Modelli atomici

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ISTITUTO PROVINCIALE DI CULTURA E LINGUE “NINNI CASSARÀ”
“MODELLI ATOMICI”
Prof. Erasmo Modica
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L’ATOMO NELL’ANTICHITÀ
Il concetto di atomo (dal greco "atomòs", "indivisibile") quale costituente della materia trae origine
dall’antica filosofia greca: la sua esistenza venne ipotizzata nel 450 a.C. da Leucippo, fondatore della
teoria "atomistica" e ribadita nel 420 a.C. dal suo allievo Democrito che giunse ad affermare:
”In verità esistono solo atomi e il vuoto".
Gli atomi di Leucippo e Democrito, nella loro molteplicità, sono indivisibili e la loro indivisibilità è
strettamente connessa alla loro invisibilità. Se fossero infatti percepibili dai sensi, sarebbero altresì
divisibili. Essi si differenziano per misura, per forma, per "contatto", cioè per l'ordine in cui sono
disposti e per "direzione", cioè per la posizione in cui si trovano. Alcuni sono lisci e sferici, altri aguzzi e
scabrosi, altri ricurvi o uncinati. Nel loro incessante movimento vorticoso nel vuoto, si scontrano, si
aggregano, si disaggregano, dando origine ad una infinita varietà di corpi. Secondo alcune
interpretazioni del pensiero di Democrito, il movimento degli atomi sarebbe completamente casuale.
Le idee di Democrito vennero riprese nel 300 a.C. da Epicuro che attribuì ai moti casuali degli atomi il
formarsi delle differenti realtà che l'uomo è in grado di percepire.
Epicuro accetta l'idea democritea degli atomi in continuo movimento in un infinito spazio vuoto,
tuttavia, a differenza di Democrito, individua la causa del movimento nel loro peso. Di
conseguenza tutti gli atomi tenderebbero a cadere verso il basso.
Nel Medioevo fu fortemente osteggiata la concezione materialista della realtà e l’atomismo, la cui vera
ripresa avvenne nel XVII secolo e rimase una dottrina filosofica fino all’inizio del XIX secolo, quando
tra gli studiosi si consolidò l’idea di una natura discontinua, formata da atomi e molecole.
Agli inizi del secolo XIX i tempi erano ormai maturi affinché la teoria atomica si imponesse
definitivamente in campo scientifico. Già alla fine del XVIII secolo l'atomismo godeva di grande
diffusione tra filosofi della natura, che lo utilizzavano per spiegare molti fenomeni chimici e fisici. Ciò
che mancava all'ipotesi atomica per diventare una vera e propria teoria scientifica era, tuttavia, un valido
supporto sperimentale. Le conferme sperimentali di cui l'ipotesi atomica aveva bisogno provennero,
proprio agli inizi dell'800 dalla più giovane delle scienze della natura: la chimica.
Nata, come scienza autonoma, a cavallo tra il XVII e il XVIII secolo, la chimica aveva fatto rapidi
progressi. I dati sperimentali della chimica da un lato e l'ipotesi atomica dall'altro attendevano dunque
un'intuizione geniale che cercasse di metterli in reciproca relazione. La geniale intuizione nacque nella
mente del chimico e fisico inglese John Dalton (1766-1844). Nel 1808 egli pubblicò la prima parte
dell'opera "New system of chemical philosophy", in cui delineava i tratti caratteristici della propria teoria
atomica, teoria che può essere così schematizzata:
o la materia non è continua, ma è composta da particelle che non possono essere ulteriormente
divisibili né trasformabili: gli atomi;
o gli atomi di un particolare elemento sono tutti uguali tra loro e hanno la stessa massa;
o gli atomi di differenti elementi hanno massa e proprietà diverse;
o le reazioni chimiche avvengono tra atomi interi e non tra frazioni di essi;
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o in una reazione chimica tra due o più elementi gli atomi, pur conservando la propria identità,si
combinano secondo rapporti definiti dando luogo a composti.
