sapere di quella cicoria mi rendo conto che di essa saprò alcune cose e non ne saprò altre; che di essa, in qualsiasi momento saprò tanto e nello
stesso tempo saprò niente. Quanto dovrò sapere per poter dire di poter sapere? Se la
mia muta relazione col mondo non mi pone un problema del sapere, la mia relazione
parlata oltre che un problema del sapere mi pone anche un problema della quantità e
del calcolo del sapere. La responsabilità si trova in un punto preciso del flusso, né un
po’ più avanti né un po’ più indietro? Quanto devo sapere di quella cicoria per dire di
starne facendo un uso responsabile? Un suo uso responsabile è allora legato alla
quantità di sapere nella relazione diretta: più ne so su quella cicoria più la sto usando
in modo responsabile? Se tra me e la cicoria individuo due poli di una relazione, io e
la cosa, saprò dire di più quando la relazione s’intensifica sul mio polo e meno quando s’intensifica sul polo della cosa? Potrò dire che mi piace, che è cicoria e non cicuta, che mi piace più amara che dolce, ma se devo avvicinarmi al polo della cosa rimango perplesso non essendo in grado di andare oltre alla pellicola verde che la mette in contatto col mondo. Pellicola che tra l’altro, solo se la volessi ascoltare, mi indicherebbe la barriera oltre la quale non m’è dato andare senza violentare quella pianta
e me stesso. Condizioni di una vera e propria ignoranza sulla cicoria. Mangiare quella verdura in queste condizioni d’ignoranza è un uso responsabile? Intanto mi piace,
non mi fa male, la mangio utilizzando quel livello di sapere che mi permette di mangiare cicoria senza morire di cicoria. Allora non mi basta più la mia relazione con la
cosa e credo che dovrò dare uno sguardo al più ampio campo relazionale e cercare di
capire la qualità oltre che la difettualità.
Se dalla verdura passo allo psicofarmaco, che cicoria non è, la mia relazione
rimane polarizzata più sulla cosa la cui coscienza mi deriva al massimo dal colore esterno della pastiglia o della polverina interna. Nell’immediatezza dell’incontro dei
sensi con la sostanza, anche questa volta, non diversamente dalla cicoria, di essa so
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tanto e so niente. Non mi posso sentire nemmeno ignorante perché non ho un riferimento, la quota del sapere, non so quanto ne devo sapere per poter dire di sapere su
quello psicofarmaco. A quel livello del sapere il suo uso è un uso responsabile? Se la
responsabilità nell’uso della sostanza è legata alla quantità di conoscenza; se in altre
parole per poter usare una sostanza responsabilmente devo avere di essa quanti più
dati possibile, gli unici a poter assumere lo psicofarmaco responsabilmente sapendo
che cosa essi stanno assumendo dovrebbero essere i biochimici, i farmacologi, i chimici, i responsabili delle case farmaceutiche e i rappresentanti del farmaco, l’ultimo
anello del commercio dello psicofarmaco dal quale lo psichiatra, prescrittore finale,
riceverà l’ultima filastrocca finale perfino non sospetta di sapere scientifico sul farmaco. Abbiamo dati interessanti: sappiamo di un paziente, addirittura catatonico da
anni, che dopo l’assunzione di questo nuovo farmaco s’è alzato dal letto e s’è voluto
andare a comprare il giornale. Risvegli. Non sono nuovi i risvegli in Psichiatria. Ma
anche loro sanno e non sanno. Anche loro sanno solo fino ad un certo punto; perché
anche loro devono fermarsi ad una certa altezza della conoscenza della sostanza oltre
la quale non possono nemmeno loro andare. Un’ignoranza che non permette a loro
quell’assunzione che impongono a noi. Se invece dello psicofarmaco voglio capire se
sto assumendo responsabilmente la pillola per l’ipertensione che prendo ogni mattina
e se lego questa responsabilità alla conoscenza, dovrei dire che, nemmeno in questo
