Alberto Oliverio CERVELLO E LINGUAGGIO. Le radici animali del linguaggio. Il linguaggio ci appare come un aspetto unico della natura umana. Nelle altre specie animali la comunicazione sembra essenzialmente limitata a messaggi essenziali come i richiami o le grida di allarme. Gli esseri umani, invece, dispongono di un vocabolario di decine di migliaia di parole che, sulla base di complesse regole strutturali, possono ricombinare in un numero di frasi potenzialmente illimitato che si riferiscono al presente, al passato e al futuro. Questo linguaggio viene acquisito nel corso dell’infanzia senza grandi sforzi, quasi in modo spontaneo, attraverso una spinta che fa sì che anche i bambini sordi che vengono esposti al linguaggio dei segni gesticolino ripetendo le sillabe attraverso una lallazione basata sulle mani1 e che essi possano anche sviluppare in modo autonomo un linguaggio dei segni significativo e basato su regole linguistiche2. A causa di queste notevoli differenze tra comunicazione umana e animale, il linguaggio è stato spesso affrontato come un fenomeno isolato, a sé stante, al di fuori delle sue possibili radici naturali. Perciò i linguisti si sono spesso limitati a studiare quegli aspetti che si riferiscono al sistema dei suoni –la fonetica e la fonologia- ai modi in cui le parole vengono assemblate in modo che formino unità significative –la morfologia-, ai principi che governano la costruzione –sintassi- o il significato –semantica- delle frasi, senza prestare grande attenzione alla biologia e al comportamento delle altre specie animali. Noam Chomsky è uno dei più agguerriti sostenitori dell’unicità del linguaggio umano, delle sue regole e della mancanza di una sua storia evolutiva in quanto il linguaggio sarebbe comparso all’improvviso e non avrebbe nulla da spartire con le capacità di comunicazione presenti in altre specie. La teoria di Chomsky implica che vi siano un insieme di unicità nella specie umana che spaziano dalla lateralizzazione delle funzioni emisferiche al volume cerebrale e, in particolar modo, alle regole sintattiche. Uno degli aspetti del linguaggio è la sua lateralizzazione: in circa il 90% degli esseri umani l’emisfero sinistro è dominante nel senso che controlla la mano preferita (destra) e il linguaggio. Numerose teorie sulle origini del linguaggio attribuiscono alla lateralizzazione un ruolo-chiave nell’evoluzione delle capacità linguistiche degli esseri umani3, anche se la lateralizzazione è un fenomeno primitivo e numerose funzioni nervose sono lateralizzate a partire dagli anfibi: ad esempio, nella rana l’emisfero sinistro controlla la produzione di vocalizzazioni4 e in numerosi mammiferi il controllo dei movimenti delle zampe dipende da uno dei due emisferi, generalmente il sinistro5. Al momento non sono ancora chiari tutti i motivi per cui i due emisferi cerebrali sono asimmetrici in diverse specie animali: ma è evidente che queste asimmetrie non sono soltanto umane e che esse costituiscono gli antecedenti della lateralizzazione linguistica. Anche le supposte asimmetrie che riguardano il volume dei due emisferi a livello del cosiddetto planum temporale, che sarebbe più espanso a causa della presenza delle aree di Broca e Wernicke, e quindi alla lateralizzazione del linguaggio, sono in realtà presenti nelle scimmie 6 e siccome queste asimmetrie sono state spiegate con la presenza delle funzioni linguistiche, e le scimmie non possiedono un linguaggio di tipo umano, bisogna concludere che l’asimmetria di per sé stessa non è la causa delle capacità linguistiche. Un altro aspetto evolutivo riguarda le capacità lessicali e semantiche che, sia pure in misura molto ridotta rispetto alla specie umana, sono state descritte negli scimpanzé e in altre scimmie antropomorfe7. La letteratura in quest’ambito è vastissima ma basterà ricordare che per quanto riguarda le competenze lessicali gli scimpanzé possono acquisire circa 150 parole, idearne di nuove e modificare il significato di quelle già apprese8 e che i piccoli babbuini imparano a rispondere a diversi tipi di richiamo da parte di altri babbuini adulti, richiami basati su differenze acustiche difficilmente decodificabili da parte degli esseri umani9. Per quanto riguarda le capacità sintattiche, che