15 - LA FILOSOFIA MODERNA: IL PROBLEMA DI DIO - Locke: il deismo La religione razionale La critica delle religioni rivelate La tolleranza Religione razionale e cristianesimo Le critiche degli illuministi - Spinoza: il panteismo La concezione panteistica La critica alla concezione ebraico-cristiana della divinità Il finalismo La rappresentazione antropomorfica - Pascal: la fede come dimensione esistenziale La prospettiva razionale e la prospettiva esistenziale La condizione umana come condizione tragica Il divertimento e la noia Filosofia e cristianesimo L’argomento della scommessa - La formazione dell'ateismo L'origine delle religioni Ateismo e moralità - Kant: Dio, una ragionevole speranza Il contributo kantiano Le critiche alle prove dell'esistenza di Dio e l’agnosticismo kantiano La morale e i postulati pratici La morale fondata sulla ragione dell'uomo I postulati pratici Locke: il deismo Pur all’interno di un atteggiamento sempre più laico, la necessità razionale dell’esistenza di Dio non venne in generale messa in dubbio dalla filosofia moderna; in essa sono riscontrabili quattro posizioni riguardo al problema di Dio: il deismo, il panteismo1, la fede come dimensione esistenziale e, infine, seppure ancora solo ai margini del dibattito culturale, le prime elaborazioni delle tesi atee. Il deismo è l’atteggiamento più diffuso, fatto proprio, ad esempio, da Cartesio, Locke e gran parte dell’illuminismo francese. Le altre posizioni sono, invece, più isolate: il panteismo è rappresentato da Spinoza, un filosofo olandese di origine ebraica, mentre la rilettura della fede in chiave esistenziale è legata soprattutto a Pascal, filosofo e matematico francese. I deisti riconoscono la necessità di ammettere l’esistenza di una religione razionale non fondata sulla rivelazione ma sulla ragione. Questa religione è il frutto di un atteggiamento naturale dell’uomo e perciò costituisce, per i deisti, IL PROBLEMA DI DIO NELLA FILOSOFIA MODERNA Le posizioni: - _________________________________ - _________________________________ - _________________________________ - __________________________________ LOCKE: IL DEISMO LA RELIGIONE RAZIONALE 1 I panteisti identificano Dio con il tutto, ovvero con l’universo, opponendo alla concezione di un Dio trascendente, posto quindi su un piano superiore all’universo, quello di una divinità immanente, coincidente con il modo stesso. 1 una religione naturale. Essa consiste nell’ammettere l’esistenza di Dio e delle regole morali che ci impongono l’amore e il rispetto per gli altri. La religione naturale ha agli occhi dei deisti una duplice funzione razionale e sociale. Sul piano razionale Dio appare il garante della validità delle leggi che governano il mondo e che la scienza va scoprendo. Per dirla con le espressioni di Pascal, peraltro fiero avversario del deismo, Dio, per essi, svolge lo stesso ruolo di un orologiaio il quale, dopo aver costruito l’orologio (il mondo), lo mette in carica lasciandolo funzionare grazie al solo meccanismo interno (le leggi). Accanto a questa funzione razionale, la necessità dell’ammissione dell’esistenza di Dio appare ai deisti legata anche al fatto che essa si accompagna al riconoscimento delle fondamentali regoli morali che consentono la vita in società, tant’è che l’ateismo appariva sinonimo di immorale. LA RELIGIONE RAZIONALE - Fondata sulla __________________ e non sulla ______________________ - poiché ____________________= ____________________ religione __________________ - ammette l’esistenza di: a) _________ b) __________________________________ - duplice funzione: a) ___________________: Dio garante ____________________________________________________________ b) ___________________: ______________________________________________________________________ LA CRITICA DELLE RELIGIONI RIVELATE Al nucleo della religione naturale, secondo il deismo, tutte le religioni rilevate aggiungono aspetti sostanzialmente dannosi e negativi, come i dogmi, credenze indimostrabili e quindi inaccettabili, e il culto, che secondo i deisti è in realtà una pratica di origine magica. Inoltre, nelle religioni rivelate la classe sacerdotale usurpa il ruolo che originariamente è di tutti i fedeli, riservando a sé il monopolio della intermediazione con il divino. Dogmi, culti e gerarchie ecclesiastiche costituiscono anche le uniche cause dell’intolleranza tra religioni. LA TOLLERANZA Sicuramente uno dei contributi maggiori che la filosofia deista ha dato alla cultura europea è legato all’affermazione del valore della tolleranza, in un momento di grandi conflitti religiosi in Europa che coinvolgevano protestanti e cattolici. J. Locke (1632-1704)2 scrisse un testo fondamentale a questo proposito, “La lettera sulla tolleranza”, affermando due concetti che sono rimasti basilari. Innanzitutto la laicità dello stato fondata sul fatto che Chiesa e Stato hanno compiti diversi. La funzione dello Stato e di consentire e regolare la convivenza sociale, mentre la chiesa deve pensare alla salvezza delle anime. Queste funzioni devono essere assolte senza interferenza, perchè in caso contrario si affermerebbe uno stato confessionale, cioè non laico. In secondo luogo, la libertà religiosa: in quanto la fede deve essere una scelta libera, non frutto di una costrizione esterna. Le diverse chiese sono libere associazioni di persone che si riuniscono per adorare dio nel modo che credono più accetto per la divinità stessa. L’unica forma di intolleranza ammessa è quella contro gli atei che, secondo Locke e i deisti, sono esseri immorali , quindi incapaci di accettare le regole morali su cui si basa la società. RELIGIONE RAZIONALE E CRISTIANESIMO Mentre i deisti del Seicento avevano riconosciuto nel cristianesimo una forma di religione razionale, nel Settecento, in ambiente illuminista, la critica alle ‘ religioni rivelate, e quindi anche al cristianesimo, si fece molto più serrata. 2 Tra le opere di Locke ricordiamo: “Il saggio sull’intelletto umano” (1688), per quanto riguarda la teoria della conoscenza, “Due trattati sul governo” (1690) e “Lettera sulla tolleranza” (1689), per quel che riguarda le teorie politiche (vedi letture). Per la vita vedi “11 – La filosofia moderna: la giustificazione del sapere scientifico e la concezione della realtà” 2 L’antitesi tra religione naturale e religione positiva appare lo strumento polemico di cui l’illuminismo francese si avvale per procedere alla distruzione dei fondamenti della fede religiosa, così come questa è stata tramandata da parte della tradizione. La religione naturale è, infatti, una religione fondata esclusivamente sulla ragione, invece la religione positiva è fondata sulla tradizione e trae il proprio titolo di legittimità dal richiamo ad una originaria rivelazione. Ma fondare una religione sulla rivelazione vuol dire fondarla su un fatto storico e, per di più, su un fatto di dubbia attendibilità o risultato di una evidente mistificazione. L’ostilità dell’Illuminismo nei confronti delle religioni positive nasce da una serie di ragioni teoriche e pratiche strettamente connesse. In primo luogo deriva da una mentalità razionalistica, che, non riconoscendo altro criterio di verità all’infuori della ragione e dell’esperienza, misconosce il concetto di rivelazione, reputando inoltre che i vari dogmi, più che essere verità meta-razionali (secondo la tesi dei teologi), siano costitutivamente credenze anti-razionali. La stessa idea centrale del cristianesimo, quella di un Dio che dopo aver creato l’uomo viene a morire sulla croce per redimerlo, agli occhi degli autori più estremisti appare soltanto una “favola giudaica”, che secoli interi di educazione cristiana non bastano a rendere più credibile, o meno assurda, di fronte all’intelletto. In secondo luogo gli illuministi ritengono che le varie religioni della storia abbiano contribuito, insieme al potere politico, a tenere i popoli nell’ignoranza e nella servitù, ostacolando il progresso scientifico, economico e sociale dell’umanità e producendo per lo più intolleranza, fanatismo e divisione fra gli individui. In terzo luogo, gli illuministi, convinti che la ragione vuole la felicità, reputano che la religione, soprattutto quella cristiana, “imbrogliando i popoli”, li abbia intristiti con il senso del peccato, della morte e del castigo, impedendo una naturale ed armonica realizzazione del loro essere mondano. Questo tipo di critiche alle religioni positive, in tutta la loro forza polemica, si trova soprattutto nei cosiddetti “Manoscritti clandestini”, composti grosso modo tra il 1700 e il 1750, che circolarono clandestinamente, a causa dei controlli di polizia regia e delle persecuzioni ecclesiastiche, presso una fascia ristretta di intellettuali. Spinoza: il panteismo SPINOZA: IL PANTEISMO LA CONCEZIONE PANTEISTICA Spinoza (1632-1677)3 si stacca nettamente da gran parte della metafisica occidentale, e in particolare dal filone ebraico-cristiano, in quanto ritiene che Dio e mondo non costituiscano due enti separati, ma uno stesso ente, poiché Dio non è fuori dal mondo, ma nel mondo e costituisce con esso quell'unica realtà globale che è la Natura. In tal modo, Spinoza perviene a una forma di panteismo che giunge a identificare Dio o la Sostanza con la Natura, considerata come realtà increata, eterna, infinita e unica da cui derivano e in cui sono tutte le cose. Sulla base di questa coincidenza tra Dio e mondo, considerati come un Sistema globale retto da leggi matematico-geometrico, Spinoza elabora una profonda critica a quella millenaria visione finalistica del mondo che si era espressa nella dottrina ebraico-cristiana di un Dio che crea liberamente il mondo secondo progetti implicanti la subordinazione intenzionale delle cose all'uomo (finalismo antropocentrico). La critica del finalismo è sicuramente un prodotto della rivoluzione scientifica, in quanto essa si fonda su un’immagine del mondo retto dalle leggi fisiche più che da fini ultimi. Galileo, infatti, pur non avendo affatto escluso le cause finali, aveva 3 Per la vita e le opere di Spinoza vedi pag. 23 3 sostenuto che noi non possiamo conoscerle. E Cartesio aveva incluso il proprio universo meccanicistico nei piani liberi e razionali del Creatore. Spinoza, invece, procedendo oltre Cartesio, afferma risolutamente che le cause finali non esistono, né in natura, né in Dio. In tal modo, egli porta la critica al finalismo a uno dei punti più estremi toccati dalla filosofia moderna. Secondo Spinoza ammettere l'esistenza di cause finali è un pregiudizio dovuto alla costituzione dell'intelletto umano. Gli uomini ritengono tutti di agire in vista di un fine, cioè di un vantaggio o di un bene che desiderano conseguire. E poiché trovano a loro disposizione un certo numero di mezzi per raggiungere i loro fini (ad esempio gli occhi per vedere, il sole per illuminare, le erbe e gli animali per nutrirsi ecc.), sono portati a considerare come mezzi tutte le cose naturali. E poiché sanno che tali mezzi non sono stati da loro stessi prodotti, credono che siano stati preparati per loro da Dio. Nasce così il pregiudizio che la divinità produca e governi le cose per l'uso degli uomini, per legare gli uomini a sé e per essere onorata da essi. Ma, dall'altro lato, gli uomini osservano che la natura offre loro non solo agevolezze e comodità, ma anche disagi e svantaggi di ogni genere (malattie, terremoti, intemperie ecc.) e credono allora che questi malanni derivino dallo sdegno della divinità per le loro mancanze nei suoi riguardi. E sebbene l'esperienza di ogni giorno mostri con infiniti esempi che vantaggi e danni si distribuiscono ugualmente tra i buoni e i cattivi, gli uomini preferiscono, anziché abbandonare il loro pregiudizio, ricorrere a un altro pregiudizio per puntellare il primo ammettendo che il giudizio divino superi di gran lunga l'intelletto dell'uomo. Per Spinoza, il limite maggiore del finalismo, filosoficamente parlando, è di considerare come causa ciò che in natura è effetto, e viceversa, mettendo dopo ciò che in natura è prima. Ad esempio: non è il calore trasmesso agli esseri viventi che è la causa del sole, ma il sole che è la causa del calore trasmesso agli esseri viventi (per cui si potrebbe dire, per esemplificare ulteriormente il pensiero di Spinoza, che l'errore del finalismo consiste nel non rendersi conto che non è l'ambiente, cioè il sole, l'erba ecc., a conformarsi ai viventi, ma sono i viventi che si conformano all'ambiente). Inoltre il finalismo rende imperfetto ciò che è perfetto. Secondo Spinoza, infatti, perfetto è l'effetto che è prodotto immediatamente da Dio, imperfetto quello che, per essere prodotto, ha bisogno di cause intermedie. Evidentemente se talune cose fossero fatte da Dio come mezzi per conseguire un certo fine, esse sarebbero meno perfette delle altre. Infine, in terzo luogo, la dottrina delle cause finali non solo elimina la perfezione del mondo, ma toglie anche la perfezione di Dio. Se Dio agisse per un fine, necessariamente vorrebbe qualcosa di cui difetta. LIMITI FINALISMO: Limiti finalismo: 1 ____________________________________ perchè __________________________________________________________________ 2________ ____________________________ perchè __________________________________________________________________ 3 ____________________________________ perchè __________________________________________________________________ La concezione finalistica del mondo non è che un prodotto dell'immaginazione: consiste nel tentativo di spiegare il mondo mediante nozioni come il bene, il male, l'ordine, la confusione, il caldo, il freddo, il bello, il brutto, le quali non esprimono se non il modo in cui le cose stesse colpiscono gli uomini e non hanno valore oggettivo, né possono comunque valere come criteri per intendere la realtà stessa. La critica spinoziana al finalismo si accompagna a un deciso rifiuto di ogni riduzione di Dio nei limiti dell'umano e quindi al rigetto di ogni antropomorfismo religioso. Per Spinoza, la visione biblica di Dio, considerato come una specie di superuomo, che ha una mente e una sensibilità simile alla nostra e che ama, odia, si ingelosisce, si arrabbia e punisce, è soltanto il prodotto dell'immaginazione superstiziosa di individui che «si vennero forgiando Dio a immagine dell'uomo, ora adirato, ora misericordioso, ora proteso nell'attesa del futuro, ora preso dalla 4 collera e dal sospetto, e ora persino preso in trappola dal demonio». Al Dio del volgo e dei teologi, che reputa frutto di una visione distorta della realtà, Spinoza sostituisce quindi la propria idea filosofica di un Dio sovrapersonale coincidente con il Tutto cosmico. Di conseguenza, la spaccatura tra lo spinozismo e la rappresentazione ebraico-cristiana della divinità risulta netta e radicale. PASCAL: LA FEDE COME Pascal: la fede come dimensione esistenziale DIMENSIONE ESISTENZIALE Tra i filosofi dell’età moderna B. Pascal (1623-1662)4, legando la religione alla dimensione esistenziale, è sicuramente l’autore che maggiormente ha contribuito ad elaborare quella che è diventata la sensibilità religiosa contemporanea. Di fronte ai problemi dell'esistenza e della morale la ragione scientifica è, secondo Pascal, impotente: "quando ho cominciato lo studio dell'uomo, ho visto che le scienze esatte non sono proprie dell'uomo e che assai più mi sviavo io dalla mia condizione con l'approfondirle che gli altri con l'ignorarle". Nello studio dell'uomo lo spirito di geometria, che procede con le sue dimostrazioni a partire da principi primi ed è tipico della scienza, va quindi sostituito da una comprensione più profonda, dallo spirito di finezza, o dal "cuore", il quale "ha le sue ragioni che la ragione non conosce". La condizione umana è caratterizzata da una sproporzione fondamentale tra aspirazioni e realtà sia a livello conoscitivo sia a livello pratico. Indagando la natura cerchiamo la verità, ma riusciamo solo a "scorgere qualche apparenza di ciò che vi è di intermedio tra le cose", mentre "gli estremi, la fine delle cose e il loro principio" rimangono per noi "un segreto impenetrabile". Possiamo estendere indefinitamente le nostre conoscenze, ma i principi ultimi delle cose restano al di fuori della nostra portata; volerli comprendere "e di là giungere fino a conoscere tutto" rivela una presunzione tanto infinita quanto infinito è l'oggetto dell'indagine. In conclusione, siamo "incapaci sia di sapere in modo certo che di ignorare in modo assoluto". La stessa sproporzione definisce la condizione esistenziale dell’uomo. "Sperduto in questo remoto cantuccio dell'universo", l'uomo è come sospeso fra i due abissi dell'infinito e del nulla; egli è "un nulla nei confronti dell'infinito, un tutto rispetto al nulla, un qualcosa di mezzo tra nulla e tutto". La medesima sproporzione si riflette nella vita pratica. Cerchiamo la felicità in tutti i modi: "se gli uni vanno alla guerra e gli altri non ci vanno, è per questo stesso desiderio che agisce in entrambi accompagnato da vedute diverse... Questo è il motivo di tutte le azioni di tutti gli uomini, anche di quelli che s'impiccano". Ma, identificando il bene con cose particolari e contingenti - i piaceri, le scienze, la fama e così via -, siamo di continuo delusi: "il presente non ci soddisfa mai, l'esperienza ci inganna e di dolore in dolore ci conduce alla morte, che è il colmo dei mali ed eterno". E infatti "tutti si lagnano, principi e sudditi, nobili e villani, vecchi e giovani, forti e deboli, dotti e ignoranti, sani e malati, di ogni tempo, di ogni paese, di ogni età e condizione". La condizione umana, definita da questa sproporzione o contraddizione assolutamente insuperabile, è pertanto una condizione tragica. Occorre prenderne coscienza fino in fondo. La grandezza dell'uomo sta infatti nel pensiero: debole come un giunco, l'uomo è tuttavia "un giunco pensante" ed ha quindi la capacità di riconoscere la propria miseria: "l'uomo sa di essere miserabile: egli è dunque miserabile, perché lo è, ma è ben grande, perché lo sa". Questa "duplicità dell'uomo" va tenuta ben ferma: "è pericoloso mostrare troppo all'uomo quanto egli sia uguale alle bestie, senza mostrargli la sua grandezza; è pericoloso anche fargli vedere troppo la sua 4 Per la vita e le opere di Pascal vedi pag. 22 5 grandezza senza la sua bassezza". Per comprendere veramente l'uomo, non bisogna né esaltarlo né abbassarlo in modo unilaterale, ma riconoscerne la contraddittorietà irriducibile, il suo essere un "paradosso di fronte a se stesso". Riflettere su noi stessi ossia riconoscere apertamente la tragicità della nostra condizione costa fatica e dolore. Perciò l'uomo fa di tutto per non pensarci e cerca il divertimento: "non avendo potuto guarire la morte, la miseria, l'ignoranza, gli uomini hanno deciso, per rendersi felici, di non pensarci". Divertimento è tutto ciò che ci distoglie dal pensare a noi stessi: non solo i giochi e le attività ricreative quindi, ma anche il lavoro, gli affari, le cariche pubbliche e così via. Gli uomini si assegnano "cariche e affari che li tengono in trambusto dallo spuntar del giorno" e in tal modo essi non pensano "a ciò che sono, donde vengono, dove vanno" e "se hanno qualche momento di tregua, si consiglia loro di impiegarlo a divertirsi, a giocare, a immergersi sempre interamente in un'occupazione". Nel divertimento non si cercano le cose per se stesse - il denaro che si può vincere al gioco, la lepre che si insegue, la carica per cui ci si affanna -, ma proprio il trambusto che ci distoglie dal pensare alla nostra infelice condizione: "ragion per cui si gusta più la caccia che la preda". Essenziale al divertimento è il movimento incessante, il variare ininterrotto delle attività, il non fermarsi mai e quindi il continuo assorbimento del presente nel futuro: "il passato e il presente sono i nostri mezzi, solo l'avvenire è il nostro scopo. E così non viviamo mai, ma speriamo di vivere; e, preparandoci sempre ad essere felici, è inevitabile che non lo siamo mai". Il divertimento si risolve in una promessa di felicità rinviata di continuo. Esso non produce felicità effettiva, ma evita la noia. In assenza di divertimenti, infatti, quando è in assoluto riposo, l'uomo "sente il proprio nulla, il proprio abbandono, la propria insufficienza, dipendenza, impotenza, il proprio vuoto. E immediatamente verrà su dal fondo della sua anima la noia, la tetraggine, la tristezza, l'affanno, il dispetto, la disperazione". Ma proprio in ciò si manifesta in pieno la funzione negativa, di copertura e di inganno, del divertimento: senza di esso la noia ci spingerebbe ad aprire gli occhi e a cercare una via d'uscita; invece "il divertimento ci diletta e così ci fa arrivare inavvertitamente alla morte". Condizione umana: sproporzione 1_____________________________ 2 _____________________________ 3 _____________________________ contraddizione tra ___________________ condizione ____________ ____________ (fuga) ___________ La filosofia, che pur si pone, a differenza della scienza, il problema della condizione umana, non è in grado di darne una soluzione, poiché non la assume nella sua effettiva complessità. I filosofi tendono infatti ad esaltare uno dei due termini della contraddizione a scapito dell'altro, i "dogmatici" la ragione e la grandezza dell'uomo, gli scettici i suoi limiti conoscitivi e la sua miseria. Gravi e inconciliabili sono poi le divergenze tra i filosofi nella individuazione del bene. Di fronte alla estrema variabilità delle norme morali, delle