15 - LA FILOSOFIA MODERNA: IL PROBLEMA DI DIO

15 - LA FILOSOFIA MODERNA: IL PROBLEMA DI DIO
- Locke: il deismo
La religione razionale
La critica delle religioni rivelate
La tolleranza
Religione razionale e cristianesimo
Le critiche degli illuministi
- Spinoza: il panteismo
La concezione panteistica
La critica alla concezione ebraico-cristiana della divinità
Il finalismo
La rappresentazione antropomorfica
- Pascal: la fede come dimensione esistenziale
La prospettiva razionale e la prospettiva esistenziale
La condizione umana come condizione tragica
Il divertimento e la noia
Filosofia e cristianesimo
L’argomento della scommessa
- La formazione dell'ateismo
L'origine delle religioni
Ateismo e moralità
- Kant: Dio, una ragionevole speranza
Il contributo kantiano
Le critiche alle prove dell'esistenza di Dio e l’agnosticismo kantiano
La morale e i postulati pratici
La morale fondata sulla ragione dell'uomo
I postulati pratici
Locke: il deismo
Pur all’interno di un atteggiamento sempre più laico, la necessità razionale
dell’esistenza di Dio non venne in generale messa in dubbio dalla filosofia
moderna; in essa sono riscontrabili quattro posizioni riguardo al problema di Dio:
il deismo, il panteismo1, la fede come dimensione esistenziale e, infine, seppure
ancora solo ai margini del dibattito culturale, le prime elaborazioni delle tesi atee.
Il deismo è l’atteggiamento più diffuso, fatto proprio, ad esempio, da Cartesio,
Locke e gran parte dell’illuminismo francese. Le altre posizioni sono, invece, più
isolate: il panteismo è rappresentato da Spinoza, un filosofo olandese di origine
ebraica, mentre la rilettura della fede in chiave esistenziale è legata soprattutto a
Pascal, filosofo e matematico francese.
I deisti riconoscono la necessità di ammettere l’esistenza di una religione
razionale non fondata sulla rivelazione ma sulla ragione. Questa religione è il
frutto di un atteggiamento naturale dell’uomo e perciò costituisce, per i deisti,
IL PROBLEMA DI DIO NELLA
FILOSOFIA MODERNA
Le posizioni:
- _________________________________
- _________________________________
- _________________________________
- __________________________________
LOCKE: IL DEISMO
LA RELIGIONE RAZIONALE
1
I panteisti identificano Dio con il tutto, ovvero con l’universo, opponendo alla concezione di un
Dio trascendente, posto quindi su un piano superiore all’universo, quello di una divinità immanente,
coincidente con il modo stesso.
1
una religione naturale. Essa consiste nell’ammettere l’esistenza di Dio e delle
regole morali che ci impongono l’amore e il rispetto per gli altri.
La religione naturale ha agli occhi dei deisti una duplice funzione razionale e
sociale. Sul piano razionale Dio appare il garante della validità delle leggi che
governano il mondo e che la scienza va scoprendo. Per dirla con le espressioni di
Pascal, peraltro fiero avversario del deismo, Dio, per essi, svolge lo stesso ruolo
di un orologiaio il quale, dopo aver costruito l’orologio (il mondo), lo mette in
carica lasciandolo funzionare grazie al solo meccanismo interno (le leggi).
Accanto a questa funzione razionale, la necessità dell’ammissione dell’esistenza
di Dio appare ai deisti legata anche al fatto che essa si accompagna al
riconoscimento delle fondamentali regoli morali che consentono la vita in
società, tant’è che l’ateismo appariva sinonimo di immorale.
LA RELIGIONE RAZIONALE
- Fondata sulla __________________ e non sulla ______________________
- poiché ____________________= ____________________  religione __________________
- ammette l’esistenza di: a) _________
b) __________________________________
- duplice funzione: a) ___________________: Dio garante ____________________________________________________________
b) ___________________: ______________________________________________________________________
LA CRITICA DELLE RELIGIONI RIVELATE
Al nucleo della religione naturale, secondo il deismo, tutte le religioni rilevate
aggiungono aspetti sostanzialmente dannosi e negativi, come i dogmi, credenze
indimostrabili e quindi inaccettabili, e il culto, che secondo i deisti è in realtà una
pratica di origine magica. Inoltre, nelle religioni rivelate la classe sacerdotale
usurpa il ruolo che originariamente è di tutti i fedeli, riservando a sé il monopolio
della intermediazione con il divino. Dogmi, culti e gerarchie ecclesiastiche
costituiscono anche le uniche cause dell’intolleranza tra religioni.
LA TOLLERANZA
Sicuramente uno dei contributi maggiori che la filosofia deista ha dato alla
cultura europea è legato all’affermazione del valore della tolleranza, in un
momento di grandi conflitti religiosi in Europa che coinvolgevano protestanti e
cattolici.
J. Locke (1632-1704)2 scrisse un testo fondamentale a questo proposito, “La
lettera sulla tolleranza”, affermando due concetti che sono rimasti basilari.
Innanzitutto la laicità dello stato fondata sul fatto che Chiesa e Stato hanno
compiti diversi. La funzione dello Stato e di consentire e regolare la convivenza
sociale, mentre la chiesa deve pensare alla salvezza delle anime. Queste funzioni
devono essere assolte senza interferenza, perchè in caso contrario si affermerebbe
uno stato confessionale, cioè non laico.
In secondo luogo, la libertà religiosa: in quanto la fede deve essere una scelta
libera, non frutto di una costrizione esterna. Le diverse chiese sono libere
associazioni di persone che si riuniscono per adorare dio nel modo che credono
più accetto per la divinità stessa.
L’unica forma di intolleranza ammessa è quella contro gli atei che, secondo
Locke e i deisti, sono esseri immorali , quindi incapaci di accettare le regole
morali su cui si basa la società.
RELIGIONE RAZIONALE E CRISTIANESIMO
Mentre i deisti del Seicento avevano riconosciuto nel cristianesimo una forma di
religione razionale, nel Settecento, in ambiente illuminista, la critica alle ‘
religioni rivelate, e quindi anche al cristianesimo, si fece molto più serrata.
2
Tra le opere di Locke ricordiamo: “Il saggio sull’intelletto umano” (1688), per quanto riguarda la
teoria della conoscenza, “Due trattati sul governo” (1690) e “Lettera sulla tolleranza” (1689), per
quel che riguarda le teorie politiche (vedi letture). Per la vita vedi “11 – La filosofia moderna: la
giustificazione del sapere scientifico e la concezione della realtà”
2
L’antitesi tra religione naturale e religione positiva appare lo strumento polemico
di cui l’illuminismo francese si avvale per procedere alla distruzione dei
fondamenti della fede religiosa, così come questa è stata tramandata da parte
della tradizione. La religione naturale è, infatti, una religione fondata
esclusivamente sulla ragione, invece la religione positiva è fondata sulla
tradizione e trae il proprio titolo di legittimità dal richiamo ad una originaria
rivelazione. Ma fondare una religione sulla rivelazione vuol dire fondarla su un
fatto storico e, per di più, su un fatto di dubbia attendibilità o risultato di una
evidente mistificazione.
L’ostilità dell’Illuminismo nei confronti delle religioni positive nasce da
una serie di ragioni teoriche e pratiche strettamente connesse. In primo
luogo deriva da una mentalità razionalistica, che, non riconoscendo altro
criterio di verità all’infuori della ragione e dell’esperienza, misconosce il
concetto di rivelazione, reputando inoltre che i vari dogmi, più che essere verità
meta-razionali (secondo la tesi dei teologi), siano costitutivamente credenze
anti-razionali. La stessa idea centrale del cristianesimo, quella di un Dio che
dopo aver creato l’uomo viene a morire sulla croce per redimerlo, agli
occhi degli autori più estremisti appare soltanto una “favola giudaica”, che
secoli interi di educazione cristiana non bastano a rendere più credibile, o
meno assurda, di fronte all’intelletto. In secondo luogo gli illuministi ritengono
che le varie religioni della storia abbiano contribuito, insieme al potere
politico, a tenere i popoli nell’ignoranza e nella servitù, ostacolando il
progresso scientifico, economico e sociale dell’umanità e producendo per lo più
intolleranza, fanatismo e divisione fra gli individui.
In terzo luogo, gli illuministi, convinti che la ragione vuole la felicità,
reputano che la religione, soprattutto quella cristiana, “imbrogliando i
popoli”, li abbia intristiti con il senso del peccato, della morte e del castigo,
impedendo una naturale ed armonica realizzazione del loro essere mondano.
Questo tipo di critiche alle religioni positive, in tutta la loro forza polemica, si
trova soprattutto nei cosiddetti “Manoscritti clandestini”, composti grosso
modo tra il 1700 e il 1750, che circolarono clandestinamente, a causa dei
controlli di polizia regia e delle persecuzioni ecclesiastiche, presso una
fascia ristretta di intellettuali.
Spinoza: il panteismo
SPINOZA: IL PANTEISMO
LA
CONCEZIONE PANTEISTICA
Spinoza (1632-1677)3 si stacca nettamente da gran parte della metafisica
occidentale, e in particolare dal filone ebraico-cristiano, in quanto ritiene che Dio
e mondo non costituiscano due enti separati, ma uno stesso ente, poiché Dio non
è fuori dal mondo, ma nel mondo e costituisce con esso quell'unica realtà globale
che è la Natura. In tal modo, Spinoza perviene a una forma di panteismo che
giunge a identificare Dio o la Sostanza con la Natura, considerata come realtà
increata, eterna, infinita e unica da cui derivano e in cui sono tutte le cose.
Sulla base di questa coincidenza tra Dio e mondo, considerati come un Sistema
globale retto da leggi matematico-geometrico, Spinoza elabora una profonda
critica a quella millenaria visione finalistica del mondo che si era espressa nella
dottrina ebraico-cristiana di un Dio che crea liberamente il mondo secondo
progetti implicanti la subordinazione intenzionale delle cose all'uomo (finalismo
antropocentrico).
La critica del finalismo è sicuramente un prodotto della rivoluzione scientifica, in
quanto essa si fonda su un’immagine del mondo retto dalle leggi fisiche più che da
fini ultimi. Galileo, infatti, pur non avendo affatto escluso le cause finali, aveva
3
Per la vita e le opere di Spinoza vedi pag. 23
3
sostenuto che noi non possiamo conoscerle. E Cartesio aveva incluso il proprio
universo meccanicistico nei piani liberi e razionali del Creatore. Spinoza, invece,
procedendo oltre Cartesio, afferma risolutamente che le cause finali non esistono, né in
natura, né in Dio. In tal modo, egli porta la critica al finalismo a uno dei punti più
estremi toccati dalla filosofia moderna. Secondo Spinoza ammettere l'esistenza di
cause finali è un pregiudizio dovuto alla costituzione dell'intelletto umano. Gli uomini
ritengono tutti di agire in vista di un fine, cioè di un vantaggio o di un bene che
desiderano conseguire. E poiché trovano a loro disposizione un certo numero di mezzi
per raggiungere i loro fini (ad esempio gli occhi per vedere, il sole per illuminare, le
erbe e gli animali per nutrirsi ecc.), sono portati a considerare come mezzi tutte le cose
naturali. E poiché sanno che tali mezzi non sono stati da loro stessi prodotti, credono
che siano stati preparati per loro da Dio. Nasce così il pregiudizio che la divinità
produca e governi le cose per l'uso degli uomini, per legare gli uomini a sé e per essere
onorata da essi. Ma, dall'altro lato, gli uomini osservano che la natura offre loro non solo
agevolezze e comodità, ma anche disagi e svantaggi di ogni genere (malattie, terremoti,
intemperie ecc.) e credono allora che questi malanni derivino dallo sdegno della divinità
per le loro mancanze nei suoi riguardi. E sebbene l'esperienza di ogni giorno mostri con
infiniti esempi che vantaggi e danni si distribuiscono ugualmente tra i buoni e i cattivi,
gli uomini preferiscono, anziché abbandonare il loro pregiudizio, ricorrere a un altro
pregiudizio per puntellare il primo ammettendo che il giudizio divino superi di gran
lunga l'intelletto dell'uomo.
Per Spinoza, il limite maggiore del finalismo, filosoficamente parlando, è di
considerare come causa ciò che in natura è effetto, e viceversa, mettendo dopo
ciò che in natura è prima. Ad esempio: non è il calore trasmesso agli esseri viventi che è
la causa del sole, ma il sole che è la causa del calore trasmesso agli esseri viventi (per cui
si potrebbe dire, per esemplificare ulteriormente il pensiero di Spinoza, che l'errore del
finalismo consiste nel non rendersi conto che non è l'ambiente, cioè il sole, l'erba ecc.,
a conformarsi ai viventi, ma sono i viventi che si conformano all'ambiente).
Inoltre il finalismo rende imperfetto ciò che è perfetto. Secondo Spinoza, infatti,
perfetto è l'effetto che è prodotto immediatamente da Dio, imperfetto quello che, per
essere prodotto, ha bisogno di cause intermedie. Evidentemente se talune cose
fossero fatte da Dio come mezzi per conseguire un certo fine, esse sarebbero meno
perfette delle altre.
Infine, in terzo luogo, la dottrina delle cause finali non solo elimina la
perfezione del mondo, ma toglie anche la perfezione di Dio. Se Dio agisse per
un fine, necessariamente vorrebbe qualcosa di cui difetta.
LIMITI FINALISMO:
Limiti finalismo:
1 ____________________________________ perchè __________________________________________________________________
2________ ____________________________ perchè __________________________________________________________________
3 ____________________________________ perchè __________________________________________________________________
La concezione finalistica del mondo non è che un prodotto dell'immaginazione:
consiste nel tentativo di spiegare il mondo mediante nozioni come il bene, il
male, l'ordine, la confusione, il caldo, il freddo, il bello, il brutto, le quali non
esprimono se non il modo in cui le cose stesse colpiscono gli uomini e non
hanno valore oggettivo, né possono comunque valere come criteri per intendere
la realtà stessa. La critica spinoziana al finalismo si accompagna a un deciso rifiuto di
ogni riduzione di Dio nei limiti dell'umano e quindi al rigetto di ogni antropomorfismo
religioso. Per Spinoza, la visione biblica di Dio, considerato come una specie di superuomo, che ha una mente e una sensibilità simile alla nostra e che ama, odia, si
ingelosisce, si arrabbia e punisce, è soltanto il prodotto dell'immaginazione
superstiziosa di individui che «si vennero forgiando Dio a immagine dell'uomo,
ora adirato, ora misericordioso, ora proteso nell'attesa del futuro, ora preso dalla
4
collera e dal sospetto, e ora persino preso in trappola dal demonio». Al Dio del volgo e
dei teologi, che reputa frutto di una visione distorta della realtà, Spinoza
sostituisce quindi la propria idea filosofica di un Dio sovrapersonale
coincidente con il Tutto cosmico. Di conseguenza, la spaccatura tra lo spinozismo e la
rappresentazione ebraico-cristiana della divinità risulta netta e radicale.
PASCAL: LA FEDE COME
Pascal: la fede come dimensione esistenziale
DIMENSIONE ESISTENZIALE
Tra i filosofi dell’età moderna B. Pascal (1623-1662)4, legando la religione alla
dimensione esistenziale, è sicuramente l’autore che maggiormente ha contribuito
ad elaborare quella che è diventata la sensibilità religiosa contemporanea.
Di fronte ai problemi dell'esistenza e della morale la ragione scientifica è,
secondo Pascal, impotente: "quando ho cominciato lo studio dell'uomo, ho
visto che le scienze esatte non sono proprie dell'uomo e che assai più mi sviavo io
dalla mia condizione con l'approfondirle che gli altri con l'ignorarle". Nello studio
dell'uomo lo spirito di geometria, che procede con le sue dimostrazioni a partire da
principi primi ed è tipico della scienza, va quindi sostituito da una comprensione più
profonda, dallo spirito di finezza, o dal "cuore", il quale "ha le sue ragioni che la
ragione non conosce".
La condizione umana è caratterizzata da una sproporzione fondamentale tra
aspirazioni e realtà sia a livello conoscitivo sia a livello pratico. Indagando la
natura cerchiamo la verità, ma riusciamo solo a "scorgere qualche apparenza di
ciò che vi è di intermedio tra le cose", mentre "gli estremi, la fine delle cose e il
loro principio" rimangono per noi "un segreto impenetrabile". Possiamo estendere
indefinitamente le nostre conoscenze, ma i principi ultimi delle cose restano al di
fuori della nostra portata; volerli comprendere "e di là giungere fino a conoscere
tutto" rivela una presunzione tanto infinita quanto infinito è l'oggetto dell'indagine.
In conclusione, siamo "incapaci sia di sapere in modo certo che di ignorare in
modo assoluto".
La stessa sproporzione definisce la condizione esistenziale dell’uomo. "Sperduto in
questo remoto cantuccio dell'universo", l'uomo è come sospeso fra i due abissi
dell'infinito e del nulla; egli è "un nulla nei confronti dell'infinito, un tutto rispetto al
nulla, un qualcosa di mezzo tra nulla e tutto".
La medesima sproporzione si riflette nella vita pratica. Cerchiamo la felicità in tutti i
modi: "se gli uni vanno alla guerra e gli altri non ci vanno, è per questo stesso
desiderio che agisce in entrambi accompagnato da vedute diverse... Questo è il
motivo di tutte le azioni di tutti gli uomini, anche di quelli che s'impiccano". Ma,
identificando il bene con cose particolari e contingenti - i piaceri, le scienze, la
fama e così via -, siamo di continuo delusi: "il presente non ci soddisfa mai,
l'esperienza ci inganna e di dolore in dolore ci conduce alla morte, che è il colmo
dei mali ed eterno". E infatti "tutti si lagnano, principi e sudditi, nobili e villani,
vecchi e giovani, forti e deboli, dotti e ignoranti, sani e malati, di ogni tempo, di
ogni paese, di ogni età e condizione".
La condizione umana, definita da questa sproporzione o contraddizione
assolutamente insuperabile, è pertanto una condizione tragica. Occorre
prenderne coscienza fino in fondo. La grandezza dell'uomo sta infatti nel
pensiero: debole come un giunco, l'uomo è tuttavia "un giunco pensante"
ed ha quindi la capacità di riconoscere la propria miseria: "l'uomo sa di essere
miserabile: egli è dunque miserabile, perché lo è, ma è ben grande,
perché lo sa". Questa "duplicità dell'uomo" va tenuta ben ferma: "è
pericoloso mostrare troppo all'uomo quanto egli sia uguale alle bestie, senza
mostrargli la sua grandezza; è pericoloso anche fargli vedere troppo la sua
4
Per la vita e le opere di Pascal vedi pag. 22
5
grandezza senza la sua bassezza". Per comprendere veramente l'uomo, non
bisogna né esaltarlo né abbassarlo in modo unilaterale, ma riconoscerne la
contraddittorietà irriducibile, il suo essere un "paradosso di fronte a se stesso".
Riflettere su noi stessi ossia riconoscere apertamente la tragicità della nostra
condizione costa fatica e dolore. Perciò l'uomo fa di tutto per non pensarci e
cerca il divertimento: "non avendo potuto guarire la morte, la miseria,
l'ignoranza, gli uomini hanno deciso, per rendersi felici, di non pensarci".
Divertimento è tutto ciò che ci distoglie dal pensare a noi stessi: non solo i
giochi e le attività ricreative quindi, ma anche il lavoro, gli affari, le cariche
pubbliche e così via. Gli uomini si assegnano "cariche e affari che li
tengono in trambusto dallo spuntar del giorno" e in tal modo essi non
pensano "a ciò che sono, donde vengono, dove vanno" e "se hanno
qualche momento di tregua, si consiglia loro di impiegarlo a divertirsi, a
giocare, a immergersi sempre interamente in un'occupazione".
Nel divertimento non si cercano le cose per se stesse - il denaro che si può
vincere al gioco, la lepre che si insegue, la carica per cui ci si affanna -, ma
proprio il trambusto che ci distoglie dal pensare alla nostra infelice condizione:
"ragion per cui si gusta più la caccia che la preda". Essenziale al
divertimento è il movimento incessante, il variare ininterrotto delle attività, il non
fermarsi mai e quindi il continuo assorbimento del presente nel futuro: "il passato
e il presente sono i nostri mezzi, solo l'avvenire è il nostro scopo. E così non
viviamo mai, ma speriamo di vivere; e, preparandoci sempre ad essere felici, è
inevitabile che non lo siamo mai".
Il divertimento si risolve in una promessa di felicità rinviata di continuo. Esso non
produce felicità effettiva, ma evita la noia. In assenza di divertimenti, infatti,
quando è in assoluto riposo, l'uomo "sente il proprio nulla, il proprio abbandono,
la propria insufficienza, dipendenza, impotenza, il proprio vuoto. E immediatamente verrà su dal fondo della sua anima la noia, la tetraggine, la tristezza,
l'affanno, il dispetto, la disperazione". Ma proprio in ciò si manifesta in pieno la
funzione negativa, di copertura e di inganno, del divertimento: senza di esso la noia
ci spingerebbe ad aprire gli occhi e a cercare una via d'uscita; invece "il divertimento
ci diletta e così ci fa arrivare inavvertitamente alla morte".
Condizione umana:
sproporzione
1_____________________________
2 _____________________________
3 _____________________________
contraddizione tra
___________________
condizione ____________
____________ (fuga)
___________
La filosofia, che pur si pone, a differenza della scienza, il problema della
condizione umana, non è in grado di darne una soluzione, poiché non la assume
nella sua effettiva complessità. I filosofi tendono infatti ad esaltare uno dei due
termini della contraddizione a scapito dell'altro, i "dogmatici" la ragione e la
grandezza dell'uomo, gli scettici i suoi limiti conoscitivi e la sua miseria.