per i linguisti rappresentano l’aspetto centrale del linguaggio umano, i sostenitori delle teorie chomskiane sostengono che la sintassi è completamente assente nelle forme di comunicazione evidenti nelle specie non umane10. Premesso che nessuno scimpanzé è in grado di dimostrare capacità sintattiche paragonabili a quelle di un essere umano che non soffra di danni neurologici, questa specie è però in grado di manifestare delle capacità sintattiche essenziali se si utilizzano brevi frasi che manchino di clausole incorporate: in questo caso, come hanno dimostrato gli esperimenti di Sue Savage-Rumbaugh11, gli animali possono estrarre il significato dalla sintassi della frase. Altri esperimenti indicano che le scimmie possono rispondere in modo differente ai richiami di allarme emessi da una scimmia appartenente a un’altra specie in base alla particolare sequenza dei richiami, il che starebbe a indicare la presenza di capacità sintattiche, sia pure essenziali12. In sostanza, esistono delle radici naturali del linguaggio che indicano come esso possa essere evoluto grazie allo sviluppo di ben più complesse capacità sintattiche, presumibilmente grazie all’evoluzione di quei circuiti cortico-striatali che sono alla base della produzione linguistica umana. Le cosiddette aree del linguaggio (Broca e Wernicke) non hanno infatti un ruolo unico e decisivo nella gestione del linguaggio, come indicano diversi approcci, sia di ordine paleoantropologico, sia di ordine neurofisiologico. Per quanto riguarda il primo aspetto, quello paleoneurologico, la presenza nei crani fossili di un’asimmetria a livello del planum temporale, vale a dire dell’area di Broca, viene spesso considerata come un indice della presenza dalla capacità di produzione linguistica. Tuttavia, anche in quei casi in cui le tracce fossili consentono di identificare con certezza lo “stampo” lasciato dall’area di Broca, cosa tutt’altro che facile e attendibile13, non è implicito che negli ominidi l’area di Broca fosse legata al linguaggio. Infatti, anche se fosse possibile individuare con sicurezza la presenza delle aree di Broca e Wernicke negli ominidi, ciò non rappresenterebbe una prova dell’esistenza di un linguaggio sviluppato in quanto l’area di Broca è anche coinvolta nel controllo motorio della mano, come indicano le ricerche di Kimura sui rapporti tra lesioni dell’area di Broca e deficit nella programmazione motoria della mano14. Inoltre nelle scimmie l’area omologa a quella di Broca contiene neuroni-specchio che entrano in funzione quando l’animale vede un’altra scimmia manipolare un oggetto, predisponendo così l’animale-osservatore a eseguire un movimento simile a quello prodotto dall’attore 15: è quindi possibile che la presenza nel cervello degli ominidi di un’area simile a quella di Broca non fosse necessariamente legata a capacità linguistiche ma rappresentasse un adattamento a un controllo manuale più sofisticato. In effetti, Rizzolatti e Arbib, che hanno effettuato le osservazioni sui neuroni-specchio appena citate, sostengono che la selezione naturale, che ha inizialmente favorito l’aumento e la selettività del controllo manuale, ha avuto un ruolo importante nell’evoluzione dell’area di Broca e del linguaggio umano in quanto ha assecondato la produzione gestuale che, secondo numerosi studiosi dell’evoluzione linguistica, avrebbe rappresentato il primo passo verso la componente fonetica del linguaggio. La gestualità rappresenta a tutt’oggi una componente rilevante della comunicazione linguistica e gli adattamenti che l’hanno favorita possono essere stati un aspetto apprezzabile dell’evoluzione del linguaggio16. I circuiti che formano il loop cortecciastriato-corteccia e che hanno un ruolo fondamentale nel linguaggio, controllano e regolano diversi aspetti della motricità, com’è evidente dal comportamento dei pazienti di Parkinson che presentano difficoltà soprattutto nel controllo sequenziale del linguaggio e dei movimenti di deambulazione. Il camminare dipende, più che da meccanismi innati, dall’apprendimento17 e i gangli della base, insieme al cervelletto e alla corteccia, sono coinvolti nell’acquisizione della deambulazione bipedale. Tenendo presente il ruolo esercitato dai gangli della base nel controllo