leggi e dei costumi, la ragione è incapace di stabilire principi veramente universali. Sul piano razionale tutte le norme appaiono relative, frutto di abitudini, interessi, mode, tradizioni ecc. Ciò che chiamiamo giustizia non ha un fondamento razionale, ma puramente fattuale nella forza: "non potendosi procurare che ciò che è giusto fosse forte, si è procurato che ciò che è forte fosse giusto". La ragione, lasciata a se stessa, porta inevitabilmente allo scetticismo. Pascal non attribuisce, infine, una grande importanza nemmeno alle prove 6 filosofiche dell'esistenza di Dio. In ogni caso il Dio a cui si perviene tramite la filosofia è un puro ente di ragione, "un Dio autore semplicemente delle verità geometriche e dell'ordine degli elementi", che non ha alcuna relazione con la vita e i problemi dell'uomo. Di fronte all'impotenza della ragione, il vero atteggiamento filosofico deve allora consistere nel "riconoscere che ci sono infinite cose che la sorpassano" e che "essa non è che una debole cosa, se non giunge a conoscere questo". La ragione è superata dalla fede, la filosofia dalla religione ossia dal Cristianesimo. Solo il Cristianesimo è in grado di dar conto della duplicità della condizione umana, poiché assume come principi fondamentali "la corruzione della natura umana" e "l'opera redentrice di Gesù Cristo". Il primo spiega la sproporzione esistenziale costitutiva dell'uomo, la sua grandezza e la sua miseria, la sua infelicità e la sua inquietudine: dopo la caduta, l'uomo è un "re spodestato" che ha il ricordo e il desiderio confuso del regno perduto. Il secondo segna la differenza tra il Dio della ragione filosofica, indifferente alla sofferenza umana, e il Dio "d'amore e di consolazione" della fede, "che riempie l'anima e il cuore"; "conoscere Dio senza Gesù Cristo non solo è impossibile, ma è anche inutile". Il Dio di Pascal, che gli “riempie l’anima e il cuore”, appare sicuramente agli antipodi del Dio della ragione dei deisti. Infatti, per i deisti Dio deve essere ammesso per una pura necessità razionale ed è visto come il distaccato creatore-orologiaio, secondo l’espressione già citata dello stesso Pascal, che una volta che ha creato il mondo si limita a dargli la carica disinteressandosene in quanto il mondo risulta retto dalle leggi che la scienza scopre. Per Pascal, invece, Dio non svolge un ruolo puramente di garante del funzionamento del mondo e delle nostre conoscenze, in quanto Dio risulta non indifferente alla sofferenza dell’uomo, anzi l’unica possibile risposta ai drammi della condizione esistenziale dell’uomo. Dio per i ______________________: 1 - _________________________________________________________________________________________________________ 2 - _________________________________________________________________________________________________________ Dio per _____________: _______________________________________________________________________________________ Nel pensiero di Pascal il rapporto tra fede e ragione è di particolare complessità. Da una parte, la fede non è affatto contraria alla ragione: il Cristianesimo spiega ciò che la ragione non sa spiegare e in questo senso è del tutto ragionevole. Dall'altra, la fede non dipende dalla ragione, sia perché è un dono di Dio sia perché ciò che insegna non ammette una dimostrazione razionale ed anzi spesso contrasta con la ragione. Il peccato originale, che si propaga dal primo uomo a tutta l'umanità, è "un mistero incomprensibile", ma senza di esso "noi siamo incomprensibili a noi stessi": "il nodo della nostra condizione si avvolge e si annoda in questo abisso, cosicché l'uomo è più inconcepibile senza questo mistero di quanto questo mistero non sia inconcepibile per l'uomo". Non ha senso rinfacciare ai cristiani di non poter "provare" la loro religione, poiché essi sono i primi ad ammettere questa impossibilità: Dio è "infinitamente incomprensibile" e "noi non abbiamo alcuna proporzione con lui". L'esistenza di Dio è conoscibile grazie alla fede, ma è indimostrabile. D'altra parte è indimostrabile anche che Dio non esiste. La ragione qui non può determinare nulla, non può giustificare una decisione in un senso o nell'altro. La decisione a favore dell'esistenza di Dio può essere tuttavia sostenuta, secondo Pascal, da un argomento fondato sul calcolo delle probabilità, il famoso argomento della "scommessa". Dobbiamo scommettere su una delle due possibilità, "Dio esiste" o "Dio non esiste". Secondo ragione, esse si equivalgono, per cui forse si potrebbe affermare che "il partito giusto è di non scommettere affatto". Ma evitare di scommettere è in questo caso impossibile, poiché si tratta della nostra L’ARGOMENTO DELLA SCOMMESSA 7 esistenza: comunque la nostra vita sarà orientata, magari inconsapevolmente, da una o dall'altra delle due opzioni. Dal momento che scommettere è necessario, dobbiamo esaminare la posta in gioco: abbiamo "due cose da perdere, il vero e il bene; e due cose da impegnare L’ARGOMENTO DELLA SCOMMESSA La scommessa: _____________________ o _______________________ per la ragione __________________________ non ___________________ impossibile perché _________________________ se Dio non esiste non cambia nulla per la _______________ e la ________________________ se Dio esiste non cambia nulla per la nostra __________________ ma ci assicuriamo la possibilità _______________________ per cui a scommettere sulla _______________________ non perdiamo ________________ ma vinciamo _________________________ nel gioco: la nostra ragione e la nostra volontà, la nostra conoscenza e la nostra beatitudine; e la nostra natura ha due cose da fuggire: l'errore e la miseria". Già sappiamo che la ragione non riceve maggior danno, scegliendo l'una o l'altra possibilità. Le cose però stanno ben diversamente per quanto riguarda la nostra beatitudine: se Dio esiste, guadagniamo tutto; se non esiste, non perdiamo niente. Bisogna pertanto scommettere senza esitare che egli esiste. Ma forse, scommettendo sull'esistenza di Dio, rischiamo troppo? Poiché è uguale la probabilità di guadagno e di perdita, se non avessimo da guadagnare che due vite contro una, scommettere sarebbe già conveniente; ma qui da guadagnare "c'è addirittura una eternità di vita e di felicità". "Ogni giocatore rischia con certezza per vincere con incertezza; e tuttavia arrischia certamente il finito per guadagnare senza sicurezza il finito, e ciò senza andare contro la ragione"; ma nel caso dell'esistenza di Dio "c'è il finito da arrischiare" e "l'infinito da guadagnare". Non occorre allora soppesare il pro e il contro; essendo forzati a giocare, "bisogna proprio aver rinunziato alla ragione, per voler conservare la vita anziché arrischiarla per il guadagno infinito, così facile a venire quanto la perdita del nulla". LA FORMAZIONE DELL'ATEISMO La formazione dell'ateismo Nell’ambito dell’illuminismo sono identificabili, per quel che riguarda i rapporti filosofia religione, due filoni: uno più moderato di orientamento deista, di cui abbiamo detto, ed uno più estremistico e di tendenza atee. L'indirizzo ateo trova i suoi rappresentanti più significativi in Meslier e in d'Holbach. Jean Meslier (1664-1733)5 è una singolare figura di sacerdote che, divenuto parroco di Étrépigny, fu esemplare per condotta e spirito di pietà verso gli umili, ma che una crisi interiore portò dal cristianesimo al materialismo. Sebbene egli continuasse la vita sacerdotale e la missione di assistenza e di carità tra i fedeli, cui non rivelò mai le «profonde verità» custodite nel segreto della sua mente, scrisse tre manoscritti "clandestini" di 366 fogli (di cui abbiamo già citato alcuni passi) che furono trovati solo alla sua morte . Il deista Voltaire, che «fremette d'orrore» alla lettura di quello scritto, ne pubblicò, nel 1762, un estratto di 63 pagine, e dopo alcuni mesi ne curò una seconda edizione di ben cinquemila copie. Nel 1775 il Parlamento di Parigi ordinò che il Testamento fosse bruciato (una nuova edizione completa apparirà soltanto nella seconda metà dell'Ottocento). 5 Per la vita e le opere di Meslier vedi pag. 23 8 Paul Henri Dietrich barone d'Holbach (1723-1789)6, che in parte si rifà a Meslier, è invece il maggior filosofo del materialismo francese. Mentre la corrente deista scinde, a proposito della religione, un momento fisiologico e uno patologico, un nucleo razionale e uno irrazionale, quella atea ritiene che la religione sia, di per sé, un fenomeno patologico e irrazionale, che non sgorga dall'intelletto, ma da fattori quali l'interesse e la paura. Jean Meslier, collegandosi a una linea di pensiero che risale ai sofisti, appare decisamente favorevole a un'interpretazione del fatto religioso in chiave politica, ritenendo che la sottomissione al Monarca divino voluta dalle religioni non sia altro che una manovra per sottomettere i popoli ai monarchi umani: “Tutte le leggi e le ordinanze emanate sotto il nome e l'autorità di Dio o degli dei non sono altro, in verità, che invenzioni umane. Esse sono state escogitate per fini e per motivi di astuzia politica; in seguito sono state coltivate e moltiplicate da falsi profeti, da seduttori e da impostori; infine, sono state mantenute e autorizzate dalle leggi dei principi e dei grandi della terra, i quali se ne sono serviti per tenere più facilmente in soggezione la massa degli uomini.” D'Holbach, sulla scia di Hobbes e soprattutto di Hume, pur denunciando la strumentalizzazione politica del fenomeno religioso, appare propenso a ricercarne l'origine soprattutto nel timore e nel disagio dell'uomo di fronte all'universo: “È il male che vede nel mondo che lo ha indotto a pensare alla Divinità. Il grandissimo numero dei mali, degli accidenti, delle malattie, dei disastri, degli scuotimenti del nostro globo, delle alterazioni, delle inondazioni, delle conflagrazioni suscitarono in lui spaventi. Fu allora che non vedendo sulla terra agenti abbastanza potenti da operare tali effetti, levò gli occhi al cielo, in cui suppose che risiedessero agenti ignoti, l'inimicizia dei quali distruggeva quaggiù la sua felicità.”. Ma se la religione affonda le sue radici nell'irrazionale e nella paura e obbedisce a interessi umani e di potere, la ricerca deistica di una "religione razionale" appare una contraddizione nei termini, poiché dove trionfa la ragione non c'è religione e viceversa. Di conseguenza, se Dio è soltanto una falsa proiezione della mente, l'unica verità, per Meslier come per d'Holbach, è da ricercarsi nel mondo reale, ossia nella natura, spinozisticamente e materialisticamente pensata come una realtà autosufficiente ed eterna e come sano criterio di comportamento: «Confrontate la morale religiosa con quella della natura: questa la contraddice ad ogni istante». Questo spiega perché d'Holbach veda nell'ateismo una scuola di vita e una condizione indispensabile per fondare una società migliore, opponendosi in ciò al deista Voltaire, che, facendosi portavoce dell'antica tesi (ancora presente in Locke) secondo cui il non credere in Dio genera immoralità e asocialità, scrive ad esempio: “l'ateismo è un mostro assai pericoloso in quelli che governano; lo è anche nelle persone di studio, se pure la loro vita è innocente, perché dal loro studio esso può arrivare sino a quelli che vivono in piazza; e, se non è certo funesto quanto il fanatismo, è tuttavia quasi sempre fatale alla virtù.” Rispondendo al quesito «se l'ateismo risulta compatibile con la morale», d'Holbach controbatte invece che: “Se l'ateo nega l'esistenza di Dio, non può negare la propria esistenza, né quella degli esseri simili a lui. Non può dubitare dei rapporti che sussistono tra loro, né della necessità dei doveri che derivano da questi rapporti. Non può, dunque, dubitare dei principi della morale, la quale non è che la scienza dei rapporti sussistenti tra gli esseri che vivono in società.” 6 Per la vita e le opere di D’Holbach vedi pag. 24 9 Kant: Dio, una ragionevole speranza KANT: DIO, UNA RAGIONEVOLE SPERANZA I. Kant (1724-1804)7, con cui si chiude la filosofia moderna, ha sottoposto a IL CONTRIBUTO KANTIANO serrata critica il deismo considerando infondata la religione razionale, in quanto La critica al deismo non è possibile una dimostrazione razionale dell’esistenza di Dio. Kant riteneva che ciò che l’uomo può conoscere con certezza, scientificamente, è dato dall’elaborazione dei dati dell’esperienza attraverso le proprie strutture mentali. Siccome né la metafisica né la teologia partono da dati relativi all’esperienza, esse non possono essere considerate scienze. Il deismo e la teologia razionale, che credevano possibile dimostrare l’esistenza di Dio, sono perciò per Kant privi di valore. Secondo Kant, infatti, non è LE CRITICHE ALLE PROVE possibile dimostrare l’esistenza di Dio; per questo egli si propone di confutare le ___________________________________ prove che avrebbero dovuto dimostrarne l’esistenza. Tra queste prove la prova a priori deduce l’esistenza di Dio non facendo ricorso all’esperienza, ma dalla presenza nella nostra mente dell’idea dell’ente E L’________________________KANTIANO perfettissimo. Se infatti nella nostra mente esiste l’idea di un ente perfettissimo esso non può non esistere, in quanto la non esistenza lo renderebbe imperfetto. Distinguendo criticamente tra piano della realtà e piano mentale, Kant obbietta che non si può passare dal piano della possibilità logica a quello della realtà, in quanto l’esistenza è qualcosa che possiamo constatare solo per via empirica e non dedurre razionalmente. Infatti, per esempio, per quanto io possa rappresentarmi nella mia mente 50 € perfettamente uguali a 50€ reali, non potrò mai di fatto utilizzare i 50 € pensati. Kant sottopone a critica anche le dimostrazioni a posteriori che partono dai dati dell’esperienza. La prova cosmologica sostiene che, siccome possiamo constatare tramite l’esperienza che tutte le cose che accadono hanno una causa, occorre necessariamente ammettere, per non cadere in un regresso all’infinito, una causa prima, incausata. Secondo Kant questo ragionamento fa un uso illegittimo del principio di causa, poiché esso serve a connettere i fenomeni di cui abbiamo esperienza e non questi con qualcosa che trascende l’esperienza stessa. Anche questa prova, dunque, non distingue il piano della realtà dal piano metafisico, facendo un salto ingiustificato dal piano reale, in cui vale il principio di causa, al piano metafisico, in cui questo principio non può essere correttamente applicato. Infine, la prova teleologica (la teleologia è la “scienza dei fini”) parte anch’essa dall’esperienza per sostenere che se l’universo è ordinato, in quanto ogni cosa ha un suo scopo,un suo fine, allora deve esistere colui che determina tale ordine. Questa prova, oltre a passare anche lei illegittimamente dall’ordine dei fenomeni osservabili a un ordine superiore, dimentica, secondo Kant, che l’ordine della natura potrebbe essere una conseguenza delle stessi leggi naturali o che l’ordine dell’universo appare tale solo in relazione ai nostri parameri mentali e non già in assoluto. In ogni caso in questo modo si potrebbe dimostrare l’esistenza di qualcosa che causa l’ordine, ma non necessariamente che lo crei. 7 Per la vita e le opere di Kant vedi “11 – La filosofia moderna: la giustificazione del sapere scientifico e la concezione della realtà”. 10 LE CRTITICHE ALLE PROVE DELL’ESISTENZA DI DIO: tutte le prove operano un passaggio illegittimo da ________________________________al _________________________________ - a priori : al concetto di ente perfettissimo non può mancare l'esistenza critica: _____________________________________________________________________________________________________ - cosmologica: _______________________________________________________________________________________________ critica:_____________________________________________________________________________________________________ - teleologica:_________________________ ________________________________________________________________________ critica:_____________________________________________________________________________________________________ Con la confutazione delle prove dell’esistenza di Dio Kant non ha voluto negare l’esistenza di Dio (ateismo), ma piuttosto mettere in discussione la possibilità di giungere a una sua dimostrazione razionale. Di conseguenza Kant non è ateo ma agnostico, in quanto pur non negando l’esistenza di Dio ritiene che la ragione umana non possa giungere a darne una dimostrazione. Secondo Kant infatti, se Dio non può costituire una certezza razionale, la sua esistenza può ritenersi una ragionevole speranza, fondando quest’ultima sulla nostre esperienza morale. Nonostante questa prospettiva Kant rovescia il rapporto religione-morale che era tale per cui l’intera tradizione occidentale, compresi i deisti (vedi la condanna dell’ateismo), aveva ritenuto essere la religione a fondare la morale. Kant, infatti, ritiene che una morale fondata sull’esistenza di Dio sia una falsa morale in quanto è una morale eteronoma, ovvero una morale fondata su La critica alle morali _________________ qualcosa di diverso dal soggetto. Egli polemizza contro tutte le morali eteronome, fondate su qualcosa di esterno, di diverso dalla ragione del soggetto, ad esempio, sull’educazione ricevuta, sulla società o su Dio. D’altra parte la morale non può nemmeno essere determinata da motivi interni all’uomo, ma non dipendenti dalla sua ragione, come il piacere fisico o il benessere affettivo. In tutti questi casi la morale è condizionata al raggiungimento di uno scopo esterno o interno e si esprime sotto forma di un comando ipotetico del tipo : se vuoi …. devi. Ad esempio se vuoi essere gradito devi essere educato o se vuoi essere promosso devi studiare, ecc… Secondo Kant tale tipo di comportamento, dal momento che subordina il comportamento alla promessa di un vantaggio, non può essere considerato morale. LA CRITICA ALLE MORALI _________________ A - se morale fondata su ____________________________________ allora è una morale _________________________ perché fondata su ______________________________________________________ B - se morale fondata su ____________________________________ allora è una morale _________________________ perché fondata su ______________________________________________________ A e B morale condizionata _____________________________________________________________________________________ si esprime con un _________________________________: se _________ …….. _______________ Egli ritiene che per essere tale la morale debba essere autonoma, ovvero fondata 11 sulla ragione del soggetto e, contemporaneamente, indipendente dai sentimenti, dai bisogni e dagli interessi dei singoli, perché solo in questo modo la morale acquista i caratteri che gli sono propri di assolutezza e universalità. L’opposizione tra morale e natura umana, che tende a negarne l’assolutezza e l’universalità, appare a Kant costitutiva della vita morale. Infatti se l’uomo fosse un essere tutto e solo razionale, egli seguirebbe senza grandi difficoltà i dettami della ragione anche nella vita pratica. Ma l’uomo non è tutto ragione: è anche sensibilità (corpo); e la sensibilità lo sollecita coi propri moventi e interessi. Ora, proprio questa natura duplice e contraddittoria dell’essere umano costituisce un presupposto della vita morale: un uomo tutto ragione si limiterebbe infatti ad attuare meccanicamente e dunque amoralmente i principi razionali relativi al suo agire pratico. Però è anche vero che, data tale natura, se la morale deve essere intesa (e per Kant lo deve essere indubitabilmente) come realizzazione pratica di principi strettamente razionali e universali, essa deve configurarsi come agire indipendentemente, anzi contrario rispetto alle pulsioni (non-razionali e non-universali) dell’uomo in quanto ente sensibile. Ma allora tale tipo di agire, intendendo porre in essere principi non elaborati spontaneamente da queste ultime (le quali si comporterebbero in modo egoistico ed edonistico) dovrà costituirsi come morale prescrittiva, come morale normativa, come una morale del dovere. In altre parole, la ragione, sola fonte dei principi propriamente morali, esprime tali principi sotto forma di leggi, anzi (come li chiama Kant) di imperativi categorici che ordinano un ben preciso genere di comportamenti. Gli imperativi morali, proprio perché assoluti, devono essere imperativi categorici determinando un comportamento che è tale incondizionatamente, assumendo quindi la forma: devi …. perché devi. Questo imperativo comanda quindi il dovere per il dovere, in quanto il dovere deve essere assolto perché è tale, e non per altri scopi. Se non condizionata, la morale risulta assoluta, e questo è il presupposto perché possa essere considerata universale, cioè condivisa da tutti. Infatti, mentre un imperativo ipotetico risulta valido esclusivamente per coloro che vedono un effettivo vantaggio nel fine da raggiungere, un imperativo categorico, non avendo alcun legame con un fine, può essere condiviso da tutti. In quanto universale e assoluto, l’imperativo categorico non può concretizzarsi nel prescrivere comportamenti particolari ma riveste un carattere puramente formale. Esso, infatti, non dice che cosa si deve fare, ma come si deve agire affinché l’azione possa essere considerata morale. Proprio per questo suo carattere formale l’imperativo categorico deve limitarsi a imporre la generalizzabilità