Gravi e inconciliabili sono poi le divergenze tra i filosofi nella
individuazione del bene. Di fronte alla estrema variabilità delle norme morali, delle
leggi e dei costumi, la ragione è incapace di stabilire principi veramente universali.
Sul piano razionale tutte le norme appaiono relative, frutto di abitudini, interessi,
mode, tradizioni ecc. Ciò che chiamiamo giustizia non ha un fondamento
razionale, ma puramente fattuale nella forza: "non potendosi procurare che ciò
che è giusto fosse forte, si è procurato che ciò che è forte fosse giusto". La
ragione, lasciata a se stessa, porta inevitabilmente allo scetticismo.
Pascal non attribuisce, infine, una grande importanza nemmeno alle prove
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filosofiche dell'esistenza di Dio. In ogni caso il Dio a cui si perviene tramite la
filosofia è un puro ente di ragione, "un Dio autore semplicemente delle verità
geometriche e dell'ordine degli elementi", che non ha alcuna relazione con la
vita e i problemi dell'uomo.
Di fronte all'impotenza della ragione, il vero atteggiamento filosofico deve allora
consistere nel "riconoscere che ci sono infinite cose che la sorpassano" e che
"essa non è che una debole cosa, se non giunge a conoscere questo". La ragione
è superata dalla fede, la filosofia dalla religione ossia dal Cristianesimo.
Solo il Cristianesimo è in grado di dar conto della duplicità della condizione
umana, poiché assume come principi fondamentali "la corruzione della natura umana" e "l'opera redentrice di Gesù Cristo". Il primo spiega la sproporzione
esistenziale costitutiva dell'uomo, la sua grandezza e la sua miseria, la sua infelicità e
la sua inquietudine: dopo la caduta, l'uomo è un "re spodestato" che ha il ricordo e il
desiderio confuso del regno perduto. Il secondo segna la differenza tra il Dio
della ragione filosofica, indifferente alla sofferenza umana, e il Dio "d'amore e
di consolazione" della fede, "che riempie l'anima e il cuore"; "conoscere Dio
senza Gesù Cristo non solo è impossibile, ma è anche inutile".
Il Dio di Pascal, che gli “riempie l’anima e il cuore”, appare sicuramente agli
antipodi del Dio della ragione dei deisti. Infatti, per i deisti Dio deve essere ammesso
per una pura necessità razionale ed è visto come il distaccato creatore-orologiaio,
secondo l’espressione già citata dello stesso Pascal, che una volta che ha creato il
mondo si limita a dargli la carica disinteressandosene in quanto il mondo risulta retto
dalle leggi che la scienza scopre. Per Pascal, invece, Dio non svolge un ruolo
puramente di garante del funzionamento del mondo e delle nostre conoscenze, in
quanto Dio risulta non indifferente alla sofferenza dell’uomo, anzi l’unica possibile
risposta ai drammi della condizione esistenziale dell’uomo.
Dio per i ______________________:
1 - _________________________________________________________________________________________________________
2 - _________________________________________________________________________________________________________
Dio per _____________: _______________________________________________________________________________________
Nel pensiero di Pascal il rapporto tra fede e ragione è di particolare complessità.
Da una parte, la fede non è affatto contraria alla ragione: il Cristianesimo spiega
ciò che la ragione non sa spiegare e in questo senso è del tutto ragionevole.
Dall'altra, la fede non dipende dalla ragione, sia perché è un dono di Dio sia
perché ciò che insegna non ammette una dimostrazione razionale ed anzi
spesso contrasta con la ragione. Il peccato originale, che si propaga dal primo
uomo a tutta l'umanità, è "un mistero incomprensibile", ma senza di esso "noi siamo
incomprensibili a noi stessi": "il nodo della nostra condizione si avvolge e si
annoda in questo abisso, cosicché l'uomo è più inconcepibile senza questo
mistero di quanto questo mistero non sia inconcepibile per l'uomo".
Non ha senso rinfacciare ai cristiani di non poter "provare" la loro religione,
poiché essi sono i primi ad ammettere questa impossibilità: Dio è "infinitamente
incomprensibile" e "noi non abbiamo alcuna proporzione con lui". L'esistenza di
Dio è conoscibile grazie alla fede, ma è indimostrabile. D'altra parte è indimostrabile
anche che Dio non esiste. La ragione qui non può determinare nulla, non può
giustificare una decisione in un senso o nell'altro.
La decisione a favore dell'esistenza di Dio può essere tuttavia sostenuta, secondo
Pascal, da un argomento fondato sul calcolo delle probabilità, il famoso argomento della "scommessa". Dobbiamo scommettere su una delle due possibilità,
"Dio esiste" o "Dio non esiste". Secondo ragione, esse si equivalgono, per cui
forse si potrebbe affermare che "il partito giusto è di non scommettere affatto". Ma
evitare di scommettere è in questo caso impossibile, poiché si tratta della nostra
L’ARGOMENTO DELLA SCOMMESSA
7
esistenza: comunque la nostra vita sarà orientata, magari inconsapevolmente, da una
o dall'altra delle due opzioni.
Dal momento che scommettere è necessario, dobbiamo esaminare la posta in
gioco: abbiamo "due cose da perdere, il vero e il bene; e due cose da impegnare
L’ARGOMENTO DELLA SCOMMESSA
La scommessa: _____________________ o _______________________
per la ragione __________________________  non ___________________ impossibile perché _________________________
se Dio non esiste non cambia nulla per la _______________ e la ________________________
se Dio esiste non cambia nulla per la nostra __________________ ma ci assicuriamo la possibilità _______________________
per cui a scommettere sulla _______________________ non perdiamo ________________ ma vinciamo _________________________
nel gioco: la nostra ragione e la nostra volontà, la nostra conoscenza e la nostra
beatitudine; e la nostra natura ha due cose da fuggire: l'errore e la miseria". Già sappiamo che la ragione non riceve maggior danno, scegliendo l'una o l'altra
possibilità. Le cose però stanno ben diversamente per quanto riguarda la nostra
beatitudine: se Dio esiste, guadagniamo tutto; se non esiste, non perdiamo niente.
Bisogna pertanto scommettere senza esitare che egli esiste.
Ma forse, scommettendo sull'esistenza di Dio, rischiamo troppo? Poiché è
uguale la probabilità di guadagno e di perdita, se non avessimo da
guadagnare che due vite contro una, scommettere sarebbe già conveniente;
ma qui da guadagnare "c'è addirittura una eternità di vita e di felicità".
"Ogni giocatore rischia con certezza per vincere con incertezza; e tuttavia
arrischia certamente il finito per guadagnare senza sicurezza il finito, e ciò
senza andare contro la ragione"; ma nel caso dell'esistenza di Dio "c'è il
finito da arrischiare" e "l'infinito da guadagnare". Non occorre allora soppesare
il pro e il contro; essendo forzati a giocare, "bisogna proprio aver rinunziato
alla ragione, per voler conservare la vita anziché arrischiarla per il
guadagno infinito, così facile a venire quanto la perdita del nulla".
LA FORMAZIONE DELL'ATEISMO
La formazione dell'ateismo
Nell’ambito dell’illuminismo sono identificabili, per quel che riguarda i rapporti
filosofia religione, due filoni: uno più moderato di orientamento deista, di cui
abbiamo detto, ed uno più estremistico e di tendenza atee.
L'indirizzo ateo trova i suoi rappresentanti più significativi in Meslier e in
d'Holbach.
Jean Meslier (1664-1733)5 è una singolare figura di sacerdote che, divenuto
parroco di Étrépigny, fu esemplare per condotta e spirito di pietà verso gli umili,
ma che una crisi interiore portò dal cristianesimo al materialismo. Sebbene egli
continuasse la vita sacerdotale e la missione di assistenza e di carità tra i fedeli, cui
non rivelò mai le «profonde verità» custodite nel segreto della sua mente, scrisse tre
manoscritti "clandestini" di 366 fogli (di cui abbiamo già citato alcuni passi) che
furono trovati solo alla sua morte . Il deista Voltaire, che «fremette d'orrore» alla
lettura di quello scritto, ne pubblicò, nel 1762, un estratto di 63 pagine, e dopo
alcuni mesi ne curò una seconda edizione di ben cinquemila copie. Nel 1775 il
Parlamento di Parigi ordinò che il Testamento fosse bruciato (una nuova edizione
completa apparirà soltanto nella seconda metà dell'Ottocento).
5
Per la vita e le opere di Meslier vedi pag. 23
8
Paul Henri Dietrich barone d'Holbach (1723-1789)6, che in parte si rifà a Meslier, è
invece il maggior filosofo del materialismo francese.
Mentre la corrente deista scinde, a proposito della religione, un momento fisiologico
e uno patologico, un nucleo razionale e uno irrazionale, quella atea ritiene che la
religione sia, di per sé, un fenomeno patologico e irrazionale, che non sgorga
dall'intelletto, ma da fattori quali l'interesse e la paura.
Jean Meslier, collegandosi a una linea di pensiero che risale ai sofisti, appare
decisamente favorevole a un'interpretazione del fatto religioso in chiave politica,
ritenendo che la sottomissione al Monarca divino voluta dalle religioni non sia altro
che una manovra per sottomettere i popoli ai monarchi umani: “Tutte le leggi e le
ordinanze emanate sotto il nome e l'autorità di Dio o degli dei non sono altro, in verità,
che invenzioni umane. Esse sono state escogitate per fini e per motivi di astuzia
politica; in seguito sono state coltivate e moltiplicate da falsi profeti, da seduttori e da
impostori; infine, sono state mantenute e autorizzate dalle leggi dei principi e dei grandi
della terra, i quali se ne sono serviti per tenere più facilmente in soggezione la massa
degli uomini.”
D'Holbach, sulla scia di Hobbes e soprattutto di Hume, pur denunciando la
strumentalizzazione politica del fenomeno religioso, appare propenso a ricercarne
l'origine soprattutto nel timore e nel disagio dell'uomo di fronte all'universo: “È il
male che vede nel mondo che lo ha indotto a pensare alla Divinità. Il grandissimo
numero dei mali, degli accidenti, delle malattie, dei disastri, degli scuotimenti del
nostro globo, delle alterazioni, delle inondazioni, delle conflagrazioni suscitarono in
lui spaventi. Fu allora che non vedendo sulla terra agenti abbastanza potenti da operare
tali effetti, levò gli occhi al cielo, in cui suppose che risiedessero agenti ignoti,
l'inimicizia dei quali distruggeva quaggiù la sua felicità.”.
Ma se la religione affonda le sue radici nell'irrazionale e nella paura e obbedisce a
interessi umani e di potere, la ricerca deistica di una "religione razionale"
appare una contraddizione nei termini, poiché dove trionfa la ragione non c'è
religione e viceversa. Di conseguenza, se Dio è soltanto una falsa proiezione
della mente, l'unica verità, per Meslier come per d'Holbach, è da ricercarsi nel
mondo reale, ossia nella natura, spinozisticamente e materialisticamente
pensata come una realtà autosufficiente ed eterna e come sano criterio di
comportamento: «Confrontate la morale religiosa con quella della natura: questa
la contraddice ad ogni istante». Questo spiega perché d'Holbach veda
nell'ateismo una scuola di vita e una condizione indispensabile per fondare una
società migliore, opponendosi in ciò al deista Voltaire, che, facendosi
portavoce dell'antica tesi (ancora presente in Locke) secondo cui il non
credere in Dio genera immoralità e asocialità, scrive ad esempio: “l'ateismo è un
mostro assai pericoloso in quelli che governano; lo è anche nelle persone di studio, se
pure la loro vita è innocente, perché dal loro studio esso può arrivare sino a quelli che
vivono in piazza; e, se non è certo funesto quanto il fanatismo, è tuttavia quasi sempre
fatale alla virtù.”
Rispondendo al quesito «se l'ateismo risulta compatibile con la morale»,
d'Holbach controbatte invece che: “Se l'ateo nega l'esistenza di Dio, non può negare
la propria esistenza, né quella degli esseri simili a lui. Non può dubitare dei rapporti
che sussistono tra loro, né della necessità dei doveri che derivano da questi rapporti.
Non può, dunque, dubitare dei principi della morale, la quale non è che la scienza dei
rapporti sussistenti tra gli esseri che vivono in società.”
6
Per la vita e le opere di D’Holbach vedi pag. 24
9
Kant: Dio, una ragionevole speranza
KANT: DIO, UNA RAGIONEVOLE
SPERANZA
I. Kant (1724-1804)7, con cui si chiude la filosofia moderna, ha sottoposto a
IL CONTRIBUTO KANTIANO
serrata critica il deismo considerando infondata la religione razionale, in quanto
La critica al deismo
non è possibile una dimostrazione razionale dell’esistenza di Dio.
Kant riteneva che ciò che l’uomo può conoscere con certezza, scientificamente, è
dato dall’elaborazione dei dati dell’esperienza attraverso le proprie strutture
mentali. Siccome né la metafisica né la teologia partono da dati relativi
all’esperienza, esse non possono essere considerate scienze.
Il deismo e la teologia razionale, che credevano possibile dimostrare l’esistenza
di Dio, sono perciò per Kant privi di valore. Secondo Kant, infatti, non è
LE CRITICHE ALLE PROVE
possibile dimostrare l’esistenza di Dio; per questo egli si propone di confutare le
___________________________________
prove che avrebbero dovuto dimostrarne l’esistenza.
Tra queste prove la prova a priori deduce l’esistenza di Dio non facendo ricorso
all’esperienza, ma dalla presenza nella nostra mente dell’idea dell’ente E L’________________________KANTIANO
perfettissimo. Se infatti nella nostra mente esiste l’idea di un ente perfettissimo
esso non può non esistere, in quanto la non esistenza lo renderebbe imperfetto.
Distinguendo criticamente tra piano della realtà e piano mentale, Kant obbietta
che non si può passare dal piano della possibilità logica a quello della realtà, in
quanto l’esistenza è qualcosa che possiamo constatare solo per via empirica e non
dedurre razionalmente. Infatti, per esempio, per quanto io possa rappresentarmi
nella mia mente 50 € perfettamente uguali a 50€ reali, non potrò mai di fatto
utilizzare i 50 € pensati.
Kant sottopone a critica anche le dimostrazioni a posteriori che partono dai dati
dell’esperienza. La prova cosmologica sostiene che, siccome possiamo constatare
tramite l’esperienza che tutte le cose che accadono hanno una causa, occorre
necessariamente ammettere, per non cadere in un regresso all’infinito, una causa
prima, incausata. Secondo Kant questo ragionamento fa un uso illegittimo del
principio di causa, poiché esso serve a connettere i fenomeni di cui abbiamo
esperienza e non questi con qualcosa che trascende l’esperienza stessa. Anche
questa prova, dunque, non distingue il piano della realtà dal piano metafisico,
facendo un salto ingiustificato dal piano reale, in cui vale il principio di causa, al
piano metafisico, in cui questo principio non può essere correttamente applicato.
Infine, la prova teleologica (la teleologia è la “scienza dei fini”) parte anch’essa
dall’esperienza per sostenere che se l’universo è ordinato, in quanto ogni cosa ha
un suo scopo,un suo fine, allora deve esistere colui che determina tale ordine.
Questa prova, oltre a passare anche lei illegittimamente dall’ordine dei fenomeni
osservabili a un ordine superiore, dimentica, secondo Kant, che l’ordine della
natura potrebbe essere una conseguenza delle stessi leggi naturali o che l’ordine
dell’universo appare tale solo in relazione ai nostri parameri mentali e non già in
assoluto. In ogni caso in questo modo si potrebbe dimostrare l’esistenza di
qualcosa che causa l’ordine, ma non necessariamente che lo crei.
7
Per la vita e le opere di Kant vedi “11 – La filosofia moderna: la giustificazione del sapere scientifico e la concezione
della realtà”.
10
LE CRTITICHE ALLE PROVE DELL’ESISTENZA DI DIO:
tutte le prove operano un passaggio illegittimo da ________________________________al _________________________________
- a priori : al concetto di ente perfettissimo non può mancare l'esistenza
critica: _____________________________________________________________________________________________________
- cosmologica: _______________________________________________________________________________________________
critica:_____________________________________________________________________________________________________
- teleologica:_________________________ ________________________________________________________________________
critica:_____________________________________________________________________________________________________
Con la confutazione delle prove dell’esistenza di Dio Kant non ha voluto negare
l’esistenza di Dio (ateismo), ma piuttosto mettere in discussione la possibilità di
giungere a una sua dimostrazione razionale. Di conseguenza Kant non è ateo ma
agnostico, in quanto pur non negando l’esistenza di Dio ritiene che la ragione
umana non possa giungere a darne una dimostrazione.
Secondo Kant infatti, se Dio non può costituire una certezza razionale, la sua
esistenza può ritenersi una ragionevole speranza, fondando quest’ultima sulla
nostre esperienza morale. Nonostante questa prospettiva Kant rovescia il rapporto
religione-morale che era tale per cui l’intera tradizione occidentale, compresi i
deisti (vedi la condanna dell’ateismo), aveva ritenuto essere la religione a fondare
la morale.
Kant, infatti, ritiene che una morale fondata sull’esistenza di Dio sia una falsa
morale in quanto è una morale eteronoma, ovvero una morale fondata su
La critica alle morali _________________
qualcosa di diverso dal soggetto.
Egli polemizza contro tutte le morali eteronome, fondate su qualcosa di esterno,
di diverso dalla ragione del soggetto, ad esempio, sull’educazione ricevuta, sulla
società o su Dio.
D’altra parte la morale non può nemmeno essere determinata da motivi interni
all’uomo, ma non dipendenti dalla sua ragione, come il piacere fisico o il
benessere affettivo.
In tutti questi casi la morale è condizionata al raggiungimento di uno scopo
esterno o interno e si esprime sotto forma di un comando ipotetico del tipo : se
vuoi …. devi. Ad esempio se vuoi essere gradito devi essere educato o se vuoi
essere promosso devi studiare, ecc…
Secondo Kant tale tipo di comportamento, dal momento che subordina il
comportamento alla promessa di un vantaggio, non può essere considerato
morale.
LA CRITICA ALLE MORALI _________________
A - se morale fondata su ____________________________________ allora è una morale _________________________ perché
fondata su ______________________________________________________
B - se morale fondata su ____________________________________ allora è una morale _________________________ perché
fondata su ______________________________________________________
A e B morale condizionata _____________________________________________________________________________________
si esprime con un _________________________________: se _________ …….. _______________
Egli ritiene che per essere tale la morale debba essere autonoma, ovvero fondata
11
sulla ragione del soggetto e, contemporaneamente, indipendente dai sentimenti,
dai bisogni e dagli interessi dei singoli, perché solo in questo modo la morale
acquista i caratteri che gli sono propri di assolutezza e universalità.
L’opposizione tra morale e natura umana, che tende a negarne l’assolutezza e
l’universalità, appare a Kant costitutiva della vita morale. Infatti se l’uomo fosse
un essere tutto e solo razionale, egli seguirebbe senza grandi difficoltà i dettami
della ragione anche nella vita pratica. Ma l’uomo non è tutto ragione: è anche
sensibilità (corpo); e la sensibilità lo sollecita coi propri moventi e interessi.
Ora, proprio questa natura duplice e contraddittoria dell’essere umano
costituisce un presupposto della vita morale: un uomo tutto ragione si
limiterebbe infatti ad attuare meccanicamente e dunque amoralmente i principi
razionali relativi al suo agire pratico. Però è anche vero che, data tale natura, se
la morale deve essere intesa (e per Kant lo deve essere indubitabilmente) come
realizzazione pratica di principi strettamente razionali e universali, essa deve
configurarsi come agire indipendentemente, anzi contrario rispetto alle pulsioni
(non-razionali e non-universali) dell’uomo in quanto ente sensibile. Ma allora tale
tipo di agire, intendendo porre in essere principi non elaborati spontaneamente
da queste ultime (le quali si comporterebbero in modo egoistico ed edonistico)
dovrà costituirsi come morale prescrittiva, come morale normativa, come una
morale del dovere. In altre parole, la ragione, sola fonte dei principi propriamente
morali, esprime tali principi sotto forma di leggi, anzi (come li chiama Kant) di
imperativi categorici che ordinano un ben preciso genere di comportamenti.
Gli imperativi morali, proprio perché assoluti, devono essere imperativi
categorici determinando un comportamento che è tale incondizionatamente,
assumendo quindi la forma: devi …. perché devi. Questo imperativo comanda
quindi il dovere per il dovere, in quanto il dovere deve essere assolto perché è
tale, e non per altri scopi.
Se non condizionata, la morale risulta assoluta, e questo è il presupposto perché
possa essere considerata universale, cioè condivisa da tutti. Infatti, mentre un
imperativo ipotetico risulta valido esclusivamente per coloro che vedono un
effettivo vantaggio nel fine da raggiungere, un imperativo categorico, non
avendo alcun legame con un fine, può essere condiviso da tutti.
In quanto universale e assoluto, l’imperativo categorico non può concretizzarsi
nel prescrivere comportamenti particolari ma riveste un carattere puramente
formale. Esso, infatti, non dice che cosa si deve fare, ma come si deve agire
affinché l’azione possa essere considerata morale.
Proprio per questo suo carattere formale l’imperativo categorico deve limitarsi a
imporre la generalizzabilità del comportamento, ovvero a prescrivere di agire
secondo una massima che vale per tutti. In altri termini, l’imperativo categorico è
quel comando che prescrive di tener sempre presenti gli altri e che ci ricorda
che un comportamento risulta morale solo se, e nella misura in cui, supera il test
della generalizzabilità, ovvero se la sua massima pare universalizzabile. Ad
esempio, chi mente compie un atto chiaramente immorale, poiché qualora
venisse universalizzata, adottata da tutti, la massima dell’inganno i rapporti
umani diventerebbero impossibili.