caso, posso andare oltre il colore della sua pellicola. Posso leggere, sì, il bugiardino
ma, in quanto tale, sento che mai mi dirà la verità. Mi accorgo che quando prendo
questa pillola non mi sento presente alla realtà come prima e mantengo i valori pressori entro livelli fisiologici diversamente da prima. Posso decidere di prenderla. Posso decidere di non prenderla. Per ora. Non so domani. Il processo che accompagna il
nostro rapporto con la cosa non è cambiato nel suo fluire. In milioni di anni la nostra
relazione con il fuoco è cambiata. Quanto devo sapere per poter dire di sapere sul
fuoco? Quanto del fuoco devo sapere per poter dire di starne facendo un uso responsabile? Pur se brucia del fuoco posso dire che è rimasto nelle mie mani. Quello che
posso dire del fuoco non mi è possibile dirlo con tanti oggetti dell’alta tecnologia che
sono nati fuori dalle mie mani e fuori resteranno proprio per l’imponente carico tecnologico di cui sono portatrici. Possiedo il fuoco, sono fuoco, mi faccio fuoco
all’interno di una modalità relazionale non consentita e impossibile nella mediazione
tecnologica. La tecnologia non mi dà la possibilità di conquistare il farmaco, né tantomeno uno psicofarmaco che tra le sue informazioni ci dice che non cura più di un
placebo.
Tutte chiacchiere non spendibili nella trattazione della merce psicofarmaco.
Cestinare. Sono onesti nelle loro analisi e conclusioni i teorici dell’Economia e del
Controllo scrupolosamente democratici. Anche con quelle alimentano e promuovono
Controllo ed Economia.
Le definizioni classiche del termine “farmaco” godevano, se godevano, di un
certo tipo di cultura, un certo tipo di conoscenza e anche di una certa modalità di circolazione della stessa, quali potevano essere quelle espresse dal greco farmakon o da
latino medicamentum. Già a partire dalla voce “Farmaco/droga” nell’Enciclopedia
Einaudi siamo in una cultura diversa dove il farmaco incomincia a diventare un’altra
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cosa o, per meglio dire, un’altra cosa incomincia ad essere il prendere uno psicofarmaco. Oggi prendere il farmaco, e ancor di più lo psicofarmaco, è tutt’altra cosa ancora. Anche se chi assume uno psicofarmaco oggi difficilmente potrà capire di che
cosa è fatto, di com’è fatto, di come agisce e di che cosa lo fa agire come agisce, ignoranza nei confronti della quale sembra sussistere una piatta rassegnazione, in ogni
caso chi assume uno psicofarmaco assume pure il sapere di quella cosa e la conoscenza e l’informazione di cui quel farmaco è carrier. Poca o tanta che se ne abbia.
Cosa c’è di meglio allora che fare assumere un farmaco anonimo, privo di ogni dato
o al massimo come l’insulina per il diabetico.
Stiamo allora considerando di qualcosa che va oltre lo stesso farmaco il cui
movimento in una tensione “psi” avviene per il suo riconosciuto potere di andare ad
anonimamente manipolare l’essenza più intima di un individuo in quell’archivio che,
pur nella privazione di una tangibile oggettività e in un incancrenito dualismo, siamo
abituati a chiamare mente. Con un riflesso inevitabile però sul corpo dove è sentita la
manipolazione in tutto il suo tangibile dolore per un’angoscia senza nome. Stiamo
parlando di uno strumento spinto ad alto potenziale tecnologico che ci ha già escluso
ancora prima di pervenire al suo potenziale “psi” di manipolazione. Stiamo parlando
di uno strumento che, per le sue capacità di andare a profondamente modificare la
cosa fin dentro le sue più intime e profonde essenze e interiorità, condizioni e comportamenti, non può che sfuggire alle nostre mani, come alle mani di chi vorrà, in
modo più o meno libero, assumerlo. Da una simile macchina tecnologica l’unica informazione che ci proviene è la sua richiesta di una distruzione necessaria.