del comportamento, ovvero a prescrivere di agire secondo una massima che vale per tutti. In altri termini, l’imperativo categorico è quel comando che prescrive di tener sempre presenti gli altri e che ci ricorda che un comportamento risulta morale solo se, e nella misura in cui, supera il test della generalizzabilità, ovvero se la sua massima pare universalizzabile. Ad esempio, chi mente compie un atto chiaramente immorale, poiché qualora venisse universalizzata, adottata da tutti, la massima dell’inganno i rapporti umani diventerebbero impossibili. Kant ha presentato l’imperativo categorico sotto altre due forme. La prima di queste identifica il comportamento generalizzabile con un comportamento che tende a valorizzare l’umanità presente nella propria persona e in quella degli altri, dal momento che tale valorizzazione costituisce lo scopo stessa della morale. Infine, l’ultima formulazione dell’imperativo categorico ricorda che occorre agire in modo che la volontà sia sottoposta alla ragione, infatti, poiché la razionalità si identifica con l’essenza dell’uomo stesso, obbedendo alla ragione l’uomo non obbedisce che a se stesso. La morale kantiana è pertanto un’etica dell’autonomia, nella quale l’uomo, attraverso la ragione, dà a se stesso la propria legge. Viceversa, ogni comportamento in cui la volontà sia determinata dalla sensibilità, o comunque LA MORALE FONDATA SULLA RAGIONE DELL'UOMO: LA MORALE ________________ 12 da moventi non esclusivamente razionali (come accade negli imperativi ipotetici, in cui la ragione è piegata a un fine soggettivo dell’individuo), è espressione di eteronomia, poiché l’uomo subisce su di sé l’azione di qualcosa (compresa la sensibilità) che non coincide con la propria essenza. LE CARATTERISTICHE DELLA MORALE AUTONOMA: 1 fondata sulla ragione 2 ____________________________________________________________________________________________________________ 3 del dovere, incondizionata per cui è _____________________ e ___________________ si esprime con imperativi __________________________( devi perchè __________) 4 _______________ impone la ________________________________ del comportamento Le tre forme dell’imperativo ____________________: il comportamento per essere morale deve 1 - essere universalizzabile 2 - ____________________________________________________________________________________________ 3 - ____________________________________________________________________________________________ I POSTULATI PRATICI Dal fatto che esiste una legge morale incondizionata, assoluta e universale Kant pensa di poter trarre una serie di conclusioni che chiama postulati pratici. Postulati in quanto, come per la matematica, sono indimostrabili, ma vengono accolti per poter rendere evidenti alcune dimostrazioni e accettarne le conclusioni. Pratici in quanto non sono oggetto di una conoscenza scientifica, ma derivano dall’esigenze del comportamento pratico e quindi della morale in quanto deputata a regolarlo. Kant parte dall’osservazione che gli uomini non solo tendono ad essere virtuosi ma anche ad essere felici. La congiunzione di virtù e felicità, che Kant identifica nel sommo bene, non è però raggiungibile sulla terra, infatti non sempre i giusti sono felici e non sempre l’essere felici richiede la virtù. Per Kant non è possibile individuare una soluzione al problema se non ammettendo alcuni postulati che, non essendo oggetto della nostra esperienza, non sono razionalmente fondati. Tali postulati sono l’esistenza dell’al di là, l’immortalità dell’anima e l’esistenza di Dio. Infatti, se sulla terra non è possibile coniugare felicità e virtù, possiamo allora sperare nell’esistenza di un mondo dell’al di là in cui sia possibile realizzare ciò che non è possibile nell’al di qua, cioè la compresenza di virtù e felicità. Ammessa la necessità di postulare la vita eterna per raggiungere il sommo bene diventa ragionevole ammettere gli altri due postulati. L’immortalità dell’anima affinché possa partecipare alla vita eterna e l’esistenza di Dio che, in quanto volontà onnipotente, faccia corrispondere la felicità al merito. Oltre a questi tre postulati, Kant ne ammette un altro, ovvero la libertà dell’uomo. Essa viene ammessa in quanto condizione stessa della morale, poiché questa si realizza solo a condizione che il comportamento sia libero. Questi postulati che ci portano a pensare Dio come una ragionevole speranza, non hanno valore conoscitivo, non possono essere ritenuti certezze assolute. Infatti, se i postulati fossero delle certezze assolute comunque intese, la morale scivolerebbe Postulati = No _______________________ immediatamente verso l’eteronomia e sarebbe nuovamente la religione a fondare la morale. Rovesciando il modo tradizionale di intendere il rapporto tra se ____________________________ allora morale e religione, Kant sostiene invece a chiare lettere che non sono le verità religiose a fondare la morale, bensì la morale, sia pur sotto forma di postulati, a _________________ fonda ____________ 13 fondare le verità religiose. In altri termini, Dio, per Kant, non sta all’inizio e alla base della vita morale, ma eventualmente alla fine, come suo possibile completamento. In altre parole ancora: l’uomo di Kant è colui che agisce seguendo solo il dovere per il dovere, con, in più, la ragionevole speranza nell’immortalità dell'anima e nell’esistenza di Dio. La filosofia di Kant ha dunque contribuito sia alla valorizzazione del soggetto sia al processo di laicizzazione della cultura. Infatti egli ha, da un lato, dimostrato la possibilità di giustificare la fondatezza delle conoscenze scientifiche sulla base delle strutture mentali del soggetto e della morale sulla sola ragione umana. Dall’altro ha separato la morale dalla religione, fondando quest’ultima sulla prima e non viceversa. La morale pur fondata sulla ragione dell’uomo conserva, agli occhi di Kant, comunque un valore assoluto e universale, caratteristiche che una parte significativa della filosofia dell’Ottocento e del Novecento tenderanno a rifiutare, scoprendo le dimensioni storiche dell’uomo e della morale. Invece ________________ fonda _____________ Dio ______________________________ I contributi di Kant alla filosofia moderna: IN SINTESI: deismo: il Dio della _________________________________ Spinoza: Dio = _______________ Pascal: Dio come risposta _________________________________________________ atei: l’origine ______________ (politica o dalle paure) della religione Kant: la religione come ____________________________ 14 16 - LA FILOSOFIA MODERNA: L’EMERGERE DELLA SOGGETTIVITÀ 15 – M. Foucault “La rimozione della follia e la costruzione del soggetto” L’emergere della soggettività nella filosofia moderna 1.0 La Rivoluzione scientifica: il soggetto e il dominio 1.1 Scienza, tecnica e dominio del mondo 1.2 Bacone: la moderna utopia 1.3 Cartesio: gli artefici che ci rendono padroni della natura 1.4 L’emergere della soggettività e altri fattori storico-culturali 2.0 Il soggetto nella filosofia moderna 2.1 Il ruolo del soggetto nel processo conoscitivo 2.1.1 Cartesio 2.1.2 Kant 2.1.3 Gli empiristi 2.2 La dimensione razionale del soggetto 2.2.1 Le caratteristiche del soggetto cartesiano 2.2.2 Il dualismo cartesiano e la tradizione occidentale 2.2.3 Le conseguenze del dualismo cartesiano: l’opposizione ragione/follia e il disciplinamento della società 3.0 Dalla centralità di Dio alla centralità dell’uomo 3.1 La nuova dimensione del soggetto: l’eticità 3.2 L’abbandono del piano teologico 1.0 La Rivoluzione scientifica: il soggetto e il dominio L’emergere della centralità del soggetto nella riflessione filosofica appare strettamente connesso ad altre importanti novità che appaiono anch’esse tra il Seicento e il Settecento e saranno destinate a caratterizzare la società contemporanea. Tra queste innanzitutto lo sviluppo della tecnica, consentito dalla rivoluzione scientifica, che ha radicalmente cambiato il rapporto uomo-mondo. Infatti, il mondo che prima rappresentava una potenza alle cui leggi si doveva ubbidire è diventato un oggetto da dominare, un insieme di cose a disposizione dell’uomo. Evidentemente anche l’uomo antico o quello medioevale tentavano di controllare, ad esempio, il corso delle acque, ma le loro tecniche non si promettevano che di perfezionare la natura entro i suoi stesi limiti. Nell’epoca moderna, invece, il rapporto uomo-mondo è radicalmente cambiato, il mondo da potenza estranea è diventato un oggetto che vale in quanto si può utilizzare. Ed è proprio contemporaneamente alla riduzione del mondo a oggetto che l’uomo occidentale ha preso coscienza di essere il soggetto di questo dominio. La consumazione di questo processo, che inizia il suo sviluppo agli inizi del mondo moderno, è l'epoca in cui viviamo, quella che Heidegger (1889-1976) chiama età della tecnica e che la scuola di Francoforte (anni ’30-’60 del Novecento) chiama età del capitalismo avanzato. Nel nostro tempo la natura diventa fino in fondo un insieme di enti disponibili per il soggetto; se è vero che noi abbiamo davanti una realtà disponibile senza una fisionomia autonoma, ne deriva che ci sentiamo liberi di utilizzarla secondo i nostri progetti. Secondo Marx (1818-1883) l'uomo moderno è libero, cioè emancipato, perché nella natura non vede più nulla di sacro; essa è solo ciò L’EMERGERE DELLA SOGGETTIVITÀ LA RIVOLUZIONE SCIENTIFICA: IL SOGGETTO E IL DOMINIO 15 di cui si può disporre. L'esigenza del superamento di un sapere puramente formale e verbale, a favore di un altro che renda l'uomo padrone della natura, emerge già con chiarezza dal progetto di riforma del sapere sia di Cartesio che, in maniera ancora più chiara, di Bacone (1561-1626)8. Nel primo Libro del “Novum Organum” Bacone considera l'uomo ministro e interprete della natura: «La scienza e la potenza umana coincidono, poiché l'ignoranza della causa impedisce la produzione dell'effetto». Si stabilisce una connessione necessaria tra conoscere e operare, mentre nella scienza antica, quella aristotelica, la conoscenza aveva un valore solo contemplativo: per il sapiente la conoscenza era un fine e non un mezzo, poiché la natura era considerata immutabile e l'uomo non poteva fare altro che contemplare il suo ordine. Per Bacone, la natura può essere dominata soltanto attraverso il metodo della interpretazione che, penetrando fin nelle regioni più profonde e remote di essa, giunge a scoprire le sue leggi, che Bacone chiama assiomi. Ora, perché tale metodo abbia successo, è necessario prima di tutto liberare la mente umana dagli idoli, dai pregiudizi che impediscono la visione delle cose così come sono in se stesse e rendono vani gli sforzi di dominare la natura e di utilizzarla a vantaggio dell'uomo. Una volta che l'uomo, «emancipato e reso adulto» dal nuovo metodo induttivo, avrà purificato il proprio intelletto dai pregiudizi che ancora lo accecano, potrà riappropriarsi del suo destino e imporre di nuovo il dominio sulla natura. L’uomo infatti, fa notare Bacone alla fine del “Novum organum”, è caduto dal suo stato di innocenza e di dominio sulle creature solo in seguito al peccato originale. Entrambe le condizioni, tuttavia, si possono ancora ricostituire: «la prima, con la religione e la fede; la seconda, con le arti e le scienze». Con la fede l'uomo può riguadagnare il suo stato di innocenza, dal quale è decaduto in seguito al peccato originale; con le scienze e le arti, può riconquistare il suo dominio sulla natura. Nonostante la cacciata dal paradiso terrestre, infatti, «il creato non è diventato del tutto e per sempre ribelle». Quando Dio disse ad Adamo che avrebbe dovuto guadagnarsi il pane con il sudore della fronte, lasciò intendere che soltanto con la fatica, con l'arte e con la scienza, e non con le oziose dispute verbali o con gli improduttivi riti magici, il creato potrà di nuovo venire sottomesso dall'attività umana. Con Bacone la moderna Utopia assume le sembianze della tecnica. Nell’opera incompiuta “La nuova Atlantide” viene descritta un'isola sconosciuta i cui abitanti portano a compimento il progetto di una scienza diretta a realizzare il dominio tecnico dell'uomo sulla natura. In questo vero e proprio paradiso della tecnica, nel quale si realizza compiutamente il regno degli uomini sulla natura, i «nuovi santi» sono i grandi scienziati e inventori, ossia i «benefattori dell'umanità». Le «sacre reliquie» sono le invenzioni che rendono più felice la vita dell'uomo. Il filosofo-scienziato non è più il sapiente che persegue l'ideale aristotelicoscolastico della "vita contemplativa" rivolta a conoscere il reale. Egli si fa banditore di un progetto che prevede l'uso delle forze della natura per realizzare gli scopi umani. Lo stesso progetto anima anche il pensiero di Cartesio il quale nella sesta parte del “Discorso sul metodo”, sottolinea la superiorità della sua concezione matematico-meccanica della natura nei confronti di quella teleologico-sostanzialistica della tradizione aristotelico-scolastica. Le leggi matematicomeccaniche sono tali, scrive Cartesio, da «renderci padroni e possessori della natura», tali cioè da consentire all'uomo, attraverso l'invenzione di una infinità di "artifici", sia di godere senza alcuna pena «dei frutti della terra e di tutte le comodità», sia di combattere e sconfiggere un'infinità di malattie, corporee e spirituali, e forse anche «l'indebolimento della vecchiaia». L’emergere della centralità del soggetto è da collegarsi anche alla formazione di un nuovo modello di società, quello capitalista-borghese lo stesso che si è fatto 8 Per la vita e le opere di Bacone vedi pag. 22 16 promotore delle sviluppo tecnico-scientifico, che impone nuovi valori, dalla proprietà privata alla libertà individuale, e con essi una nuova concezione dell’individuo tesa a svincolare il soggetto dai limiti che ad esso erano posti dalla società tradizionale (vedi la lettura Fromm “Il significato psico-sociale delle dottrine di Lutero e Calvino”). Nella mentalità medioevale, come abbiamo detto, il singolo si identificava completamente con l’organizzazione sociale a cui apparteneva (per il monaco il suo ordine, per gli artigiani e i mercanti la corporazione, per i contadini il villaggio), ma già con il Rinascimento si era andata affermando una concezione dell’individualità come qualcosa di diverso dal gruppo sociale di appartenenza. Andavano nella direzione di promuovere una nuova immagine del soggetto anche altri fenomeni, di cui pure abbiamo già parlato, quali l’individualizzazione dell’intellettuale, il rapporto soggettivo con la parola, insieme con l’interiorizzazione della cultura favoriti dalla diffusione dei libri stampati, o il modo in cui si tentava di separare i sentimenti dalla partecipazione collettiva per farli diventare un sentire individuale, privato (vedi la lettura di Guarracino “La formazione dello stato moderno” a proposito della vendetta) e più in generale, come vedremo, l’intero processo di disciplinamento. IL SOGGETTO NELLA FILOSOFIA 2. Il soggetto nella filosofia moderna MODERNA La filosofia moderna e la centralità del Benché gia durante il Rinascimento fossero state elaborate le prime concezioni naturalistiche dell’uomo (vedi, ad esempio, Giordano Bruno che individuava ciò __________________________ per: che caratterizza l’uomo non più nel suo destino ultraterreno, bensì in ciò che esso è riuscito a costruire con le sue mani e la sua intelligenza che hanno fatto di lui 1 _________________________________ un organismo in grado di lavorare e produrre “meravigliose invenzioni”) la 2 _________________________________ centralità del soggetto, sul piano filosofico, è emersa solo con la filosofia moderna, poiché essa abbandonando progressivamente il piano teologico ha relegato Dio a coprire un campo al di fuori dell’umano (vedi deismo), finendo IL RUOLO DEL SOGGETTO NEL PROCESSO per porre al centro di almeno due rilevanti tematiche, il problema della conoscenza e quello delle istituzioni politiche, il ruolo del soggetto. CONOSCITIVO Per Hegel (1770-1831) la filosofia moderna prende l’avvio dal cogito (Io penso) di Cartesio, poiché esso esprime l’emergere della tesi secondo la quale è il soggetto che fonda la conoscenza; in altri termini, il criterio per determinare il vero e il falso non sta fuori di noi ma dentro di noi, nel pensiero e non nelle “sostanze”, come per secoli aveva sostenuto la filosofia tradizionale (vedi “La filosofia moderna e la giustificazione del sapere scientifico”). Già il fatto che la messa in dubbio delle conoscenze e la ricerca di un loro fondamento sicuro che seguirà siano descritte da Cartesio in prima persona, come un’esperienza soggettiva (vedi anche lettura “Che cos’è la filosofia - Cartesio”), rivela chiaramente la nuova prospettiva che Cartesio vuole assumere orientata a far emergere la centralità del soggetto. Il primato della soggettività, sul piano teorico, è invece costituito dal fatto che il dubbio iperbolico (il “genio maligno”) viene definitivamente sconfitto dalla certezza dell’ io penso. Si può dubitare della corrispondenza fra le idee e le cose così come sono in se stesse (il Sole come mi appare in cielo non corrisponde al Sole come è in se stesso), si può dubitare della possibilità di distinguere il sogno dalla realtà, ma non si potrà mai dubitare del fatto che se penso sono, ovvero esisto in quanto cosa che percepisce e pensa. L'io del cogito diviene in tal modo il soggetto per eccellenza, il fondamento indiscusso della verità, alla luce del quale soltanto è possibile ricostruire il rapporto con la realtà, e quindi riguadagnare la verità intesa come adeguazione dell’intelletto alle cose. D'ora in poi qualunque idea si presenti con la stessa evidenza del cogito sum dovrà essere ritenuta vera, ossia adeguata al proprio "oggetto". 17 Il cogito è sempre formulato in prima persona: questo è essenziale al suo successo perché solo io in prima persona posso essere certo di dubitare e quindi di esistere. Se dico "Paolo dubita" o anche "Descartes dubita" ciò non comporta che Paolo o Descartes stiano effettivamente dubitando: come faccio a esserne certo? Potrei sbagliarmi. Oppure potrebbero ingannarmi deliberatamente. Potrebbero dirmi "stiamo dubitando!" e assumere un'espressione perplessa, ma potrebbero fingere. Se invece sono io stesso che dubito, allora sono certo di dubitare e quindi posso essere certo di esistere. Il cogito, insomma, funziona solo se è vissuto in prima persona. Il nuovo ruolo del soggetto da un punto di vista filosofico emerge anche nelle regole del metodo cartesiano. Infatti, anche la prima regola attribuisce al soggetto una posizione di assoluta preminenza ai fini della costituzione della conoscenza, trascurando completamente l'apporto dell'oggetto, e individua la conoscenza vera solo grazie a segni impressi sul soggetto: mancanza di dubbio, chiarezza, distinzione. Dalla centralità antica e medievale dell'essere e della sostanza e quindi dell’oggetto, si passa con Cartesio ad una centratura sul soggetto che Kant contribuirà potentemente a rafforzare, poiché a differenza dei suoi predecessori razionalisti, che ancora ricorrevano a Dio come garante della corrispondenza fra pensiero e realtà, Kant pone il problema del fondamento della corrispondenza fra l’intelletto e la cosa in termini completamente nuovi. Soltanto l'unione delle forme a priori, che scaturiscono dall'intelletto, con gli oggetti dati dalla sensibilità, assicura ai suoi occhi la verità delle conoscenze. La ragione moderna non ha più bisogno di legittimare il proprio procedere conoscitivo ricorrendo alla natura esterna o al Dio trascendente; né sarà necessario che venga "istruita", come uno scolaro, dalla natura o da Dio, ma piuttosto, in qualità di giudice, «costringe i testimoni», vale a dire i fenomeni naturali, «a rispondere alle domande che rivolge loro», in basa al presupposto che essa delle cose conosce soltanto ciò che anticipatamente (a priori) vi pone. È questo l'aspetto fondamentale di quella «rivoluzione nel modo di pensare» che Kant indicherà come rivoluzione copernicana. In virtù di essa non è più la conoscenza umana a doversi regolare sugli oggetti, come avviene per la metafisica classica da Aristotele a Tommaso d'Aquino, ma all'opposto sono gli oggetti a doversi regolare sulla conoscenza umana e sulle sue "leggi". Anche nella tradizione empirista anglosassone assistiamo allo stesso spostamento del focus della filosofia dalla realtà al soggetto, infatti anche per essa non ci si chiede più come è fatto il mondo, ma quali sono gli strumenti conoscitivi del soggetto conoscente, per individuare che cosa è possibile conoscere con tali strumenti. Prospettiva che emerge bene, ad esempio, nella presentazione del “Saggio sull'intelligenza umana” di Locke nella quale egli ricorda che l'idea di comporlo nacque durante una disputa tra amici su argomenti religiosi. Di fronte alla diversità di opinioni esistente, ci si chiese se l'intelligenza umana fosse in grado di conoscere quel tipo di argomenti e quali ne fossero in generale le possibilità (vedi anche lettura “Che cos’è la filosofia –Locke). LA DIMENSIONE RAZIONALE DEL SOGGETTO 2.2 La dimensione razionale del soggetto La coincidenza del _______________ con Con Cartesio e l’inizio della filosofia moderna la dimensione del soggetto appare coincidere con la sola dimensione razionale. Infatti, Cartesio decidendo di sospendere il giudizio e di non accettare per vera alcuna conoscenza, finchè non fosse stato superato il dubbio, decide