Kant ha presentato l’imperativo categorico sotto altre due forme. La prima di queste
identifica il comportamento generalizzabile con un comportamento che tende a
valorizzare l’umanità presente nella propria persona e in quella degli altri, dal
momento che tale valorizzazione costituisce lo scopo stessa della morale.
Infine, l’ultima formulazione dell’imperativo categorico ricorda che occorre agire in
modo che la volontà sia sottoposta alla ragione, infatti, poiché la razionalità si
identifica con l’essenza dell’uomo stesso, obbedendo alla ragione l’uomo non
obbedisce che a se stesso.
La morale kantiana è pertanto un’etica dell’autonomia, nella quale l’uomo,
attraverso la ragione, dà a se stesso la propria legge. Viceversa, ogni
comportamento in cui la volontà sia determinata dalla sensibilità, o comunque
LA MORALE FONDATA SULLA RAGIONE
DELL'UOMO: LA MORALE ________________
12
da moventi non esclusivamente razionali (come accade negli imperativi
ipotetici, in cui la ragione è piegata a un fine soggettivo dell’individuo), è
espressione di eteronomia, poiché l’uomo subisce su di sé l’azione di qualcosa
(compresa la sensibilità) che non coincide con la propria essenza.
LE CARATTERISTICHE DELLA MORALE AUTONOMA:
1 fondata sulla ragione
2 ____________________________________________________________________________________________________________
3 del dovere, incondizionata per cui è
_____________________ e ___________________
si esprime con imperativi __________________________( devi perchè __________)
4 _______________ impone la ________________________________ del comportamento
Le tre forme dell’imperativo ____________________: il comportamento per essere morale deve
1 - essere universalizzabile
2 - ____________________________________________________________________________________________
3 - ____________________________________________________________________________________________
I POSTULATI PRATICI
Dal fatto che esiste una legge morale incondizionata, assoluta e universale Kant
pensa di poter trarre una serie di conclusioni che chiama postulati pratici.
Postulati in quanto, come per la matematica, sono indimostrabili, ma vengono
accolti per poter rendere evidenti alcune dimostrazioni e accettarne le
conclusioni. Pratici in quanto non sono oggetto di una conoscenza scientifica,
ma derivano dall’esigenze del comportamento pratico e quindi della morale in
quanto deputata a regolarlo.
Kant parte dall’osservazione che gli uomini non solo tendono ad essere virtuosi
ma anche ad essere felici. La congiunzione di virtù e felicità, che Kant identifica
nel sommo bene, non è però raggiungibile sulla terra, infatti non sempre i giusti
sono felici e non sempre l’essere felici richiede la virtù.
Per Kant non è possibile individuare una soluzione al problema se non
ammettendo alcuni postulati che, non essendo oggetto della nostra esperienza,
non sono razionalmente fondati.
Tali postulati sono l’esistenza dell’al di là, l’immortalità dell’anima e l’esistenza
di Dio. Infatti, se sulla terra non è possibile coniugare felicità e virtù, possiamo
allora sperare nell’esistenza di un mondo dell’al di là in cui sia possibile
realizzare ciò che non è possibile nell’al di qua, cioè la compresenza di virtù e
felicità.
Ammessa la necessità di postulare la vita eterna per raggiungere il sommo bene
diventa ragionevole ammettere gli altri due postulati. L’immortalità dell’anima
affinché possa partecipare alla vita eterna e l’esistenza di Dio che, in quanto
volontà onnipotente, faccia corrispondere la felicità al merito.
Oltre a questi tre postulati, Kant ne ammette un altro, ovvero la libertà dell’uomo.
Essa viene ammessa in quanto condizione stessa della morale, poiché questa si
realizza solo a condizione che il comportamento sia libero.
Questi postulati che ci portano a pensare Dio come una ragionevole speranza, non
hanno valore conoscitivo, non possono essere ritenuti certezze assolute. Infatti, se i
postulati fossero delle certezze assolute comunque intese, la morale scivolerebbe Postulati = No _______________________
immediatamente verso l’eteronomia e sarebbe nuovamente la religione a
fondare la morale. Rovesciando il modo tradizionale di intendere il rapporto tra se ____________________________ allora
morale e religione, Kant sostiene invece a chiare lettere che non sono le verità
religiose a fondare la morale, bensì la morale, sia pur sotto forma di postulati, a _________________ fonda ____________
13
fondare le verità religiose. In altri termini, Dio, per Kant, non sta all’inizio e
alla base della vita morale, ma eventualmente alla fine, come suo possibile
completamento. In altre parole ancora: l’uomo di Kant è colui che agisce seguendo
solo il dovere per il dovere, con, in più, la ragionevole speranza nell’immortalità
dell'anima e nell’esistenza di Dio.
La filosofia di Kant ha dunque contribuito sia alla valorizzazione del soggetto sia
al processo di laicizzazione della cultura. Infatti egli ha, da un lato, dimostrato la
possibilità di giustificare la fondatezza delle conoscenze scientifiche sulla base
delle strutture mentali del soggetto e della morale sulla sola ragione umana.
Dall’altro ha separato la morale dalla religione, fondando quest’ultima sulla
prima e non viceversa.
La morale pur fondata sulla ragione dell’uomo conserva, agli occhi di Kant,
comunque un valore assoluto e universale, caratteristiche che una parte
significativa della filosofia dell’Ottocento e del Novecento tenderanno a rifiutare,
scoprendo le dimensioni storiche dell’uomo e della morale.
Invece
________________ fonda _____________
Dio ______________________________
I contributi di Kant alla filosofia moderna:
IN SINTESI:
deismo: il Dio della _________________________________
Spinoza: Dio = _______________
Pascal: Dio come risposta _________________________________________________
atei: l’origine ______________ (politica o dalle paure) della religione
Kant: la religione come ____________________________
14
16 - LA FILOSOFIA MODERNA: L’EMERGERE DELLA SOGGETTIVITÀ
15 – M. Foucault “La rimozione della follia e la costruzione del soggetto”
L’emergere della soggettività nella filosofia moderna
1.0 La Rivoluzione scientifica: il soggetto e il dominio
1.1 Scienza, tecnica e dominio del mondo
1.2 Bacone: la moderna utopia
1.3 Cartesio: gli artefici che ci rendono padroni della natura
1.4 L’emergere della soggettività e altri fattori storico-culturali
2.0 Il soggetto nella filosofia moderna
2.1 Il ruolo del soggetto nel processo conoscitivo
2.1.1 Cartesio
2.1.2 Kant
2.1.3 Gli empiristi
2.2 La dimensione razionale del soggetto
2.2.1 Le caratteristiche del soggetto cartesiano
2.2.2 Il dualismo cartesiano e la tradizione occidentale
2.2.3 Le conseguenze del dualismo cartesiano: l’opposizione
ragione/follia e il disciplinamento della società
3.0 Dalla centralità di Dio alla centralità dell’uomo
3.1 La nuova dimensione del soggetto: l’eticità
3.2 L’abbandono del piano teologico
1.0 La Rivoluzione scientifica: il soggetto e il dominio
L’emergere della centralità del soggetto nella riflessione filosofica appare
strettamente connesso ad altre importanti novità che appaiono anch’esse tra il
Seicento e il Settecento e saranno destinate a caratterizzare la società
contemporanea. Tra queste innanzitutto lo sviluppo della tecnica, consentito dalla
rivoluzione scientifica, che ha radicalmente cambiato il rapporto uomo-mondo.
Infatti, il mondo che prima rappresentava una potenza alle cui leggi si doveva
ubbidire è diventato un oggetto da dominare, un insieme di cose a disposizione
dell’uomo. Evidentemente anche l’uomo antico o quello medioevale tentavano di
controllare, ad esempio, il corso delle acque, ma le loro tecniche non si
promettevano che di perfezionare la natura entro i suoi stesi limiti. Nell’epoca
moderna, invece, il rapporto uomo-mondo è radicalmente cambiato, il mondo da
potenza estranea è diventato un oggetto che vale in quanto si può utilizzare. Ed è
proprio contemporaneamente alla riduzione del mondo a oggetto che l’uomo
occidentale ha preso coscienza di essere il soggetto di questo dominio.
La consumazione di questo processo, che inizia il suo sviluppo agli inizi del mondo
moderno, è l'epoca in cui viviamo, quella che Heidegger (1889-1976) chiama età della
tecnica e che la scuola di Francoforte (anni ’30-’60 del Novecento) chiama età del
capitalismo avanzato. Nel nostro tempo la natura diventa fino in fondo un
insieme di enti disponibili per il soggetto; se è vero che noi abbiamo davanti una
realtà disponibile senza una fisionomia autonoma, ne deriva che ci sentiamo liberi di
utilizzarla secondo i nostri progetti. Secondo Marx (1818-1883) l'uomo moderno è
libero, cioè emancipato, perché nella natura non vede più nulla di sacro; essa è solo ciò
L’EMERGERE DELLA
SOGGETTIVITÀ
LA RIVOLUZIONE SCIENTIFICA: IL
SOGGETTO E IL DOMINIO
15
di cui si può disporre.
L'esigenza del superamento di un sapere puramente formale e verbale, a favore di un altro che
renda l'uomo padrone della natura, emerge già con chiarezza dal progetto di riforma del sapere
sia di Cartesio che, in maniera ancora più chiara, di Bacone (1561-1626)8.
Nel primo Libro del “Novum Organum” Bacone considera l'uomo ministro e
interprete della natura: «La scienza e la potenza umana coincidono, poiché l'ignoranza della causa impedisce la produzione dell'effetto». Si stabilisce una
connessione necessaria tra conoscere e operare, mentre nella scienza antica, quella
aristotelica, la conoscenza aveva un valore solo contemplativo: per il sapiente la
conoscenza era un fine e non un mezzo, poiché la natura era considerata
immutabile e l'uomo non poteva fare altro che contemplare il suo ordine. Per
Bacone, la natura può essere dominata soltanto attraverso il metodo della
interpretazione che, penetrando fin nelle regioni più profonde e remote di essa,
giunge a scoprire le sue leggi, che Bacone chiama assiomi. Ora, perché tale metodo
abbia successo, è necessario prima di tutto liberare la mente umana dagli idoli,
dai pregiudizi che impediscono la visione delle cose così come sono in se stesse e
rendono vani gli sforzi di dominare la natura e di utilizzarla a vantaggio dell'uomo.
Una volta che l'uomo, «emancipato e reso adulto» dal nuovo metodo induttivo,
avrà purificato il proprio intelletto dai pregiudizi che ancora lo accecano, potrà
riappropriarsi del suo destino e imporre di nuovo il dominio sulla natura. L’uomo
infatti, fa notare Bacone alla fine del “Novum organum”, è caduto dal suo stato di
innocenza e di dominio sulle creature solo in seguito al peccato originale.
Entrambe le condizioni, tuttavia, si possono ancora ricostituire: «la prima, con la
religione e la fede; la seconda, con le arti e le scienze».
Con la fede l'uomo può riguadagnare il suo stato di innocenza, dal quale è decaduto
in seguito al peccato originale; con le scienze e le arti, può riconquistare il suo
dominio sulla natura. Nonostante la cacciata dal paradiso terrestre, infatti, «il creato
non è diventato del tutto e per sempre ribelle». Quando Dio disse ad Adamo che
avrebbe dovuto guadagnarsi il pane con il sudore della fronte, lasciò intendere
che soltanto con la fatica, con l'arte e con la scienza, e non con le oziose dispute
verbali o con gli improduttivi riti magici, il creato potrà di nuovo venire sottomesso
dall'attività umana.
Con Bacone la moderna Utopia assume le sembianze della tecnica. Nell’opera
incompiuta “La nuova Atlantide” viene descritta un'isola sconosciuta i cui
abitanti portano a compimento il progetto di una scienza diretta a realizzare il
dominio tecnico dell'uomo sulla natura. In questo vero e proprio paradiso della
tecnica, nel quale si realizza compiutamente il regno degli uomini sulla natura, i
«nuovi santi» sono i grandi scienziati e inventori, ossia i «benefattori
dell'umanità». Le «sacre reliquie» sono le invenzioni che rendono più felice la vita
dell'uomo.
Il filosofo-scienziato non è più il sapiente che persegue l'ideale aristotelicoscolastico della "vita contemplativa" rivolta a conoscere il reale. Egli si fa
banditore di un progetto che prevede l'uso delle forze della natura per realizzare
gli scopi umani. Lo stesso progetto anima anche il pensiero di Cartesio il quale
nella sesta parte del “Discorso sul metodo”, sottolinea la superiorità della sua
concezione matematico-meccanica della natura nei confronti di quella teleologico-sostanzialistica della tradizione aristotelico-scolastica. Le leggi matematicomeccaniche sono tali, scrive Cartesio, da «renderci padroni e possessori della
natura», tali cioè da consentire all'uomo, attraverso l'invenzione di una infinità
di "artifici", sia di godere senza alcuna pena «dei frutti della terra e di tutte le
comodità», sia di combattere e sconfiggere un'infinità di malattie, corporee e
spirituali, e forse anche «l'indebolimento della vecchiaia».
L’emergere della centralità del soggetto è da collegarsi anche alla formazione di
un nuovo modello di società, quello capitalista-borghese lo stesso che si è fatto
8
Per la vita e le opere di Bacone vedi pag. 22
16
promotore delle sviluppo tecnico-scientifico, che impone nuovi valori, dalla
proprietà privata alla libertà individuale, e con essi una nuova concezione
dell’individuo tesa a svincolare il soggetto dai limiti che ad esso erano posti
dalla società tradizionale (vedi la lettura Fromm “Il significato psico-sociale delle dottrine di
Lutero e Calvino”). Nella mentalità medioevale, come abbiamo detto, il singolo si
identificava completamente con l’organizzazione sociale a cui apparteneva (per il
monaco il suo ordine, per gli artigiani e i mercanti la corporazione, per i
contadini il villaggio), ma già con il Rinascimento si era andata affermando una
concezione dell’individualità come qualcosa di diverso dal gruppo sociale di
appartenenza. Andavano nella direzione di promuovere una nuova immagine del
soggetto anche altri fenomeni, di cui pure abbiamo già parlato, quali
l’individualizzazione dell’intellettuale, il rapporto soggettivo con la parola,
insieme con l’interiorizzazione della cultura favoriti dalla diffusione dei libri
stampati, o il modo in cui si tentava di separare i sentimenti dalla partecipazione
collettiva per farli diventare un sentire individuale, privato (vedi la lettura di
Guarracino “La formazione dello stato moderno” a proposito della vendetta) e più in generale,
come vedremo, l’intero processo di disciplinamento.
IL SOGGETTO NELLA FILOSOFIA
2. Il soggetto nella filosofia moderna
MODERNA
La filosofia moderna e la centralità del
Benché gia durante il Rinascimento fossero state elaborate le prime concezioni
naturalistiche dell’uomo (vedi, ad esempio, Giordano Bruno che individuava ciò __________________________ per:
che caratterizza l’uomo non più nel suo destino ultraterreno, bensì in ciò che esso
è riuscito a costruire con le sue mani e la sua intelligenza che hanno fatto di lui 1 _________________________________
un organismo in grado di lavorare e produrre “meravigliose invenzioni”) la 2 _________________________________
centralità del soggetto, sul piano filosofico, è emersa solo con la filosofia
moderna, poiché essa abbandonando progressivamente il piano teologico ha
relegato Dio a coprire un campo al di fuori dell’umano (vedi deismo), finendo
IL RUOLO DEL SOGGETTO NEL PROCESSO
per porre al centro di almeno due rilevanti tematiche, il problema della
conoscenza e quello delle istituzioni politiche, il ruolo del soggetto.
CONOSCITIVO
Per Hegel (1770-1831) la filosofia moderna prende l’avvio dal cogito (Io penso)
di Cartesio, poiché esso esprime l’emergere della tesi secondo la quale è il
soggetto che fonda la conoscenza; in altri termini, il criterio per determinare il
vero e il falso non sta fuori di noi ma dentro di noi, nel pensiero e non nelle
“sostanze”, come per secoli aveva sostenuto la filosofia tradizionale (vedi “La
filosofia moderna e la giustificazione del sapere scientifico”).
Già il fatto che la messa in dubbio delle conoscenze e la ricerca di un loro
fondamento sicuro che seguirà siano descritte da Cartesio in prima persona, come
un’esperienza soggettiva (vedi anche lettura “Che cos’è la filosofia - Cartesio”), rivela
chiaramente la nuova prospettiva che Cartesio vuole assumere orientata a far
emergere la centralità del soggetto.
Il primato della soggettività, sul piano teorico, è invece costituito dal fatto che il
dubbio iperbolico (il “genio maligno”) viene definitivamente sconfitto dalla
certezza dell’ io penso. Si può dubitare della corrispondenza fra le idee e le cose
così come sono in se stesse (il Sole come mi appare in cielo non corrisponde al
Sole come è in se stesso), si può dubitare della possibilità di distinguere il
sogno dalla realtà, ma non si potrà mai dubitare del fatto che se penso sono,
ovvero esisto in quanto cosa che percepisce e pensa. L'io del cogito diviene in tal
modo il soggetto per eccellenza, il fondamento indiscusso della verità, alla luce
del quale soltanto è possibile ricostruire il rapporto con la realtà, e quindi
riguadagnare la verità intesa come adeguazione dell’intelletto alle cose. D'ora in
poi qualunque idea si presenti con la stessa evidenza del cogito sum dovrà
essere ritenuta vera, ossia adeguata al proprio "oggetto".
17
Il cogito è sempre formulato in prima persona: questo è essenziale al suo
successo perché solo io in prima persona posso essere certo di dubitare e quindi di
esistere. Se dico "Paolo dubita" o anche "Descartes dubita" ciò non comporta che
Paolo o Descartes stiano effettivamente dubitando: come faccio a esserne certo?
Potrei sbagliarmi. Oppure potrebbero ingannarmi deliberatamente. Potrebbero
dirmi "stiamo dubitando!" e assumere un'espressione perplessa, ma potrebbero
fingere. Se invece sono io stesso che dubito, allora sono certo di dubitare e
quindi posso essere certo di esistere. Il cogito, insomma, funziona solo se è
vissuto in prima persona.
Il nuovo ruolo del soggetto da un punto di vista filosofico emerge anche nelle regole
del metodo cartesiano. Infatti, anche la prima regola attribuisce al soggetto una
posizione di assoluta preminenza ai fini della costituzione della conoscenza,
trascurando completamente l'apporto dell'oggetto, e individua la conoscenza vera solo
grazie a segni impressi sul soggetto: mancanza di dubbio, chiarezza, distinzione.
Dalla centralità antica e medievale dell'essere e della sostanza e quindi
dell’oggetto, si passa con Cartesio ad una centratura sul soggetto che Kant
contribuirà potentemente a rafforzare, poiché a differenza dei suoi predecessori
razionalisti, che ancora ricorrevano a Dio come garante della corrispondenza fra
pensiero e realtà, Kant pone il problema del fondamento della corrispondenza fra
l’intelletto e la cosa in termini completamente nuovi. Soltanto l'unione delle forme a
priori, che scaturiscono dall'intelletto, con gli oggetti dati dalla sensibilità, assicura ai
suoi occhi la verità delle conoscenze.
La ragione moderna non ha più bisogno di legittimare il proprio procedere conoscitivo
ricorrendo alla natura esterna o al Dio trascendente; né sarà necessario che venga
"istruita", come uno scolaro, dalla natura o da Dio, ma piuttosto, in qualità di
giudice, «costringe i testimoni», vale a dire i fenomeni naturali, «a rispondere
alle domande che rivolge loro», in basa al presupposto che essa delle cose conosce
soltanto ciò che anticipatamente (a priori) vi pone. È questo l'aspetto fondamentale
di quella «rivoluzione nel modo di pensare» che Kant indicherà come rivoluzione
copernicana. In virtù di essa non è più la conoscenza umana a doversi regolare
sugli oggetti, come avviene per la metafisica classica da Aristotele a Tommaso
d'Aquino, ma all'opposto sono gli oggetti a doversi regolare sulla conoscenza umana e
sulle sue "leggi".
Anche nella tradizione empirista anglosassone assistiamo allo stesso
spostamento del focus della filosofia dalla realtà al soggetto, infatti anche per
essa non ci si chiede più come è fatto il mondo, ma quali sono gli strumenti
conoscitivi del soggetto conoscente, per individuare che cosa è possibile
conoscere con tali strumenti. Prospettiva che emerge bene, ad esempio,
nella presentazione del “Saggio sull'intelligenza umana” di Locke nella quale
egli ricorda che l'idea di comporlo nacque durante una disputa tra amici su
argomenti religiosi. Di fronte alla diversità di opinioni esistente, ci si chiese se
l'intelligenza umana fosse in grado di conoscere quel tipo di argomenti e quali
ne fossero in generale le possibilità (vedi anche lettura “Che cos’è la filosofia –Locke).
LA DIMENSIONE RAZIONALE DEL
SOGGETTO
2.2 La dimensione razionale del soggetto
La coincidenza del _______________ con
Con Cartesio e l’inizio della filosofia moderna la dimensione del soggetto
appare coincidere con la sola dimensione razionale. Infatti, Cartesio decidendo
di sospendere il giudizio e di non accettare per vera alcuna conoscenza, finchè
non fosse stato superato il dubbio, decide contemporaneamente che tale
sospensione non è consentita nella vita pratica, dove mentre si dubita occorre
pur continuare a vivere e quindi regolarsi su principi accettati. Egli decide
quindi di regolarsi nella sua vita pratica ispirandosi a un prudente conformismo
in fatto di opinioni politiche, religiose e comportamentali, seguendo le leggi, le
norme comportamentali e la religione tradizionale, perseverando con
la ______________________ in Cartesio:
1 - il _______________________ politico
e ___________________: l’accettazione
dell’ingerenza di __________ e _________
sui _____________________ dell’ ______
_________________
18
risolutezza nella decisione presa per quanto opinabile e incerta9. L’aperta
dichiarazione di conformismo e conservatorismo contenuto in tali regole vuole
evitare le profonde conseguenze che avrebbe avuto l’applicare il suo
razionalismo allo studio dei comportamenti umani, campo in cui Cartesio
decide di accettare l’ingerenza delle autorità esterne (Chiesa e Stato) sul
soggetto che invece in campo scientifico è continuamente richiamato alla
necessità della chiarezza e dell’evidenza soggettiva.