motorio della stazione eretta e della deambulazione bipedale, gli adattamenti necessari a una capacità di camminare sempre più perfezionata possono aver innescato i processi evolutivi che hanno portato alla basi nervose delle capacità linguistiche. Le reti nervose del linguaggio. I rapporti tra la fonazione, linguaggio e sistema nervoso, sia dal punto di vista della loro storia naturale sia da quello dello sviluppo ontogenetico, possono essere considerati nell’ambito dell’encefalizzazione, il progressivo spostamento di una funzione da strutture arcaiche a strutture più recenti e a maturazione più tradiva nel corso dello sviluppo. Un esempio molto chiaro di encefalizzazione riguarda la capacità di comunicare attraverso suoni e richiami (fonazione e vocalizzazione) e di organizzare questi suoni nel linguaggio: queste funzioni presentano nella nostra specie un'organizzazione gerarchica filogenetica ed ontogenetica. Se si considerano le vocalizzazioni più semplici, cioè i richiami, prodotti da numerose specie animali, dalle rane ai gatti, alle scimmie, si nota che essi sono estremamente stereotipati e specifici di una particolare specie animale. In alcuni tipi di scimmie del Nuovo Mondo, le callitrici, esistono almeno tre tipi di richiami emessi in rapporto a comportamenti aggressivi, di disagio (isolamento) e di coesione sociale: essi possono essere indotti - senza alcun rapporto con la situazione ambientale - attraverso la stimolazione elettrica di specifiche aree cerebrali del mesencefalo. La stimolazione di queste aree attiva reti di neuroni che codificano questi segnali specie-specifici che vengono realizzati dall'apparato vocale sulla base di schemi motori stereotipati. Si tratta delle cosiddette aree della vocalizzazione primaria, che dipendono dal mesencefalo (una struttura nervosa situata tra il ponte e la corteccia) ed esistono in numerose altre specie animali, anfibi compresi18. Ad un livello più elevato di encefalizzazione - ad esempio nelle scimmie del vecchio mondo, come i macachi o gli scimpanzé - la corteccia limbica (una parte della corteccia cerebrale connessa con il sistema limbico, più recente rispetto al mesencefalo) controlla e modula segnali più complessi: si tratta di richiami che sono spesso legati a comportamenti emotivi, tipici dei primati più evoluti. Nella specie umana queste aree sono connesse ai processi di vocalizzazione e la loro lesione comporta difficoltà nell'articolazione del linguaggio (disartrie) sino all'impossibilità di articolare correttamente semplici parole: ad esempio, i pazienti con lesioni della corteccia limbica ripetono delle frasi in maniera monotona senza alcuna accentuazione emotiva19. Il livello gerarchico superiore è occupato dalla corteccia di Broca e da quella motoria: la stimolazione elettrica delle aree della corteccia in cui sono rappresentate faccia, lingua e laringe e che controllano i muscoli implicati nel linguaggio è inefficace in tutti i primati, mentre nella specie umana vengono prodotte vocalizzazioni anche complesse. È quindi soltanto nella nostra specie che la corteccia, attraverso i suoi rapporti coi gangli della base, assume un controllo degli schemi motori che portano all'articolazione del linguaggio. Questo modello del controllo della vocalizzazione e articolazione spiega diversi tipi di disturbi clinici, soprattutto quelli che riguardano le componenti emotive del linguaggio, come quei balbettii e vocalizzazioni che si verificano nell'afasia motoria - legata alla lesione delle aree motorie del linguaggio - oppure quelle vocalizzazioni emotive che caratterizzano le persone con disturbi psicotici20 oltre che, ovviamente, i balbettii e le vocalizzazioni dei neonati umani. Le vocalizzazioni dei neonati durante il primo anno di vita sono molto simili a quelle che si notano nei primati non umani e consentono di esprimere diversi stati emozionali. Detlev Ploog21 ha condotto una serie di ricerche neurofisiologiche, notando come la vocalizzazione del neonato umano durante le prime settimane di vita sia connessa a strutture del cervello filogeneticamente più antiche (il ponte e il mesencefalo) e successivamente sia invece regolata da strutture più recenti, quelle del sistema limbico: è soltanto verso la fine del primo