contemporaneamente che tale sospensione non è consentita nella vita pratica, dove mentre si dubita occorre pur continuare a vivere e quindi regolarsi su principi accettati. Egli decide quindi di regolarsi nella sua vita pratica ispirandosi a un prudente conformismo in fatto di opinioni politiche, religiose e comportamentali, seguendo le leggi, le norme comportamentali e la religione tradizionale, perseverando con la ______________________ in Cartesio: 1 - il _______________________ politico e ___________________: l’accettazione dell’ingerenza di __________ e _________ sui _____________________ dell’ ______ _________________ 18 risolutezza nella decisione presa per quanto opinabile e incerta9. L’aperta dichiarazione di conformismo e conservatorismo contenuto in tali regole vuole evitare le profonde conseguenze che avrebbe avuto l’applicare il suo razionalismo allo studio dei comportamenti umani, campo in cui Cartesio decide di accettare l’ingerenza delle autorità esterne (Chiesa e Stato) sul soggetto che invece in campo scientifico è continuamente richiamato alla necessità della chiarezza e dell’evidenza soggettiva. Il soggetto cartesiano, inoltre, è un soggetto neutro, capace di dominare le proprie passioni, , in grado di gettare uno sguardo "obiettivo" sulla realtà; si tratta del soggetto impersonale e astorico della conoscenza scientifica, del soggetto ridotto a cogito, caratterizzato unicamente dalla ragione «la sola cosa che ci rende uomini e ci distingue dalle bestie», come Cartesio scrive nel Discorso sul metodo. Anche in questo caso la soluzione cartesiana appare come la più vicina alla tradizione in quanto ripropone l’idea del dualismo anima-ragione e corpopassioni, di cui U. Galimberti10 ha scritto che: “Se davvero platonismo e cristianesimo sono le due grandi correnti di pensiero che hanno dato vita e volto all'Occidente, la mortificazione del corpo da loro inaugurata ha trovato il suo proseguimento e la sua radicalizzazione nel sistema delle scienze moderne che Cartesio ha inaugurato e in cui ancora oggi, senza residui, l'Occidente si identifica. Per fondare questo mondo oggettivo e astratto Cartesio ha dovuto mettere tra parentesi la vita pre ed extra-scientifica e quindi tutte quelle formazioni di senso che si fondano sull'esperienza corporea attraverso cui il mondo ci è direttamente alla mano. L'io dell'uomo sensibilmente intuitivo della vita quotidiana venne spezzato in anima e corpo. Il corpo, da soggetto che esplora con i suoi sensi il mondo, venne risolto in oggetto, relegato nella “cosa estesa”, e inteso, al pari di tutti gli altri corpi, in base alle leggi fisiche che presiedono l'estensione e il movimento. L'anima, sottratta ad ogni influenza corporea, venne pensata come puro intelletto, come ego intersoggettivo nelle cui cogitazioni, rigorosamente eseguite con metodo matematico, c'è ogni possibile senso del mondo e di ogni io personale e soggettivo che abita il mondo. Da allora ogni produzione di senso non fu piú nell'originario rapporto dell'uomo col mondo, ma l'uomo e il mondo ricevettero il loro senso dalle cogitazioni dell'ego che complessivamente andavano componendo la nuova scienza. Nata dall'uomo nel mondo, la scienza s'è cosí trovata con Cartesio a dimenticare la propria origine, e, per effetto della sua impostazione metodologica, a porsi come unica soggettività in grado di fissare il senso esatto di quegli oggetti che erano per essa l'uomo e il mondo…. Tra l'io umano che abita il mondo e l'ego cogito che ne fissa esattamente le misure, attraverso un'operazione idealizzante che non ci mette a contatto con le cose, ma con le loro forme matematiche, c'è una sola differenza: l'io umano abita un B – la capacità del soggetto ____________ ___________________________________ e il dualismo ________________________ LE CONSEGUENZE DEL DUALISMO CARTESIANO (U. GALIMBERTI) Platonismo, cristianesimo, scienza moderna (Cartesio) la mortificazione __________ Cartesio: il corpo da ______________________ che __________________________ il mondo a _____________ tra gli altri_____________ l’anima = puro _______________ che con metodo ________________ trova il senso del ________________ e dell’_______ il senso non deriva più dal _____________ _______________________ 9 Queste sono le prime due regole di una morale che Cartesio definisce come provvisoria ma a cui finirà per conferire progressivamente un valore definitivo. 10 Umberto Galimberti (1942), filosofo italiano che indaga il rapporto che effettivamente sussiste tra l’uomo e la società della tecnica. Galimberti sostiene che nelle condizioni attuali l’uomo non è più al centro dell’universo come intendeva l’età umanistica: tutti i concetti chiave della filosofia (individuo, identità, libertà, salvezza, verità, senso, scopo, natura, etica, politica, religione, storia) dovranno essere riconsiderati in funzione della società tecnologica attuale. Secondo Galimberti la tecnica è il tratto comune e caratteristico dell’occidente. La tecnica è il luogo della razionalità assoluta, in cui non c’è spazio per le passioni o le pulsioni, è quindi il luogo specifico in cui la funzionalità e l’organizzazione guidano l’azione. Noi continuiamo a pensare la tecnica come uno strumento a nostra disposizione, mentre la tecnica è diventata l’ambiente che ci circonda e ci costituisce secondo quelle regole di razionalità (burocrazia, efficienza, organizzazione) che non esitano a subordinare le esigenze proprie dell’uomo alle esigenze specifiche dell’apparato tecnico. Tuttavia ancora non ci rendiamo conto che il rapporto uomo-tecnica si sia capovolto, e per questo ci comportiamo ancora come l’uomo pre-tecnologico che agiva in vista di scopi iscritti in un orizzonte di senso, con un bagaglio di idee e un corredo di sentimenti in cui si riconosceva. Ma la tecnica non tende a uno scopo, non promuove un senso, non apre scenari di salvezza, non redime, non svela verità: la tecnica funziona e basta. La citazione è tratta da “Psichiatria e fenomenologia”, 1979, Feltrinelli 19 corpo, l'ego cogito è pura mente.. Preparato dall'anima platonica, il cui unico desiderio era quello di liberarsi dal corpo e dal mondo, l'ego cogito di Cartesio è ciò che resta di un'astrazione preliminare che prescinde da tutto ciò che è corporeo e mondano; è un io decorporeizzato e demondanizzato nelle cui funzioni razionali è il senso del mondo e dei corpi che lo abitano. Non è piú il mondo a dire di sé, ma sono le funzioni anticipanti dell'ego a dire che cos'è il mondo; queste funzioni, che sono a loro volta il prodotto del metodo matematicoquantitativo adottato, producono oggetti ideali che valgono come norma per l'interpretazione delle cose reali, per cui conoscere la natura non significa piú osservarla ma ricondurre le differenze qualitative che essa offre a quell'indifferente quantitativo che è l'indice matematico anticipato dalle funzioni dell'ego. Quest'indice non è qualcosa di reale, ma è un polo ideale, determinabile a priori, che funge da norma per il reale. … Vien da pensare che l'Occidente, percorrendo i sentieri della. filosofia prima e della scienza poi, non abbia inseguito altro scopo se non quello di difendersi dalla multiformità della natura mediante l'uniformità dell'idea. Lo scopo forse è stato raggiunto, ma al costo di profondissime lacerazioni che oggi non consentono piú all'uomo di abitare il mondo e nel mondo di ritrovare se stesso. Non stiamo facendo letteratura per difenderci dalla scienza. Il nostro intento è solo quello di sapere se oggi, componendo le sezioni della scienza, l'uomo è ancora in grado di trovare l'unità da cui risulta la sua vita. In caso diverso non resta che tornare all'origine o rassegnarsi al disagio della lacerazione.” Tra le lacerazioni prodotte dal dualismo cartesiano vi è sicuramente quella tra ragione e follia come ha fatto osservare M. Foucault11 (1926-84), il quale ritiene che l’identificazione tra uomo e ragione abbia comportato la messa fuori dal gioco di tutto ciò che ad essa si oppone che diventa per definizione “sragione”, follia. Infatti, il potere si sarebbe servito dell’identificazione operata dalla scienza moderna a partire dal cogito cartesiano per giustificare “il grande internamento” da esso operato all’inizio dell’epoca moderna. La tesi di fondo di Foucault è che “il grande internamento” – ovvero la segregazione dei “diversi”, folli, vagabondi, mendicanti in asili di pazzi, case di lavoro o prigioni che, come abbiamo visto, costituisce un aspetto essenziale del processo di disciplinamento della società volto a omogeneizzare i comportamenti - altro non sia che il segno di una loro criminalizzazione da parte della “ragione dominante” che, in ogni discorso o comportamento che pretende di deviare dalle sue regole, scorge il pericoloso delinearsi di un messaggio di ribellione. Ad accomunare Riforma e Controriforma è, infatti, l'azione dei tribunali dell'inquisizione, che si intensifica tra la seconda metà del XVI secolo e la prima del secolo successivo nei confronti di ogni comportamento considerato deviante rispetto all'ortodossia cristiana; l'accusa di stregoneria, strumento di disciplinamento sociale (e la conseguente opera di repressione) si diffonde tra Cinquecento e Seicento in Spagna, in Francia, nei Paesi Bassi, nell'Italia settentrionale, prima; poi in Gran Bretagna, in Svezia e in Polonia. Accanto ai tribunali ecclesiastici, e in alcune zone in sostituzione di questi, la repressione giudiziaria della stregoneria è portata avanti anche dai tribunali secolari. Tanto nell'Europa cattolica quanto in quella protestante vengono attuati provvedimenti legislativi che rendono legittima la segregazione (accompagnata dal lavoro coatto) di una quota consistente di emarginati in luoghi appositi. Il bisogno di controllo e di dominio connesso al lento precisarsi e consolidarsi degli apparati statuali allarga il campo dei comportamenti criminosi: l'internamento segnala materialmente il rifiuto della comunità di modelli considerati pericolosi e, nel contempo, mostra l'emergere di un nuovo ordine etico, in cui il lavoro è assunto come valore centrale. Il pauperismo crescente Io = mente + ____________ Io cartesiano = ___________ Metodo matematico funzioni _____________ Oggetti _________ Interpretazioni_________ Scomparsa differenze _____ Dalla __________________ della natura alla ______________________ dell’__________ Le ____________________ prodotte dal d dualismo cartesiano Ragione / ___________ Scienza: Uomo = ________________ Potere: criminalizzazione del ___________ folli, mendicanti, vagabondi Il processo di ________________________ 11 Michel Foucault, filosofo e saggista francese, ha dedicato gran parte della sua opera allo studio di come sia andata definendosi nella cultura occidentale l’identità del soggetto (vedi lettura 16 – Foucault “La rimozione della follia e la costruzione del soggetto”). 20 perde il suo carattere sacrale perché “nemico della dignità umana” e assume, invece, una valenza di pericolosità e di ostilità sociale. In questo modo osserva Foucault il moderno concetto di libertà individuale ha come contraltare l’istituirsi di una società di sorveglianza che si serve del sapere e di determinate istituzioni (dalla chiesa alla scuola, all’esercito, al carcere, al manicomio, all’ospedale, alla famiglia) e delle comunicazioni sociali per indirizzare il soggetto a una certa forma di autoconsapevolezza, ad agire secondo regole che finiscono per cristallizzare nella mentalità collettiva 12. Il potere assoggetta così l’individuo non solo nel senso di controllarlo ma soprattutto vincolandolo alla propria individualità che è una delle possibili, poiché nasce dalla rimozione di alcuni aspetti perché altri possano essere messi in risalto. Infatti, l’attribuzione della razionalità quale qualità principale del soggetto ha implicato la rimozione di tutta una serie di aspetti della personalità (sfere di razionalità, sensibilità, realtà profonde) identificate come devianti, errori rispetto al modello, che sono stati etichettati come follia. L’affermazione dell’equazione normalità=razionalità si è accompagnata con l’imposizione da parte del potere della reclusione dei folli e dei vagabondi e in seguito della medicalizzazione della follia, con la creazione della psichiatria, e del lavoro coatto, con l’introduzione delle work-house, vere antenate delle fabbriche moderne (vedi lettura n 10). 3. Dalla centralità di Dio alla centralità dell’uomo Come abbiamo visto Cartesio affida al soggetto il compito di controllare con la ragione le passioni, ma una ragione che in questo campo accetta anche ciò che può essere opinabile e incerto e solo sorretto dalla tradizione, a una ragione che si lascia guidare dall’autorità di Chiesa e Stato. L’estensione delle dimensioni del soggetto anche all’eticità avverrà sul finire della filosofia moderna con Kant agli occhi del quale qualsiasi morale fondata su qualcosa di diverso dal soggetto, ad esempio sull’esistenza di Dio o sulle regole sociali, è una falsa morale in quanto è una morale eteronoma. La morale kantiana si presenta pertanto come un’etica dell’autonomia, nella quale l’uomo, attraverso la ragione, dà a se stesso la propria legge. Viceversa, ogni comportamento in cui la volontà sia determinata da moventi non esclusivamente razionali è espressione di eteronomia, poiché l’uomo subisce su di sé l’azione di qualcosa (compresa, per Kant, la sensibilità legata al corpo) che non coincide con la propria essenza (vedi pag.12). Ritenendo che sia possibile fondare una morale che rimanga comunque universale e assoluta a partire dal solo soggetto, Kant compie un altro decisivo passo nel relegare Dio al di fuori dell’umano. Egli, infatti, può così sostenere che non sono le verità religiose a fondare la morale, bensì la morale, sia pur sotto forma di conoscenze non certe, a fondare le verità religiose. In altri termini, Dio, per Kant, non sta all’inizio e alla base della vita morale, ma eventualmente alla fine, come suo possibile completamento. In altre parole ancora: l’uomo di Kant è colui che agisce seguendo solo il dovere per il dovere, con, in più, la ragionevole speranza nell’immortalità dell'anima e nell’esistenza di Dio. Società di ______________________: _____________________ + istituzioni (famiglia, chiesa, scuola) + _____________ __________ Mentalità _______________ Autoconsapevolezza del ______________ vincolata dalla __________________ DALLA CENTRALITÀ DI DIO ALLA CENTRALITÀ DELL’UOMO 12 Per quanto riguarda “la società di sorveglianza” vedi anche Prosperi “Tribunali della coscienza. Inquisitori, confessori, missionari”, nonché per quanto riguarda il disciplinamento della società gli altri articoli di Peter Burke “Il trionfo della Quaresima: la riforma della cultura popolare”, Carla Russo “Mentalità e comportamenti religiosi nell’Europa cattolica” e Carlo Ginzburg "Folklore,magia e religione". 21 In effetti, per molti versi l’emergere del ruolo centrale del soggetto avviene contemporaneamente all’accantonamento della centralità di Dio e, quindi, dell’abbandono del piano teologico che aveva caratterizzato la cultura europea per un millennio. In Hobbes (1588-1679)13 il processo che detronizzerà il creatore divino a favore di quello umano è particolarmente evidente; infatti, scrive Hobbes nell’introduzione al "Leviatano", l'uomo è in grado di imitare il potere creatore di Dio poiché: "...così come Dio è in grado di produrre l'uomo naturale, l'uomo è in grado di produrre l'uomo artificiale". Mentre Dio e uomo sono artefici, uomo naturale e uomo artificiale sono artefatti; lo Stato è costituito per proteggere l'individuo dai rischi dello stato di natura. I patti e i concordati sono come l’atto creatore di Dio, imitandolo l'uomo produce la dimensione politica, mentre Dio, relegato a coprire un campo al di fuori dell'umano, si deve tenere da parte. In Hobbes la produzione dell'uomo è posta sul modello del produrre divino e viene così scatenata una concorrenza fra poteri creativi; per questo Hobbes è accusato di ateismo. Sul finire dell'epoca moderna la lotta si risolve a favore della creatività umana; da allora se l'uomo vuole essere pienamente soggetto, Dio non deve essere (da Marx, a Nietzsche(1844-1900) a Sartre (1905-1980)). Hobbes, anche se non ne è pienamente consapevole, introduce un'epoca nuova. Il principio teologico perde progressivamente peso e significato parallelamente all'imporsi di altri principi; la sua funzione si depotenzia perché Dio spiega sempre meno. Non serve più per giustificare lo Stato moderno, non orienta più gli uomini e le loro azioni. Si continua a parlare dei poteri che Dio ha dato all'uomo; ma con questi stessi poteri l'uomo si distacca da Dio. VITA ED OPERE Francis Bacon (Francesco Bacone, 1561-1626) nella rivoluzione scientifica ebbe un ruolo che non fu quello di uno scienziato e neppure di un filosofo «puro». Come uomo politico egli ebbe una vita travagliata e intrecciata alle alterne vicende del suo paese, l'Inghilterra, tra la fine del XVI e l'inizio del XVII secolo. Lord guardasigilli e cancelliere sotto Giacomo I Stuart, venne condannato per concussione alla prigione e all'allontanamento dai pubblici uffici (1621); in seguito si ritirò a vita privata. A tali vicende egli fa corrispondere un impegno e interessi di studio che lo avvicinano ai dotti del Rinascimento ma, allo stesso tempo, una critica alla tradizione e la proposta di una nuova mentalità davvero «rivoluzionarla» nei confronti della scienza e della tecnica. Bacone è autore nel 1597 di una raccolta di Saggi, cui segue nel 1605 un'opera che denuncia già dal titolo i suoi interessi: Il progresso del sapere, redatta in inglese per facilitarne la divulgazione. La data centrale nella produzione scientifica di Bacone è tuttavia quella della pubblicazione della prima parte del suo progetto enciclopedico, l'Instauratio magna, che avviene assieme al Novum Organum nel 1620. Tre anni dopo è conclusa l'Historia naturalis che dovrebbe esserne parte. Bacone ci ha lasciato anche un importante frammento che accoppia utopia scientifica e politica: La nuova Atlantide (1627). L'insieme della riflessione di Bacone verte sul progetto di una Instauratio magna in cui l'uomo stabilisce il suo dominio sulla natura attraverso lo sviluppo di un sapere adeguato: tale progetto, pubblicato nel libro omonimo del 1620, prevede che la scienza sia anzitutto conoscenza tecnica in grado di penetrare le leggi della natura, secondo i due motti per cui «sapere è potere» e «la natura non si comanda se non obbedendole». Gli esiti sociali di questa svolta vengono esposti in un breve scritto pubblicato postumo, La nuova Atlantide (1627), in cui il filosofo immagina un paese governato e costituito da dotti dove si opera «per estendere i confini dell'impero umano in ogni cosa possibile» attraverso ogni sorta di ricerche e di invenzioni, dunque un vero e proprio «paradiso della tecnica». Allo studio del metodo necessario all'Instauratio magna è invece dedicato il Novum Organum (1620). Contrapposto fin dal titolo all'antico Organon aristotelico, Il Novum Organum di Bacone propone di sostituire al sapere speculativo e deduttivo 13 Per quanto riguarda le teorie politiche le due opere principali di Hobbes sono: “De cive” (1641) e “Leviathan”(1651). Per la vita e le opere di Hobbes vedi “14- La filosofia moderna e la politica” 22 della logica classica un nuovo sapere al servizio della tecnologia, incentrato sul metodo sperimentale e induttivo (che muove quindi dall'esperienza ai principi, e non viceversa). Blaise Pascal nacque nel 1623 a Clermont Ferrand da famiglia agiata, appartenente alla nobiltà di toga. II padre Etienne, magistrato, coltivava numerosi interessi culturali. II figlio Blaise sembra che abbia dimostrato, sin da piccolo, una notevole vivacità intellettuale, una sorta di "bambino prodigio", e il padre, per favorirne il talento, trasferì la famiglia a Parigi. Fino al 1654, anno della conversione definitiva al cristianesimo, la sua vita, a quanto dicono i biografi, rimase in bilico tra religiosità e mondanità. Si parla di conversione definitiva perché, già nel 1646, avrebbe aderito assieme a tutta la famiglia al giansenismo. Negli anni '40 sviluppa i suoi interessi matematici, fisici e geometrici: nel 1640 pubblica il Trattato sulle coniche e successivamente inizia a redigere il Trattato sulla pesantezza della massa d'aria e quello Sull'equilibrio dei liquidi, che però verranno conclusi nel 1654 e pubblicati postumi. Le sue ricerche matematiche ebbero anche delle applicazioni: Pascal è stato l'inventore, tra il 1642 e il 1645, del primo modello di macchina calcolatrice, la cosiddetta pascaline. In questo periodo frequenta, a Parigi, il salotto di Madame de Sablé e diventa amico di svariati esponenti dell'alta società. Questa vita, nella quale convivono scienza, religione e mondanità, si interrompe nel 1654: durante una notte di novembre, come ha raccontato poi lo stesso Pascal, egli avrebbe avuto un'esperienza mistica molto intensa, sentendosi chiamato a Dio. Da quel momento in poi, concentrerà tutte le sue energie intellettuali e morali sul cristianesimo. Nel 1657 prende posizione nella polemica teologico morale fra giansenisti e gesuiti, pubblicando le Lettere provinciali, dove si schiera decisamente a favore dei giansenisti. In quegli stessi anni progetta un'opera di vaste dimensioni, una Apologia del cristianesimo, che non riuscì a portare a termine. Di questo progetto, rimane la testimonianza