Il soggetto cartesiano, inoltre, è un soggetto neutro, capace di dominare le proprie
passioni, , in grado di gettare uno sguardo "obiettivo" sulla realtà; si tratta del
soggetto impersonale e astorico della conoscenza scientifica, del soggetto ridotto
a cogito, caratterizzato unicamente dalla ragione «la sola cosa che ci rende
uomini e ci distingue dalle bestie», come Cartesio scrive nel Discorso sul
metodo. Anche in questo caso la soluzione cartesiana appare come la più vicina
alla tradizione in quanto ripropone l’idea del dualismo anima-ragione e corpopassioni, di cui U. Galimberti10 ha scritto che: “Se davvero platonismo e
cristianesimo sono le due grandi correnti di pensiero che hanno dato vita e volto
all'Occidente, la mortificazione del corpo da loro inaugurata ha trovato il suo
proseguimento e la sua radicalizzazione nel sistema delle scienze moderne che Cartesio
ha inaugurato e in cui ancora oggi, senza residui, l'Occidente si identifica. Per fondare
questo mondo oggettivo e astratto Cartesio ha dovuto mettere tra parentesi la vita
pre ed extra-scientifica e quindi tutte quelle formazioni di senso che si fondano
sull'esperienza corporea attraverso cui il mondo ci è direttamente alla mano. L'io
dell'uomo sensibilmente intuitivo della vita quotidiana venne spezzato in anima e
corpo. Il corpo, da soggetto che esplora con i suoi sensi il mondo, venne risolto in oggetto,
relegato nella “cosa estesa”, e inteso, al pari di tutti gli altri corpi, in base alle leggi fisiche
che presiedono l'estensione e il movimento. L'anima, sottratta ad ogni influenza
corporea, venne pensata come puro intelletto, come ego intersoggettivo nelle cui
cogitazioni, rigorosamente eseguite con metodo matematico, c'è ogni possibile senso
del mondo e di ogni io personale e soggettivo che abita il mondo. Da allora ogni
produzione di senso non fu piú nell'originario rapporto dell'uomo col mondo, ma l'uomo
e il mondo ricevettero il loro senso dalle cogitazioni dell'ego che complessivamente
andavano componendo la nuova scienza. Nata dall'uomo nel mondo, la scienza s'è
cosí trovata con Cartesio a dimenticare la propria origine, e, per effetto della sua
impostazione metodologica, a porsi come unica soggettività in grado di fissare il senso
esatto di quegli oggetti che erano per essa l'uomo e il mondo….
Tra l'io umano che abita il mondo e l'ego cogito che ne fissa esattamente le
misure, attraverso un'operazione idealizzante che non ci mette a contatto con le cose,
ma con le loro forme matematiche, c'è una sola differenza: l'io umano abita un
B – la capacità del soggetto ____________
___________________________________
e il dualismo ________________________
LE CONSEGUENZE DEL DUALISMO
CARTESIANO
(U. GALIMBERTI)
Platonismo, cristianesimo, scienza moderna
(Cartesio)  la mortificazione __________
Cartesio:
il corpo da ______________________ che
__________________________ il mondo a
_____________ tra gli altri_____________
l’anima = puro _______________ che con
metodo ________________ trova il senso
del ________________ e dell’_______
il senso non deriva più dal _____________
_______________________
9
Queste sono le prime due regole di una morale che Cartesio definisce come provvisoria ma a cui
finirà per conferire progressivamente un valore definitivo.
10
Umberto Galimberti (1942), filosofo italiano che indaga il rapporto che effettivamente sussiste tra
l’uomo e la società della tecnica. Galimberti sostiene che nelle condizioni attuali l’uomo non è più al
centro dell’universo come intendeva l’età umanistica: tutti i concetti chiave della filosofia
(individuo, identità, libertà, salvezza, verità, senso, scopo, natura, etica, politica, religione, storia)
dovranno essere riconsiderati in funzione della società tecnologica attuale. Secondo Galimberti la
tecnica è il tratto comune e caratteristico dell’occidente. La tecnica è il luogo della razionalità
assoluta, in cui non c’è spazio per le passioni o le pulsioni, è quindi il luogo specifico in cui la
funzionalità e l’organizzazione guidano l’azione.
Noi continuiamo a pensare la tecnica come uno strumento a nostra disposizione, mentre la tecnica è
diventata l’ambiente che ci circonda e ci costituisce secondo quelle regole di razionalità (burocrazia,
efficienza, organizzazione) che non esitano a subordinare le esigenze proprie dell’uomo alle
esigenze specifiche dell’apparato tecnico. Tuttavia ancora non ci rendiamo conto che il rapporto
uomo-tecnica si sia capovolto, e per questo ci comportiamo ancora come l’uomo pre-tecnologico che
agiva in vista di scopi iscritti in un orizzonte di senso, con un bagaglio di idee e un corredo di
sentimenti in cui si riconosceva. Ma la tecnica non tende a uno scopo, non promuove un senso, non
apre scenari di salvezza, non redime, non svela verità: la tecnica funziona e basta.
La citazione è tratta da “Psichiatria e fenomenologia”, 1979, Feltrinelli
19
corpo, l'ego cogito è pura mente..
Preparato dall'anima platonica, il cui unico desiderio era quello di liberarsi dal corpo e
dal mondo, l'ego cogito di Cartesio è ciò che resta di un'astrazione preliminare che
prescinde da tutto ciò che è corporeo e mondano; è un io decorporeizzato e
demondanizzato nelle cui funzioni razionali è il senso del mondo e dei corpi che lo
abitano. Non è piú il mondo a dire di sé, ma sono le funzioni anticipanti dell'ego a dire che
cos'è il mondo; queste funzioni, che sono a loro volta il prodotto del metodo matematicoquantitativo adottato, producono oggetti ideali che valgono come norma per
l'interpretazione delle cose reali, per cui conoscere la natura non significa piú
osservarla ma ricondurre le differenze qualitative che essa offre a quell'indifferente
quantitativo che è l'indice matematico anticipato dalle funzioni dell'ego. Quest'indice
non è qualcosa di reale, ma è un polo ideale, determinabile a priori, che funge da norma
per il reale. …
Vien da pensare che l'Occidente, percorrendo i sentieri della. filosofia prima e della
scienza poi, non abbia inseguito altro scopo se non quello di difendersi dalla
multiformità della natura mediante l'uniformità dell'idea. Lo scopo forse è stato
raggiunto, ma al costo di profondissime lacerazioni che oggi non consentono piú
all'uomo di abitare il mondo e nel mondo di ritrovare se stesso. Non stiamo facendo
letteratura per difenderci dalla scienza. Il nostro intento è solo quello di sapere se oggi,
componendo le sezioni della scienza, l'uomo è ancora in grado di trovare l'unità da cui
risulta la sua vita. In caso diverso non resta che tornare all'origine o rassegnarsi al disagio
della lacerazione.”
Tra le lacerazioni prodotte dal dualismo cartesiano vi è sicuramente quella tra ragione e
follia come ha fatto osservare M. Foucault11 (1926-84), il quale ritiene che
l’identificazione tra uomo e ragione abbia comportato la messa fuori dal gioco di tutto
ciò che ad essa si oppone che diventa per definizione “sragione”, follia. Infatti, il potere
si sarebbe servito dell’identificazione operata dalla scienza moderna a partire dal cogito
cartesiano per giustificare “il grande internamento” da esso operato all’inizio dell’epoca
moderna. La tesi di fondo di Foucault è che “il grande internamento” – ovvero la
segregazione dei “diversi”, folli, vagabondi, mendicanti in asili di pazzi, case di lavoro o
prigioni che, come abbiamo visto, costituisce un aspetto essenziale del processo di
disciplinamento della società volto a omogeneizzare i comportamenti - altro non sia che
il segno di una loro criminalizzazione da parte della “ragione dominante” che, in ogni
discorso o comportamento che pretende di deviare dalle sue regole, scorge il pericoloso
delinearsi di un messaggio di ribellione.
Ad accomunare Riforma e Controriforma è, infatti, l'azione dei tribunali
dell'inquisizione, che si intensifica tra la seconda metà del XVI secolo e la prima del
secolo successivo nei confronti di ogni comportamento considerato deviante rispetto
all'ortodossia cristiana; l'accusa di stregoneria, strumento di disciplinamento sociale (e
la conseguente opera di repressione) si diffonde tra Cinquecento e Seicento in
Spagna, in Francia, nei Paesi Bassi, nell'Italia settentrionale, prima; poi in Gran
Bretagna, in Svezia e in Polonia. Accanto ai tribunali ecclesiastici, e in alcune zone in
sostituzione di questi, la repressione giudiziaria della stregoneria è portata avanti anche
dai tribunali secolari.
Tanto nell'Europa cattolica quanto in quella protestante vengono attuati
provvedimenti legislativi che rendono legittima la segregazione (accompagnata
dal lavoro coatto) di una quota consistente di emarginati in luoghi appositi. Il
bisogno di controllo e di dominio connesso al lento precisarsi e
consolidarsi degli apparati statuali allarga il campo dei comportamenti
criminosi: l'internamento segnala materialmente il rifiuto della comunità di
modelli considerati pericolosi e, nel contempo, mostra l'emergere di un nuovo
ordine etico, in cui il lavoro è assunto come valore centrale. Il pauperismo crescente
Io = mente + ____________
Io cartesiano = ___________
Metodo matematico
funzioni _____________
Oggetti _________
Interpretazioni_________
Scomparsa differenze _____
Dalla __________________ della natura
alla ______________________
dell’__________
Le ____________________ prodotte dal d
dualismo cartesiano
Ragione / ___________
Scienza:
Uomo = ________________
Potere: criminalizzazione del ___________
 folli, mendicanti, vagabondi
Il processo di ________________________
11
Michel Foucault, filosofo e saggista francese, ha dedicato gran parte della sua opera allo studio di
come sia andata definendosi nella cultura occidentale l’identità del soggetto (vedi lettura 16 –
Foucault “La rimozione della follia e la costruzione del soggetto”).
20
perde il suo carattere sacrale perché “nemico della dignità umana” e assume,
invece, una valenza di pericolosità e di ostilità sociale.
In questo modo osserva Foucault il moderno concetto di libertà individuale ha
come contraltare l’istituirsi di una società di sorveglianza che si serve del sapere
e di determinate istituzioni (dalla chiesa alla scuola, all’esercito, al carcere, al
manicomio, all’ospedale, alla famiglia) e delle comunicazioni sociali per
indirizzare il soggetto a una certa forma di autoconsapevolezza, ad agire secondo
regole che finiscono per cristallizzare nella mentalità collettiva 12. Il potere
assoggetta così l’individuo non solo nel senso di controllarlo ma soprattutto
vincolandolo alla propria individualità che è una delle possibili, poiché nasce
dalla rimozione di alcuni aspetti perché altri possano essere messi in risalto.
Infatti, l’attribuzione della razionalità quale qualità principale del soggetto ha
implicato la rimozione di tutta una serie di aspetti della personalità (sfere di
razionalità, sensibilità, realtà profonde) identificate come devianti, errori rispetto
al modello, che sono stati etichettati come follia. L’affermazione dell’equazione
normalità=razionalità si è accompagnata con l’imposizione da parte del potere
della reclusione dei folli e dei vagabondi e in seguito della medicalizzazione della
follia, con la creazione della psichiatria, e del lavoro coatto, con l’introduzione
delle work-house, vere antenate delle fabbriche moderne (vedi lettura n 10).
3. Dalla centralità di Dio alla centralità dell’uomo
Come abbiamo visto Cartesio affida al soggetto il compito di controllare con la
ragione le passioni, ma una ragione che in questo campo accetta anche ciò che può
essere opinabile e incerto e solo sorretto dalla tradizione, a una ragione che si lascia
guidare dall’autorità di Chiesa e Stato.
L’estensione delle dimensioni del soggetto anche all’eticità avverrà sul finire della
filosofia moderna con Kant agli occhi del quale qualsiasi morale fondata su
qualcosa di diverso dal soggetto, ad esempio sull’esistenza di Dio o sulle regole
sociali, è una falsa morale in quanto è una morale eteronoma. La morale
kantiana si presenta pertanto come un’etica dell’autonomia, nella quale
l’uomo, attraverso la ragione, dà a se stesso la propria legge. Viceversa, ogni
comportamento in cui la volontà sia determinata da moventi non esclusivamente razionali è espressione di eteronomia, poiché l’uomo subisce su di sé
l’azione di qualcosa (compresa, per Kant, la sensibilità legata al corpo) che
non coincide con la propria essenza (vedi pag.12).
Ritenendo che sia possibile fondare una morale che rimanga comunque
universale e assoluta a partire dal solo soggetto, Kant compie un altro decisivo
passo nel relegare Dio al di fuori dell’umano. Egli, infatti, può così sostenere che
non sono le verità religiose a fondare la morale, bensì la morale, sia pur sotto
forma di conoscenze non certe, a fondare le verità religiose. In altri termini,
Dio, per Kant, non sta all’inizio e alla base della vita morale, ma
eventualmente alla fine, come suo possibile completamento. In altre parole
ancora: l’uomo di Kant è colui che agisce seguendo solo il dovere per il dovere, con,
in più, la ragionevole speranza nell’immortalità dell'anima e nell’esistenza di
Dio.
Società di ______________________:
_____________________ + istituzioni
(famiglia, chiesa, scuola) + _____________
__________
Mentalità _______________
Autoconsapevolezza del ______________
vincolata dalla __________________
DALLA CENTRALITÀ DI DIO ALLA
CENTRALITÀ DELL’UOMO
12
Per quanto riguarda “la società di sorveglianza” vedi anche Prosperi “Tribunali della coscienza.
Inquisitori, confessori, missionari”, nonché per quanto riguarda il disciplinamento della società gli
altri articoli di Peter Burke “Il trionfo della Quaresima: la riforma della cultura popolare”, Carla
Russo “Mentalità e comportamenti religiosi nell’Europa cattolica” e Carlo Ginzburg "Folklore,magia
e religione".
21
In effetti, per molti versi l’emergere del ruolo centrale del soggetto avviene
contemporaneamente all’accantonamento della centralità di Dio e, quindi,
dell’abbandono del piano teologico che aveva caratterizzato la cultura europea
per un millennio.
In Hobbes (1588-1679)13 il processo che detronizzerà il creatore divino a favore di quello
umano è particolarmente evidente; infatti, scrive Hobbes nell’introduzione al
"Leviatano", l'uomo è in grado di imitare il potere creatore di Dio poiché: "...così come
Dio è in grado di produrre l'uomo naturale, l'uomo è in grado di produrre l'uomo
artificiale". Mentre Dio e uomo sono artefici, uomo naturale e uomo artificiale sono
artefatti; lo Stato è costituito per proteggere l'individuo dai rischi dello stato di
natura. I patti e i concordati sono come l’atto creatore di Dio, imitandolo l'uomo
produce la dimensione politica, mentre Dio, relegato a coprire un campo al di fuori dell'umano,
si deve tenere da parte. In Hobbes la produzione dell'uomo è posta sul modello del produrre
divino e viene così scatenata una concorrenza fra poteri creativi; per questo Hobbes è accusato
di ateismo. Sul finire dell'epoca moderna la lotta si risolve a favore della creatività umana; da
allora se l'uomo vuole essere pienamente soggetto, Dio non deve essere (da Marx, a
Nietzsche(1844-1900) a Sartre (1905-1980)). Hobbes, anche se non ne è pienamente
consapevole, introduce un'epoca nuova. Il principio teologico perde progressivamente peso e
significato parallelamente all'imporsi di altri principi; la sua funzione si depotenzia perché
Dio spiega sempre meno. Non serve più per giustificare lo Stato moderno, non orienta più gli
uomini e le loro azioni. Si continua a parlare dei poteri che Dio ha dato all'uomo; ma con
questi stessi poteri l'uomo si distacca da Dio.
VITA ED OPERE
Francis Bacon (Francesco Bacone, 1561-1626) nella rivoluzione scientifica ebbe un ruolo
che non fu quello di uno scienziato e neppure di un filosofo «puro». Come uomo politico
egli ebbe una vita travagliata e intrecciata alle alterne vicende del suo paese, l'Inghilterra, tra
la fine del XVI e l'inizio del XVII secolo. Lord guardasigilli e cancelliere sotto Giacomo I
Stuart, venne condannato per concussione alla prigione e all'allontanamento dai pubblici uffici
(1621); in seguito si ritirò a vita privata. A tali vicende egli fa corrispondere un impegno e
interessi di studio che lo avvicinano ai dotti del Rinascimento ma, allo stesso tempo, una
critica alla tradizione e la proposta di una nuova mentalità davvero «rivoluzionarla» nei
confronti della scienza e della tecnica.
Bacone è autore nel 1597 di una raccolta di Saggi, cui segue nel 1605 un'opera che denuncia
già dal titolo i suoi interessi: Il progresso del sapere, redatta in inglese per facilitarne la
divulgazione. La data centrale nella produzione scientifica di Bacone è tuttavia quella della
pubblicazione della prima parte del suo progetto enciclopedico, l'Instauratio magna, che
avviene assieme al Novum Organum nel 1620. Tre anni dopo è conclusa l'Historia naturalis che dovrebbe esserne parte. Bacone ci ha lasciato anche un importante frammento
che accoppia utopia scientifica e politica: La nuova Atlantide (1627).
L'insieme della riflessione di Bacone verte sul progetto di una Instauratio magna in cui
l'uomo stabilisce il suo dominio sulla natura attraverso lo sviluppo di un sapere adeguato:
tale progetto, pubblicato nel libro omonimo del 1620, prevede che la scienza sia anzitutto
conoscenza tecnica in grado di penetrare le leggi della natura, secondo i due motti per cui
«sapere è potere» e «la natura non si comanda se non obbedendole». Gli esiti sociali di
questa svolta vengono esposti in un breve scritto pubblicato postumo, La nuova
Atlantide (1627), in cui il filosofo immagina un paese governato e costituito da dotti dove si
opera «per estendere i confini dell'impero umano in ogni cosa possibile» attraverso ogni
sorta di ricerche e di invenzioni, dunque un vero e proprio «paradiso della tecnica».
Allo studio del metodo necessario all'Instauratio magna è invece dedicato il
Novum Organum (1620). Contrapposto fin dal titolo all'antico Organon aristotelico, Il
Novum Organum di Bacone propone di sostituire al sapere speculativo e deduttivo
13
Per quanto riguarda le teorie politiche le due opere principali di Hobbes sono: “De cive” (1641) e
“Leviathan”(1651). Per la vita e le opere di Hobbes vedi “14- La filosofia moderna e la politica”
22
della logica classica un nuovo sapere al servizio della tecnologia, incentrato sul metodo
sperimentale e induttivo (che muove quindi dall'esperienza ai principi, e non viceversa).
Blaise Pascal nacque nel 1623 a Clermont Ferrand da famiglia agiata, appartenente alla nobiltà
di toga. II padre Etienne, magistrato, coltivava numerosi interessi culturali. II figlio Blaise sembra
che abbia dimostrato, sin da piccolo, una notevole vivacità intellettuale, una sorta di "bambino
prodigio", e il padre, per favorirne il talento, trasferì la famiglia a Parigi. Fino al 1654, anno della
conversione definitiva al cristianesimo, la sua vita, a quanto dicono i biografi, rimase in bilico tra
religiosità e mondanità. Si parla di conversione definitiva perché, già nel 1646, avrebbe
aderito assieme a tutta la famiglia al giansenismo. Negli anni '40 sviluppa i suoi interessi
matematici, fisici e geometrici: nel 1640 pubblica il Trattato sulle coniche e
successivamente inizia a redigere il Trattato sulla pesantezza della massa d'aria e quello
Sull'equilibrio dei liquidi, che però verranno conclusi nel 1654 e pubblicati postumi. Le sue
ricerche matematiche ebbero anche delle applicazioni: Pascal è stato l'inventore, tra il 1642 e il
1645, del primo modello di macchina calcolatrice, la cosiddetta pascaline. In questo
periodo frequenta, a Parigi, il salotto di Madame de Sablé e diventa amico di svariati esponenti
dell'alta società. Questa vita, nella quale convivono scienza, religione e mondanità, si interrompe
nel 1654: durante una notte di novembre, come ha raccontato poi lo stesso Pascal, egli avrebbe
avuto un'esperienza mistica molto intensa, sentendosi chiamato a Dio. Da quel momento in poi,
concentrerà tutte le sue energie intellettuali e morali sul cristianesimo. Nel 1657 prende
posizione nella polemica teologico morale fra giansenisti e gesuiti, pubblicando le Lettere
provinciali, dove si schiera decisamente a favore dei giansenisti. In quegli stessi anni progetta
un'opera di vaste dimensioni, una Apologia del cristianesimo, che non riuscì a portare a termine.
Di questo progetto, rimane la testimonianza dei Pensieri, scritti a cominciare dal 1657 e
pubblicati dopo la morte. II testo, benché incompiuto, è considerato il capolavoro di Pascal.
Dal 1659, le sue condizioni di salute, già incerte, iniziano a peggiorare e nei 1662 muore a soli
trentanove anni.