L’ATOMO NEL XIX SECOLO
I chimici dell’Ottocento, dopo aver introdotto gli atomi per interpretare le loro leggi, non si
interessarono a studiarli al fine di conoscere la loro struttura interna. La questione del resto riguardava
particolarmente i fisici. Le conoscenze acquisite nello studio dei raggi catodici, le osservazioni dedotte
da molti altri fenomeni come l’elettrolisi, gli spettri ottici di emissione e di assorbimento, e l’effetto
fotoelettrico, ecc., avevano indotto i fisici a considerare l’atomo un sistema complesso dotato di una
struttura interna. Era quindi naturale cercare di elaborare qualche modello atomico che potesse
interpretare i fatti sperimentali della fisica atomica. Ogni rappresentazione modellistica doveva tenere
conto delle conoscenze acquisite in quel tempo, in particolare del fatto che:
(a) essendo ogni elemento di materia in condizioni normali elettricamente neutro, un atomo doveva essere caratterizzato da
una carica positiva uguale a quella negativa dei suoi elettroni.
(b) gli atomi sono stabili, ossia non si rompono spontaneamente in frammenti più piccoli: perché ciò si realizzi le forze di
coesione interna agli atomi devono essere in equilibrio;
(c) essendo la materia atomica molto più grande di quella elettronica la carica positiva doveva essere associata alla quasi
totalità della massa dell’atomo.
Sulla base di queste considerazioni si presentò dapprima il problema di stabilire il numero degli elettroni
esistenti negli atomi degli elementi chimici conosciuti e di vedere poi come le cariche, equamente
bilanciate, erano distribuite nell’edificio atomico.
Nei primi anni del XX secolo furono ideati vari modelli che, pur riuscendo a interpretare qualche
risultato sperimentale erano incompleti e approssimati, soprattutto perché ogni modello era fondato
solo sulla fisica classica.
IL MODELLO A PANETTONE DI J. J. THOMSON
Uno dei primi tentativi di dare un’immagine concreta alla struttura atomica fu compiuto dal fisico
Joseph John Thomson (1856-1940). Nel suo modello, Thomson raffigurava l’atomo come una sfera
materiale di raggio
in cui la carica positiva era distribuita e diluita più o meno
uniformemente su tutta la sfera, mentre gli elettroni, in numero tale da equilibrare la carica positiva
dell’elemento considerato, erano disseminati nella materia positiva come l’uva di un panettone.
Gli elettroni rimanevano in uno stadio di equilibrio nell’interno dell’atomo, in quanto erano soggetti sia
ad un sistema di forze attrattive verso il centro dell’atomo, corrispondente al centro di simmetria della
carica positiva, sia alle mutue forze di repulsione, pure di natura elettrostatica agenti tra le cariche
negative.
Secondo tale modello quando la materia acquista energia, gli atomi vengono eccitati e gli elettroni
incominciano a vibrare come tanti oscillatori, emettendo onde elettromagnetiche la cui frequenza è
direttamente correlata con la frequenza delle particelle oscillanti.
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Il modello proposto da Thomson, pur rappresentando una prima ragionevole interpretazione della
struttura atomica incontrò ben presto diverse difficoltà legate soprattutto all’impossibilità di giustificare
teoricamente gli spettri atomici.
Proprio nell’intento di rispondere agli interrogativi non risolti con l’ipotesi di Thomson intorno al 1911
Ernest Rutherford (1871-1937), a coronamento di anni di ricerche e di esperimenti condotti da H.
Geiger e E. Marsden su suggerimento dello stesso Rutherford, proponeva un modello atomico
completamente diverso.
L’ESPERIMENTO DI RUTHERFORD E IL MODELLO PLANETARIO
"Non ho la possibilità di vedere gli atomi - pensò Rutherford - poiché sono troppo piccoli; tanto meno posso andare a
frugare nel loro interno; però potrei trovare un mezzo capace ugualmente di dare una risposta agli interrogativi riguardanti
la costituzione interna dell'edificio atomico."
Se si lancia una palla contro un ostacolo, da come essa rimbalza e dagli spostamenti della sua traiettoria
si possono trarre interessanti conclusioni sull'architettura dell'ostacolo stesso.
Rutherford pensò di sfruttare proprio questo principio allo scopo di studiare la composizione degli
atomi. Egli, lanciando delle particelle α (atomi di elio privi dei due loro elettroni che possono
attraversare sottili strati di materia) come proiettili contro un nutrito gruppo di atomi, avrebbe dovuto
osservare il loro comportamento. Per tale motivo costruì il primo "campo di tiro atomico" della storia.
Allestì un cannone atomico e pose di fronte ad esso uno schermo fluorescente applicato ad un
microscopio.