Lungi dalla demonizzazione dello psicofarmaco, cosa processo e pratica che
non ci appartiene per metodo, ogni critica, ogni dubbio, ogni discorso che lo riguarda, che non sia la sua acritica accettazione, assunzione, spaccio, viene bellamente ma
utilmente tacciato di demonizzazione con la criminalizzazione e la stigmatizzazione
di chi nei confronti della sostanza si pone in qualche modo consapevolmente critico.
Ancora stiamo parlando già non più di uno psicofarmaco quanto di una cosa
che è parte in pieno di una realtà, di quella relazionalità della quale abbiamo perso
già il controllo, perdita che si sta dilatando molto più in là da dove non possiamo arrivare con le nostre mani. In una situazione in cui per molti e diversi motivi più o
meno comprensibili l’intima relazione che ci lega e ci tiene alla realtà sembra liquefarsi diradarsi e affievolirsi fino a divenire vissuto di puro terrore, senso di perdita e
smarrimento, tutto ciò che è già normalmente lontano da noi e poco familiare, aumenta la nostra diffidenza fino al panico, al sospetto, alla paura più di quanto non
riusciamo abitudinariamente a sopportarne. Se c’è un consumo veramente allucinante
di una svariata quantità di sostanza non ritenuta psicofarmaco e considerata illegale,
non sembra che la gente abbia paura di ciò che è psicoattivo; fino al punto di decidere e scegliere di potere anche morire, e realmente muore, di sostanza.
Al di là del disprezzo o dell’apprezzamento della sostanza, questa ridotta in
chimica sfugge alla nostra comprensione nel carico tecnologico di cui è portatrice
mentre rimane esclusivamente comprensibile, e a buon motivo, nel giro di interessi
economici di cui è centralità. Il giro della Tecnologia e dell’Economia fa di noi i
terminali di uno psicofarmaco che non ci potrà mai appartenere; gli utili idioti di in9
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teressi non nostri. Non per questo la gente non assume la sostanza. Ogni sostanza
psicoattiva va a muovere qualcosa in chi l’assume e non è di questi movimenti che la
gente ha paura e che invece richiamano l’interesse di larghe fasce di popolazione. Lo
psicofarmaco è tutto ciò ma anche altre cose ancora.
L’ingoiare è un portare dentro da fuori, un lasciare entrare; un aprire la mia
porta e dare accesso. È sempre traumatica penetrazione. Quando apro bocca non metto dentro fin dentro il mio sangue solo una pillola; con essa devo ingoiare che stanno
riducendo tutta la mia sofferenza ad un fatto chimico, di pillole; che con essa riducono la mia presenza alla realtà, che con quella pillola mi stanno facendo ingoiare ciò
che nemmeno i suoi fabbricanti sanno; devo ingoiare i vari incidenti che quella pillola ha prodotto; devo ingoiare il pericolo che si evince dal fatto che mi hanno nascosto
anche delle morti; devo ingoiare che sulla mia sofferenza le industrie farmaceutiche
stanno costruendo imperi economici; devo ingoiare che la sofferenza della mia miseria è ingiuriata “follia”; che la stessa frequantazione stigmatizzante dei servizi di Salute Mentale mi produce ulteriore esclusione, ulteriore solitudine, ulteriore difficoltà,
ulteriore depressione, tutte cose che richiederanno un ulteriore prezzo in ribadite e
reiterate assunzioni di psicofarmaco. Devo ingoiare tutto ciò e molto altro ancora.