Baruch Spinoza, sebbene nato e vissuto nei Paesi Bassi, dove nel XVII secolo vige più
che altrove una parziale tolleranza religiosa, ebbe una vita caratterizzata dai contrasti e dalle
persecuzioni per le proprie convinzioni filosofiche e teologiche. Nato nel 1632 da una famiglia ebraica portoghese emigrata in Olanda, Spinoza riceve un'educazione confessionale,
ma si forma anche con lo studio del pensiero cristiano, della cultura classica, di grandi
filosofi come Bacone, Cartesio, Hobbes. Il 1656 vede la sua cacciata dalla comunità ebraica
come eretico, da cui deriva la rottura dei rapporti con la famiglia e le sue attività
commerciali e la decisione di guadagnarsi da vivere come levigatore di lenti per
cannocchiali e microscopi.
La maggior parte degli scritti di Spinoza, e quasi tutti i più importanti, viene pubblicata solo
postuma. Tale è la sorte del Breve trattato su Dio, l'uomo e la sua felicità, composto nel
1660, del Tractalus de intellectus emendatione, scritto sotto forma di introduzione alla
filosofia e mai terminato, di un Tractatus politicus e della sua opera più famosa, composta e
rielaborata nel corso di tutta la vita: l'Ethica more geometrico demonstrata. Del resto
l'uscita nel 1670 in forma anonima del suo Tractatus theologico-politicus, dove vengono
esposte opinioni circa il diritto di esprimere liberamente la propria fede e le proprie
convinzioni religiose, provoca violenti attacchi sia da parte protestante che cattolica. Nel
frattempo Spinoza ha stretto rapporti con rappresentanti del pensiero scientifico di
avanguardia e con uomini politici come Jan de Witt, capo dell'opposizione liberale
olandese e fautore della tolleranza religiosa, che provvede al suo mantenimento. La
rovina politica di quest'ultimo non impedisce al filosofo di rimanere fermo sulle proprie
posizioni, tanto da rifiutare una cattedra di filosofia ad Heidelberg per mantenere la
propria libertà di pensiero: Spinoza preferisce dedicarsi interamente allo studio,
rinunciando tuttavia alla pubblicazione dei suoi scritti fino alla morte, avvenuta nel 1677.
Jean Meslier nacque a Etrépigny, nella regione di Champagne, a pochi chilometri dalle
Ardenne, nel 1664 da una famiglia agiata di mercanti di stoffe. Messo in seminario per
volontà dei genitori, vi acquisì sicuramente una buona conoscenza teologica e ordinato
sacerdote divenne parroco del paese, conservando l’incarico per tutta la vita e, nonostante la
crisi interiore, svolgendolo le sue funzioni in modo esemplare, con una particolare
attenzione ad alleviare le manifestazioni più gravi di ingiustizia sociale. La vita
23
ecclesiastica gli permise comunque di continuare a studiare leggendo, tra il resto, Epicuro,
Lucrezio, Montaigne, Cartesio. Nel 1724, sentendosi vicino alla morte, cominciò a stendere
le sue memorie, finendo il suo testamento nel 1729. Quando nel 1733, a 69 anni, morì il
suo sostituto trovò nel suo appartamento tre lettere piene di invettive antireligiose e di
rancore verso quella religione e quella nobiltà che succhiava il sangue ai suoi amati
parrocchiani, poveri contadini.
Propugnatore di un ateismo senza concessioni e di una utopia anarco-comunista ante
litteram, Jean Meslier non lascia molto spazio a dubbi: per lui il Cristianesimo, con la sua
insistenza sulla sofferenza, la povertà e il dolore e la sua condanna del piacere ha
anestetizzato gli uomini, legittimando i soprusi di re e nobiltà. Tutti gli uomini sono uguali,
e la terra che lavorano appartiene a loro. Preti e nobili sono solo parassiti fannulloni e
ipocriti. Quella del nostro autore è anche un'esplicita professione materialista: tutti i
cambiamenti dell'uomo non sono che "fermentazioni", ed è ridicolo attribuire tutto a un
Dio, se già la Natura è eterna e perfettamente regolata, tesi, questa, cara al marchese de
Sade. Che il popolo si sollevi, allora, perché la terra produce abbastanza per tutti. Il
testamento si chiude con l'estrema affermazione materialista: "presto non sarò più niente; i
morti non hanno nulla di cui preoccuparsi. Presto non sarò più niente".
Il Testamento di Jean Meslier fu presumibilmente il testo antireligioso più conosciuto e
letto del XVIII secolo: Diderot lo conosceva bene e fece sue alcune frasi che gli valsero il
carcere; il barone d'Holbach lo pubblicò insieme al Buon senso, opera la cui paternità fu a
lungo attribuita allo stesso Meslier, pur essendo in realtà del Barone. L'edizione andò
perduta e non se ne seppe più nulla: l'unica fonte era quella, abbondantemente riveduta ed
emendata, di Voltaire. Il testo originale venne pubblicato nel 1864 in Olanda.
Paul-Henry Dietrich d'Holbach (1723-1789) è il rappresentante forse più noto dell'ateismo
materialista . Di origine tedesca, si formò in Francia e in Olanda e con la moglie diede
vita, all'inizio degli anni Cinquanta, ad un salotto parigino dove si incontravano illuministi di
diverse tendenze e ospiti stranieri provenienti dal fiore della nuova cultura europea. D'Holbach
redasse quindi numerose voci tecnico-scientifiche dell'Encyclopédie e alcuni voci di
contenuto politico-sociale.
Il vero e proprio esordio filosofico è tuttavia nel 1766, con il ritorno da un viaggio in Inghilterra dove rimane impressionato dagli autori del deismo. Esce così il Cristianesimo svelato
(1766) in edizione antedatata e a nome del defunto Nicolas-Antoine Boulanger, un'opera il
cui possesso, in seguito, sarà punito con la tortura e nove anni di prigione. Fra i numerosi
opuscoli successivi, anonimi o firmati con pseudonimi, prodotti e diffusi clandestinamente,
d'Holbach realizza nel 1770 il suo scritto più noto, il Sistema della natura.
Quest'opera traccia una interpretazione materialistica dell'uomo, sulla scorta della quale
d'Holbach propone una rifondazione della morale e della vita sociale. Tale interpretazione
presuppone la natura come totalità eterna di materia e movimento, al cui interno l'uomo è
sottomesso agli stessi principi e alle stesse leggi. Come vi è attività nella materia, così è
nell'uomo: pertanto il temperamento degli individui è semplicemente il prodotto di cause
fisico-chimiche. In quanto macchina priva di anima l'uomo è sottomesso alle leggi
dell'egoismo, dell'amore e dell'odio come esatti corrispettivi dei principi fisici di inerzia,
attrazione e repulsione. La sua ricerca della felicità può essere soddisfatta solo nella
vita sociale: sono dunque necessarie regole morali che insegnino a temperare l'amore di sé
nel quadro del bene comune, e in ciò si trova anche il compito dello Stato.
Negli anni Settanta gli scritti di d'Holbach si indirizzano sul fronte della politica, con opere
come il Sistema sociale o principi naturali della morale e della politica (1773), oppure La
morale universale o i doveri dell'uomo fondati sulla natura (1776), dove vengono
semplicemente sviluppate le conseguenze di quanto era stato esposto nel Sistema della
natura. Nel 1790, pochi mesi dopo la sua morte, usciranno ancora gli Elementi di morale
universale o catechismo della natura.
24
15 - FOUCAULT “LA RIMOZIONE DELLA FOLLIA E LA COSTRUZIONE DEL
SOGGETTO”
In un saggio che ha avuto un notevole successo, Storia della follia (1961), Foucault
studia il modo in cui l'uomo moderno ha costruito l'immagine di sé come persona
razionale, dominatore del pensiero, signore della natura, padrone della scienza e
delle tecnologie. Per farlo, sceglie di studiare la follia, e più esattamente il modo in
cui dall'età degli umanisti a oggi l'uomo occidentale ha trattato il fenomeno della
devianza psichica, quel fenomeno, cioè, che maggiormente mette in crisi il modello
vincente di razionalità, la razionalità "cartesiana" del cogito. Attraverso minuziose
e affascinanti analisi Foucault mette quindi in luce che il soggetto - il cartesiano
soggetto che pensa - può autorappresentarsi come fondamento del divenire storico
e del sapere soltanto se elimina come errore - "devianza" - tutti quei tratti della
personalità umana che non possono essere conciliati con esso. La storia della follia
è quindi interpretata come storia del tentativo, riuscito, di rimuovere (nel senso psicoanalitico del termine14) alcuni aspetti dell'uomo perché altri possano essere messi
in luce nella loro purezza. La civiltà occidentale è quindi il frutto di un processo di
rimozione di intere sfere di razionalità, sensibilità, realtà profonde, identificate
come devianti.
Ciò che l'uomo moderno intende per follia nasconde invece in sé una grande
ricchezza: se studiata da un'angolazione non deviata dalla cultura vincente, essa
mette in luce aspetti estremamente interessanti della personalità umana, aspetti che
potrebbero arricchire l'uomo se non venissero rimossi. Essi appartengono alla
natura umana, se è ancora possibile parlare della natura umana come di qualche
cosa di puro (così come si parla della natura di una cosa nella sua oggettiva
esistenza materiale): l'uomo non è forse il prodotto del suo stesso rappresentarsi?
Nella sua storia egli non è anche ciò che si rappresenta? La filosofia deve proporsi
l'obiettivo di mettere in luce ciò che è nascosto nelle pieghe della razionalità
vincente, perché c'è il rischio che la pura razionalità, poiché nasce da una
rimozione, finisca col condurre l'uomo a distruggere l'uomo stesso. L'idea di
progresso, ad esempio, poiché nasce da una sistematica rimozione di tutto ciò che
non può conciliarsi con essa, rischia di lacerare l'uomo sviluppando solo alcuni
aspetti della sua personalità, lasciando inaridire gli altri. Al vertice del progresso, in
questo modo, potremmo ottenere, come massimo successo, quello di non avere più
l'uomo.
1 - La follia nel Rinascimento
La Nave dei folli
L’elemento tragico e l’elemento critico della follia
Il prevalere dell’elemento critico
Cervantes e Shakespeare: l’elemento tragico della follia
2 - L’età moderna: il grande internamento
Cartesio e l’esclusione della follia dalla ragione
Il grande internamento
Povertà e carità tra Rinascimento e Età moderna
14
La rimozione, secondo Freud il padre della psicoanalisi, consiste nell’atto per cui un individuo
rimuove dalla sua coscienza parti della sua personalità (ricordi, emozioni, affetti, tendenze), perché
ritenute inaccettabili in quanto incompatibili con la morale e l’immagine che l’individuo ha di se
stesso. La rimozione non porta però alla scomparsa di ciò che viene rimosso in quanto tali esperienze,
benchè non più coscienti, continuano a interagire e a manifestarsi nell’individuo sotto forma di
moventi inconsci. L’inconscio si manifesta sia nel comportamento degli individui normali (ad esempio
nei sogni a causa della minor censura esercitata dall’individuo che da svegli impedisce il riaffiorare
dell’inconscio) sia nelle nevrosi in cui l’interferenza degli elementi inconsci finisce per impedire
all’individuo di assumere un comportamene “normale”.
25
3 - Conclusioni
L’internamento: manodopera a buon mercato, protezione sociale e
coscienza etica del lavoro
Povertà, lavoro e ozio
Internamento e nuova morale borghese: la morale amministrata.
La follia nel Rinascimento
Alla fine del Medioevo la lebbra sparisce dal mondo occidentale. Ai margini della
comunità, alle porte delle città, si aprono come dei grandi territori (i lebbrosari) che
non sono più perseguitati dal male, ma che sono lasciati sterili e per lungo tempo
abbandonati. Per secoli e secoli queste distese apparterranno all'inumano. Dal XIV al
XVII secolo aspetteranno e solleciteranno, attraverso strani incantesimi, una nuova
incarnazione del male, un'altra smorfia della paura, magie rinnovate di purificazione
e di esclusione…
Spesso negli stessi luoghi, due o tre secoli più tardi, si ritroveranno stranamente
simili gli stessi meccanismi di esclusione. Poveri, vagabondi, corrigendi e "teste
pazze" riassumeranno la parte abbandonata dal lebbroso e vedremo quale salvezza
ci si aspetta da questa esclusione, per essi e per quelli stessi che li escludono. Con
un senso tutto nuovo e in una cultura molto differente, le forme resisteranno:
soprattutto quella importante di una separazione rigorosa che è esclusione sociale
ma reintegrazione spirituale. Ma non anticipiamo.
... Questo fenomeno è la follia. Ma
occorrerà. un lungo periodo di latenza,
quasi due secoli, perché questa nuova
ossessione che succede alla lebbra come
paura secolare susciti al pari di essa
reazioni
tendenti
alla
separazione,
all'esclusione, alla purificazione, che pure
le sono apparentate in modo evidente.
Prima che la follia venga dominata, verso
la metà del secolo XVII, prima che vecchi
riti vengano risuscitati in suo favore, essa
era rimasta ostinatamente legata a tutte le
più importanti esperienze
della
Renaissance15.
È questa presenza e alcuni dei suoi aspetti
essenziali che occorre ora ricordare molto
H. Bosch La nave dei folli (particolare) frettolosamente.
- 1490-1500
Cominciamo dal più semplice, ma anche
dal più simbolico di questi aspetti.
Un nuovo oggetto fa la sua, apparizione nel paesaggio immaginario del
Rinascimento: ben presto occuperà in esso un posto privilegiato: è la Nave dei folli:
strano battello ubriaco che fila lungo i fiumi della Renania e i canali fiamminghi.
… I folli allora avevano spesso un'esistenza vagabonda. Le città li cacciavano
volentieri dalle loro cerchie; li si lasciava scorrazzare in campagne lontane, quando
non li si affidava a un gruppo di mercanti o di pellegrini. L'usanza era frequente
soprattutto in Germania …
Il fatto è che questa circolazione di folli, il gesto che li scaccia, la loro partenza
non possono venir spiegati solo con l’utilità sociale o con la sicurezza dei cittadini.
Altri significati più vicini al rito erano certamente presenti; ed è ancora possibile
15
Rinascimento
26
decifrarne alcune tracce. …
Si comprende meglio allora la curiosa ricchezza di significati che si accumula sulla
navigazione dei folli e che indubbiamente le conferisce il suo prestigio. Da un lato
non bisogna contestare la sua efficacia pratica: affidare il folle ai marinai significa
evitare certamente che si aggiri senza meta sotto le mura della città, assicurarsi che
andrà lontano, renderlo prigioniero della sua stessa partenza. Ma a tutto questo
l'acqua aggiunge la massa oscura dei suoi valori particolari; essa porta via, ma fa
ancor più: essa purifica; e inoltre la navigazione abbandona l'uomo all'incertezza
della sorte; là ognuno è affidato al suo destino, ogni imbarco è potenzialmente
l'ultimo. È per l'altro mondo che parte il folle a bordo della sua folle navicella; è
dall'altro mondo che arriva quando sbarca. Questa navigazione del pazzo è nello
stesso tempo la separazione rigorosa e l'assoluto Passaggio. In un certo senso, essa
non fa che sviluppare, lungo tutta una geografia semi-reale e semi-immaginaria, la
situazione liminare del folle all'orizzonte dell'inquietudine dell'uomo medioevale;
situazione insieme simbolizzata e realizzata dal privilegio che ha i1 folle di essere
rinchiuso alle porte della città: la sua esclusione deve racchiuderlo; se egli non può
e non deve avere altra prigione che la soglia stessa, lo si trattiene sul luogo di
passaggio. È posto all'interno dell'esterno e viceversa. Posizione altamente
simbolica, che resterà senza dubbio sua fino ai nostri giorni, qualora si ammetta che
ciò che fu un tempo la fortezza visibile dell'ordine è diventato ora il castello della
nostra coscienza16.
L'acqua e la navigazione hanno davvero questo significato. Prigioniero nella nave
da cui non si evade, il folle viene affidato al fiume dalle mille braccia, al mare dalle
mille strade, a questa grande incertezza esteriore a tutto. Egli è prigioniero in
mezzo alla più libera, alla più aperta delle strade: solidamente incatenato all'infinito
crocevia. È il Passeggero per eccellenza, cioè il prigioniero del Passaggio. E non si
conosce il paese al quale approderà, come, quando mette piede a terra, non si sa da
quale paese venga. Egli non ha verità né patria se non in questa distesa infeconda
fra due terre che non possono appartenergli. È questo il rituale che, a causa di
questi valori, è all'origine della lunga parentela immaginaria che si può constatare
lungo tutta la cultura occidentale? O, al contrario, è questa parentela che dal fondo
dei tempi ha evocato e poi fissato il rito dell'imbarco? Una cosa almeno è certa:
l'acqua e la follia sono legate per lungo tempo nei sonni dell'uomo europeo.
… Da un lato Bosch, Brueghel, Thierry Bouts, Dürer17 e tutto il silenzio delle
immagini. È nello spazio della pura visione che la follia dispiega i suoi poteri.
Fantasmi e minacce, pure apparenze del sogno e destino segreto del mondo: la
follia detiene in questo caso una forza primitiva di rivelazione: rivelazione che
l'onirico è reale, che la sottile superficie dell'illusione si apre su una profondità
innegabile, e che il momentaneo brillio dell'immagine lascia il mondo in preda a
16
Foucault allude a quel processo di formazione della coscienza che Fromm descriveva in questo
modo: ”La «coscienza» è un aguzzino, che l'uomo mette entro se stesso. Lo spinge ad agire secondo
desideri e fini che egli ritiene suoi, mentre in realtà sono l'interiorizzazione di imperativi sociali esterni.
Lo perseguita con rigore e crudeltà, vietandogli il piacere e la felicità, rendendogli tutta la vita una
espiazione di qualche misterioso peccato.” (vedi E. Fromm: “Il significato psico-sociale delle dottrine
di Lutero e Calvino”, pag. 13). La tesi di fondo di Foucault è che il potere assoggetta l’individuo non solo
nel senso di controllarlo ma soprattutto vincolandolo alla propria individualità che è una delle possibili,
poiché nasce dalla rimozione di alcuni aspetti perché altri possano essere messi in risalto. Infatti, il
potere si è servito dell’identificazione operata dalla scienza moderna a partire dal cogito cartesiano per giustificare
“il grande internamento” da esso operato all’inizio dell’epoca moderna e “il grande internamento” – ovvero la
segregazione dei “diversi”, folli, vagabondi, mendicanti in asili di pazzi, case di lavoro o prigioni - (entrambi gli
aspetti saranno l’oggetto del secondo capitolo) altro non è che il segno di una loro criminalizzazione da parte della
“ragione dominante” che, in ogni discorso o comportamento che pretende di deviare dalle sue regole, scorge il
pericoloso delinearsi di un messaggio di ribellione.
17
Pittori fiamminghi e tedeschi vissuti tra il XV e il XVI secolo
27
simboli inquieti che si eternano nelle sue notti; e rivelazione inversa, ma altrettanto
dolorosa, che tutta la realtà del mondo sarà assorbita un giorno nell'Immagine fantastica,
nel
momento
intermedio dell'essere e del
nulla che è il delirio della
pura distruzione; il mondo
già non è più, ma il silenzio
e la notte non si sono
ancora chiusi del tutto su di
lui; esso vacilla in un
ultimo scoppio, in un
estremo disordine
che
precede
immediatamente
l'ordine
monotono del
compimento. È in questa
immagine subito abolita
che giunge a perdersi la
P. Brueghel il Vecchio: Greta la pazza – 1562
verità del mondo. Tutte
questa trama dell'apparenza
e del segreto, dell'immagine immediata e dell'enigma non svelato si dispiega nella
pittura del XV secolo come la tragica follia del mondo.
Dall'altro lato, con Brandt18, con Erasmo19, con tutta la tradizione umanistica, la
follia è accolta nell'universo del discorso. Essa viene raffinata, sottilizzata, ma
anche disarmata. Essa viene considerata in un modo diverso; nasce nel cuore degli
uomini, dà e toglie regola alla loro condotta; anche se governa le città, viene
ignorata dalla calma verità delle cose e dalla grande natura. Essa sparisce in fretta
quando appare l'essenziale, che è vita e morte, giustizia e verità. Può darsi che ogni
uomo le sia sottomesso, ma il suo regno sarà sempre meschino e relativo; perché
essa si mostrerà agli occhi del saggio nella sua mediocre verità. Per costui diventerà
oggetto, e nel modo peggiore, perché sarà l'oggetto del suo riso. Anche in tal modo,
i lauri che le vengono intrecciati la incatenano. Anche se fosse più saggia di ogni
scienza, è necessario che s'inchini davanti alla saggezza che la considera follia. La
follia può avere l'ultima parola, essa non è mai l'ultima parola della verità del
mondo; il discorso con cui essa si giustifica deriva solo da una coscienza critica
dell'uomo.
Questo combaciare della coscienza critica e dell'esperienza tragica 20 anima tutto
18
Sebastian Brant, (1458–1521), è stato un umanista e poeta satirico alsaziano, noto soprattutto per
l'opera La nave dei folli, una satira allegorica e didascalica, stampata nel 1494 e accompagnata dalle
litografie di Albrecht Dürer, che riscosse fin da subito un enorme successo letterario, testimoniato dalle
numerose edizioni e traduzioni. Sotto forma di allegoria, una nave stipata di folli e guidata da folli, si
dirige in un viaggio fantastico verso il paradiso dei folli, Narragonia, fino alla visita del Paese di
Cuccagna e al tragico epilogo del naufragio finale. In quest'opera allegorica Brant sferza con
implacabile vigore i vizi e le debolezze umane espresse dalla sua epoca.