Rutherford pensò che un buon ostacolo per i suoi proiettili sarebbero stati gli atomi d’oro in quanto li
considerava abbastanza consistenti da deviare e respingere i proiettili α del "cannone" atomico. Lo
scienziato prese una sottile lamina di questo prezioso metallo e la mise fra il cannone e lo schermo,
quindi si mise al suo posto d'osservazione. Sullo schermo fluorescente appariva uno scintillio che
lasciava intendere che le particelle α attraversavano la lamina d'oro senza subire alcun effetto.
Come poteva una barriera di questo genere essere attraversata con tanta facilità?
Rutherford provò a cambiare posizione al suo osservatorio. Fino a quel momento, egli lo aveva
mantenuto proprio di fronte al forellino del cannone atomico, cioè in linea retta di fronte ad esso.
Spostando lo schermo di lato, Rutherford venne a trovarsi con il suo oculare fuori dal campo di tiro;
infatti, quando accostò l'occhio al microscopio, vide tutto scuro. Però in alcuni punti appariva qualche
lampeggiamento. Incuriosito ed affascinato dallo spettacolo, cambiò ancora posizione allo schermo,
sistemandolo ad angolo retto rispetto al fascio dei raggi α, proprio di fronte al bordo della lamina d’oro.
Anche questa volta lo studioso vide dei rari lampeggiamenti in varie zone dello schermo buio. La stessa
cosa, ma con minore frequenza, gli capitò di vedere anche quando sistemò il suo osservatorio dietro la
sorgente di raggi α.
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Il fatto che i proiettili di Rutherford potessero attraversare l'enorme barriera degli atomi dell'oro con
così grande facilità era spiegato immaginando gli atomi (ritenuti fino ad allora piccole sfere "solide ed
impenetrabili") non offrissero alcuna resistenza al passaggio delle particelle α, ma si comportavano
come se fossero involucri vuoti, praticamente privi di qualunque consistenza.
I lampeggiamenti laterali rivelarono un'altra verità. Non tutte le particelle α passavano impunemente
attraverso gli atomi dell'oro: qualcuna incontrava un ostacolo e veniva rimbalzata, ora da un lato, ora
dall'altro, ora addirittura indietro, a seconda della posizione del bersaglio colpito e della traiettoria dei
proiettili.
I risultati potevano essere interpretati nel seguente modo: la maggior parte delle particelle α attraversa la
lamina indisturbata e ciò suggerisce che nell'atomo sia presente un notevole spazio vuoto. Le particelle
che rimbalzano evidentemente incontrano sulla loro traiettoria un addensamento di carica positiva
(cariche di ugual segno si respingono) che le respinge indietro. Se esiste questa concentrazione di carica
positiva all'interno dell'atomo, quando una particella α le passa vicino viene deflessa di un angolo tanto
maggiore quanto minore è la distanza che le separa
Rutherford fece anche un conteggio delle particelle che rimbalzavano rispetto a quelle che invece
proseguivano il loro percorso. Trovò un risultato sorprendente: soltanto un proiettile su ottomila
colpiva un bersaglio che lo deviava o lo faceva rimbalzare indietro. Lo scienziato, da questi esperimenti,
poté dedurre che gli atomi non sono completamente vuoti, altrimenti tutte le particelle α, nessuna esclusa, avrebbero
attraversato la lamina senza intoppi.
Gli atomi dovevano contenere nel loro interno qualche cosa, una specie di "nocciolo" così duro e
solido da respingere indietro i proiettili. Quindi Rutherford pervenne alla sua seconda conclusione,
ovvero: il nocciolo degli atomi, o per chiamarlo con il nome stesso con cui lo individuò Rutherford, il nucleo, doveva
essere estremamente piccolo rispetto alle dimensioni dell'atomo che lo conteneva, tanto piccolo che la probabilità di colpirlo
era soltanto una su ottomila.
A seguito di questi singolari risultati sperimentali Rutherford propose un modello atomico nel quale
tutta la carica positiva era confinata in uno spazio sferico, il nucleo, dell’ordine di 10 -14 m, mentre gli
elettroni ruotavano attorno al nucleo in orbite approssimativamente circolari aventi raggio dell’ordine di
10-10 m.
Le dimensioni del nucleo sono trascurabili rispetto a quelle dell’atomo visto nel suo complesso, per cui
essendo la totalità della massa confinata nel nucleo, l’atomo appare in questa descrizione praticamente
vuoto.