anno di vita, quando il bambino inizia a imitare i suoni e a riorganizzare le vocalizzazioni, che subentrano le strutture più elevate, quelle della corteccia cerebrale. La vocalizzazione-fonazione e il linguaggio sono quindi il prodotto di una storia evolutiva che ha portato il cervello umano a produrre e a riconoscere alcuni suoni sulla base di meccanismi ereditari: ad esempio, i neonati sono in grado di riconoscere tra suoni specifici della specie umana (i fonemi che rappresentano i suoni di base del linguaggio) e suoni atipici, non fonemici22. Il controllo motorio della vocalizzazione, e più in generale di altre funzioni, dipende dunque da un complesso sistema gerarchico costituito da strutture corticali e sottocorticali. Corteccia e gangli della base sono strettamente allacciati tra loro e controllano sia gli aspetti motivazionali di un movimento (la preparazione all’azione), sia gli aspetti contestuali (l’esecuzione del movimento) sia il suo stato di esecuzione, anche attraverso la partecipazione del cervelletto. Gli studi sui rapporti tra aree cerebrali e linguaggio indicano inoltre che questo dipende da interazioni tra percezioni e azioni: perciò le aree della corteccia cerebrale che elaborano le informazioni sensoriali e controllano i movimenti attraverso il circuito corteccia-gangli della base-corteccia sono anche coinvolte in diversi aspetti delle memorie linguistiche: ad esempio, profferire parole indicative di un colore (rosso, blu, giallo) attiva quelle aree della corteccia temporale ventrale che sono responsabili della percezione dei colori, profferire parole relative ai movimenti (correre, battere, avvitare) attiva aree situate anteriormente a quelle coinvolte nella percezione dei movimenti nonché le aree motorie della corteccia frontale. In termini evolutivi il linguaggio può essere perciò considerato come il prodotto dell’affinamento e potenziamento di una serie di attività cognitive già coinvolte nelle funzioni sensoriali, motorie, nella memoria, nella comunicazione: le attività prettamente linguistiche, tuttavia, sono possibili in quanto esistono strutture nervose che si prendono carico delle memorie motorie implicate nella produzione dei suoni linguistici e delle memorie sensoriali attraverso cui una parola, parlata o scritta, viene riconosciuta e associata al suo significato. Da quando, intorno alla metà dell’Ottocento, Broca e Wernicke descrissero le due regioni della corteccia cerebrale che oggi postano il loro nome, ci si è concentrati nello studio di queste due aree come se queste fossero le uniche strutture specificamente coinvolte nella produzione ed elaborazione linguistica. L’area di Broca, nella corteccia frontale, viene comunemente definita come la sede della grammatica e quella di Wernicke, nella corteccia temporale, come la sede di significati e strutture linguistiche. Il ruolo di queste due aree è stato però posto in discussione da due diversi punti di vista: la loro specificità e la loro esclusività in rapporto al linguaggio. Il primo aspetto riguarda il fatto che esse sono coinvolte in altre funzioni nervose che non hanno a che fare col linguaggio: d’altronde esse non sono aree essenzialmente umane in quanto presenti in altre specie animali in cui esercitano funzioni non linguistiche23. Non è quindi più possibile guardare al linguaggio umano come a una funzione completamente distaccata dalle sue radici evolutive in quanto un vasto numero di dati anatomici, fisiologici, cognitivi e genetici indicano che lo studio delle specie non dotate di linguaggio può essere estremamente utile per comprendere la natura e l’evoluzione di questa facoltà. Il secondo aspetto è legato al fatto che il linguaggio fa capo a un complesso circuito di aree e nuclei corticali e sottocorticali distribuiti in tutti il cervello in una rete le cui caratteristiche non sono ancora del tutto esplorate. Come abbiamo già notato, Broca ritenne che la produzione del linguaggio dipendesse dalla regione corticale anteriore e che i danni di quest’ultima avrebbero comportato un’afasia motoria mentre qualche anno dopo Wernicke sostenne che la capacità di comprendere il linguaggio dipendesse dall’area parieto-temporale dell’emisfero sinistro e che la sua lesione comportasse un’afasia