19
Erasmo da Rotterdam (1466-1536) persegue per tutta la vita l'ideale di una riforma delle cose umane
e della religione ispirata dall’idea che il credente deve centrare la propria vita sull'imitazione di
Cristo e la lettura personale della Bibbia: Erasmo provvede dunque a calare questo ideale nel
modello umanistico del «ritorno alle fonti», redigendo un'edizione critica del Nuovo Testamento e
di numerosi scritti dei Padri della Chiesa. A questo riguardo egli compone anche il Manuale del
soldato cristiano, opera in cui, oltre a deplorare la corruzione monastica, sottolinea come la vera
forza che produce conversione e rende autentici «soldati» cristiani è una vita ispirata al modello di
Cristo, la «philosophia Christi». Lo scritto morale più noto di Erasmo è tuttavia l'Elogio della
follia (1509) in cui la follia, personificata, tesse il proprio elogio, dimostrando come domini in tutte
le cose umane, non lasciando indenni neppure il potere politico, la Chiesa e la cultura. Al termine
della propria celebrazione, infine, cita le sue forme più alte: l'elevazione filosofica secondo l'ideale
platonico e la fedeltà radicale all'insegnamento di Cristo
20
La distinzione tra i due atteggiamenti risulta essenziale nel discorso di Foucault. L’esperienza tragica
della follia consiste nella sua accettazione quale innegabile aspetto della personalità e dell’esperienza
28
ciò che è stato sentito e formulato intorno alla follia all'inizio della Renaissance.
Ma esso tuttavia sparirà presto e questa grande struttura, ancora così chiara e così
spiccata all'inizio del XVI secolo, sarà scomparsa, o quasi, meno di cent'anni dopo.
Sparire non è proprio il termine adatto a indicare con esattezza quanto è avvenuto.
Si tratta piuttosto di un privilegio sempre più spiccato che la Renaissance ha
accordato a uno degli elementi del sistema: a quello che faceva della follia
un'esperienza nel campo del linguaggio, un'esperienza in cui l'uomo era confrontato
alla sua verità morale, alle regole peculiari della sua natura e della sua verità. In
breve, la coscienza critica della follia si è andata sempre più illuminando, mentre i
suoi aspetti tragici si oscuravano progressivamente. Questi ultimi saranno presto
del tutto evitati. Per molto tempo, si faticherebbe a trovarne la traccia; solo alcune
pagine di Sade21 e l'opera di Goya22 testimoniano che questa sparizione non
significa annientamento, che questa esperienza tragica sussiste ancora oscuramente
nella notte del pensiero e dei sogni, e che nel XVI secolo non si è trattato di una
distruzione radicale, ma soltanto di un occultamento. L'esperienza tragica e
cosmica della follia è stata mascherata dai privilegi esclusivi di una coscienza
critica. È per questo che l'esperienza classica, e attraverso di essa l'esperienza
moderna della follia, non può essere considerata come un insieme totale in grado di
arrivare in tal modo alla sua verità positiva; è un aspetto frammentario che
abusivamente si presenta come esauriente; è un insieme squilibrato a causa di tutto
ciò che gli manca, cioè a causa di tutto ciò che lo nasconde. Sotto la coscienza
critica della follia e le sue norme
V. Van Gogh:
filosofiche o scientifiche, morali o
Campo di grano
mediche, una sorda coscienza tragica
con volo di
non ha cessato di vegliare23.
corvi - 1890
E lei che le ultime parole di
Nietzsche24, le ultime visioni di Van
Gogh25, hanno ridestato.
26
È lei che indubbiamente Freud ha cominciato a presentire all'estremità del suo
cammino: sono le sue grandi lacerazioni che egli ha voluto simbolizzare con la
lotta mitologica della libido e dell'istinto di morte. …
umana, l’esperienza critica della follia, benchè non sia ancora, almeno nel Rinascimento, il rifiuto della
follia, rappresenta però già un atteggiamento della ragione.
21
Donatien-Alphonse-François de Sade, meglio conosciuto come Marchese de Sade, (1740–1814)
scrittore, filosofo e aristocratico francese, autore di diversi libri erotici e di alcuni saggi filosofici, molti
dei quali scritti mentre si trovava in prigione. Il suo nome è all'origine del termine sadismo,
atteggiamento che emerge dai suoi romanzi. È considerato un esponente dell'ala più estremista del
Libertinismo, nonché dell'Illuminismo più radicale.
22
Francisco José de Goya y Lucientes (1746–1828) è stato un pittore e incisore spagnolo. Accanto a
quadri idilliaci e a ritratti di reali e aristocratici spagnoli Goya ha mostrare un grande interesse per i
criminali, scene violente, ingiustizie sociali, nonché per la stregoneria, un tema affrontato in alcune
grandi opere pittoriche. L'interesse di Goya per il mondo magico e stregonesco nasce da un forte
spirito critico sia verso le superstizioni popolari sia verso l'ipocrisia dell'aristocrazia e del clero di
quell'epoca,: un fatto che emerge chiaramente dalla lettura dei manoscritti dello stesso Goya.
23
La follia è considerata da Foucault non come malattia mentale che si oppone alla salute mentale, ma
come prodotto storico dell’azione dei saperi (vedi più avanti la discussione sul dubbio cartesiano) e
delle istituzioni (vedi l’analisi delle pratiche dell’internamento). Per Foucault la follia deve essere
considerata una modalità dell’esistenza umana che come tale può essere rimossa ma non cancellata; in
ogni caso la sua esclusione comporta un impoverimento dell’esperienza umana. A riprova della sua
tesi l’autore ha già citato Sade e Goya e nel seguito citerà ancora Nietzsche, Van Gogh e Freud la cui
opera è in diversi modi legata alla follia.
24
F. Nietzsche (1844-1900), filosofo tedesco la cui vita risultò fortemente determinata dalla pazzia e il
cui pensiero è risultato determinante per gli sviluppi di molta della filosofia del Novecento.
25
V. Van Gogh (1853-1890), pittore olandese la cui biografia è anch’essa legata alla malattia mentale,
ma la cui opera è stata fondamentale per la pittura successiva.
26
S. Freud (1856-1939) il fondatore della psicoanalisi, vedi nota n 1.
29
Sono queste estreme scoperte ed esse sole che ci consentono oggi di giudicare
infine che l'esperienza della follia che si estende a partire dal XVI secolo fino ad
oggi deve la sua fisionomia particolare e l'origine del suo significato a questa
assenza, a questa notte e a tutto ciò che la riempie. Bisogna reinterpretare in una
dimensione verticale la bella rettitudine che conduce il pensiero razionale fino
all'analisi della follia come malattia mentale; sarà chiaro allora che sotto ognuna
delle sue forme essa maschera in modo più completo, e anche più pericoloso,
questa esperienza tragica, che tuttavia non ha potuto domare del tutto. Nel punto
estremo della coercizione era necessaria la deflagrazione alla quale assistiamo a
partire da Nietzsche.
Ma come si sono costituiti nel XVI secolo, i privilegi della riflessione critica?
In che modo l'esperienza della follia si è trovata infine confiscata da essi, tanto che
sulla soglia dell'età classica tutte le immagini tragiche evocate nell'epoca
precedente si saranno dissolte nell'ombra? In che modo si è concluso quel movimento che faceva dire ad Artaud27: "La Renaissance del XVI secolo ha rotto con
una realtà che aveva le sue leggi, forse sovrumane, ma naturali; e l'Umanesimo
della Renaissance non fu un ingrandimento ma una diminuzione dell'uomo"?
Riassumiamo brevemente quanto in questa evoluzione è indispensabile per
capire l'esperienza che il classicismo ha fatto della follia.
1 °. La follia diventa una forma relativa alla ragione, o piuttosto follia e ragione
entrano in una reazione eternamente reversibile che fa sì che ogni follia ha la sua
ragione che la giudica e la domina, e ogni ragione la sua follia nella quale essa
trova la sua verità derisoria. Ciascuna è la misura dell’altra, e in questo movimento
di riferimento reciproco esse si respingono l'un l'altra, ma si fondano l'una per
mezzo dell'altra. …
2° La follia diviene una delle forme stesse della ragione. Essa si integra all'altra,
costituendo tanto una delle sue forze segrete, quanto un momento della sua
manifestazione, quanto ancora una forma paradossale nella quale essa può prendere
coscienza di se stessa. In ogni modo, la follia non acquista significato né valore se
non nel campo stesso della ragione.
“La presunzione è la nostra malattia naturale e originaria. L'uomo è la più infelice e
la più fragile fra tutte le creature, e nello stesso tempo la più orgogliosa. Egli si
vede e si sente abitare qui, nella melma e nello sterco del mondo, legato e
incatenato alla peggiore, alla più morta e alla più imputridita parte dell'universo,
nell'infimo piano dell'abitazione e nel più lontano dalla volta celeste, con gli
animali della peggior condizione fra le tre28; e va a porsi con l'immaginazione sopra
il cerchio della luna, mettendo il cielo sotto i piedi. Attraverso la vanità di questa
stessa immaginazione egli si eguaglia a Dio”. Tale è la peggiore delle follie: non
riconoscere la miseria nella quale si è imprigionati, la debolezza che ci impedisce
di accedere al vero e al bene; non sapere quale parte di follia ci spetta. Rifiutare
questa sragione che è il segno stesso della nostra condizione significa rinunciare a
usare per sempre in modo ragionevole la propria ragione. Perché se la ragione
esiste, essa consiste proprio nell'accettare questo cerchio continuo della saggezza e
della follia, nell'essere chiaramente coscienti della loro reciprocità e della loro
impossibile separazione. …
Visitando Torquato Tasso in preda al delirio, Montaigne29 prova più dispetto che
27
Antonin Artaud (1896-1948), saggista, regista e attore, ha scritto, un anno prima della morte, un saggio
suVan Gogh, il suicida della società.
28
Ovvero la condizione terrestre. Alle altre due appartengono gli acquatici e i volatili. La citazione è
tratta da Montaigne (vedi nota successiva).
29
Michel Eyquem de Montaigne (1533-1592), francese, il cui pensiero è legato a un recupero dello
stoicismo e dello scetticismo e la cui opera principale è costituita dai Saggi, di cui i primi due libri
escono nel 1580 .I Saggi divengono via via una raccolta di meditazioni di costume e personali, le
quali traggono alimento anche da un lungo viaggio in diversi paesi d'Europa, fra cui l'Italia. Le
30
pietà; ma in fondo, più di tutto ancora, prova ammirazione. Dispetto, indubbiamente nel vedere che la ragione è infinitamente vicina alla più profonda follia, anche
quando tocca le sue cime: "Chi non sa quanto è impercettibile la vicinanza tra la
follia e gli arditi innalzamenti di uno spirito libero, e gli effetti di una virtù suprema
e straordinaria?" Ma in questo egli trova anche motivo per una paradossale
ammirazione. È questo segno che la ragione ricava le più strane risorse da quella
stessa follia. Se il Tasso, "uno dei poeti italiani più giudiziosi, più ingegnosi e più
formati all'aria di quell'antica e pura poesia", si trova ora "in uno stato così pietoso,
sopravvivendo a se stesso", non lo deve a "questa sua vivacità omicida? a questa
chiarezza che l'ha accecato? a questa esatta e tenera comprensione della ragione
che l'ha privato della ragione? alla curiosa e laboriosa ricerca delle scienze che l'ha
condotto alla stupidità? a questa rara attitudine agli esercizi dell'anima che l'ha
ridotto senza esercizio e senz'anima?" Se la follia giunge a sanzionare lo sforzo
della ragione è perché essa faceva già parte di questo sforzo: la vivacità delle
immagini, la violenza della passione, questo grande ritrarsi dello spirito in se
stesso, che appartengono davvero alla follia, sono gli strumenti della ragione più
pericolosi, perché più acuti. Non c'è ragione tanto forte da non doversi arrischiare
nella follia per giungere al termine dell'opera, "nessun grande spirito senza
mescolanza di follia ... In questo senso i saggi e i migliori poeti hanno talvolta
consentito a folleggiare e a uscire dai gangheri ". La follia è un momento duro ma
necessario nel lavorio della ragione; attraverso di essa, e perfino nelle sue vittorie
apparenti, la ragione si manifesta e trionfa. La follia non era per essa se non la sua
forza viva e segreta .
A poco a poco la follia si trova disarmata, e i tempi stessi spostati; investita dalla
ragione essa è come accolta e trapiantata in lei. Tale fu dunque il ruolo ambiguo di
questo pensiero scettico o piuttosto di questa ragione così vivamente cosciente
delle forme che la limitano e delle forze che la contraddicono: essa scopre la follia
come uno dei suoi aspetti particolari (e questo è un modo di scongiurare tutto ciò
che può essere potere esterno, ostilità irriducibile, segno di trascendenza) ma al
tempo stesso essa pone la follia al centro del suo lavoro, designandola come un
momento essenziale della propria natura. E oltre Montaigne, ma sempre in questo
movimento di inserzione della follia nella natura stessa della ragione, vediamo
disegnarsi la curva della riflessione di Pascal : «Gli uomini sono così
necessariamente folli che il non esser folle equivarrebbe a esserlo secondo un'altra
forma di follia". Riflessione in cui è raccolto e ripreso tutto il lungo lavoro che
comincia con Erasmo: scoperta di una follia immanente alla ragione; in
seguito, sdoppiamento: da una parte, una "folle follia" che rifiuta la follia
caratteristica della ragione, e che, rifiutandola, la raddoppia: e in questo
raddoppiamento cade nella più semplice, nella più chiusa, nella più immediata
delle follie; dall'altra parte, una "saggia follia" che accoglie la follia della
ragione, l'ascolta, riconosce i suoi diritti di cittadinanza, e si lascia penetrare
dalle sue forze vive: ma in tal modo si protegge dalla follia più realmente di quanto
possa fare l'ostinazione di un rifiuto sempre sconfitto in partenza.
Il fatto è che ora la verità della follia è una sola e stessa cosa con la vittoria della
ragione e il suo definitivo dominio: perché la verità della follia è di essere
all'interno della ragione, di esserne un aspetto, una forza e come un bisogno
momentaneo per diventare più sicura di se stessa.
nuove aggiunte dell'edizione 1588 hanno richiesto un terzo libro: la morte coglie l'autore pochi anni
dopo mentre sta preparando un'ulteriore edizione ampliata. I Saggi, opera fortemente originale per
il suo tempo, procede per suggestioni e temi, coerente con la concezione sviluppata dall'autore
sull'impossibilità di una filosofia generale e sistematica. Il tempo tormentato in cui vive
(caratterizzato dalla crisi del geocentrismo, dalla scoperta delle Americhe, dalla Riforma e dalle
guerre di religione) convince Montaigne che la vita di ognuno è incerta e soggetta a continui
mutamenti: di fronte a tutto ciò filosofare può essere solo andare alla ricerca di un'adeguata saggezza
di vita e «imparare a morire».
31
Forse è qui il segreto della sua presenza molteplice nella letteratura della fine del
XVI secolo e dell'inizio del XVII, un'arte che, nel suo sforzo di dominare questa
ragione che cerca se stessa, riconosce la presenza della follia, della sua follia, la
circonda, la investe, per trionfare infine. Giochi di un'età barocca.
Ma qui come nel pensiero, si compie tutto un lavoro che porterà anch'esso alla
conferma dell'esperienza tragica della follia in coscienza critica. Tralasciamo per il
momento questo fenomeno e lasciamo che risaltino, nella loro indifferenza, gli
aspetti che possiamo trovare tanto nel Don Chisciotte quanto nel Re-Lear ….
Nell’opera di Shakespeare troviamo le follie che si imparentano con la morte e
l’assassinio; in quella di Cervantes le forme che si assoggettano alla
presunzione e a tutti i compiacimenti dell’immaginazione. Ma questi sono alti
modelli che gli imitatori indeboliscono e disarmano. E indubbiamente l’uno e l'altro
sono più i testimoni di un'esperienza della Follia nata nel XV secolo che quelli di
un’esperienza critica e morale della Sragione che pur tuttavia si sviluppa nel loro
secolo. Al di là del tempo, essi si ricollegano a un significato che sta per sparire la cui
continuità sarà proseguita solo nelle tenebre…
In Cervantes o in Shakespeare la follia occupa sempre una posizione estrema, nel
senso che essa è senza rimedio. Niente la riporta mai alla verità e alla ragione. La
follia nei suoi vani ragionamenti, non è vanità; il vuoto che la riempie è "un male molto al
di là della mia scienza", come dice il medico a proposito di Lady Macbeth; è già la
pienezza della morte: una follia che non ha bisogno di medico, ma della sola misericordia
divina.. … Indubbiamente la morte di Don Chisciotte avviene in un paesaggio
placato, che si è ricollegato all'ultimo istante con la ragione e con la verità.
Tutt'a un tratto la follia del Cavaliere ha preso coscienza di se stessa e davanti ai
propri occhi si tramuta in stupidità. Ma questa brusca saggezza della propria
follia è qualcosa di diverso da "una nuova follia che gli è appena entrata
nella testa"? Ecco un equivoco eternamente riversibile, che non può essere risolto, in ultima analisi,
se non dalla morte stessa. La follia dissolta non può
che confondersi con l'imminenza della fine; "e uno
dei sintomi dai quali congetturarono che il malato
stava per morire fu il fatto di essere tornato così
in fretta dalla follia alla ragione". Ma la morte
stessa non arreca la pace: la follia trionferà ancora:
verità derisoriamente eterna, al di là del termine di
una vita che tuttavia si era liberata della follia con
questo stesso termine. Ironicamente la sua vita
insensata lo insegue e lo immortalizza solo con la
sua demenza; la follia è ancora la vita imperitura
della morte: "Qui giace l'hidalgo temibile, che
spinse così lontano il valore che la morte non poté
trionfare della vita nel suo trapasso"
Ma ben presto la follia abbandona queste regioni
estreme in cui Cervantes e Shakespeare l'avevano
collocata; e nella letteratura dell'inizio secolo
occupa di preferenza una posizione mediana…
Il fatto è che essa non è più considerata nella sua
realtà tragica, nell'assoluta lacerazione che la
H. Bosch
Trittico delle introduce nell'altro mondo; ma solo nell’ironia delle
delizie,
Giardino
delle sue illusioni. … Nasce l'esperienza classica della
delizie (particolare) – 1510 follia. Si attenua la grande minaccia sorta
circa
all'orizzonte del XV secolo, i poteri inquietanti che
erano presenti nella pittura di Bosch hanno perduto la
loro violenza. Sussistono alcune forme, ora trasparenti e docili, che costituiscono
un corteo, l'inevitabile corteo della ragione. La follia ha cessato d'essere un simbolo
32
escatologico ai confini del mondo, dell’uomo e della morte; la notte sulla quale
essa fissava lo sguardo, e dalla quale nascevano le forme dell'impossibile, si
dissolta. L’oblio cade sul mondo che era solcato dalla libera schiavitù della sua
Nave: essa non andrà più, nel suo strano passaggio, da un aldiquà del mondo a un
aldilà; essa non sarà mai più questo confine fuggitivo e assoluto. Eccola
solidamente ormeggiata in mezzo alle cose e alle genti. Trattenuta e tenuta ferma.
Non più barca ma ospedale.
L’età moderna: il grande internamento
L'età classica ridurrà al silenzio, con uno strano colpo di forza, la Follia, le cui
voci erano appena state liberate dalla Renaissance, ma la cui violenza era stata già
dominata.
Nel cammino del dubbio, Descartes incontra la follia accanto al sogno e a tutte le
forme d'errore. Questa possibilità di essere folle non rischia di privarlo del suo
corpo, così come il mondo esterno può dissimularsi nell'errore, o la coscienza
addormentarsi nel sogno? "Come potrei negare che queste mani e questo corpo mi
appartengono, se non forse paragonandomi a certi insensati il cui cervello è
talmente confuso e offuscato dai neri vapori della bile che essi affermano costantemente di essere dei re mentre sono poverissimi, di esser vestiti di porpora e d'oro
mentre sono tutti nudi, o si immaginano d'essere delle brocche o di avere un corpo
di vetro?" Ma Descartes non evita lo scoglio della follia nello stesso modo in cui
aggira l'eventualità del sogno o dell'errore. In realtà, per quanto siano ingannatori, i
sensi non possono alterare che «le cose molto poco sensibili e molto lontane»; la
forza delle loro illusioni lascia sempre un residuo di verità, «il fatto d'esser qui,
vicino al fuoco, in vestaglia». Quanto al sogno, esso può, come l'immaginazione
dei pittori, rappresentare «sirene o satiri con figure bizzarre e straordinarie»; ma
non può né creare né comporre da solo quelle cose «più semplici e più universali»
la cui disposizione rende possibili le immagini fantastiche: «A questo genere di
cose appartiene la natura corporale in generale e la sua estensione». Queste sono
così poco fittizie da assicurare ai sogni la loro verosimiglianza: inevitabili indizi di
una verità che il sogno non giunge a compromettere. Né il sogno popolato di
immagini né la chiara coscienza che i sensi ci ingannano possono portare il dubbio
fino al punto estremo della sua universalità; ammettiamo pure che gli occhi ci
deludano, «supponiamo ora di essere addormentati», la verità non scivolerà per
intero nella notte.
Per la follia, è tutt'altra cosa; se i suoi pericoli non compromettono né il
cammino né l'essenziale della verità, ciò non deriva dal fatto che una certa cosa,
perfino nel pensiero di un folle, non può essere falsa; ma dal fatto che io che penso
non posso essere folle. Quando io credo di avere un corpo, sono sicuro di possedere
una verità più solida di colui che si immagina di avere un corpo di vetro?
Certamente, perché «essi sono dei folli, e io non sarei meno stravagante di loro se
mi regolassi sul loro esempio". Non è il permanere di una verità che garantisce il
pensiero contro la follia, come gli permetteva di liberarsi da un errore o di
emergere da un sogno; è un'impossibilità di essere folle, essenziale non all'oggetto
del pensiero, ma al soggetto pensante. Si può supporre di sognare e d'identificarsi
col soggetto che sogna per trovare "qualche ragione per dubitare": la verità appare
ancora, come condizione della possibilità del sogno. Non si può, in compenso,
supporre, neppure col pensiero, di esser folle, perché la follia è proprio
l'impossibilità del pensiero: "Non sarei meno stravagante di loro"30....