Quando nel 1911 lo scienziato neozelandese, allora professore all'università di Manchester, annunciò al
mondo le sue scoperte, le vecchie teorie atomiche della fisica e della chimica crollarono. I modelli
atomici, tanto faticosamente architettati per spiegare la composizione e la struttura della materia,
diventarono inservibili e si affermò il suo modello che vede l'atomo come un minuscolo sistema
planetario.
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Al centro, il nucleo che raccoglie quasi tutta la massa e tutta la carica positiva dell'atomo, intorno al
nucleo ruotano, su orbite ellittiche, gli elettroni, dotati di carica elettrica negativa. La forza che lega
elettroni ruotanti e nucleo è una forza elettrica, che nell'analogia con il sistema planetario,
corrisponderebbe alla forza gravitazionale.
Il modello fu sin da subito criticato dagli scienziati, i quali trovarono alcuni limiti nella descrizione di
determinati fenomeni.
Applicando all’atomo di Rutherford le leggi classiche della teoria elettromagnetica, si giunse alla
conclusione che gli atomi avrebbero dovuto essere sistemi estremamente instabili (fatto inconciliabile con
l’esistenza stessa della materia che forma il nostro mondo). Infatti, la fisica tradizionale aveva stabilito
che un corpo carico di elettricità e soggetto a un’accelerazione irradia continuamente energia.
L’elettrone si trova appunto in questa condizione: ruotando intorno al nucleo dovrebbe irradiare
energia e quindi perderla continuamente. Ciò comporterebbe il passaggio a orbite sempre più vicine al
nucleo e quindi alla caduta dell’elettrone sul nucleo.
Le discordanze fra il modello e la realtà non si fermavano qui. Dalla spettroscopia (derivata dalle prime
ricerche di Newton) si sapeva che ogni elemento emette spettri caratteristici; in altre parole si era vista
la possibilità di radiazioni in frequenze costanti. Ma ciò non sarebbe possibile se l’atomo fosse stato sic
et simpliciter quello di Rutherford; infatti, se l’elettrone perdesse costantemente energia fino a cadere nel
nucleo dovrebbe emettere tutte le frequenze possibili comprese nel passaggio dal suo livello massimo di
energia a quello minimo. Gli spettri, in questo caso, non permetterebbero di identificare i vari tipi di
atomi come invece consentono: ogni banda dello spettro corrisponde ad un elemento.
Le ordinarie leggi della meccanica e dell’elettromagnetismo erano in disaccordo con il modello di
Rutherford.
IL MODELLO ATOMICO DI BOHR
Alcuni anni prima Max Planck (1858-1947) aveva introdotto un concetto che non faceva parte della
fisica classica, quello di quantizzazione: se una grandezza è quantizzata può assumere soltanto
determinati valori e non altri. Planck aveva dovuto introdurre questo concetto per spiegare un altro
fenomeno che aveva costituito un rompicapo per i fisici: la radiazione del corpo nero. Poiché le sole
leggi della fisica classica non erano sufficienti per giustificare il modello atomico di Rutherford, un
giovane fisico danese, Niels Bohr (1885-1962), pensò di applicare all'atomo alcune nuove idee
riguardanti la quantizzazione dell'energia introdotte da Planck.
Queste teorie affermavano che la materia, e quindi gli atomi, non scambiano energia in modo continuo,
ma solamente per quantità definite chiamate quanti. I quanti sono le più piccole porzioni che si
possono ottenere dal processo di suddivisione dell'energia. La teoria di Bohr fu formulata inizialmente
per l'atomo più semplice, cioè per l'idrogeno. Pur mantenendo il modello atomico di Rutherford, lo
scienziato introduce oltre al concetto di fotone di Einstein, una grandezza estranea alla fisica classica, la
costante di Planck utilizzata per risolvere il problema del corpo nero.
Il modello di Bohr si basa su alcune ipotesi fondamentali:
Prima ipotesi: nell'atomo gli elettroni ruotano intorno al nucleo su orbite circolari sotto l’azione della
forza colombiana e ognuna di queste orbite ha un raggio ben determinato.
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Seconda ipotesi: l’elettrone non può occupare un’orbita qualsiasi, ma gli sono permesse solo quelle orbite
per le quali il momento angolare 1 risulta multiplo intero della quantità
(dove
è la costante di Planck), detta h tagliato o costante di Dirac. Il momento angolare degli elettroni
é quindi quantizzato.