Devo ancora ingoiare che tutto quello che durante l’esperienza con lo specialista capisco, apprendo, vengo a sapere mi viene psicoterapeuticamente gentilmente, cortesemente, con pacate e melliflue affabulazioni, proprio con riguardo e garbo, manipolato, truccato, depistato, reso insignificante fino ad essere tradotto e diagnosticato
come effetto della mia stessa malattia. Devo ingoiare un controllo totale del mio corpo, di tutta la mia persona che va dal fisico, al chimico allo psicologico. Di che cosa
informa se informa il consenso informato? Sulla base di quale informazione avviene
il consenso informato nei confronti del trattamento in Salute Mentale.
Tutto qui? Devo ingoiare pure che da cinquant’anni, e anche più, una inflazionata bibliografia che racconta, descrive, manualizza, prescrive buone pratiche basate sulle tecniche dell’aiuto, dell’assistenza, in una cornice di relazionalità empatica,
in situazioni di Disagio Relazionale, viene ridotta all’equivalenza di una mangiata di
pillole ognuno delle quali promette d’andare a correggere ciò che di scorretto c’è nel
mio cervello. Un sapere, una conoscenza, una possibilità distrutta, annichilita, squalificata, in una logica delle Utilità che, tenendo nell’Economia il massimo riguardo, mi
lascia abbandonato all’oroscopo del Mercato rendendo la sostanza e la mia stessa
carne merce tra le merci. Tutto ciò è di scarso interesse per i riformisti e i democratici.
Allora ingoiare uno psicofarmaco significa questo e tutt’altro ancora. Significa pure sapere che dal 1950 lo psicofarmaco si è caricato di connotati negativi al
punto che oggi, quando si parla di psicofarmaco, e non di farmaco in generale già
problematico, non possiamo non sentirci assaliti da un brivido di paura. Col tempo
siamo andati dentro la cosa, oltre la pellicola, dentro i componenti chimici, dentro i
componenti economici, dentro i componenti delle Utilità fino a convincerci che, al di
là delle orazioni congressuali non è d’attualità non solo un uso responsabile del farmaco quanto la metodologia della relazionalità empatica, la sola che cambiando il
rapporto tra gli individui, possa cambiare anche il nostro modo d’uso della cosa.
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TRANS-PSICHIATRIA – Un modo di essere un modo per esserci
L’Incompatibile
A-Periodico di critica all’Istituzione psichiatrica
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Ingoiare allora uno psicofarmaco significa anche provare a capire quanto bene o quanto male in realtà funzionino gli antidepressivi; saper se le cause biochimiche dei disturbi mentali siano state realmente identificate o meno; sapere del commercio delle case farmaceutiche; sapere che, al di là della mitologia, al di là delle
magiche aspettative stiamo prima di tutto parlando di una merce come tutte le altre.
Per poter avere più consapevolezza sullo psicofarmaco, che cicoria non è, usualmente ci rivolgiamo sicuramente a chi, liberamente o in modo coatto, ne ha fatto uso ed
esperienza, positivamente o negativamente, sulla propria pelle. Da queste esperienze
ci può venire un sapere del modo di funzionare della sostanza inserita quale elemento
di un più ampio contesto relazionale. E allora? Non si può. Troppe frastornazioni.
Troppi pericoli. Troppe paure. Il sentimento che il discorso abbia la pretesa di mettere in discussione un castello che già di per sé non sta in piedi.
Oggi riusciamo ad utilizzarlo responsabilmente proprio quando teniamo in
debito conto dei danni che fa quando sfugge al nostro controllo? E le collusioni tra
interessi legati al profitto, al mercato del farmaco e attività di ricercatori? «È razionalmente consentito, in questa situazione, dubitare del valore scientifico dei trial.»