dei Pensieri, scritti a cominciare dal 1657 e pubblicati dopo la morte. II testo, benché incompiuto, è considerato il capolavoro di Pascal. Dal 1659, le sue condizioni di salute, già incerte, iniziano a peggiorare e nei 1662 muore a soli trentanove anni. Baruch Spinoza, sebbene nato e vissuto nei Paesi Bassi, dove nel XVII secolo vige più che altrove una parziale tolleranza religiosa, ebbe una vita caratterizzata dai contrasti e dalle persecuzioni per le proprie convinzioni filosofiche e teologiche. Nato nel 1632 da una famiglia ebraica portoghese emigrata in Olanda, Spinoza riceve un'educazione confessionale, ma si forma anche con lo studio del pensiero cristiano, della cultura classica, di grandi filosofi come Bacone, Cartesio, Hobbes. Il 1656 vede la sua cacciata dalla comunità ebraica come eretico, da cui deriva la rottura dei rapporti con la famiglia e le sue attività commerciali e la decisione di guadagnarsi da vivere come levigatore di lenti per cannocchiali e microscopi. La maggior parte degli scritti di Spinoza, e quasi tutti i più importanti, viene pubblicata solo postuma. Tale è la sorte del Breve trattato su Dio, l'uomo e la sua felicità, composto nel 1660, del Tractalus de intellectus emendatione, scritto sotto forma di introduzione alla filosofia e mai terminato, di un Tractatus politicus e della sua opera più famosa, composta e rielaborata nel corso di tutta la vita: l'Ethica more geometrico demonstrata. Del resto l'uscita nel 1670 in forma anonima del suo Tractatus theologico-politicus, dove vengono esposte opinioni circa il diritto di esprimere liberamente la propria fede e le proprie convinzioni religiose, provoca violenti attacchi sia da parte protestante che cattolica. Nel frattempo Spinoza ha stretto rapporti con rappresentanti del pensiero scientifico di avanguardia e con uomini politici come Jan de Witt, capo dell'opposizione liberale olandese e fautore della tolleranza religiosa, che provvede al suo mantenimento. La rovina politica di quest'ultimo non impedisce al filosofo di rimanere fermo sulle proprie posizioni, tanto da rifiutare una cattedra di filosofia ad Heidelberg per mantenere la propria libertà di pensiero: Spinoza preferisce dedicarsi interamente allo studio, rinunciando tuttavia alla pubblicazione dei suoi scritti fino alla morte, avvenuta nel 1677. Jean Meslier nacque a Etrépigny, nella regione di Champagne, a pochi chilometri dalle Ardenne, nel 1664 da una famiglia agiata di mercanti di stoffe. Messo in seminario per volontà dei genitori, vi acquisì sicuramente una buona conoscenza teologica e ordinato sacerdote divenne parroco del paese, conservando l’incarico per tutta la vita e, nonostante la crisi interiore, svolgendolo le sue funzioni in modo esemplare, con una particolare attenzione ad alleviare le manifestazioni più gravi di ingiustizia sociale. La vita 23 ecclesiastica gli permise comunque di continuare a studiare leggendo, tra il resto, Epicuro, Lucrezio, Montaigne, Cartesio. Nel 1724, sentendosi vicino alla morte, cominciò a stendere le sue memorie, finendo il suo testamento nel 1729. Quando nel 1733, a 69 anni, morì il suo sostituto trovò nel suo appartamento tre lettere piene di invettive antireligiose e di rancore verso quella religione e quella nobiltà che succhiava il sangue ai suoi amati parrocchiani, poveri contadini. Propugnatore di un ateismo senza concessioni e di una utopia anarco-comunista ante litteram, Jean Meslier non lascia molto spazio a dubbi: per lui il Cristianesimo, con la sua insistenza sulla sofferenza, la povertà e il dolore e la sua condanna del piacere ha anestetizzato gli uomini, legittimando i soprusi di re e nobiltà. Tutti gli uomini sono uguali, e la terra che lavorano appartiene a loro. Preti e nobili sono solo parassiti fannulloni e ipocriti. Quella del nostro autore è anche un'esplicita professione materialista: tutti i cambiamenti dell'uomo non sono che "fermentazioni", ed è ridicolo attribuire tutto a un Dio, se già la Natura è eterna e perfettamente regolata, tesi, questa, cara al marchese de Sade. Che il popolo si sollevi, allora, perché la terra produce abbastanza per tutti. Il testamento si chiude con l'estrema affermazione materialista: "presto non sarò più niente; i morti non hanno nulla di cui preoccuparsi. Presto non sarò più niente". Il Testamento di Jean Meslier fu presumibilmente il testo antireligioso più conosciuto e letto del XVIII secolo: Diderot lo conosceva bene e fece sue alcune frasi che gli valsero il carcere; il barone d'Holbach lo pubblicò insieme al Buon senso, opera la cui paternità fu a lungo attribuita allo stesso Meslier, pur essendo in realtà del Barone. L'edizione andò perduta e non se ne seppe più nulla: l'unica fonte era quella, abbondantemente riveduta ed emendata, di Voltaire. Il testo originale venne pubblicato nel 1864 in Olanda. Paul-Henry Dietrich d'Holbach (1723-1789) è il rappresentante forse più noto dell'ateismo materialista . Di origine tedesca, si formò in Francia e in Olanda e con la moglie diede vita, all'inizio degli anni Cinquanta, ad un salotto parigino dove si incontravano illuministi di diverse tendenze e ospiti stranieri provenienti dal fiore della nuova cultura europea. D'Holbach redasse quindi numerose voci tecnico-scientifiche dell'Encyclopédie e alcuni voci di contenuto politico-sociale. Il vero e proprio esordio filosofico è tuttavia nel 1766, con il ritorno da un viaggio in Inghilterra dove rimane impressionato dagli autori del deismo. Esce così il Cristianesimo svelato (1766) in edizione antedatata e a nome del defunto Nicolas-Antoine Boulanger, un'opera il cui possesso, in seguito, sarà punito con la tortura e nove anni di prigione. Fra i numerosi opuscoli successivi, anonimi o firmati con pseudonimi, prodotti e diffusi clandestinamente, d'Holbach realizza nel 1770 il suo scritto più noto, il Sistema della natura. Quest'opera traccia una interpretazione materialistica dell'uomo, sulla scorta della quale d'Holbach propone una rifondazione della morale e della vita sociale. Tale interpretazione presuppone la natura come totalità eterna di materia e movimento, al cui interno l'uomo è sottomesso agli stessi principi e alle stesse leggi. Come vi è attività nella materia, così è nell'uomo: pertanto il temperamento degli individui è semplicemente il prodotto di cause fisico-chimiche. In quanto macchina priva di anima l'uomo è sottomesso alle leggi dell'egoismo, dell'amore e dell'odio come esatti corrispettivi dei principi fisici di inerzia, attrazione e repulsione. La sua ricerca della felicità può essere soddisfatta solo nella vita sociale: sono dunque necessarie regole morali che insegnino a temperare l'amore di sé nel quadro del bene comune, e in ciò si trova anche il compito dello Stato. Negli anni Settanta gli scritti di d'Holbach si indirizzano sul fronte della politica, con opere come il Sistema sociale o principi naturali della morale e della politica (1773), oppure La morale universale o i doveri dell'uomo fondati sulla natura (1776), dove vengono semplicemente sviluppate le conseguenze di quanto era stato esposto nel Sistema della natura. Nel 1790, pochi mesi dopo la sua morte, usciranno ancora gli Elementi di morale universale o catechismo della natura. 24 15 - FOUCAULT “LA RIMOZIONE DELLA FOLLIA E LA COSTRUZIONE DEL SOGGETTO” In un saggio che ha avuto un notevole successo, Storia della follia (1961), Foucault studia il modo in cui l'uomo moderno ha costruito l'immagine di sé come persona razionale, dominatore del pensiero, signore della natura, padrone della scienza e delle tecnologie. Per farlo, sceglie di studiare la follia, e più esattamente il modo in cui dall'età degli umanisti a oggi l'uomo occidentale ha trattato il fenomeno della devianza psichica, quel fenomeno, cioè, che maggiormente mette in crisi il modello vincente di razionalità, la razionalità "cartesiana" del cogito. Attraverso minuziose e affascinanti analisi Foucault mette quindi in luce che il soggetto - il cartesiano soggetto che pensa - può autorappresentarsi come fondamento del divenire storico e del sapere soltanto se elimina come errore - "devianza" - tutti quei tratti della personalità umana che non possono essere conciliati con esso. La storia della follia è quindi interpretata come storia del tentativo, riuscito, di rimuovere (nel senso psicoanalitico del termine14) alcuni aspetti dell'uomo perché altri possano essere messi in luce nella loro purezza. La civiltà occidentale è quindi il frutto di un processo di rimozione di intere sfere di razionalità, sensibilità, realtà profonde, identificate come devianti. Ciò che l'uomo moderno intende per follia nasconde invece in sé una grande ricchezza: se studiata da un'angolazione non deviata dalla cultura vincente, essa mette in luce aspetti estremamente interessanti della personalità umana, aspetti che potrebbero arricchire l'uomo se non venissero rimossi. Essi appartengono alla natura umana, se è ancora possibile parlare della natura umana come di qualche cosa di puro (così come si parla della natura di una cosa nella sua oggettiva esistenza materiale): l'uomo non è forse il prodotto del suo stesso rappresentarsi? Nella sua storia egli non è anche ciò che si rappresenta? La filosofia deve proporsi l'obiettivo di mettere in luce ciò che è nascosto nelle pieghe della razionalità vincente, perché c'è il rischio che la pura razionalità, poiché nasce da una rimozione, finisca col condurre l'uomo a distruggere l'uomo stesso. L'idea di progresso, ad esempio, poiché nasce da una sistematica rimozione di tutto ciò che non può conciliarsi con essa, rischia di lacerare l'uomo sviluppando solo alcuni aspetti della sua personalità, lasciando inaridire gli altri. Al vertice del progresso, in questo modo, potremmo ottenere, come massimo successo, quello di non avere più l'uomo. 1 - La follia nel Rinascimento La Nave dei folli L’elemento tragico e l’elemento critico della follia Il prevalere dell’elemento critico Cervantes e Shakespeare: l’elemento tragico della follia 2 - L’età moderna: il grande internamento Cartesio e l’esclusione della follia dalla ragione Il grande internamento Povertà e carità tra Rinascimento e Età moderna 14 La rimozione, secondo Freud il padre della psicoanalisi, consiste nell’atto per cui un individuo rimuove dalla sua coscienza parti della sua personalità (ricordi, emozioni, affetti, tendenze), perché ritenute inaccettabili in quanto incompatibili con la morale e l’immagine che l’individuo ha di se stesso. La rimozione non porta però alla scomparsa di ciò che viene rimosso in quanto tali esperienze, benchè non più coscienti, continuano a interagire e a manifestarsi nell’individuo sotto forma di moventi inconsci. L’inconscio si manifesta sia nel comportamento degli individui normali (ad esempio nei sogni a causa della minor censura esercitata dall’individuo che da svegli impedisce il riaffiorare dell’inconscio) sia nelle nevrosi in cui l’interferenza degli elementi inconsci finisce per impedire all’individuo di assumere un comportamene “normale”. 25 3 - Conclusioni L’internamento: manodopera a buon mercato, protezione sociale e coscienza etica del lavoro Povertà, lavoro e ozio Internamento e nuova morale borghese: la morale amministrata. La follia nel Rinascimento Alla fine del Medioevo la lebbra sparisce dal mondo occidentale. Ai margini della comunità, alle porte delle città, si aprono come dei grandi territori (i lebbrosari) che non sono più perseguitati dal male, ma che sono lasciati sterili e per lungo tempo abbandonati. Per secoli e secoli queste distese apparterranno all'inumano. Dal XIV al XVII secolo aspetteranno e solleciteranno, attraverso strani incantesimi, una nuova incarnazione del male, un'altra smorfia della paura, magie rinnovate di purificazione e di esclusione… Spesso negli stessi luoghi, due o tre secoli più tardi, si ritroveranno stranamente simili gli stessi meccanismi di esclusione. Poveri, vagabondi, corrigendi e "teste pazze" riassumeranno la parte abbandonata dal lebbroso e vedremo quale salvezza ci si aspetta da questa esclusione, per essi e per quelli stessi che li escludono. Con un senso tutto nuovo e in una cultura molto differente, le forme resisteranno: soprattutto quella importante di una separazione rigorosa che è esclusione sociale ma reintegrazione spirituale. Ma non anticipiamo. ... Questo fenomeno è la follia. Ma occorrerà. un lungo periodo di latenza, quasi due secoli, perché questa nuova ossessione che succede alla lebbra come paura secolare susciti al pari di essa reazioni tendenti alla separazione, all'esclusione, alla purificazione, che pure le sono apparentate in modo evidente. Prima che la follia venga dominata, verso la metà del secolo XVII, prima che vecchi riti vengano risuscitati in suo favore, essa era rimasta ostinatamente legata a tutte le più importanti esperienze della Renaissance15. È questa presenza e alcuni dei suoi aspetti essenziali che occorre ora ricordare molto H. Bosch La nave dei folli (particolare) frettolosamente. - 1490-1500 Cominciamo dal più semplice, ma anche dal più simbolico di questi aspetti. Un nuovo oggetto fa la sua, apparizione nel paesaggio immaginario del Rinascimento: ben presto occuperà in esso un posto privilegiato: è la Nave dei folli: strano battello ubriaco che fila lungo i fiumi della Renania e i canali fiamminghi. … I folli allora avevano spesso un'esistenza vagabonda. Le città li cacciavano volentieri dalle loro cerchie; li si lasciava scorrazzare in campagne lontane, quando non li si affidava a un gruppo di mercanti o di pellegrini. L'usanza era frequente soprattutto in Germania … Il fatto è che questa circolazione di folli, il gesto che li scaccia, la loro partenza non possono venir spiegati solo con l’utilità sociale o con la sicurezza dei cittadini. Altri significati più vicini al rito erano certamente presenti; ed è ancora possibile 15 Rinascimento 26 decifrarne alcune tracce. … Si comprende meglio allora la curiosa ricchezza di significati che si accumula sulla navigazione dei folli e che indubbiamente le conferisce il suo prestigio. Da un lato non bisogna contestare la sua efficacia pratica: affidare il folle ai marinai significa evitare certamente che si aggiri senza meta sotto le mura della città, assicurarsi che andrà lontano, renderlo prigioniero della sua stessa partenza. Ma a tutto questo l'acqua aggiunge la massa oscura dei suoi valori particolari; essa porta via, ma fa ancor più: essa purifica; e inoltre la navigazione abbandona l'uomo all'incertezza della sorte; là ognuno è affidato al suo destino, ogni imbarco è potenzialmente l'ultimo. È per l'altro mondo che parte il folle a bordo della sua folle navicella; è dall'altro mondo che arriva quando sbarca. Questa navigazione del pazzo è nello stesso tempo la separazione rigorosa e l'assoluto Passaggio. In un certo senso, essa non fa che sviluppare, lungo tutta una geografia semi-reale e semi-immaginaria, la situazione liminare del folle all'orizzonte dell'inquietudine dell'uomo medioevale; situazione insieme simbolizzata e realizzata dal privilegio che ha i1 folle di essere rinchiuso alle porte della città: la sua esclusione deve racchiuderlo; se egli non può e non deve avere altra prigione che la soglia stessa, lo si trattiene sul luogo di passaggio. È posto all'interno dell'esterno e viceversa. Posizione altamente simbolica, che resterà senza dubbio sua fino ai nostri giorni, qualora si ammetta che ciò che fu un tempo la fortezza visibile dell'ordine è diventato ora il castello della nostra coscienza16. L'acqua e la navigazione hanno davvero questo significato. Prigioniero nella nave da cui non si evade, il folle viene affidato al fiume dalle mille braccia, al mare dalle mille strade, a questa grande incertezza esteriore a tutto. Egli è prigioniero in mezzo alla più libera, alla più aperta delle strade: solidamente incatenato all'infinito crocevia. È il Passeggero per eccellenza, cioè il prigioniero del Passaggio. E non si conosce il paese al quale approderà, come, quando mette piede a terra, non si sa da quale paese venga. Egli non ha verità né patria se non in questa distesa infeconda fra due terre che non possono appartenergli. È questo il rituale che, a causa di questi valori, è all'origine della lunga parentela immaginaria che si può constatare lungo tutta la cultura occidentale? O, al contrario, è questa parentela che dal fondo dei tempi ha evocato e poi fissato il rito dell'imbarco? Una cosa almeno è certa: l'acqua e la follia sono legate per lungo tempo nei sonni dell'uomo europeo. … Da un lato Bosch, Brueghel, Thierry Bouts, Dürer17 e tutto il silenzio delle immagini. È nello spazio della pura visione che la follia dispiega i suoi poteri. Fantasmi e minacce, pure apparenze del sogno e destino segreto del mondo: la follia detiene in questo caso una forza primitiva di rivelazione: rivelazione che l'onirico è reale, che la sottile superficie dell'illusione si apre su una profondità innegabile, e che il momentaneo brillio dell'immagine lascia il mondo in preda a 16 Foucault allude a quel processo di formazione della coscienza che Fromm descriveva in questo modo: ”La «coscienza» è un aguzzino, che l'uomo mette entro se stesso. Lo spinge ad agire secondo desideri e fini che egli ritiene suoi, mentre in realtà sono l'interiorizzazione di imperativi sociali esterni. Lo perseguita con rigore e crudeltà, vietandogli il piacere e la felicità, rendendogli tutta la vita una espiazione di qualche misterioso peccato.” (vedi E. Fromm: “Il significato psico-sociale delle dottrine di Lutero e Calvino”, pag. 13). La tesi di fondo di Foucault è che il potere assoggetta l’individuo non solo nel senso di controllarlo ma soprattutto vincolandolo alla propria individualità che è una delle possibili, poiché nasce dalla rimozione di alcuni aspetti perché altri possano essere messi in risalto. Infatti, il potere si è servito dell’identificazione operata dalla scienza moderna a partire dal cogito cartesiano per giustificare “il grande internamento” da esso operato all’inizio dell’epoca moderna e “il grande internamento” – ovvero la segregazione dei “diversi”, folli, vagabondi, mendicanti in asili di pazzi, case di lavoro o prigioni - (entrambi gli aspetti saranno l’oggetto del secondo capitolo) altro non è che il segno di una loro criminalizzazione da parte della “ragione dominante” che, in ogni discorso o comportamento che pretende di deviare dalle sue regole, scorge il pericoloso delinearsi di un messaggio di ribellione. 17 Pittori fiamminghi e tedeschi vissuti tra il XV e il XVI secolo 27 simboli inquieti che si eternano nelle sue notti; e rivelazione inversa, ma altrettanto dolorosa, che tutta la realtà del mondo sarà assorbita un giorno nell'Immagine fantastica, nel momento intermedio dell'essere e del nulla che è il delirio della pura distruzione; il mondo già non è più, ma il silenzio e la notte non si sono ancora chiusi del tutto su di lui; esso vacilla in un ultimo scoppio, in un estremo disordine che precede immediatamente l'ordine monotono del compimento. È in questa immagine subito abolita che giunge a perdersi la P. Brueghel il Vecchio: Greta la pazza – 1562 verità del mondo. Tutte questa trama dell'apparenza e del segreto, dell'immagine immediata e dell'enigma non svelato si dispiega nella pittura del XV secolo come la tragica follia del mondo. Dall'altro lato, con Brandt18, con Erasmo19, con tutta la tradizione umanistica, la follia è accolta nell'universo del discorso. Essa viene raffinata, sottilizzata, ma anche disarmata. Essa viene considerata in un modo diverso; nasce nel cuore degli uomini, dà e toglie regola alla loro condotta; anche se governa le città, viene ignorata dalla calma verità delle cose e dalla grande natura. Essa sparisce in fretta quando appare l'essenziale, che è vita e morte, giustizia e verità. Può darsi che ogni uomo le sia sottomesso, ma il suo regno sarà sempre meschino e relativo; perché essa si mostrerà agli occhi del saggio nella sua mediocre verità. Per costui diventerà oggetto, e nel modo peggiore, perché sarà l'oggetto del suo riso. Anche in tal modo, i lauri che le vengono intrecciati la incatenano. Anche se fosse più saggia di ogni scienza, è necessario che s'inchini davanti alla saggezza che la considera follia. La follia può avere l'ultima parola, essa non è mai l'ultima parola della verità del mondo; il discorso con cui essa si giustifica deriva solo da una coscienza critica dell'uomo. Questo combaciare della coscienza critica e dell'esperienza tragica 20 anima tutto 18 Sebastian Brant, (1458–1521), è stato un umanista e poeta satirico alsaziano, noto soprattutto per l'opera La nave dei folli, una satira allegorica e didascalica, stampata nel 1494 e accompagnata dalle litografie di Albrecht Dürer, che riscosse fin da subito un enorme successo letterario, testimoniato dalle numerose edizioni e traduzioni. Sotto forma di allegoria, una nave stipata di folli e guidata da folli, si dirige in un viaggio fantastico verso il paradiso dei folli, Narragonia, fino alla visita del Paese di Cuccagna e al tragico epilogo del naufragio finale. In quest'opera allegorica Brant sferza con implacabile vigore i vizi e le debolezze umane espresse dalla sua epoca. 