Terza ipotesi: Se l’elettrone si trova in una delle orbite permesse allora non emette radiazione e quindi
energia. Le orbite che verificano questa condizione sono dette stazionarie. Quando l’elettrone passa da
uno stato stazionario ad un altro emette o assorbe energia. Se indichiamo con Ei e con Ef le energie che
competono agli stati iniziale e finale, allora in una transizione viene emessa (o assorbita) radiazione la
cui frequenza soddisfa la condizione:
La variazione di energia
risulta pari all’energia del fotone emesso o assorbito dall’atomo. In
pratica, per superare il problema della perdita di energia da parte degli elettroni, suppose che esistessero
delle orbite particolari, di forma circolare, nelle quali l'elettrone potesse stare senza emettere radiazioni.
Le orbite dell'elettrone venivano, quindi, quantizzate.
Se all'atomo viene somministrata energia, gli elettroni possono assorbire quanti di energia e passare da
un'orbita stazionaria ad un'altra più lontana dal nucleo in uno stato detto eccitato (figura a sinistra). In
brevissimo tempo l'elettrone ritorna nell'orbita iniziale, più vicina al nucleo (figura a destra). Durante
questa transizione l'atomo cede, sotto forma di radiazione, lo stesso quantitativo di energia assorbito
precedentemente. Solo i quanti tali da fornire all'elettrone l'energia necessaria per eseguire la transizione
tra due orbite stazionarie vengono assorbiti perché agli elettroni non è concesso di assumere valori di
energia intermedi.
Dopo aver introdotto queste ipotesi, Bohr studiò la situazione dell'elettrone utilizzando le leggi della
fisica classica.
Per strappare un elettrone da un atomo bisogna compiere un lavoro che prende il nome di energia di
legame dell’elettrone, quindi: l’energia di legame dell’elettrone è uguale al minimo lavoro che è necessario compiere
per estrarre l’elettrone dall’atomo.
Nel caso dell’atomo di idrogeno Bohr determinò che il raggio della n-esima orbita quantizzata, dove
, è dato dall’espressione:
Il momento angolare o momento della quantità di moto di un corpo rotante rispetto al centro attorno al quale gira (detto anche polo) è definito come il prodotto vettoriale
tra il vettore posizione (rispetto alla stessa origine) e il vettore quantità di moto :
.
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Il simbolo ribadisce il fatto che all’elettrone sono permesse solo un certo numero di orbite il cui
raggio è in funzione di n, generalmente chiamato numero quantico principale. Il raggio della prima
orbita di Bohr per l’atomo di idrogeno corrisponde a n  1 e assume il valore:
Il raggio dell’orbita più piccola è anche detto raggio di Bohr.
I valori di
rappresentano i livelli energetici che caratterizzano gli elettroni nelle orbite stazionarie.
L’energia dell’elettrone nel suo stato fondamentale corrispondente al primo livello più vicino al nucleo
( n  1 ), risulta:
LIMITI DELLA TEORIA DI BOHR
L'ipotesi di Bohr sulla struttura dell'atomo spiega quindi perché gli spettri di emissione degli atomi sono
spettri discontinui, a righe: ogni riga corrisponde a un ben determinato valore di energia, che a sua volta
corrisponde alla differenza di energia fra due orbite.
Ma ecco i problemi irrisolti che la teoria di Bohr lasciava:
o non riusciva a valutare tutte le frequenze spettroscopiche (le righe sperimentalmente osservate sono
molto più numerose di quelle teoricamente previste)
o difficoltà nell’estendere il modello ai sistemi formati da più di un elettrone
Nel 1916, il fisico tedesco Arnold Sommerfeld (1868-1951) estese alle orbite ellittiche dell'atomo di
idrogeno le ipotesi che Bohr aveva enunciato solamente per le orbite circolari. Questa estensione
avvenne mediante l'applicazione ai moti dell'elettrone della meccanica relativistica di Einstein.
Il modello di Bohr fu così integrato dalle teorie di Sommerfeld ed è quindi noto come modello di BohrSommerfeld.
Il principio di indeterminazione di Heisemberg e la scoperta della doppia natura dell'elettrone da parte di De
Broglie indicavano chiaramente una cosa: non era piú possibile trattare l'elettrone come una
particella classica.
Si sostituì il concetto deterministico di orbita stazionaria, previsto nel modello di Bohr, con il concetto
di orbitale cioè di porzione di spazio in cui è massima la probabilità di trovare l'elettrone.
Nell'attuale modello quanto-meccanico dell'atomo si ragiona infatti in termini di probabilità e non di
certezza.
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