30
Il dubbio è, naturalmente, quello a cui Cartesio, nelle Meditazioni metafisiche (1641-1642),
sottopone tutto il nostro sapere per raggiungere, attraverso di esso, la certezza del cogito. Foucault
allude qui al fatto che, nella prima Meditazione, nel corso dell'operazione del dubbio, Cartesio
33
Nell'economia del dubbio c'è uno squilibrio fondamentale tra follia da una parte,
sogno ed errore dall'altra. La loro situazione è diversa in rapporto alla verità e a
colui che la cerca; sogni e illusioni sono superati nella struttura stessa della verità;
ma la follia è esclusa dal soggetto che dubita. Come; ben presto sarà escluso che
egli non pensi e che non esista Una certa decisione è stata presa, dal tempo degli
Essais31. Quando Montaigne incontrava il Tasso, niente lo assicurava del fatto che
ogni pensiero non fosse intriso di sragione. E il popolo? Il "povero popolo
ingannato da queste follie"? L'uomo di pensiero è al sicuro da queste stravaganze?
Egli stesso "perlomeno altrettanto da compiangere". E quale ragione potrebbe
renderlo giudice della follia? "La ragione mi ha insegnato che il condannare così
risolutamente una cosa come falsa e impossibile significa presumere di avere nella
testa i confini e i limiti della volontà di Dio e della potenza di nostra madre Natura,
e tuttavia non esiste al mondo follia più grande del riportarle alla misura della
nostra capacità e della nostra sicumera". Fra tutte le altre forme di illusione, la
follia traccia una delle vie del dubbio più frequentate ancora nel XVI secolo. Non si
è mai sicuri di non sognare, non si è mai certi di
non essere folli: "Quante volte non ci viene in
mente la quantità di contraddizioni che noi
sentiamo nel nostro stesso giudizio?"
Ora, Descartes ha acquistato questa certezza e la
conserva solidamente: la follia non può più
riguardarlo. Sarebbe una stravaganza il supporre
d'essere stravagante; come esperienza di pensiero
la follia si implica da sola e conseguentemente si
esclude dal progetto. Così il rischio della follia è
scomparso dall'esercizio stesso della Ragione.
Quest'ultima è ridotta a un pieno possesso di se
stessa, in cui non può incontrare altre insidie che
l'errore, altri pericoli che l'illusione. Il dubbio di
Descartes scioglie gli incanti dei sensi, attraversa
i paesaggi del sogno, guidato sempre dalla luce
F. Goya: Il sonno della ragione fadelle cose vere; ma egli scaccia la follia in nome
nascere mostri - 1793-98
di colui che dubita, e che non può più sragionare
come non può non pensare o non essere. La
problematica della follia - quella di Montaigne – è con ciò stesso modificata32. ...
La Non-Ragione del XVI secolo formava una sorta di rischio aperto, le cui minacce
potevano sempre, almeno di diritto, compromettere i rapporti della soggettività e
della verità. Il procedere del dubbio cartesiano sembra testimoniare che nel XVII
secolo il pericolo si trova scongiurato e che la follia viene posta fuori dal dominio
di pertinenza nel quale il soggetto detiene i suoi diritti alla verità quel dominio che
per il pensiero classico era la ragione stessa. Ormai la follia è esiliata. Se l'uomo
può sempre essere folle, il pensiero, come esercizio della sovranità da parte di un
ammette le esperienze del sogno e dell'errore come possibilità della ragione: la nostra ragione è così
fatta che può confondere il sogno e la veglia, il falso e il vero. Egli esclude invece a priori che la follia
possa investire la ragione come tale: se siamo esseri ragionevoli, non c'è alcun posto in noi per la follia,
e viceversa. La follia è dunque una condizione che deve essere scartata a priori, esclusa dal soggetto
che pensa.
31
Sono i Saggi (1580-1592) di M. de Montaigne. Come è stato detto Montaigne, come altri esponenti
della cultura rinascimentale (ad esempio Shakespeare), dà ancora piena dignità alla follia, dubita
seriamente della superiorità della ragione su di essa.
32
I1 cogito cartesiano ha spazzato via l’dea di complementarità fra ragione e follia che la riflessione del
dubbio aveva anch'essa incontrato: la costituzione della razionalità moderna si realizza mediante
questa operazione teorica. All’atto teoretico di esclusione della Sragione da parte del fondatore del
razionalismo moderno corrisponderà l’internamento dei folli nei manicomi da parte del potere statale,
come verrà esaminato nel seguito. Il punto di vista della ragione, della scienza matematica è quello che
dà senso al mondo. Tutto ciò che è "insensato" viene fieramente combattuto.
34
soggetto che si accinge a percepire il vero, non può essere insensato. Viene
tracciata una linea di separazione che renderà ben presto impossibile l'esperienza,
così familiare alla Renaissance, di una Ragione sragionevole e di una ragionevole
Sragione. Fra Montaigne e Descartes si è prodotto un avvenimento: qualcosa che
riguarda l'avvento di una ratio. Ma la storia di una ratio come quella del mondo
occidentale è ben lontana dall'esaurirsi nel progresso di un "razionalismo"; essa è
costituita, in parte altrettanto grande, anche se più segreta, dal movimento con cui
la Sragione è sprofondata nel nostro suolo, per sparirvi senza dubbio, ma per
prendervi radice33.
È quest'altro aspetto dell'avvenimento classico che bisognerebbe ora render
chiaro.
Più di un sintomo lo tradisce, e non tutti derivano da un'esperienza filosofica o
dallo sviluppo del sapere. Quello di cui vorremmo parlare appartiene a una
superficie culturale assai vasta. Esso viene segnalato con molta precisione da una
serie di date e, insieme con queste, da un complesso di istituzioni.
È noto che il XVII secolo ha creato grandi case di internamento; ma è meno noto
che in pochi mesi più di un parigino su cento ci si è trovato rinchiuso. Si sa che
il potere assoluto ha fatto uso di lettres de cachet e di misure arbitrarie di
imprigionamento; ma non si conosce altrettanto bene la coscienza giuridica che
poteva animare queste pratiche. A partire da Pinel, Tuke, Wagnitz 34, si sa che
per un secolo e mezzo i folli sono stati sottoposti al regime di questo
internamento, e che un giorno saranno scoperti nelle sale dell'Hopital général,
nelle segrete delle case di correzione; ci si accorgerà che essi erano mescolati alla
popolazione delle workhouses. Ma non è affatto accaduto che si precisasse con
chiarezza quale fosse il loro statuto, né quale senso avesse quel vicinato che
sembrava assegnare una stessa patria ai poveri, ai disoccupati, ai corrigendi e
agli insensati. È fra le mura dell'internamento che Pinel e la psichiatria del XIX
secolo incontrò i folli; e là, non dimentichiamolo, che li lasceranno, non senza
gloriarsi di averli "liberati". A partire dalla metà del XVII secolo la follia è
stata legata a questa terra dell'internaménto e al gesto che gliela indicava come suo
1uogo naturale.
Prendiamo i fatti nella loro formulazione più semplice, poiché l'internamento
degli alienati è la struttura più -vistosa nell'esperienza classica della follia, e sarà
la pietra dello scandalo quando questa esperienza sparirà dalla cultura occidentale. "Io li ho visti nudi, coperti di stracci, senz'altro che un pò di paglia per
proteggessi dalla fredda umidità del selciato sul quale sono distesi. Li ho
visti grossolanamente nutriti, privati d'aria per respirare, d'acqua per spegnere
la loro sete, e delle cose più necessarie alla vita. Li ho visti in balìa di veri
carcerieri, abbandonati alla loro brutale sorveglianza. Li ho visti in stambugi
stretti, sporchi, infetti, senz'aria, senza luce, rinchiusi in antri dove si temerebbe di
rinchiudere le bestie feroci che il lusso dei governi mantiene con grandi spese
nelle capitali".
Una data può servire come punto di riferimento: 1656, decreto di fondazione
dell'Hópital général, a Parigi. A prima vista si tratta solo di una riforma: appena
d'una riorganizzazione amministrativa. Diverse istituzioni già esistenti sono raggruppate sotto un'unica amministrazione: la Salpétrière, ricostruita sotto il regno
33
La Sragione, tutto ciò che è escluso dalla Ragione (non solo la follia, ma come vedremo anche la
povertà, la delinquenza, le malattia veneree, il rifiuto di conformarsi all'etica del lavoro e alla morale
sessuale corrente) viene ridotta al silenzio, ma rimane presente. Non esiste, quindi, un progresso dalla
Sragione alla Ragione, come volevano l'Illuminismo e parte del positivismo; per questo Foucault dice
che la Sragione «è sprofondata nel nostro suolo, per sparirvi senza dubbio, ma per prendervi
radice». Prendervi radici e riemergere, grazie alla voce di artisti, poeti e filosofi «estremi», come aveva
osservato precedentemente.
34
Precursori della moderna psichiatria.
35
precedente per mettere al coperto un arsenale; Bicétre, che Luigi XIII aveva voluto
dare alla commenda di Saint-Louis per farne una casa di riposo destinata agli
invalidi dell'esercito … Tutto è ora destinato ai poveri di Parigi "di ogni sesso,
provenienza ed età, di qualsiasi tipo ed estrazione, e in qualunque condizione si
trovino, validi o invalidi, malati o convalescenti, curabili o incurabili". Si
tratta di accogliere, di alloggiare e di nutrire coloro che si presentano da soli,
o che sono inviati dall'autorità reale o giudiziaria; bisogna anche provvedere alla
sussistenza, alla buona tenuta, all'ordine generale di quelli che non hanno potuto
trovarvi posto, ma che potrebbero esservi o che lo meriterebbero. Questo incarico è
affidato a direttori nominati a vita, che esercitano i loro poteri non solo negli
edifici dell'Hópital, ma in tutta la città di Parigi, su tutti coloro che appartengono
alla loro giurisdizione: "Essi hanno ogni potere di autorità, di direzione, di
amministrazione, di commercio, di polizia, di giurisdizione, di correzione e
punizione su tutti poveri di Parigi, tanto fuori che dentro l'Hópital général". Inoltre i
direttori nominano un medico con stipendio annuo di mille lire; questi risiede alla
Pitié, ma deve visitare ogni casa dell'Hópital due volte alla settimana. Un fatto è
chiaro fin dall'inizio: l'Hópital général non è un'istituzione medica. È piuttosto una
struttura semigiuridica, una specie di entità amministrativa che, accanto ai poteri
già costituiti, e al di fuori dei tribunali, decide, giudica ed esegue. "A tal scopo i
direttori avranno, secondo il loro avviso, pali, berline, prigioni e segrete nel suddetto
Hópital général e nei luoghi che ne dipendono, e non è concessa facoltà di appello
contro le disposizioni che saranno da loro prese per l'interno del suddetto Hópital; e
quanto a quelle che verranno deliberate per l'esterno, saranno eseguite nella forma e
nel
contenuto
indipendentemente
da
qualsiasi "opposizione o
protesta presente o futura, e
senza loro pregiudizio, e non
saranno differite, nonostante
ogni rifiuto e contestazione."
Sovranità quasi assoluta,
giurisdizione senza appello,
diritto esecutivo contro il
quale niente può prevalere;
l'Hópital général è uno
strano potere che il re crea
tra la polizia e la giustizia,
ai limiti della legge: il
terzo stato della repressione. A questo mondo
apparterranno gli alienati
trovati da Pinel a Bicétre e
alla Salpétrière….
F. Goya:Il manicomio (particolare)
In qualche anno tutto un
reticolato è stato gettato sull'Europa. Alla fine del XVIII secolo Howard35
comincerà a percorrerlo; attraverso l'Inghilterra, l'Olanda, la Germania, la
Francia, l'Italia, la Spagna, egli farà il pellegrinaggio di tutte le più importanti
sedi d'internamento - "ospedali, prigioni, case di correzione" - e la sua filantropia
si indignerà che si siano potuti relegare tra le stesse mura dei condannati di diritto
comune, dei ragazzetti che turbavano il riposo della loro famiglia o ne dilapidavano
35
John Howard , filantropo quacchero, il cui impegno risultò decisivo per il declino delle sanzioni
corporali e la loro sostituzione, nell'arco di pochi decenni, con quella detentiva. Nel 1777, pubblicò una
relazione sullo stato delle prigioni, proponendo il principio dell'isolamento come fattore di penitenza e
di redenzione.
36
le sostanze, della gente malfamata e degli insensati…. Qual era dunque la realtà
presa di mira attraverso tutta questa popolazione, che si è trovata reclusa da un
giorno all'altro o quasi, e bandita più severamente dei lebbrosi? Non bisogna
dimenticare che pochi anni dopo la sua fondazione 1'Hopital général di Parigi
raggruppava seimila persone, cioè circa l'uno per cento della popolazione. È stato
necessario che si sia formata, sordamente e certo nel corso di lunghi anni, una
sensibilità sociale comune alla cultura europea, e che bruscamente comincia a
manifestarsi nella seconda metà del XVII secolo: è essa a isolare di colpo questa
categoria destinata a popolare i luoghi d’internamento. …
L'usanza dell'internamento indica una nuova reazione alla miseria, un nuovo
patetico e, più in generale, un rapporto diverso dell'uomo verso ciò che può esserci di
disumano nella sua esistenza. Il povero, il miserabile, l'uomo che non è padrone
della propria esistenza, ha assunto lungo il XVI secolo un aspetto che il Medioevo
non avrebbe riconosciuto.
La Renaissance ha spogliato la miseria della sua positività mistica. E questo
attraverso un duplice movimento di pensiero che toglie alla Povertà il suo significato
assoluto, e alla Carità il valore che essa ricava dal soccorso a questa Povertà.
Nel mondo di Lutero, in quello di Calvino soprattutto, le volontà particolari di Dio questa "bontà singolare di Dio verso ognuno" - non lasciano alla felicità o
all'infelicità, alla ricchezza o alla povertà, alla gloria o alla miseria, la cura
di parlare da sole… La volontà singolare di Dio, quando si rivolge al povero, non
gli parla di gloria promessa ma di predestinazione. Dio non esalta il povero in una
specie di glorificazione inversa; lo umilia volontariamente nella sua collera, nel suo
odio … Povertà significa punizione: "È per suo comando che il cielo s'indurisce,
che i frutti sono divorati e consumati dalle acquerugiole e da altri elementi
corruttori; e ogniqualvolta le vigne, i campi e i prati sono devastati dalla
grandine e dalle tempeste, anche questo è testimonianza di qualche punizione
speciale esercitata da lui"36 La povertà e la ricchezza cantano nel mondo la stessa
onnipotenza di Dio; ma il povero non può invocare che il malcontento del Signore,
poiché la sua esistenza porta il marchio della maledizione di lui; così bisogna esortare "i poveri alla pazienza, affinché coloro che non si contentano del loro stato si
sforzino, per quanto è loro possibile, di scuotere il giogo imposto loro da Dio".
Quanto all'opera di carità, che cosa le può conferire il suo valore? Non la povertà che
essa soccorre, in quanto quest'ultima non contiene più una gloria particolare; non
colui che la compie, poiché attraverso il suo gesto si fa strada ancora una volontà
singolare di Dio. Non è l'opera che giustifica ma la fede che la abbarbica a Dio.
"Gli uomini non possono essere giustificati davanti a Dio per i loro sforzi, i loro
meriti o le loro opere ma gratuitamente, per l'amore di Cristo e attraverso la
fede". È noto questo grande rifiuto delle opere in Calvino, la cui proclamazione
doveva risuonare così lontano nel pensiero protestante: "No, le opere non sono
necessarie; no, esse non servono a niente per la santità". Ma questo rifiuto
riguarda solo il significato delle opere in rapporto a Dio e alla salvezza; come ogni
atto umano, esse portano i segni della finitezza e le stigmate della caduta; in questo
"esse non sono che peccati e sudiciume". Ma sul piano umano le opere
hanno un senso; se sono senza efficacia per la salvezza, hanno valore di
indicazione e di testimonianza per la fede: "La fede non solo non ci rende
negligenti alle buone azioni, ma è anzi la radice dalla quale esse sono
prodotte". …
Per strade diverse –e non senza molte difficoltà- il cattolicesimo giungerà alle
stesse conclusioni approvando il grande internamento prescritto da Luigi XIV. …
… i miserabili non sono più riguardati come il pretesto inviato da Dio per suscitare
la carità del credente e fornirgli l'occasione di procurarsi la salvezza; ogni cattolico,
36
Questa come le seguenti citazioni sono tratte da opere di Calvino
37
secondo l'esempio dell'arcivescovo di Tours, comincia a vedere in essi "la feccia e il
rifiuto della repubblica non tanto per le loro miserie corporali, di cui bisogna aver
compassione, quanto per quelle spirituali, che fanno orrore".
La Chiesa ha preso la sua decisione; e, ciò facendo, ha diviso il mondo cristiano
della miseria, che il Medioevo aveva santificato nella sua totalità. Ci sarà da un
lato la regione del bene, che è quella della povertà sottomessa e conforme all'ordine che le viene presentato; dall'altro lato la regione del male, cioè la povertà
ribelle, che cerca di sfuggire a quest'ordine. - La prima accetta l'internamento e
vi trova la sua pace; la seconda lo rifiuta, e per conseguenza lo merita. …
L'internamento viene così giustificato doppiamente, in un indissociabile
equivoco, a titolo di beneficio e a titolo di punizione. È insieme ricompensa e
castigo, secondo il valore morale di coloro cui lo si impone. …
L'internamento, questo fenomeno massiccio le cui tracce sono reperibili in tutta
l'Europa del XVII secolo, è un affare di "police", nel senso molto preciso che a
questo termine si dà nell'epoca classica, cioè l'insieme delle misure che rendono il
lavoro sia possibile che necessario per tutti coloro che non saprebbero vivere senza
di esso; …
Prima di avere il senso medico che noi gli diamo, o che desideriamo supporre in
esso, l'isolamento si è reso necessario per tutt'altra causa che la preoccupazione di
guarire. Ciò che l'ha reso necessario è un imperativo di lavoro. La nostra filantropia
vorrebbe volentieri riconoscere i segni di una benevolenza verso la malattia, là
dove spicca solo la condanna dell'ozio. …
In tutta l'Europa l'internamento ha lo stesso significato, almeno originariamente.
Esso costituisce una delle risposte che vengono date dal XVII secolo a una crisi
economica che interessa tutto il mondo occidentale nel suo insieme: ribasso dei
salari, disoccupazione, rarefazione della moneta: un insieme di fatti dovuto
probabilmente a una crisi nell'economia spagnola. …
Ma fuori di questi periodi di crisi, l'internamento assume unaltro significato. La sua
funzione repressiva si trova rafforzata a causa di una nuova utilità. Non si tratta
più allora di rinchiudere i senza lavoro, ma di dar lavoro a coloro che sono stati
rinchiusi e di farli così servire alla prosperità comune. L'alternanza è chiara:
mano d'opera a buon mercato nei periodi di pieno impiego e di alti salari; e in
periodo di disoccupazione riassorbimento degli oziosi e protezione sociale contro
l'agitazione e le sommosse. Non dimentichiamo che le prime case d'internamento
appaiono in Inghilterra nei centri più industrializzati del paese: Worcester,
Norwich, Bristol; che il primo Hópital general è stato aperto a Lione, quarant'anni
prima che a Parigi …
Se si giudicano solo per il loro valore funzionale, la creazione delle case
d'internamento può sembrare un fallimento. La loro scomparsa, all'inizio del XIX
secolo, come centri di raccolta degli indigenti e prigioni della miseria, sanzionerà il
loro insuccesso finale in quasi tutta l'Europa: rimedio transitorio e privo di
efficacia, precauzione sociale abbastanza mal formulata dall'industrializzazione
nascente. E tuttavia, in questo stesso fallimento, l'età classica faceva un'esperienza
insostituibile. Quello che oggi ci appare come una dialettica maldestra della
produzione e dei prezzi, possedeva allora il suo reale significato di una certa
coscienza etica del lavoro in cui le difficoltà dei meccanismi economici perdevano
la loro urgenza a vantaggio di un'affermazione di valore.
In questo primo slancio del mondo industriale il lavoro non appare legato ai
problemi che esso stesso susciterà; lo si concepisce invece come soluzione
generale, panacea infallibile, rimedio a tutte le forme di miseria. Lavoro e povertà
sono situati in un'opposizione semplice; le loro rispettive estensioni sarebbero in
ragione inversa l'una dell'altra. Quanto al potere di far sparire la miseria, che
38
sarebbe caratteristico del lavoro, questo, secondo il pensiero classico, non lo
possiede tanto a causa della sua potenza produttiva quanto per una certa forza di
incanto morale. L'efficacia del lavoro è riconosciuta in quanto è fondata sulla
trascendenza etica. Dopo il peccato originale la fatica-punizione ha assunto un
valore di penitenza e un potere di riscatto. Non è una legge di natura che obbliga
l'uomo a lavorare, ma l'effetto di una maledizione. La terra è innocente di questa
sterilità nella quale finirebbe con l'addormentarsi se l'uomo restasse ozioso: "La
terra non aveva affatto peccato, e se è maledetta, è a causa del lavoro dell'uomo
maledetto che la coltiva; non le si strappa alcun frutto, e soprattutto il frutto più
necessario, se non con la forza e tra lavori continui" .
L'obbligo del lavoro non è legato a nessuna fiducia nella natura; e non è neppure
per un'oscura fedeltà che la terra deve ricompensare la fatica dell'uomo. Il tema che
il lavoro non porta da solo i suoi frutti è costante nei cattolici come nei protestanti.