19 Erasmo da Rotterdam (1466-1536) persegue per tutta la vita l'ideale di una riforma delle cose umane e della religione ispirata dall’idea che il credente deve centrare la propria vita sull'imitazione di Cristo e la lettura personale della Bibbia: Erasmo provvede dunque a calare questo ideale nel modello umanistico del «ritorno alle fonti», redigendo un'edizione critica del Nuovo Testamento e di numerosi scritti dei Padri della Chiesa. A questo riguardo egli compone anche il Manuale del soldato cristiano, opera in cui, oltre a deplorare la corruzione monastica, sottolinea come la vera forza che produce conversione e rende autentici «soldati» cristiani è una vita ispirata al modello di Cristo, la «philosophia Christi». Lo scritto morale più noto di Erasmo è tuttavia l'Elogio della follia (1509) in cui la follia, personificata, tesse il proprio elogio, dimostrando come domini in tutte le cose umane, non lasciando indenni neppure il potere politico, la Chiesa e la cultura. Al termine della propria celebrazione, infine, cita le sue forme più alte: l'elevazione filosofica secondo l'ideale platonico e la fedeltà radicale all'insegnamento di Cristo 20 La distinzione tra i due atteggiamenti risulta essenziale nel discorso di Foucault. L’esperienza tragica della follia consiste nella sua accettazione quale innegabile aspetto della personalità e dell’esperienza 28 ciò che è stato sentito e formulato intorno alla follia all'inizio della Renaissance. Ma esso tuttavia sparirà presto e questa grande struttura, ancora così chiara e così spiccata all'inizio del XVI secolo, sarà scomparsa, o quasi, meno di cent'anni dopo. Sparire non è proprio il termine adatto a indicare con esattezza quanto è avvenuto. Si tratta piuttosto di un privilegio sempre più spiccato che la Renaissance ha accordato a uno degli elementi del sistema: a quello che faceva della follia un'esperienza nel campo del linguaggio, un'esperienza in cui l'uomo era confrontato alla sua verità morale, alle regole peculiari della sua natura e della sua verità. In breve, la coscienza critica della follia si è andata sempre più illuminando, mentre i suoi aspetti tragici si oscuravano progressivamente. Questi ultimi saranno presto del tutto evitati. Per molto tempo, si faticherebbe a trovarne la traccia; solo alcune pagine di Sade21 e l'opera di Goya22 testimoniano che questa sparizione non significa annientamento, che questa esperienza tragica sussiste ancora oscuramente nella notte del pensiero e dei sogni, e che nel XVI secolo non si è trattato di una distruzione radicale, ma soltanto di un occultamento. L'esperienza tragica e cosmica della follia è stata mascherata dai privilegi esclusivi di una coscienza critica. È per questo che l'esperienza classica, e attraverso di essa l'esperienza moderna della follia, non può essere considerata come un insieme totale in grado di arrivare in tal modo alla sua verità positiva; è un aspetto frammentario che abusivamente si presenta come esauriente; è un insieme squilibrato a causa di tutto ciò che gli manca, cioè a causa di tutto ciò che lo nasconde. Sotto la coscienza critica della follia e le sue norme V. Van Gogh: filosofiche o scientifiche, morali o Campo di grano mediche, una sorda coscienza tragica con volo di non ha cessato di vegliare23. corvi - 1890 E lei che le ultime parole di Nietzsche24, le ultime visioni di Van Gogh25, hanno ridestato. 26 È lei che indubbiamente Freud ha cominciato a presentire all'estremità del suo cammino: sono le sue grandi lacerazioni che egli ha voluto simbolizzare con la lotta mitologica della libido e dell'istinto di morte. … umana, l’esperienza critica della follia, benchè non sia ancora, almeno nel Rinascimento, il rifiuto della follia, rappresenta però già un atteggiamento della ragione. 21 Donatien-Alphonse-François de Sade, meglio conosciuto come Marchese de Sade, (1740–1814) scrittore, filosofo e aristocratico francese, autore di diversi libri erotici e di alcuni saggi filosofici, molti dei quali scritti mentre si trovava in prigione. Il suo nome è all'origine del termine sadismo, atteggiamento che emerge dai suoi romanzi. È considerato un esponente dell'ala più estremista del Libertinismo, nonché dell'Illuminismo più radicale. 22 Francisco José de Goya y Lucientes (1746–1828) è stato un pittore e incisore spagnolo. Accanto a quadri idilliaci e a ritratti di reali e aristocratici spagnoli Goya ha mostrare un grande interesse per i criminali, scene violente, ingiustizie sociali, nonché per la stregoneria, un tema affrontato in alcune grandi opere pittoriche. L'interesse di Goya per il mondo magico e stregonesco nasce da un forte spirito critico sia verso le superstizioni popolari sia verso l'ipocrisia dell'aristocrazia e del clero di quell'epoca,: un fatto che emerge chiaramente dalla lettura dei manoscritti dello stesso Goya. 23 La follia è considerata da Foucault non come malattia mentale che si oppone alla salute mentale, ma come prodotto storico dell’azione dei saperi (vedi più avanti la discussione sul dubbio cartesiano) e delle istituzioni (vedi l’analisi delle pratiche dell’internamento). Per Foucault la follia deve essere considerata una modalità dell’esistenza umana che come tale può essere rimossa ma non cancellata; in ogni caso la sua esclusione comporta un impoverimento dell’esperienza umana. A riprova della sua tesi l’autore ha già citato Sade e Goya e nel seguito citerà ancora Nietzsche, Van Gogh e Freud la cui opera è in diversi modi legata alla follia. 24 F. Nietzsche (1844-1900), filosofo tedesco la cui vita risultò fortemente determinata dalla pazzia e il cui pensiero è risultato determinante per gli sviluppi di molta della filosofia del Novecento. 25 V. Van Gogh (1853-1890), pittore olandese la cui biografia è anch’essa legata alla malattia mentale, ma la cui opera è stata fondamentale per la pittura successiva. 26 S. Freud (1856-1939) il fondatore della psicoanalisi, vedi nota n 1. 29 Sono queste estreme scoperte ed esse sole che ci consentono oggi di giudicare infine che l'esperienza della follia che si estende a partire dal XVI secolo fino ad oggi deve la sua fisionomia particolare e l'origine del suo significato a questa assenza, a questa notte e a tutto ciò che la riempie. Bisogna reinterpretare in una dimensione verticale la bella rettitudine che conduce il pensiero razionale fino all'analisi della follia come malattia mentale; sarà chiaro allora che sotto ognuna delle sue forme essa maschera in modo più completo, e anche più pericoloso, questa esperienza tragica, che tuttavia non ha potuto domare del tutto. Nel punto estremo della coercizione era necessaria la deflagrazione alla quale assistiamo a partire da Nietzsche. Ma come si sono costituiti nel XVI secolo, i privilegi della riflessione critica? In che modo l'esperienza della follia si è trovata infine confiscata da essi, tanto che sulla soglia dell'età classica tutte le immagini tragiche evocate nell'epoca precedente si saranno dissolte nell'ombra? In che modo si è concluso quel movimento che faceva dire ad Artaud27: "La Renaissance del XVI secolo ha rotto con una realtà che aveva le sue leggi, forse sovrumane, ma naturali; e l'Umanesimo della Renaissance non fu un ingrandimento ma una diminuzione dell'uomo"? Riassumiamo brevemente quanto in questa evoluzione è indispensabile per capire l'esperienza che il classicismo ha fatto della follia. 1 °. La follia diventa una forma relativa alla ragione, o piuttosto follia e ragione entrano in una reazione eternamente reversibile che fa sì che ogni follia ha la sua ragione che la giudica e la domina, e ogni ragione la sua follia nella quale essa trova la sua verità derisoria. Ciascuna è la misura dell’altra, e in questo movimento di riferimento reciproco esse si respingono l'un l'altra, ma si fondano l'una per mezzo dell'altra. … 2° La follia diviene una delle forme stesse della ragione. Essa si integra all'altra, costituendo tanto una delle sue forze segrete, quanto un momento della sua manifestazione, quanto ancora una forma paradossale nella quale essa può prendere coscienza di se stessa. In ogni modo, la follia non acquista significato né valore se non nel campo stesso della ragione. “La presunzione è la nostra malattia naturale e originaria. L'uomo è la più infelice e la più fragile fra tutte le creature, e nello stesso tempo la più orgogliosa. Egli si vede e si sente abitare qui, nella melma e nello sterco del mondo, legato e incatenato alla peggiore, alla più morta e alla più imputridita parte dell'universo, nell'infimo piano dell'abitazione e nel più lontano dalla volta celeste, con gli animali della peggior condizione fra le tre28; e va a porsi con l'immaginazione sopra il cerchio della luna, mettendo il cielo sotto i piedi. Attraverso la vanità di questa stessa immaginazione egli si eguaglia a Dio”. Tale è la peggiore delle follie: non riconoscere la miseria nella quale si è imprigionati, la debolezza che ci impedisce di accedere al vero e al bene; non sapere quale parte di follia ci spetta. Rifiutare questa sragione che è il segno stesso della nostra condizione significa rinunciare a usare per sempre in modo ragionevole la propria ragione. Perché se la ragione esiste, essa consiste proprio nell'accettare questo cerchio continuo della saggezza e della follia, nell'essere chiaramente coscienti della loro reciprocità e della loro impossibile separazione. … Visitando Torquato Tasso in preda al delirio, Montaigne29 prova più dispetto che 27 Antonin Artaud (1896-1948), saggista, regista e attore, ha scritto, un anno prima della morte, un saggio suVan Gogh, il suicida della società. 28 Ovvero la condizione terrestre. Alle altre due appartengono gli acquatici e i volatili. La citazione è tratta da Montaigne (vedi nota successiva). 29 Michel Eyquem de Montaigne (1533-1592), francese, il cui pensiero è legato a un recupero dello stoicismo e dello scetticismo e la cui opera principale è costituita dai Saggi, di cui i primi due libri escono nel 1580 .I Saggi divengono via via una raccolta di meditazioni di costume e personali, le quali traggono alimento anche da un lungo viaggio in diversi paesi d'Europa, fra cui l'Italia. Le 30 pietà; ma in fondo, più di tutto ancora, prova ammirazione. Dispetto, indubbiamente nel vedere che la ragione è infinitamente vicina alla più profonda follia, anche quando tocca le sue cime: "Chi non sa quanto è impercettibile la vicinanza tra la follia e gli arditi innalzamenti di uno spirito libero, e gli effetti di una virtù suprema e straordinaria?" Ma in questo egli trova anche motivo per una paradossale ammirazione. È questo segno che la ragione ricava le più strane risorse da quella stessa follia. Se il Tasso, "uno dei poeti italiani più giudiziosi, più ingegnosi e più formati all'aria di quell'antica e pura poesia", si trova ora "in uno stato così pietoso, sopravvivendo a se stesso", non lo deve a "questa sua vivacità omicida? a questa chiarezza che l'ha accecato? a questa esatta e tenera comprensione della ragione che l'ha privato della ragione? alla curiosa e laboriosa ricerca delle scienze che l'ha condotto alla stupidità? a questa rara attitudine agli esercizi dell'anima che l'ha ridotto senza esercizio e senz'anima?" Se la follia giunge a sanzionare lo sforzo della ragione è perché essa faceva già parte di questo sforzo: la vivacità delle immagini, la violenza della passione, questo grande ritrarsi dello spirito in se stesso, che appartengono davvero alla follia, sono gli strumenti della ragione più pericolosi, perché più acuti. Non c'è ragione tanto forte da non doversi arrischiare nella follia per giungere al termine dell'opera, "nessun grande spirito senza mescolanza di follia ... In questo senso i saggi e i migliori poeti hanno talvolta consentito a folleggiare e a uscire dai gangheri ". La follia è un momento duro ma necessario nel lavorio della ragione; attraverso di essa, e perfino nelle sue vittorie apparenti, la ragione si manifesta e trionfa. La follia non era per essa se non la sua forza viva e segreta . A poco a poco la follia si trova disarmata, e i tempi stessi spostati; investita dalla ragione essa è come accolta e trapiantata in lei. Tale fu dunque il ruolo ambiguo di questo pensiero scettico o piuttosto di questa ragione così vivamente cosciente delle forme che la limitano e delle forze che la contraddicono: essa scopre la follia come uno dei suoi aspetti particolari (e questo è un modo di scongiurare tutto ciò che può essere potere esterno, ostilità irriducibile, segno di trascendenza) ma al tempo stesso essa pone la follia al centro del suo lavoro, designandola come un momento essenziale della propria natura. E oltre Montaigne, ma sempre in questo movimento di inserzione della follia nella natura stessa della ragione, vediamo disegnarsi la curva della riflessione di Pascal : «Gli uomini sono così necessariamente folli che il non esser folle equivarrebbe a esserlo secondo un'altra forma di follia". Riflessione in cui è raccolto e ripreso tutto il lungo lavoro che comincia con Erasmo: scoperta di una follia immanente alla ragione; in seguito, sdoppiamento: da una parte, una "folle follia" che rifiuta la follia caratteristica della ragione, e che, rifiutandola, la raddoppia: e in questo raddoppiamento cade nella più semplice, nella più chiusa, nella più immediata delle follie; dall'altra parte, una "saggia follia" che accoglie la follia della ragione, l'ascolta, riconosce i suoi diritti di cittadinanza, e si lascia penetrare dalle sue forze vive: ma in tal modo si protegge dalla follia più realmente di quanto possa fare l'ostinazione di un rifiuto sempre sconfitto in partenza. Il fatto è che ora la verità della follia è una sola e stessa cosa con la vittoria della ragione e il suo definitivo dominio: perché la verità della follia è di essere all'interno della ragione, di esserne un aspetto, una forza e come un bisogno momentaneo per diventare più sicura di se stessa. nuove aggiunte dell'edizione 1588 hanno richiesto un terzo libro: la morte coglie l'autore pochi anni dopo mentre sta preparando un'ulteriore edizione ampliata. I Saggi, opera fortemente originale per il suo tempo, procede per suggestioni e temi, coerente con la concezione sviluppata dall'autore sull'impossibilità di una filosofia generale e sistematica. Il tempo tormentato in cui vive (caratterizzato dalla crisi del geocentrismo, dalla scoperta delle Americhe, dalla Riforma e dalle guerre di religione) convince Montaigne che la vita di ognuno è incerta e soggetta a continui mutamenti: di fronte a tutto ciò filosofare può essere solo andare alla ricerca di un'adeguata saggezza di vita e «imparare a morire». 31 Forse è qui il segreto della sua presenza molteplice nella letteratura della fine del XVI secolo e dell'inizio del XVII, un'arte che, nel suo sforzo di dominare questa ragione che cerca se stessa, riconosce la presenza della follia, della sua follia, la circonda, la investe, per trionfare infine. Giochi di un'età barocca. Ma qui come nel pensiero, si compie tutto un lavoro che porterà anch'esso alla conferma dell'esperienza tragica della follia in coscienza critica. Tralasciamo per il momento questo fenomeno e lasciamo che risaltino, nella loro indifferenza, gli aspetti che possiamo trovare tanto nel Don Chisciotte quanto nel Re-Lear …. Nell’opera di Shakespeare troviamo le follie che si imparentano con la morte e l’assassinio; in quella di Cervantes le forme che si assoggettano alla presunzione e a tutti i compiacimenti dell’immaginazione. Ma questi sono alti modelli che gli imitatori indeboliscono e disarmano. E indubbiamente l’uno e l'altro sono più i testimoni di un'esperienza della Follia nata nel XV secolo che quelli di un’esperienza critica e morale della Sragione che pur tuttavia si sviluppa nel loro secolo. Al di là del tempo, essi si ricollegano a un significato che sta per sparire la cui continuità sarà proseguita solo nelle tenebre… In Cervantes o in Shakespeare la follia occupa sempre una posizione estrema, nel senso che essa è senza rimedio. Niente la riporta mai alla verità e alla ragione. La follia nei suoi vani ragionamenti, non è vanità; il vuoto che la riempie è "un male molto al di là della mia scienza", come dice il medico a proposito di Lady Macbeth; è già la pienezza della morte: una follia che non ha bisogno di medico, ma della sola misericordia divina.. … Indubbiamente la morte di Don Chisciotte avviene in un paesaggio placato, che si è ricollegato all'ultimo istante con la ragione e con la verità. Tutt'a un tratto la follia del Cavaliere ha preso coscienza di se stessa e davanti ai propri occhi si tramuta in stupidità. Ma questa brusca saggezza della propria follia è qualcosa di diverso da "una nuova follia che gli è appena entrata nella testa"? Ecco un equivoco eternamente riversibile, che non può essere risolto, in ultima analisi, se non dalla morte stessa. La follia dissolta non può che confondersi con l'imminenza della fine; "e uno dei sintomi dai quali congetturarono che il malato stava per morire fu il fatto di essere tornato così in fretta dalla follia alla ragione". Ma la morte stessa non arreca la pace: la follia trionferà ancora: verità derisoriamente eterna, al di là del termine di una vita che tuttavia si era liberata della follia con questo stesso termine. Ironicamente la sua vita insensata lo insegue e lo immortalizza solo con la sua demenza; la follia è ancora la vita imperitura della morte: "Qui giace l'hidalgo temibile, che spinse così lontano il valore che la morte non poté trionfare della vita nel suo trapasso" Ma ben presto la follia abbandona queste regioni estreme in cui Cervantes e Shakespeare l'avevano collocata; e nella letteratura dell'inizio secolo occupa di preferenza una posizione mediana… Il fatto è che essa non è più considerata nella sua realtà tragica, nell'assoluta lacerazione che la H. Bosch Trittico delle introduce nell'altro mondo; ma solo nell’ironia delle delizie, Giardino delle sue illusioni. … Nasce l'esperienza classica della delizie (particolare) – 1510 follia. Si attenua la grande minaccia sorta circa all'orizzonte del XV secolo, i poteri inquietanti che erano presenti nella pittura di Bosch hanno perduto la loro violenza. Sussistono alcune forme, ora trasparenti e docili, che costituiscono un corteo, l'inevitabile corteo della ragione. La follia ha cessato d'essere un simbolo 32 escatologico ai confini del mondo, dell’uomo e della morte; la notte sulla quale essa fissava lo sguardo, e dalla quale nascevano le forme dell'impossibile, si dissolta. L’oblio cade sul mondo che era solcato dalla libera schiavitù della sua Nave: essa non andrà più, nel suo strano passaggio, da un aldiquà del mondo a un aldilà; essa non sarà mai più questo confine fuggitivo e assoluto. Eccola solidamente ormeggiata in mezzo alle cose e alle genti. Trattenuta e tenuta ferma. Non più barca ma ospedale. L’età moderna: il grande internamento L'età classica ridurrà al silenzio, con uno strano colpo di forza, la Follia, le cui voci erano appena state liberate dalla Renaissance, ma la cui violenza era stata già dominata. Nel cammino del dubbio, Descartes incontra la follia accanto al sogno e a tutte le forme d'errore. Questa possibilità di essere folle non rischia di privarlo del suo corpo, così come il mondo esterno può dissimularsi nell'errore, o la coscienza addormentarsi nel sogno? "Come potrei negare che queste mani e questo corpo mi appartengono, se non forse paragonandomi a certi insensati il cui cervello è talmente confuso e offuscato dai neri vapori della bile che essi affermano costantemente di essere dei re mentre sono poverissimi, di esser vestiti di porpora e d'oro mentre sono tutti nudi, o si immaginano d'essere delle brocche o di avere un corpo di vetro?" Ma Descartes non evita lo scoglio della follia nello stesso modo in cui aggira l'eventualità del sogno o dell'errore. In realtà, per quanto siano ingannatori, i sensi non possono alterare che «le cose molto poco sensibili e molto lontane»; la forza delle loro illusioni lascia sempre un residuo di verità, «il fatto d'esser qui, vicino al fuoco, in vestaglia». Quanto al sogno, esso può, come l'immaginazione dei pittori, rappresentare «sirene o satiri con figure bizzarre e straordinarie»; ma non può né creare né comporre da solo quelle cose «più semplici e più universali» la cui disposizione rende possibili le immagini fantastiche: «A questo genere di cose appartiene la natura corporale in generale e la sua estensione». Queste sono così poco fittizie da assicurare ai sogni la loro verosimiglianza: inevitabili indizi di una verità che il sogno non giunge a compromettere. Né il sogno popolato di immagini né la chiara coscienza che i sensi ci ingannano possono portare il dubbio fino al punto estremo della sua universalità; ammettiamo pure che gli occhi ci deludano, «supponiamo ora di essere addormentati», la verità non scivolerà per intero nella notte. Per la follia, è tutt'altra cosa; se i suoi pericoli non compromettono né il cammino né l'essenziale della verità, ciò non deriva dal fatto che una certa cosa, perfino nel pensiero di un folle, non può essere falsa; ma dal fatto che io che penso non posso essere folle. Quando io credo di avere un corpo, sono sicuro di possedere una verità più solida di colui che si immagina di avere un corpo di vetro? Certamente, perché «essi sono dei folli, e io non sarei meno stravagante di loro se mi regolassi sul loro esempio". Non è il permanere di una verità che garantisce il pensiero contro la follia, come gli permetteva di liberarsi da un errore o di emergere da un sogno; è un'impossibilità di essere folle, essenziale non all'oggetto del pensiero, ma al soggetto pensante. Si può supporre di sognare e d'identificarsi col soggetto che sogna per trovare "qualche ragione per dubitare": la verità appare ancora, come condizione della possibilità del sogno. Non si può, in compenso, supporre, neppure col pensiero, di esser folle, perché la follia è proprio l'impossibilità del pensiero: "Non sarei meno stravagante di loro"30.... 