Un altro tipo di informazione, più vicina alla sostanza, al laboratorio, la possiamo acquisire per via documentale cosa che abbiamo già fatto col punto di vista
dell’Anti-psichiatria non istituzionale attraverso l’opuscolo Sorvegliato mentale. Effetti collaterali degli psicofarmaci. Manuale d’uso, di Paola Minelli e Maria Rosaria
D’Oronzo; l’abbiamo fatto con Psicofarmaci agli psichiatri, di Enrico Baraldi; lo
facciamo ancora con il punto di vista dell’Anti-psichiatria istituzionalizzatasi nella
Salute Mentale, attraverso l’opuscolo “Psicofarmaci e Salute Mentale”. Vogliamo
ascoltare cosa ci dicono alcuni psichiatri della Salute Mentale, forse appena una minoranza, ma anche altri, ad alcuni dei quali fa riferimento anche l’Anti-psichiatria
non istituzionale come Eliot S. Valenstein, David Cohen, Peter Breggin, Loren Mosher.
È difficile accettare che il farmaco sia una merce come tutte le altre con ciò
che ne consegue. È difficile considerarlo tale perché attorno ad esso si è creata una
mitologia accompagnata da concetti che non corrispondono alla reale funzione di
quel farmaco.
Anche le esperienze più avanzate del post manicomio hanno fatto ricorso
troppo facilmente agli psicofarmaci come risposta ai problemi di natura psicologica.
Anche dopo il movimento anti-istituzionale italiano, nella «relazione curante/curato,
si ha l’impressione che anche nelle realtà più avanzate nella salute mentale, vi sia
una scarsa riflessione sul ruolo del farmaco: come se la sua conoscenza e il suo uso
debbano continuare ad essere esclusivo appannaggio del mondo medico. Di fatto
l’atto della somministrazione del farmaco si configura come il momento più alto in
cui sapere e potere medico coincidono, come conseguenza di un processo concatenato d’osservazione, classificazione, diagnosi, assolutamente sovrapponibile al procedimento clinico degli alienisti del XIX secolo, caratterizzato dalla riduzione della
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follia a malattia classificabile, con una sintomatologia da controllare e ridurre al silenzio.» (Canosa-Lupo) (4)
«A porre l’attenzione su come oggi il ricorso al farmaco non venga effettuato
solo per strategie terapeutiche, ma ancora per esigenze di “controllo sociale” è stata Giusy Gabriele, presidente della Farmacap, l’azienda che gestisce le farmacie
comunali capitoline, co-promotrice dell’incontro. “Nei centri che non esito a definire di ‘detenzione per gli immigrati’ oggi si somministrano psicofarmaci a persone
che non soffrono di nessuna malattia psichiatrica”, ha denunciato. “Non solo, ma
vittime di questo stato di cose sono anche donne, bambini ed anziani, le tre fasce di
popolazione più ‘a rischio’ di essere sottoposte a trattamento farmacologico, senza
che vengano realmente compresi i bisogni sottesi al disagio”». Oltre che
sull’importanza dello psicofarmaco dal loro punto di vista, gli autori del libro, tutti
scienziati ufficiali della Psichiatria, pongono la nostra attenzione, su uno psicofarmaco con funzione di controllo ma fuori controllo. Dalla proposta ottimistica di un consumo critico all’analisi della realtà economica del farmaco, una realtà delle Utilità, e
del suo utilizzo nei servizi di Salute Mentale si evince il prevalere di un utilizzo non
in una prospettiva emancipativa ma un commercio della sostanza e un consumo nei
servizi in una logica prevalentemente manicomiale.
Allora stiamo parlando di qualcosa che va al di là della sostanza e al di là dello psicofarmaco, che lo condiziona fortemente fino a determinarlo nella sua costruzione come strumento di dominio, di Potere, di Economia, fino a farne motivo più di
sofferenza che non occasione d’aiuto.
FARMACI E SALUTE MENTALE
Atti del Convegno internazionale
Roma 14 Maggio 2004
a cura di Giuseppina Gabriele
Editore: Centro Documentazione Pistoia, 2005
Collana dei fogli di informazione
(02/03/2010)
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) – Direttore DSM ASL n.4 - Matera; Primario UOSM ASL n.1 - Napoli
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