Raccolto e ricchezza non si trovano al termine di una dialettica del lavoro e della
natura. Ecco l'ammonimento di Calvino: "Non dobbiamo credere che gli uomini
possano rendere fertile la loro terra a seconda di quanto saranno vigilanti e abili o
di come avranno ben fatto il loro dovere; è la benedizione divina che guida tutto".
E, a sua volta, Bossuet37 riconosce questo rischio di un lavoro che resterebbe
infecondo se Dio non intervenisse nella sua benevolenza : «In ogni istante può
sfuggirci la speranza della messe, e il frutto unico di tutti i nostri lavori; noi siamo
alla mercè del cielo incostante che fa piovere sulla tenera spiga". Questo lavoro
precario al quale la natura non è mai costretta a corrispondere -se non per volontà
particolare di Dio- è tuttavia rigorosamente obbligatorio: non sul piano delle sintesi
naturali, ma sul piano delle sintesi morali. Il povero che, senza acconsentire a
"tormentare" la terra, attende che Dio gli venga in aiuto, poiché Egli ha promesso
di nutrire gli uccelli del cielo, disobbedirebbe alla grande legge della Scrittura:
"Non tenterai l'Eterno, il tuo Signore". Non voler lavorare non significa forse
"tentare oltre misura la potenza di Dio? Significa cercare di forzare il miracolo"
mentre il miracolo è accordato quotidianamente all'uomo come ricompensa gratuita
del suo lavoro. Se è vero che il lavoro non è iscritto tra le leggi della natura, esso è
racchiuso nell'ordine del mondo decaduto. Per questo l'ozio è rivolta: la peggiore
fra tutte, in un certo senso: poiché attende che la natura sia generosa come
nell'innocenza degli inizi, e che essa voglia forzare una Bontà a cui l'uomo non ha
più diritto dopo Adamo. L'orgoglio fu il peccato dell'uomo prima della caduta; ma
il peccato dell'ozio è il supremo orgoglio dell'uomo una volta caduto, il risibile
orgoglio della miseria. Nel nostro mondo, dove la terra è fertile solo di rovi e d'erbe
selvatiche, è la colpa per eccellenza. Nel Medioevo il gran peccato, radix malorum
omnium, fu la superbia. Secondo Huizinga38 ci fu un momento, agli albori del
Rinascimento, in cui il peccato supremo prese la forma dell'avarizia, la cieca
cupidigia di Dante. Tutti i testi del XVII secolo annunciano al contrario l'infernale
trionfo della pigrizia: è lei ora che conduce la ronda dei vizi e che li trascina. Non
dimentichiamo che secondo l'editto di fondazione l'Hópital général deve impedire
"la mendicità e l'ozio come fonti di ogni disordine". Bourdaloue 39 fa eco a queste
condanne della pigrizia, miserabile orgoglio dell'uomo caduto : "Che cos'è, ancora
una volta, il disordine di una vita oziosa? È, risponde sant'Ambrogio, a ben
considerare, una seconda rivolta della creatura contro Dio". Il lavoro nelle case
d'internamento assume così il suo significato etico: poiché la pigrizia è diventata la
forma assoluta della rivolta, si costringeranno gli oziosi al lavoro, nella
disposizione indefinita di una fatica senza utilità né profitto.
37
Jacques Bénigne Bossuet (1627–1704) è stato uno scrittore, vescovo cattolico, teologo e predicatore
francese.
38
Johan Huizinga (1872 –1945) storico olandese, conosciuto soprattutto per alcuni importanti saggi sul
XV, XVI e XVII secolo, divenuti col tempo dei veri e propri classici, primo fra tutti: L'autunno del
medioevo.
39
Louis Bourdaloue (1632–1704) gesuita e predicatore francese, noto per l'eloquenza profusa nei
sermoni che recitava, si dice, tenendo gli occhi chiusi, con magistrale teatralità.
39
È in una certa esperienza del lavoro che si è formulata l'esigenza,
indissociabilmente economica e morale, dell'internamento. Lavoro e ozio hanno
tracciato nel mondo classico una linea di separazione che ha sostituito la grande
esclusione della lebbra. L'asilo ha preso rigorosamente il posto del lebbrosario nella
geografia dei luoghi maledetti come nei paesaggi dell'universo morale. Si è ripreso
contatto coi vecchi riti della scomunica, ma nel mondo della produzione e del
commercio. In questi luoghi dell'ozio maledetto e condannato, in questo spazio
inventato da una società che decifrava nella legge del lavoro una trascendenza
etica, la follia comparirà di nuovo e crescerà ben presto fino al punto di annetterli.
La Congregazione di Carità di Savigliano venne
fondata all’inizio del Settecento allo scopo di
soccorrere i poveri, attraverso la distribuzione di
viveri, e di controllarli.
L'istituzione degli Ospedali
di Carità o
Congregazioni della Carità costituisce una delle
iniziative della politica sociale dello stato
piemontese, volute da Vittorio Amedeo II all'interno
della sua politica di riforma assolutistica dello
stato sabaudo. Esse avrebbe dovuto organizzare
l'assistenza ai poveri coordinando l'azione delle
confraternite religiose e dei privati.
Accanto all'opera di assistenza e educazione la
Congregazione, benché, non avendo mai eretto
l'ospizio, non effettuasse delle reclusione in massa
svolgeva anche compiti di controllo e repressione.
Infatti, ad esempio, si legge negli ordinati che
nell'aprile del 1725 si decise di procedere a "far un
scrutinio, osia esame delle famiglie vergognose, e
per ciò fare ha eletto gli Signori A. Filiberto
Longis, teologo, e Canonico Carignani e Maurizio
Derossi dandoli per ciò fare l'autorità necessaria ."
La Congregazione raccoglieva informazioni per
accertarsi del reale stato di bisogno degli assistiti e
così, ad esempio, di fronte alla domanda di Laura
Maria Botta di essere aiutata in quanto
abbandonata dal marito si decise di obbligare lo
suocero a provvedere ai bisogni della nuora poiché
"è homo comodo per poterla mantenere"; è
ipotizzabile quindi che trattando questioni di questo
genere si finisse facilmente con l'interferire con la
vita privata e famigliare degli individui.
Inoltre, la congregazione manteneva due guardie
armate con il compito, tra il resto, di custodire in
due apposite stanze i poveri "inobedienti" che vi
fossero stati rinchiusi. A dette guardie veniva
Registro dei verbali della congregazione di carità
(Archivio storico Ospedale SS. Annunziata di
Savigliano)
fornito l'abbigliamento costituita da "... vestito, Camisotta,
Calze,
Bandogliera,
spada,
cappello,
Calzetti
...".Sicuramente spesso povertà e illegalità, carità e
repressione andavano di pari passo, così le carceri erano
piene di " gran numero di poveri incarcerati, quali molti
essendo miserabili non havevano altro soccorso se non
quello che gli somministrava la Confraternita, per il che
era di bisogno che si andasse alle case dei confratti e
consuore, et anco di altri che erano devoti e benefattori
della Confraternita per raccogliere gran parte del loro
vitto, et a molti si pagarono i loro processi...".
Tra i poteri della congregazione vi era infine anche quello
di avviare i poveri al lavoro affidandoli ad artigiani che ne
facessero richiesta. Così avvenne, ad esempio, a certo
Antonio Bosio che nel 1725 venne affidato per due anni ad
un sarto della città che si impegnava a "passare il pane ...
pendente il tempo d'apprendere ... l'arte di sarto" a
condizione che il Bosio non avesse a "far il licenzioso e
non continuare ad imparar tal arte".
Verrà un giorno in cui essa potrà raccogliere queste plaghe sterili dell'ozio per
una sorta di antichissimo e oscuro diritto ereditario. Il XIX secolo accetterà, esigerà
perfino, che si destinino esclusivamente ai folli le terre dove centocinquant'anni
prima si era voluto rinchiudere i miserabili, i pezzenti, i disoccupati.
Non è indifferente che i folli siano stati coinvolti nella grande proscrizione
dell'ozio. Fin dall'inizio essi avranno il loro posto accanto ai poveri, buoni o cattivi,
e agli oziosi, volontari o no. Come gli altri, saranno sottomessi alle leggi del lavoro
obbligatorio; e più di una volta è avvenuto che essi abbiano preso il loro aspetto
caratteristico proprio in questa coercizione uniforme. Nei laboratori dove erano
confusi, si sono distinti da soli per la loro incapacità al lavoro e a seguire i ritmi
40
della vita collettiva. La necessità, scoperta nel XVIII secolo, di dare un regime
speciale agli alienati, e la grande crisi dell'internamento che precede di poco la
Rivoluzione sono legate all'esperienza della follia che si è potuta fare nell'obbligo
generale al lavoro. Non si è atteso il XVII secolo per "rinchiudere" i folli, ma già a
quest'epoca si comincia a "internarli", mescolandoli a tutta una popolazione con la
quale si pensa che essi abbiano una parentela. Fino alla Renaissance, la sensibilità
verso la follia era legata alla presenza di trascendenze immaginarie. A partire
dall'età classica, e per la prima volta, la follia è sentita attraverso una condanna
etica dell'ozio e in un'immanenza sociale garantita dalla comunità di lavoro. Questa
comunità acquista un potere etico di separazione, che le permette di respingere,
come in un altro mondo, tutte le forme dell'inutilità sociale. La follia riceverà lo
statuto che le conosciamo in quest'altro mondo, delimitato dalle potenze consacrate
del lavoro. Se nella follia classica c'è qualcosa che parla di altrove e di qualcosa
d'altro, ciò non deriva più dal fatto che il folle viene da un altro mondo, quello
dell'insensato, e che ne porta i segni; ma dal fatto che egli oltrepassa da se stesso le
frontiere dell'ordine borghese e si aliena al di fuori dei limiti consacrati della sua
etica.
Effettivamente il rapporto tra l'usanza dell'internamento e le esigenze del lavoro è
ben lontano dall’essere definito interamente dalle condizioni economiche. Un
sentimento morale l’anima e lo sostiene. Quando il Board of Trade pubblicò il suo
rapporto sui poveri, nel quale erano proposti i modi "di renderli utili alla
comunità", venne ben precisato che l'origine della povertà non era né la scarsezza
delle derrate né la disoccupazione, ma "l'indebolimento della disciplina e il rilassamento dei costumi". Anche l'editto del 1656 portava strane minacce tra le denunce
morali. "Il libertinaggio dei mendicanti si è spinto all'eccesso con uno sciagurato
abbandono a ogni sorta di delitti, che attira la maledizione di Dio sugli stati,
quando sono impuniti." Questo "libertinaggio" non è quello che si può definire in
rapporto alla grande legge del lavoro, bensì un libertinaggio morale: "L'esperienza
ha fatto sapere alle persone che si sono dedicate a occupazioni caritatevoli che
molti di essi, dell'uno e dell'altro sesso, convivono senza essere sposati, che molti
dei loro figli non sono stati battezzati, e che quasi tutti vivono nell'ignoranza della
religione, nel disprezzo dei sacramenti e nella continua abitudine a ogni sorta di
vizi". Egualmente, l'Hòpital général non ha solo la fisionomia di un semplice
rifugio per coloro "che non sono in grado di lavorare a causa della vecchiaia,
dell'infermità o della malattia; e neppure avrà solo l'aspetto di un laboratorio di
lavoro forzato, ma piuttosto di un'istituzione morale incaricata di punire, di
correggere una certa "vacanza" morale, che non merita il tribunale degli uomini,
ma che non può essere corretta con la sola severità della penitenza. L'Hópital
général ha uno statuto etico. I suoi direttori sono investiti di questo compito morale,
e si attribuisce loro tutto l'apparato giuridico e materiale della repressione: "Essi
hanno ogni potere di autorità, di direzione, di amministrazione, di polizia, di giurisdizione, di correzione e di punizione"; e per far fronte a questo compito si mettono
a loro disposizione "pali e berline, prigioni e segrete".
E in fondo, proprio in questo contesto l'obbligo del lavoro acquista il suo
significato: a un tempo esercizio etico e garanzia morale. Esso servirà come ascesi,
come punizione, come segno di un certo atteggiamento del cuore. Il prigioniero che
può e vuole lavorare sarà liberato; non tanto perché egli sarà di nuovo utile alla
società, ma perché egli ha sottoscritto di nuovo al grande patto etico dell'esistenza
umana. Nell'aprile 1684 un decreto crea all'interno dell'ospedale una sezione per i
ragazzi e le fanciulle al disotto dei venticinque anni; esso precisa che il lavoro deve
occupare la maggior parte della giornata e accompagnarsi alla "lettura di qualche
libro di pietà". Ma il regolamento definisce il carattere meramente repressivo di
questo lavoro, lontano da ogni intento produttivo : "Li si farà lavorare il più a lungo
possibile, e alle occupazioni più rudi che le loro forze e i luoghi in cui saranno
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potranno permettere". Allora, e solo allora, si potrà insegnar loro un mestiere "che
convenga al loro sesso e alla loro inclinazione" nella misura in cui il loro zelo nei
primi esercizi avrà permesso "di giudicare che essi vogliono emendarsi". Ogni
mancanza infine "sarà punita con la riduzione del cibo, con l'aumento del lavoro,
con la prigione e con altre pene usate nei suddetti ospedali, secondo il giudizio dei
direttori". Basta leggere il "Regolamento generale della vita quotidiana nella
Maison de Saint-Louis de la Salpétrière" per capire che l'esigenza stessa del lavoro
era assoggettata a un esercizio di riforma e di coercizione morale, che fornisce, se
non l'ultimo significato, almeno la giustificazione essenziale dell'internamento.
È un fenomeno importante questa invenzione di un luogo di coercizione dove la
morale infierisce per via d'assegnazione amministrativa. Per la prima volta si
istituiscono delle fondazioni morali, dove si compie una stupefacente sintesi tra
obbligo morale e legge civile. L'ordine degli stati non tollera più il disordine dei
cuori. Beninteso, non è la prima volta nella cultura europea che la colpa morale,
perfino nella sua forma più privata, prende l'aspetto di un attentato contro le leggi
scritte o non scritte della città. Ma in questo grande internamento dell'età classica
l'essenziale - e il fatto nuovo - è che la legge non condanna più: si viene rinchiusi
nelle cittadelle della pura moralità, dove la legge che dovrebbe regnare sui cuori
sarà applicata senza compromessi né mitigazioni, sotto le forme rigorose della
coercizione fisica. Si suppone una specie di reversibilità dall'ordine morale dei
problemi a quello fisico, una possibilità di passare dal primo al secondo senza
residui, né violenza, né abuso di potere. L'applicazione integrale della legge morale
non appartiene più agli adempimenti; essa può realizzarsi a partire dal piano delle
sintesi sociali. La morale si lascia amministrare come il commercio o l'industria.
Così vediamo inserirsi nelle istituzioni della monarchia assoluta.- in quelle stesse
che restarono a lungo come il simbolo della sua arbitrarietà - la grande idea
borghese, e ben presto repubblicana, che anche la virtù è un affare di stato, che si
possono prendere provvedimenti per farla trionfare, che si può stabilire un'autorità
per essere sicuri che la si rispetti. Le mura dell'internamento rinchiudono in un
certo senso il negativo di questa cittadinanza morale, della quale la coscienza
borghese comincia a sognare nel XVII secolo: cittadinanza morale destinata a
coloro che vorrebbero di primo acchito sottrarvisi, cittadinanza nella quale il diritto
regna soltanto in virtù di una forza senza appello: una specie di sovranità del bene
dove trionfa la sola minaccia e dove la virtù, visto che ha il suo premio in se stessa,
non ha per tutta ricompensa che lo sfuggire alla punizione. Nell'ombra della città
borghese nasce questa strana repubblica del bene che è imposta con la forza a tutti
coloro che sono sospettati di appartenere al male. È il rovescio del gran sogno e
della grande preoccupazione della borghesia nell'epoca classica: la raggiunta
identificazione delle leggi dello stato e di quelle del cuore. "Che i nostri uomini
politici si degnino di sospendere i loro calcoli ... e che imparino finalmente che col
denaro si ottiene tutto tranne buoni costumi e veri cittadini40."
Non è questo il sogno che sembra avere ossessionato i fondatori della casa
d'internamento di Amburgo? Uno dei direttori deve vigilare a che "tutti coloro che
sono nella casa adempiano i propri doveri religiosi e ne siano istruiti ... Il maestro
di scuola deve istruire i ragazzi nella religione, ed esortarli, incoraggiarli a leggere,
nei momenti liberi, diversi passi della Sacra Scrittura. Deve insegnargli a leggere, a
scrivere, a far di conto, a essere garbati e decenti nei riguardi di coloro che visitano
la casa. Deve aver cura che assistano al servizio divino, e che si comportino con
modestia..." In Inghilterra, il regolamento delle workhouses dà molta importanza
alla sorveglianza dei costumi e all'educazione religiosa. E così, per quanto riguarda
la casa di Plymouth, è stata prevista la nomina di uno schoolmaster che deve
rispondere alla triplice condizione di essere "pio, sobrio e discreto"; ogni mattina e
ogni sera, a determinate ore, egli avrà il compito di presiedere alle preghiere; ogni
sabato pomeriggio e ogni giorno festivo, dovrà rivolgersi agli internati, esortarli e
40
Citato da Rousseau, “Discorso sulle scienze e sulle arti”
42
istruirli intorno agli "elementi fondamentali della religione protestante,
conformemente alla dottrina della Chiesa anglicana ". Ad Amburgo come a
Plymouth, nelle Zuchthàuser come nelle workhouses, in tutta l'Europa protestante
si edificano queste fortezze dell'ordine morale nelle quali si insegna della religione
ciò che è necessario alla tranquillità delle città.
In territorio cattolico lo scopo è lo stesso, ma l'impronta religiosa un po' più
marcata. L'opera di san Vincenzo de’ Paoli41 ne fa fede. "Il fine principale per cui si
è consentito a ritirare qui delle persone, lontano dal frastuono del gran mondo, e le
si è fatte entrare in questa solitudine in qualità di pensionanti, era di salvarle dalla
schiavitù del peccato, d'impedir loro di essere dannate in eterno e di fornir loro il
modo di gioire di una perfetta contentezza in questa vita e nell'altra; esse faranno il
possibile per adorare in questo la divina provvidenza ... L'esperienza ci convince
disgraziatamente anche troppo che la fonte delle sregolatezze che noi vediamo oggi
regnare tra la gioventù non proviene da altro che dal grado di mancanza
d'istruzione e di docilità verso le cose spirituali, preferendo molto di più seguire le
loro cattive inclinazioni piuttosto che le sante ispirazioni di Dio e i caritatevoli
consigli dei loro genitori." Si tratta quindi di liberare i detenuti da un mondo che
non è per la loro debolezza che un invito al peccato, richiamarli a una solitudine
nella quale non avranno per compagni che i loro "angeli custodi" incarnati nella
presenza quotidiana dei loro sorveglianti: costoro, effettivamente, "rendono loro gli
stessi buoni servizi degli invisibili angeli custodi: e cioè, istruirli, consolarli e
procurar loro la salvezza". Nelle case della Charité ci si adopera con la più grande
cura a mettere ordine in tal modo nella. vita e nelle coscienze, e lungo tutto il XVIII
secolo apparirà sempre più chiaramente che questa è la vera ragione
dell'internamento. Nel 1765 viene stabilito un nuovo regolamento per la Charité di
Chateau-Thierry. Vi è ben precisato che "il priore farà visita almeno una volta alla
settimana a tutti i prigionieri, uno dopo l'altro e separatamente, per consolarli,
richiamarli a una condotta migliore e assicurarsi di persona che siano trattati come
devono esserlo; il vicepriore lo farà tutti i giorni".
Tutte queste prigioni dell'ordine morale avrebbero potuto recare questo motto che
Howard ha ancora potuto leggere su quella di Magonza: "Se si è riusciti a
sottomettere al giogo taluni animali feroci, non si deve disperare di correggere l'uomo che si è fuorviato".
3 - Conclusioni
L'internamento è una creazione istituzionale caratteristica dei XVII secolo. Esso ha
preso subito un'ampiezza che non consente di paragonarlo con l'imprigionamento
così come lo si praticava nel Medioevo. Come misura economica e come
precauzione sociale, esso ha valore di invenzione. Ma nella storia della sragione
designa un evento decisivo: il momento in cui la follia è percepita nell'orizzonte
sociale della povertà, dell'incapacità al lavoro, dell'impossibilità di integrarsi al
gruppo; il momento in cui essa comincia a far parte dei problemi dell'ordinamento
civile. I nuovi significati che vengono dati alla povertà, l'importanza attribuita
all'obbligo del lavoro, e tutti i valori etici che le sono legati, determinano alla
lontana l'esperienza che si fa della follia e ne mutano il significato.
È nata una sensibilità che ha tracciato una linea, formato un limitare; e che sceglie,
per bandire. Lo spazio concreto della società classica riserva una regione di
neutralità, una pagina bianca in cui la vita reale della città è sospesa: lì l'ordine non
affronta più liberamente il disordine, la ragione non tenta più di scavarsi con le sue
forze la sua strada fra tutto ciò che può sottrarsi a lei o che tenta di rifiutarla. Essa
41
Vincenzo de' Paoli, (1581–1660), sacerdote francese, fondatore e ispiratore di numerose
congregazioni religiose, tipico santo controriformista.
43
regna allo stato puro, in un trionfo che le viene preparato in anticipo, su una
sragione scatenata. La follia è così strappata a quella libertà immaginaria che la
faceva ancora crescere nel cielo della Renaissance. Non molto tempo prima essa si
dibatteva in piena luce: ed era il Re Lear, era il Don Chisciotte. Ma in meno di
mezzo secolo si è trovata reclusa e, nella fortezza dell'indeterminato, legata alla
ragione, alle regole della morale e alle loro monotone notti.
M. Foucault – “Storia della follia nell’età classica”, Rizzoli Editore, 1976, estratti pag. 17112
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