30 Il dubbio è, naturalmente, quello a cui Cartesio, nelle Meditazioni metafisiche (1641-1642), sottopone tutto il nostro sapere per raggiungere, attraverso di esso, la certezza del cogito. Foucault allude qui al fatto che, nella prima Meditazione, nel corso dell'operazione del dubbio, Cartesio 33 Nell'economia del dubbio c'è uno squilibrio fondamentale tra follia da una parte, sogno ed errore dall'altra. La loro situazione è diversa in rapporto alla verità e a colui che la cerca; sogni e illusioni sono superati nella struttura stessa della verità; ma la follia è esclusa dal soggetto che dubita. Come; ben presto sarà escluso che egli non pensi e che non esista Una certa decisione è stata presa, dal tempo degli Essais31. Quando Montaigne incontrava il Tasso, niente lo assicurava del fatto che ogni pensiero non fosse intriso di sragione. E il popolo? Il "povero popolo ingannato da queste follie"? L'uomo di pensiero è al sicuro da queste stravaganze? Egli stesso "perlomeno altrettanto da compiangere". E quale ragione potrebbe renderlo giudice della follia? "La ragione mi ha insegnato che il condannare così risolutamente una cosa come falsa e impossibile significa presumere di avere nella testa i confini e i limiti della volontà di Dio e della potenza di nostra madre Natura, e tuttavia non esiste al mondo follia più grande del riportarle alla misura della nostra capacità e della nostra sicumera". Fra tutte le altre forme di illusione, la follia traccia una delle vie del dubbio più frequentate ancora nel XVI secolo. Non si è mai sicuri di non sognare, non si è mai certi di non essere folli: "Quante volte non ci viene in mente la quantità di contraddizioni che noi sentiamo nel nostro stesso giudizio?" Ora, Descartes ha acquistato questa certezza e la conserva solidamente: la follia non può più riguardarlo. Sarebbe una stravaganza il supporre d'essere stravagante; come esperienza di pensiero la follia si implica da sola e conseguentemente si esclude dal progetto. Così il rischio della follia è scomparso dall'esercizio stesso della Ragione. Quest'ultima è ridotta a un pieno possesso di se stessa, in cui non può incontrare altre insidie che l'errore, altri pericoli che l'illusione. Il dubbio di Descartes scioglie gli incanti dei sensi, attraversa i paesaggi del sogno, guidato sempre dalla luce F. Goya: Il sonno della ragione fadelle cose vere; ma egli scaccia la follia in nome nascere mostri - 1793-98 di colui che dubita, e che non può più sragionare come non può non pensare o non essere. La problematica della follia - quella di Montaigne – è con ciò stesso modificata32. ... La Non-Ragione del XVI secolo formava una sorta di rischio aperto, le cui minacce potevano sempre, almeno di diritto, compromettere i rapporti della soggettività e della verità. Il procedere del dubbio cartesiano sembra testimoniare che nel XVII secolo il pericolo si trova scongiurato e che la follia viene posta fuori dal dominio di pertinenza nel quale il soggetto detiene i suoi diritti alla verità quel dominio che per il pensiero classico era la ragione stessa. Ormai la follia è esiliata. Se l'uomo può sempre essere folle, il pensiero, come esercizio della sovranità da parte di un ammette le esperienze del sogno e dell'errore come possibilità della ragione: la nostra ragione è così fatta che può confondere il sogno e la veglia, il falso e il vero. Egli esclude invece a priori che la follia possa investire la ragione come tale: se siamo esseri ragionevoli, non c'è alcun posto in noi per la follia, e viceversa. La follia è dunque una condizione che deve essere scartata a priori, esclusa dal soggetto che pensa. 31 Sono i Saggi (1580-1592) di M. de Montaigne. Come è stato detto Montaigne, come altri esponenti della cultura rinascimentale (ad esempio Shakespeare), dà ancora piena dignità alla follia, dubita seriamente della superiorità della ragione su di essa. 32 I1 cogito cartesiano ha spazzato via l’dea di complementarità fra ragione e follia che la riflessione del dubbio aveva anch'essa incontrato: la costituzione della razionalità moderna si realizza mediante questa operazione teorica. All’atto teoretico di esclusione della Sragione da parte del fondatore del razionalismo moderno corrisponderà l’internamento dei folli nei manicomi da parte del potere statale, come verrà esaminato nel seguito. Il punto di vista della ragione, della scienza matematica è quello che dà senso al mondo. Tutto ciò che è "insensato" viene fieramente combattuto. 34 soggetto che si accinge a percepire il vero, non può essere insensato. Viene tracciata una linea di separazione che renderà ben presto impossibile l'esperienza, così familiare alla Renaissance, di una Ragione sragionevole e di una ragionevole Sragione. Fra Montaigne e Descartes si è prodotto un avvenimento: qualcosa che riguarda l'avvento di una ratio. Ma la storia di una ratio come quella del mondo occidentale è ben lontana dall'esaurirsi nel progresso di un "razionalismo"; essa è costituita, in parte altrettanto grande, anche se più segreta, dal movimento con cui la Sragione è sprofondata nel nostro suolo, per sparirvi senza dubbio, ma per prendervi radice33. È quest'altro aspetto dell'avvenimento classico che bisognerebbe ora render chiaro. Più di un sintomo lo tradisce, e non tutti derivano da un'esperienza filosofica o dallo sviluppo del sapere. Quello di cui vorremmo parlare appartiene a una superficie culturale assai vasta. Esso viene segnalato con molta precisione da una serie di date e, insieme con queste, da un complesso di istituzioni. È noto che il XVII secolo ha creato grandi case di internamento; ma è meno noto che in pochi mesi più di un parigino su cento ci si è trovato rinchiuso. Si sa che il potere assoluto ha fatto uso di lettres de cachet e di misure arbitrarie di imprigionamento; ma non si conosce altrettanto bene la coscienza giuridica che poteva animare queste pratiche. A partire da Pinel, Tuke, Wagnitz 34, si sa che per un secolo e mezzo i folli sono stati sottoposti al regime di questo internamento, e che un giorno saranno scoperti nelle sale dell'Hopital général, nelle segrete delle case di correzione; ci si accorgerà che essi erano mescolati alla popolazione delle workhouses. Ma non è affatto accaduto che si precisasse con chiarezza quale fosse il loro statuto, né quale senso avesse quel vicinato che sembrava assegnare una stessa patria ai poveri, ai disoccupati, ai corrigendi e agli insensati. È fra le mura dell'internamento che Pinel e la psichiatria del XIX secolo incontrò i folli; e là, non dimentichiamolo, che li lasceranno, non senza gloriarsi di averli "liberati". A partire dalla metà del XVII secolo la follia è stata legata a questa terra dell'internaménto e al gesto che gliela indicava come suo 1uogo naturale. Prendiamo i fatti nella loro formulazione più semplice, poiché l'internamento degli alienati è la struttura più -vistosa nell'esperienza classica della follia, e sarà la pietra dello scandalo quando questa esperienza sparirà dalla cultura occidentale. "Io li ho visti nudi, coperti di stracci, senz'altro che un pò di paglia per proteggessi dalla fredda umidità del selciato sul quale sono distesi. Li ho visti grossolanamente nutriti, privati d'aria per respirare, d'acqua per spegnere la loro sete, e delle cose più necessarie alla vita. Li ho visti in balìa di veri carcerieri, abbandonati alla loro brutale sorveglianza. Li ho visti in stambugi stretti, sporchi, infetti, senz'aria, senza luce, rinchiusi in antri dove si temerebbe di rinchiudere le bestie feroci che il lusso dei governi mantiene con grandi spese nelle capitali". Una data può servire come punto di riferimento: 1656, decreto di fondazione dell'Hópital général, a Parigi. A prima vista si tratta solo di una riforma: appena d'una riorganizzazione amministrativa. Diverse istituzioni già esistenti sono raggruppate sotto un'unica amministrazione: la Salpétrière, ricostruita sotto il regno 33 La Sragione, tutto ciò che è escluso dalla Ragione (non solo la follia, ma come vedremo anche la povertà, la delinquenza, le malattia veneree, il rifiuto di conformarsi all'etica del lavoro e alla morale sessuale corrente) viene ridotta al silenzio, ma rimane presente. Non esiste, quindi, un progresso dalla Sragione alla Ragione, come volevano l'Illuminismo e parte del positivismo; per questo Foucault dice che la Sragione «è sprofondata nel nostro suolo, per sparirvi senza dubbio, ma per prendervi radice». Prendervi radici e riemergere, grazie alla voce di artisti, poeti e filosofi «estremi», come aveva osservato precedentemente. 34 Precursori della moderna psichiatria. 35 precedente per mettere al coperto un arsenale; Bicétre, che Luigi XIII aveva voluto dare alla commenda di Saint-Louis per farne una casa di riposo destinata agli invalidi dell'esercito … Tutto è ora destinato ai poveri di Parigi "di ogni sesso, provenienza ed età, di qualsiasi tipo ed estrazione, e in qualunque condizione si trovino, validi o invalidi, malati o convalescenti, curabili o incurabili". Si tratta di accogliere, di alloggiare e di nutrire coloro che si presentano da soli, o che sono inviati dall'autorità reale o giudiziaria; bisogna anche provvedere alla sussistenza, alla buona tenuta, all'ordine generale di quelli che non hanno potuto trovarvi posto, ma che potrebbero esservi o che lo meriterebbero. Questo incarico è affidato a direttori nominati a vita, che esercitano i loro poteri non solo negli edifici dell'Hópital, ma in tutta la città di Parigi, su tutti coloro che appartengono alla loro giurisdizione: "Essi hanno ogni potere di autorità, di direzione, di amministrazione, di commercio, di polizia, di giurisdizione, di correzione e punizione su tutti poveri di Parigi, tanto fuori che dentro l'Hópital général". Inoltre i direttori nominano un medico con stipendio annuo di mille lire; questi risiede alla Pitié, ma deve visitare ogni casa dell'Hópital due volte alla settimana. Un fatto è chiaro fin dall'inizio: l'Hópital général non è un'istituzione medica. È piuttosto una struttura semigiuridica, una specie di entità amministrativa che, accanto ai poteri già costituiti, e al di fuori dei tribunali, decide, giudica ed esegue. "A tal scopo i direttori avranno, secondo il loro avviso, pali, berline, prigioni e segrete nel suddetto Hópital général e nei luoghi che ne dipendono, e non è concessa facoltà di appello contro le disposizioni che saranno da loro prese per l'interno del suddetto Hópital; e quanto a quelle che verranno deliberate per l'esterno, saranno eseguite nella forma e nel contenuto indipendentemente da qualsiasi "opposizione o protesta presente o futura, e senza loro pregiudizio, e non saranno differite, nonostante ogni rifiuto e contestazione." Sovranità quasi assoluta, giurisdizione senza appello, diritto esecutivo contro il quale niente può prevalere; l'Hópital général è uno strano potere che il re crea tra la polizia e la giustizia, ai limiti della legge: il terzo stato della repressione. A questo mondo apparterranno gli alienati trovati da Pinel a Bicétre e alla Salpétrière…. F. Goya:Il manicomio (particolare) In qualche anno tutto un reticolato è stato gettato sull'Europa. Alla fine del XVIII secolo Howard35 comincerà a percorrerlo; attraverso l'Inghilterra, l'Olanda, la Germania, la Francia, l'Italia, la Spagna, egli farà il pellegrinaggio di tutte le più importanti sedi d'internamento - "ospedali, prigioni, case di correzione" - e la sua filantropia si indignerà che si siano potuti relegare tra le stesse mura dei condannati di diritto comune, dei ragazzetti che turbavano il riposo della loro famiglia o ne dilapidavano 35 John Howard , filantropo quacchero, il cui impegno risultò decisivo per il declino delle sanzioni corporali e la loro sostituzione, nell'arco di pochi decenni, con quella detentiva. Nel 1777, pubblicò una relazione sullo stato delle prigioni, proponendo il principio dell'isolamento come fattore di penitenza e di redenzione. 36 le sostanze, della gente malfamata e degli insensati…. Qual era dunque la realtà presa di mira attraverso tutta questa popolazione, che si è trovata reclusa da un giorno all'altro o quasi, e bandita più severamente dei lebbrosi? Non bisogna dimenticare che pochi anni dopo la sua fondazione 1'Hopital général di Parigi raggruppava seimila persone, cioè circa l'uno per cento della popolazione. È stato necessario che si sia formata, sordamente e certo nel corso di lunghi anni, una sensibilità sociale comune alla cultura europea, e che bruscamente comincia a manifestarsi nella seconda metà del XVII secolo: è essa a isolare di colpo questa categoria destinata a popolare i luoghi d’internamento. … L'usanza dell'internamento indica una nuova reazione alla miseria, un nuovo patetico e, più in generale, un rapporto diverso dell'uomo verso ciò che può esserci di disumano nella sua esistenza. Il povero, il miserabile, l'uomo che non è padrone della propria esistenza, ha assunto lungo il XVI secolo un aspetto che il Medioevo non avrebbe riconosciuto. La Renaissance ha spogliato la miseria della sua positività mistica. E questo attraverso un duplice movimento di pensiero che toglie alla Povertà il suo significato assoluto, e alla Carità il valore che essa ricava dal soccorso a questa Povertà. Nel mondo di Lutero, in quello di Calvino soprattutto, le volontà particolari di Dio questa "bontà singolare di Dio verso ognuno" - non lasciano alla felicità o all'infelicità, alla ricchezza o alla povertà, alla gloria o alla miseria, la cura di parlare da sole… La volontà singolare di Dio, quando si rivolge al povero, non gli parla di gloria promessa ma di predestinazione. Dio non esalta il povero in una specie di glorificazione inversa; lo umilia volontariamente nella sua collera, nel suo odio … Povertà significa punizione: "È per suo comando che il cielo s'indurisce, che i frutti sono divorati e consumati dalle acquerugiole e da altri elementi corruttori; e ogniqualvolta le vigne, i campi e i prati sono devastati dalla grandine e dalle tempeste, anche questo è testimonianza di qualche punizione speciale esercitata da lui"36 La povertà e la ricchezza cantano nel mondo la stessa onnipotenza di Dio; ma il povero non può invocare che il malcontento del Signore, poiché la sua esistenza porta il marchio della maledizione di lui; così bisogna esortare "i poveri alla pazienza, affinché coloro che non si contentano del loro stato si sforzino, per quanto è loro possibile, di scuotere il giogo imposto loro da Dio". Quanto all'opera di carità, che cosa le può conferire il suo valore? Non la povertà che essa soccorre, in quanto quest'ultima non contiene più una gloria particolare; non colui che la compie, poiché attraverso il suo gesto si fa strada ancora una volontà singolare di Dio. Non è l'opera che giustifica ma la fede che la abbarbica a Dio. "Gli uomini non possono essere giustificati davanti a Dio per i loro sforzi, i loro meriti o le loro opere ma gratuitamente, per l'amore di Cristo e attraverso la fede". È noto questo grande rifiuto delle opere in Calvino, la cui proclamazione doveva risuonare così lontano nel pensiero protestante: "No, le opere non sono necessarie; no, esse non servono a niente per la santità". Ma questo rifiuto riguarda solo il significato delle opere in rapporto a Dio e alla salvezza; come ogni atto umano, esse portano i segni della finitezza e le stigmate della caduta; in questo "esse non sono che peccati e sudiciume". Ma sul piano umano le opere hanno un senso; se sono senza efficacia per la salvezza, hanno valore di indicazione e di testimonianza per la fede: "La fede non solo non ci rende negligenti alle buone azioni, ma è anzi la radice dalla quale esse sono prodotte". … Per strade diverse –e non senza molte difficoltà- il cattolicesimo giungerà alle stesse conclusioni approvando il grande internamento prescritto da Luigi XIV. … … i miserabili non sono più riguardati come il pretesto inviato da Dio per suscitare la carità del credente e fornirgli l'occasione di procurarsi la salvezza; ogni cattolico, 36 Questa come le seguenti citazioni sono tratte da opere di Calvino 37 secondo l'esempio dell'arcivescovo di Tours, comincia a vedere in essi "la feccia e il rifiuto della repubblica non tanto per le loro miserie corporali, di cui bisogna aver compassione, quanto per quelle spirituali, che fanno orrore". La Chiesa ha preso la sua decisione; e, ciò facendo, ha diviso il mondo cristiano della miseria, che il Medioevo aveva santificato nella sua totalità. Ci sarà da un lato la regione del bene, che è quella della povertà sottomessa e conforme all'ordine che le viene presentato; dall'altro lato la regione del male, cioè la povertà ribelle, che cerca di sfuggire a quest'ordine. - La prima accetta l'internamento e vi trova la sua pace; la seconda lo rifiuta, e per conseguenza lo merita. … L'internamento viene così giustificato doppiamente, in un indissociabile equivoco, a titolo di beneficio e a titolo di punizione. È insieme ricompensa e castigo, secondo il valore morale di coloro cui lo si impone. … L'internamento, questo fenomeno massiccio le cui tracce sono reperibili in tutta l'Europa del XVII secolo, è un affare di "police", nel senso molto preciso che a questo termine si dà nell'epoca classica, cioè l'insieme delle misure che rendono il lavoro sia possibile che necessario per tutti coloro che non saprebbero vivere senza di esso; … Prima di avere il senso medico che noi gli diamo, o che desideriamo supporre in esso, l'isolamento si è reso necessario per tutt'altra causa che la preoccupazione di guarire. Ciò che l'ha reso necessario è un imperativo di lavoro. La nostra filantropia vorrebbe volentieri riconoscere i segni di una benevolenza verso la malattia, là dove spicca solo la condanna dell'ozio. … In tutta l'Europa l'internamento ha lo stesso significato, almeno originariamente. Esso costituisce una delle risposte che vengono date dal XVII secolo a una crisi economica che interessa tutto il mondo occidentale nel suo insieme: ribasso dei salari, disoccupazione, rarefazione della moneta: un insieme di fatti dovuto probabilmente a una crisi nell'economia spagnola. … Ma fuori di questi periodi di crisi, l'internamento assume unaltro significato. La sua funzione repressiva si trova rafforzata a causa di una nuova utilità. Non si tratta più allora di rinchiudere i senza lavoro, ma di dar lavoro a coloro che sono stati rinchiusi e di farli così servire alla prosperità comune. L'alternanza è chiara: mano d'opera a buon mercato nei periodi di pieno impiego e di alti salari; e in periodo di disoccupazione riassorbimento degli oziosi e protezione sociale contro l'agitazione e le sommosse. Non dimentichiamo che le prime case d'internamento appaiono in Inghilterra nei centri più industrializzati del paese: Worcester, Norwich, Bristol; che il primo Hópital general è stato aperto a Lione, quarant'anni prima che a Parigi … Se si giudicano solo per il loro valore funzionale, la creazione delle case d'internamento può sembrare un fallimento. La loro scomparsa, all'inizio del XIX secolo, come centri di raccolta degli indigenti e prigioni della miseria, sanzionerà il loro insuccesso finale in quasi tutta l'Europa: rimedio transitorio e privo di efficacia, precauzione sociale abbastanza mal formulata dall'industrializzazione nascente. E tuttavia, in questo stesso fallimento, l'età classica faceva un'esperienza insostituibile. Quello che oggi ci appare come una dialettica maldestra della produzione e dei prezzi, possedeva allora il suo reale significato di una certa coscienza etica del lavoro in cui le difficoltà dei meccanismi economici perdevano la loro urgenza a vantaggio di un'affermazione di valore. In questo primo slancio del mondo industriale il lavoro non appare legato ai problemi che esso stesso susciterà; lo si concepisce invece come soluzione generale, panacea infallibile, rimedio a tutte le forme di miseria. Lavoro e povertà sono situati in un'opposizione semplice; le loro rispettive estensioni sarebbero in ragione inversa l'una dell'altra. Quanto al potere di far sparire la miseria, che 38 sarebbe caratteristico del lavoro, questo, secondo il pensiero classico, non lo possiede tanto a causa della sua potenza produttiva quanto per una certa forza di incanto morale. L'efficacia del lavoro è riconosciuta in quanto è fondata sulla trascendenza etica. Dopo il peccato originale la fatica-punizione ha assunto un valore di penitenza e un potere di riscatto. Non è una legge di natura che obbliga l'uomo a lavorare, ma l'effetto di una maledizione. La terra è innocente di questa sterilità nella quale finirebbe con l'addormentarsi se l'uomo restasse ozioso: "La terra non aveva affatto peccato, e se è maledetta, è a causa del lavoro dell'uomo maledetto che la coltiva; non le si strappa alcun frutto, e soprattutto il frutto più necessario, se non con la forza e tra lavori continui" . L'obbligo del lavoro non è legato a nessuna fiducia nella natura; e non è neppure per un'oscura fedeltà che la terra deve ricompensare la fatica dell'uomo. Il tema che il lavoro non porta da solo i suoi frutti è costante nei cattolici come nei protestanti. Raccolto e ricchezza non si trovano al termine di una dialettica del lavoro e della natura. Ecco l'ammonimento di Calvino: "Non dobbiamo credere che gli uomini possano rendere fertile la loro terra a seconda di quanto saranno vigilanti e abili o di come avranno ben fatto il loro dovere; è la benedizione divina che guida tutto". E, a sua volta, Bossuet37 riconosce questo rischio di un lavoro che resterebbe infecondo se Dio non intervenisse nella sua benevolenza : «In ogni istante può sfuggirci la speranza della messe, e il frutto unico di tutti i nostri lavori; noi siamo alla mercè del cielo incostante che fa piovere sulla tenera spiga". Questo lavoro precario al quale la natura non è mai costretta a corrispondere -se non per volontà particolare di Dio- è tuttavia rigorosamente obbligatorio: non sul piano delle sintesi naturali, ma sul piano delle sintesi morali. Il povero che, senza acconsentire a "tormentare" la terra, attende che Dio gli venga in aiuto, poiché Egli ha promesso di nutrire gli uccelli del cielo, disobbedirebbe alla grande legge della Scrittura: "Non tenterai l'Eterno, il tuo Signore". Non voler lavorare non significa forse "tentare oltre misura la potenza di Dio? Significa cercare di forzare il miracolo" mentre il miracolo è accordato quotidianamente all'uomo come ricompensa gratuita del suo lavoro. Se è vero che il lavoro non è iscritto tra le leggi della natura, esso è racchiuso nell'ordine del mondo decaduto. Per questo l'ozio è rivolta: la peggiore fra tutte, in un certo senso: poiché attende che la natura sia generosa come nell'innocenza degli inizi, e che essa voglia forzare una Bontà a cui l'uomo non ha più diritto dopo Adamo. L'orgoglio fu il peccato dell'uomo prima della caduta; ma il peccato dell'ozio è il supremo orgoglio dell'uomo una volta caduto, il risibile orgoglio della miseria. Nel nostro mondo, dove la terra è fertile solo di rovi e d'erbe selvatiche, è la colpa per eccellenza. Nel Medioevo il gran peccato, radix malorum omnium, fu la superbia. Secondo Huizinga38 ci fu un momento, agli albori del Rinascimento, in cui il peccato supremo prese la forma dell'avarizia, la cieca cupidigia di Dante. Tutti i testi del XVII secolo annunciano al contrario l'infernale trionfo della pigrizia: è lei ora che conduce la ronda dei vizi e che li trascina. Non dimentichiamo che secondo l'editto di fondazione l'Hópital général deve impedire "la mendicità e l'ozio come fonti di ogni disordine". Bourdaloue 39 fa eco a queste condanne della pigrizia, miserabile orgoglio dell'uomo caduto : "Che cos'è, ancora una volta, il disordine di una vita oziosa? È, risponde sant'Ambrogio, a ben considerare, una seconda rivolta della creatura contro Dio". Il lavoro nelle case d'internamento assume così il suo significato etico: poiché la pigrizia è diventata la forma assoluta della rivolta, si costringeranno gli oziosi al lavoro, nella disposizione indefinita di una fatica senza utilità né profitto. 