sensoriale. Poichè le capacità linguistiche implicano sia la comprensione che la produzione di parole, Ludwig Lichtheim, nel 1885, propose che esistesse un fascio di fibre nervose che allacciavano tra loro le aree di Broca e Wernicke, fibre che oggi fanno parte di un modelle neuro-linguistico che è stato sostenuto da Norman Geschwind. Philip Lieberman24, che è tra i maggiori avversari di questo modello, sostiene che questa concezione delle basi nervose del linguaggio rappresenta una moderna versione della frenologia ottocentesca di Gall e Spurzheim, di recente sostenuta dalle teorie di Jerzy Fodor25 secondo cui ogni funzione mentale è localizzata in un “modulo specifico”. Postulare che una particolare funzione sia localizzata può significare che se ne conoscono circuiti e nuclei nervosi in essa coinvolti: ma non implica che essa abbia una sede circoscritta, unicamente responsabile di una funzione complessa come il camminare, l’afferrare un oggetto o il parlare. Queste funzioni articolate e composite dipendono generalmente da diverse popolazioni di neuroni distribuiti in disparate strutture che nel loro insieme formano un circuito. E’ il circuito ad essere responsabile di una funzione complessa come appunto il camminare, l’afferrare un oggetto o il parlare. I comportamenti complessi, come appunto il linguaggio, fanno capo a un insieme di aree, nuclei e reti nervose, piuttosto che una singola struttura26. In sostanza, vi sono operazioni nervose “locali” che vengono espletate in particolari sedi del cervello ma queste ultime non coincidono con un particolare comportamento, così come lo osserviamo. Numerosissimi esempi indicano che differenti aree corticali e nuclei sottocorticali sono specializzati nell’elaborazione di stimoli specifici, ad esempio visivi o uditivi, mentre vi sono altre regioni eseguono operazioni che regolano diversi aspetti del comportamento motorio come il codificare la direzione di un movimento, la sua velocità e forza) e altre regioni ancora che trattengono l’informazione in un deposito temporaneo come nel caso della memoria a breve termine. Tuttavia, è difficile che una singola struttura assolva esclusivamente una sola funzione: ad esempio, nel putamen, uno dei gangli della base, è localizzata una popolazione di neuroni che specifica la sequenza dei movimenti essenziali in attività come il camminare, l’ afferrare un oggetto con la mano, il parlare. Sarebbe però errato affermare che il putamen sia la sede, il luogo, dell’atto motorio in quanto esso fa parte di un complesso circuito che non soltanto assolve una funzione specifica ma appartiene anche ad altri circuiti responsabili di altri aspetti del comportamento. D’altronde nel putamen vi sono altre popolazioni di neuroni che innervano differenti strutture sottocorticali e corticali, coinvolte non soltanto nel controllo motorio ma anche nell’attenzione, in attività cognitive, nelle forme di apprendimento che implicano un rinforzo27. Ancora un volta, i comportamenti complessi dipendono da circuiti nervosi che fanno capo a reti che mettono in relazione l’attività di diverse aree cerebrali. Perciò parlare di un modulo o di una sede corticale del linguaggio è una semplificazione che non tiene conto del fatto che non esiste un deficit o una perdita del linguaggio se le strutture sottocorticali non sono lese. Mentre le lesioni delle aree di Broca e Wernicke (i cui confini sono oltremodo imprecisi e variabili) non comportano deficit linguistici in mancanza di danni sottocorticali, le lesioni dei gangli della base producono invece afasie, anche quando la corteccia è risparmiata. Gli autori di un vasto studio sulle afasie28 concludono pertanto che “non è mai stato dimostrato che una lesione essenzialmente corticale, anche se di vaste proporzioni, sia da sola responsabile dell’afasia di Broca o di Wernicke”. Per integrare le conoscenze sulle aree corticali coinvolte nel linguaggio con quelle relative alle strutture sottocorticali, i gangli della base, è utile partire da una brevissima descrizione dei rapporti che esistono tra queste formazioni sottocorticali. Lo striato è formato dal nucleo caudato e dal nucleo lenticolare che a sua volta è formato dal putamen e dal globo pallido: queste diverse strutture sono allacciate