37 Jacques Bénigne Bossuet (1627–1704) è stato uno scrittore, vescovo cattolico, teologo e predicatore francese. 38 Johan Huizinga (1872 –1945) storico olandese, conosciuto soprattutto per alcuni importanti saggi sul XV, XVI e XVII secolo, divenuti col tempo dei veri e propri classici, primo fra tutti: L'autunno del medioevo. 39 Louis Bourdaloue (1632–1704) gesuita e predicatore francese, noto per l'eloquenza profusa nei sermoni che recitava, si dice, tenendo gli occhi chiusi, con magistrale teatralità. 39 È in una certa esperienza del lavoro che si è formulata l'esigenza, indissociabilmente economica e morale, dell'internamento. Lavoro e ozio hanno tracciato nel mondo classico una linea di separazione che ha sostituito la grande esclusione della lebbra. L'asilo ha preso rigorosamente il posto del lebbrosario nella geografia dei luoghi maledetti come nei paesaggi dell'universo morale. Si è ripreso contatto coi vecchi riti della scomunica, ma nel mondo della produzione e del commercio. In questi luoghi dell'ozio maledetto e condannato, in questo spazio inventato da una società che decifrava nella legge del lavoro una trascendenza etica, la follia comparirà di nuovo e crescerà ben presto fino al punto di annetterli. La Congregazione di Carità di Savigliano venne fondata all’inizio del Settecento allo scopo di soccorrere i poveri, attraverso la distribuzione di viveri, e di controllarli. L'istituzione degli Ospedali di Carità o Congregazioni della Carità costituisce una delle iniziative della politica sociale dello stato piemontese, volute da Vittorio Amedeo II all'interno della sua politica di riforma assolutistica dello stato sabaudo. Esse avrebbe dovuto organizzare l'assistenza ai poveri coordinando l'azione delle confraternite religiose e dei privati. Accanto all'opera di assistenza e educazione la Congregazione, benché, non avendo mai eretto l'ospizio, non effettuasse delle reclusione in massa svolgeva anche compiti di controllo e repressione. Infatti, ad esempio, si legge negli ordinati che nell'aprile del 1725 si decise di procedere a "far un scrutinio, osia esame delle famiglie vergognose, e per ciò fare ha eletto gli Signori A. Filiberto Longis, teologo, e Canonico Carignani e Maurizio Derossi dandoli per ciò fare l'autorità necessaria ." La Congregazione raccoglieva informazioni per accertarsi del reale stato di bisogno degli assistiti e così, ad esempio, di fronte alla domanda di Laura Maria Botta di essere aiutata in quanto abbandonata dal marito si decise di obbligare lo suocero a provvedere ai bisogni della nuora poiché "è homo comodo per poterla mantenere"; è ipotizzabile quindi che trattando questioni di questo genere si finisse facilmente con l'interferire con la vita privata e famigliare degli individui. Inoltre, la congregazione manteneva due guardie armate con il compito, tra il resto, di custodire in due apposite stanze i poveri "inobedienti" che vi fossero stati rinchiusi. A dette guardie veniva Registro dei verbali della congregazione di carità (Archivio storico Ospedale SS. Annunziata di Savigliano) fornito l'abbigliamento costituita da "... vestito, Camisotta, Calze, Bandogliera, spada, cappello, Calzetti ...".Sicuramente spesso povertà e illegalità, carità e repressione andavano di pari passo, così le carceri erano piene di " gran numero di poveri incarcerati, quali molti essendo miserabili non havevano altro soccorso se non quello che gli somministrava la Confraternita, per il che era di bisogno che si andasse alle case dei confratti e consuore, et anco di altri che erano devoti e benefattori della Confraternita per raccogliere gran parte del loro vitto, et a molti si pagarono i loro processi...". Tra i poteri della congregazione vi era infine anche quello di avviare i poveri al lavoro affidandoli ad artigiani che ne facessero richiesta. Così avvenne, ad esempio, a certo Antonio Bosio che nel 1725 venne affidato per due anni ad un sarto della città che si impegnava a "passare il pane ... pendente il tempo d'apprendere ... l'arte di sarto" a condizione che il Bosio non avesse a "far il licenzioso e non continuare ad imparar tal arte". Verrà un giorno in cui essa potrà raccogliere queste plaghe sterili dell'ozio per una sorta di antichissimo e oscuro diritto ereditario. Il XIX secolo accetterà, esigerà perfino, che si destinino esclusivamente ai folli le terre dove centocinquant'anni prima si era voluto rinchiudere i miserabili, i pezzenti, i disoccupati. Non è indifferente che i folli siano stati coinvolti nella grande proscrizione dell'ozio. Fin dall'inizio essi avranno il loro posto accanto ai poveri, buoni o cattivi, e agli oziosi, volontari o no. Come gli altri, saranno sottomessi alle leggi del lavoro obbligatorio; e più di una volta è avvenuto che essi abbiano preso il loro aspetto caratteristico proprio in questa coercizione uniforme. Nei laboratori dove erano confusi, si sono distinti da soli per la loro incapacità al lavoro e a seguire i ritmi 40 della vita collettiva. La necessità, scoperta nel XVIII secolo, di dare un regime speciale agli alienati, e la grande crisi dell'internamento che precede di poco la Rivoluzione sono legate all'esperienza della follia che si è potuta fare nell'obbligo generale al lavoro. Non si è atteso il XVII secolo per "rinchiudere" i folli, ma già a quest'epoca si comincia a "internarli", mescolandoli a tutta una popolazione con la quale si pensa che essi abbiano una parentela. Fino alla Renaissance, la sensibilità verso la follia era legata alla presenza di trascendenze immaginarie. A partire dall'età classica, e per la prima volta, la follia è sentita attraverso una condanna etica dell'ozio e in un'immanenza sociale garantita dalla comunità di lavoro. Questa comunità acquista un potere etico di separazione, che le permette di respingere, come in un altro mondo, tutte le forme dell'inutilità sociale. La follia riceverà lo statuto che le conosciamo in quest'altro mondo, delimitato dalle potenze consacrate del lavoro. Se nella follia classica c'è qualcosa che parla di altrove e di qualcosa d'altro, ciò non deriva più dal fatto che il folle viene da un altro mondo, quello dell'insensato, e che ne porta i segni; ma dal fatto che egli oltrepassa da se stesso le frontiere dell'ordine borghese e si aliena al di fuori dei limiti consacrati della sua etica. Effettivamente il rapporto tra l'usanza dell'internamento e le esigenze del lavoro è ben lontano dall’essere definito interamente dalle condizioni economiche. Un sentimento morale l’anima e lo sostiene. Quando il Board of Trade pubblicò il suo rapporto sui poveri, nel quale erano proposti i modi "di renderli utili alla comunità", venne ben precisato che l'origine della povertà non era né la scarsezza delle derrate né la disoccupazione, ma "l'indebolimento della disciplina e il rilassamento dei costumi". Anche l'editto del 1656 portava strane minacce tra le denunce morali. "Il libertinaggio dei mendicanti si è spinto all'eccesso con uno sciagurato abbandono a ogni sorta di delitti, che attira la maledizione di Dio sugli stati, quando sono impuniti." Questo "libertinaggio" non è quello che si può definire in rapporto alla grande legge del lavoro, bensì un libertinaggio morale: "L'esperienza ha fatto sapere alle persone che si sono dedicate a occupazioni caritatevoli che molti di essi, dell'uno e dell'altro sesso, convivono senza essere sposati, che molti dei loro figli non sono stati battezzati, e che quasi tutti vivono nell'ignoranza della religione, nel disprezzo dei sacramenti e nella continua abitudine a ogni sorta di vizi". Egualmente, l'Hòpital général non ha solo la fisionomia di un semplice rifugio per coloro "che non sono in grado di lavorare a causa della vecchiaia, dell'infermità o della malattia; e neppure avrà solo l'aspetto di un laboratorio di lavoro forzato, ma piuttosto di un'istituzione morale incaricata di punire, di correggere una certa "vacanza" morale, che non merita il tribunale degli uomini, ma che non può essere corretta con la sola severità della penitenza. L'Hópital général ha uno statuto etico. I suoi direttori sono investiti di questo compito morale, e si attribuisce loro tutto l'apparato giuridico e materiale della repressione: "Essi hanno ogni potere di autorità, di direzione, di amministrazione, di polizia, di giurisdizione, di correzione e di punizione"; e per far fronte a questo compito si mettono a loro disposizione "pali e berline, prigioni e segrete". E in fondo, proprio in questo contesto l'obbligo del lavoro acquista il suo significato: a un tempo esercizio etico e garanzia morale. Esso servirà come ascesi, come punizione, come segno di un certo atteggiamento del cuore. Il prigioniero che può e vuole lavorare sarà liberato; non tanto perché egli sarà di nuovo utile alla società, ma perché egli ha sottoscritto di nuovo al grande patto etico dell'esistenza umana. Nell'aprile 1684 un decreto crea all'interno dell'ospedale una sezione per i ragazzi e le fanciulle al disotto dei venticinque anni; esso precisa che il lavoro deve occupare la maggior parte della giornata e accompagnarsi alla "lettura di qualche libro di pietà". Ma il regolamento definisce il carattere meramente repressivo di questo lavoro, lontano da ogni intento produttivo : "Li si farà lavorare il più a lungo possibile, e alle occupazioni più rudi che le loro forze e i luoghi in cui saranno 41 potranno permettere". Allora, e solo allora, si potrà insegnar loro un mestiere "che convenga al loro sesso e alla loro inclinazione" nella misura in cui il loro zelo nei primi esercizi avrà permesso "di giudicare che essi vogliono emendarsi". Ogni mancanza infine "sarà punita con la riduzione del cibo, con l'aumento del lavoro, con la prigione e con altre pene usate nei suddetti ospedali, secondo il giudizio dei direttori". Basta leggere il "Regolamento generale della vita quotidiana nella Maison de Saint-Louis de la Salpétrière" per capire che l'esigenza stessa del lavoro era assoggettata a un esercizio di riforma e di coercizione morale, che fornisce, se non l'ultimo significato, almeno la giustificazione essenziale dell'internamento. È un fenomeno importante questa invenzione di un luogo di coercizione dove la morale infierisce per via d'assegnazione amministrativa. Per la prima volta si istituiscono delle fondazioni morali, dove si compie una stupefacente sintesi tra obbligo morale e legge civile. L'ordine degli stati non tollera più il disordine dei cuori. Beninteso, non è la prima volta nella cultura europea che la colpa morale, perfino nella sua forma più privata, prende l'aspetto di un attentato contro le leggi scritte o non scritte della città. Ma in questo grande internamento dell'età classica l'essenziale - e il fatto nuovo - è che la legge non condanna più: si viene rinchiusi nelle cittadelle della pura moralità, dove la legge che dovrebbe regnare sui cuori sarà applicata senza compromessi né mitigazioni, sotto le forme rigorose della coercizione fisica. Si suppone una specie di reversibilità dall'ordine morale dei problemi a quello fisico, una possibilità di passare dal primo al secondo senza residui, né violenza, né abuso di potere. L'applicazione integrale della legge morale non appartiene più agli adempimenti; essa può realizzarsi a partire dal piano delle sintesi sociali. La morale si lascia amministrare come il commercio o l'industria. Così vediamo inserirsi nelle istituzioni della monarchia assoluta.- in quelle stesse che restarono a lungo come il simbolo della sua arbitrarietà - la grande idea borghese, e ben presto repubblicana, che anche la virtù è un affare di stato, che si possono prendere provvedimenti per farla trionfare, che si può stabilire un'autorità per essere sicuri che la si rispetti. Le mura dell'internamento rinchiudono in un certo senso il negativo di questa cittadinanza morale, della quale la coscienza borghese comincia a sognare nel XVII secolo: cittadinanza morale destinata a coloro che vorrebbero di primo acchito sottrarvisi, cittadinanza nella quale il diritto regna soltanto in virtù di una forza senza appello: una specie di sovranità del bene dove trionfa la sola minaccia e dove la virtù, visto che ha il suo premio in se stessa, non ha per tutta ricompensa che lo sfuggire alla punizione. Nell'ombra della città borghese nasce questa strana repubblica del bene che è imposta con la forza a tutti coloro che sono sospettati di appartenere al male. È il rovescio del gran sogno e della grande preoccupazione della borghesia nell'epoca classica: la raggiunta identificazione delle leggi dello stato e di quelle del cuore. "Che i nostri uomini politici si degnino di sospendere i loro calcoli ... e che imparino finalmente che col denaro si ottiene tutto tranne buoni costumi e veri cittadini40." Non è questo il sogno che sembra avere ossessionato i fondatori della casa d'internamento di Amburgo? Uno dei direttori deve vigilare a che "tutti coloro che sono nella casa adempiano i propri doveri religiosi e ne siano istruiti ... Il maestro di scuola deve istruire i ragazzi nella religione, ed esortarli, incoraggiarli a leggere, nei momenti liberi, diversi passi della Sacra Scrittura. Deve insegnargli a leggere, a scrivere, a far di conto, a essere garbati e decenti nei riguardi di coloro che visitano la casa. Deve aver cura che assistano al servizio divino, e che si comportino con modestia..." In Inghilterra, il regolamento delle workhouses dà molta importanza alla sorveglianza dei costumi e all'educazione religiosa. E così, per quanto riguarda la casa di Plymouth, è stata prevista la nomina di uno schoolmaster che deve rispondere alla triplice condizione di essere "pio, sobrio e discreto"; ogni mattina e ogni sera, a determinate ore, egli avrà il compito di presiedere alle preghiere; ogni sabato pomeriggio e ogni giorno festivo, dovrà rivolgersi agli internati, esortarli e 40 Citato da Rousseau, “Discorso sulle scienze e sulle arti” 42 istruirli intorno agli "elementi fondamentali della religione protestante, conformemente alla dottrina della Chiesa anglicana ". Ad Amburgo come a Plymouth, nelle Zuchthàuser come nelle workhouses, in tutta l'Europa protestante si edificano queste fortezze dell'ordine morale nelle quali si insegna della religione ciò che è necessario alla tranquillità delle città. In territorio cattolico lo scopo è lo stesso, ma l'impronta religiosa un po' più marcata. L'opera di san Vincenzo de’ Paoli41 ne fa fede. "Il fine principale per cui si è consentito a ritirare qui delle persone, lontano dal frastuono del gran mondo, e le si è fatte entrare in questa solitudine in qualità di pensionanti, era di salvarle dalla schiavitù del peccato, d'impedir loro di essere dannate in eterno e di fornir loro il modo di gioire di una perfetta contentezza in questa vita e nell'altra; esse faranno il possibile per adorare in questo la divina provvidenza ... L'esperienza ci convince disgraziatamente anche troppo che la fonte delle sregolatezze che noi vediamo oggi regnare tra la gioventù non proviene da altro che dal grado di mancanza d'istruzione e di docilità verso le cose spirituali, preferendo molto di più seguire le loro cattive inclinazioni piuttosto che le sante ispirazioni di Dio e i caritatevoli consigli dei loro genitori." Si tratta quindi di liberare i detenuti da un mondo che non è per la loro debolezza che un invito al peccato, richiamarli a una solitudine nella quale non avranno per compagni che i loro "angeli custodi" incarnati nella presenza quotidiana dei loro sorveglianti: costoro, effettivamente, "rendono loro gli stessi buoni servizi degli invisibili angeli custodi: e cioè, istruirli, consolarli e procurar loro la salvezza". Nelle case della Charité ci si adopera con la più grande cura a mettere ordine in tal modo nella. vita e nelle coscienze, e lungo tutto il XVIII secolo apparirà sempre più chiaramente che questa è la vera ragione dell'internamento. Nel 1765 viene stabilito un nuovo regolamento per la Charité di Chateau-Thierry. Vi è ben precisato che "il priore farà visita almeno una volta alla settimana a tutti i prigionieri, uno dopo l'altro e separatamente, per consolarli, richiamarli a una condotta migliore e assicurarsi di persona che siano trattati come devono esserlo; il vicepriore lo farà tutti i giorni". Tutte queste prigioni dell'ordine morale avrebbero potuto recare questo motto che Howard ha ancora potuto leggere su quella di Magonza: "Se si è riusciti a sottomettere al giogo taluni animali feroci, non si deve disperare di correggere l'uomo che si è fuorviato". 3 - Conclusioni L'internamento è una creazione istituzionale caratteristica dei XVII secolo. Esso ha preso subito un'ampiezza che non consente di paragonarlo con l'imprigionamento così come lo si praticava nel Medioevo. Come misura economica e come precauzione sociale, esso ha valore di invenzione. Ma nella storia della sragione designa un evento decisivo: il momento in cui la follia è percepita nell'orizzonte sociale della povertà, dell'incapacità al lavoro, dell'impossibilità di integrarsi al gruppo; il momento in cui essa comincia a far parte dei problemi dell'ordinamento civile. I nuovi significati che vengono dati alla povertà, l'importanza attribuita all'obbligo del lavoro, e tutti i valori etici che le sono legati, determinano alla lontana l'esperienza che si fa della follia e ne mutano il significato. È nata una sensibilità che ha tracciato una linea, formato un limitare; e che sceglie, per bandire. Lo spazio concreto della società classica riserva una regione di neutralità, una pagina bianca in cui la vita reale della città è sospesa: lì l'ordine non affronta più liberamente il disordine, la ragione non tenta più di scavarsi con le sue forze la sua strada fra tutto ciò che può sottrarsi a lei o che tenta di rifiutarla. Essa 41 Vincenzo de' Paoli, (1581–1660), sacerdote francese, fondatore e ispiratore di numerose congregazioni religiose, tipico santo controriformista. 43 regna allo stato puro, in un trionfo che le viene preparato in anticipo, su una sragione scatenata. La follia è così strappata a quella libertà immaginaria che la faceva ancora crescere nel cielo della Renaissance. Non molto tempo prima essa si dibatteva in piena luce: ed era il Re Lear, era il Don Chisciotte. Ma in meno di mezzo secolo si è trovata reclusa e, nella fortezza dell'indeterminato, legata alla ragione, alle regole della morale e alle loro monotone notti. M. Foucault – “Storia della follia nell’età classica”, Rizzoli Editore, 1976, estratti pag. 17112 44