tra loro e formano un sistema che si connette al talamo (la sede cui afferiscono tutte le informazioni sensoriali, dal tatto alla visione), ad altre strutture sottocorticali e alla corteccia. Per avere un’idea della complessità di queste connessioni basterà ricordare che il putamen riceve informazioni da quasi tutte le strutture cerebrali e il globo pallido dal putamen e dal caudato. Le vie nervose che provengono dai gangli della base vengono avviate al talamo e da qui a differenti aree corticali. A seconda dei danni che si verificano nei gangli della base, si possano verificare disturbi motori, come il Parkinson, disturbi ossessivo-compulsivi, disturbi cognitivi che riguardano anche la memoria e, infine, disturbi del linguaggio. In altre parole, un danno a carico dei nuclei dello striato o delle altre strutture nervose ad esso associate che formano il circuito corteccia-striato-corteccia, si traduce in deficit del comportamento che sembrano dovuti a un danno corticale. Un aspetto centrale del ruolo dei gangli della base riguarda la sequenzialità e fluidità del linguaggio. Uno degli aspetti più evidenti nell’afasia di Broca è la disgregazione delle sequenze motorie necessarie nella produzione delle consonanti occlusive. Dal punto di vista acustico è possibile percepire la differenza tra queste consonanti, come la [b] di babbo e la [p] di pappo in base all’intervallo di tempo che rispecchia la sequenza dei comandi motori necessari a produrre questi suoni. Questi suoni vengono generati chiudendo le labbra, bloccando il flusso d’aria che proviene dalla bocca e schiudendo all’improvviso le labbra in modo da produrre una sorta di esplosione di aria che ha specifiche proprietà acustiche. Chi parla deve anche regolare il tono dei muscoli della laringe per produrre i suoni che seguono questa “esplosione”: ad esempio, per produrre la [b] la fonazione deve avvenire entro 20 millisecondi dall’apertura delle labbra, nel caso della [p] i tempi sono più lunghi. Simili differenze tra i tempi d’azione dei muscoli della lingua e della laringe differenziano i suoni [d] dalla [t] e ciò avviene in tutte le lingue. In sostanza, chi parla deve controllare con precisione una sequenza di azioni motorie autonome per produrre questi suoni. Ciò non si verifica nelle persone che soffrono dell’afasia di Broca cosicché quando vogliono pronunciare una [b] chi ascolta percepisce una [p], la [t] viene percepita come una [d] ecc. . Questi deficit non dipendono dai tempi entro cui vengono prodotti questi suoni ma dalla sequenza delle attivazioni muscolari, una sequenza che si disintegra sia nel caso delle consonanti occlusive, sia nel caso delle vocali e, ovviamente, nel caso dei movimenti degli arti e del corpo. Anche nei pazienti parkinsoniani la fonazione è irregolare in quanto essi hanno problemi che riguardano la regolazione dei muscoli della laringe e della pressione dell’aria negli alveoli polmonari. Le sindromi afasiche sono anche caratterizzate da deficit del linguaggio e cognitivi che riguardano la sintassi. E’ ad esempio frequente un linguaggio telegrafico, basato su una specie di economia del numero di parole utilizzate, che porta una persona affetta dall’afasia di Broca a dire: “uomo reca casa” anziché “l’uomo che si reca verso casa”. Accanto a queste difficoltà nella produzione del linguaggio ve ne sono anche nella sua comprensione, nel senso che gli afasici hanno difficoltà nel comprendere le differenze di significato dipendenti dalla sintassi. Per esempio, sono frequenti impedimenti nel comprendere le frasi passive del tipo: “Il ragazzo venne baciato dalla ragazza” rispetto alla frase più comune –e semplice- “La ragazza baciò il ragazzo”. In genere, la percentuale di errori sintattici è superiore del 50% rispetto a quanto si verifica nelle persone che non presentano lesioni 29. Questi deficit sintattici nella comprensione delle frasi sono anche evidenti nei malati di Parkinson: questi utilizzano frasi più corte (linguaggio telegrafico) e commettono spesso errori nella comprensione delle frasi passive rispetto a quelle attive. Questi errori non sono dovuti a un generale declino cognitivo o a deficit dell’attenzione in quanto sono selettivi in rapporto ad aspetti della sintassi. Sia nelle afasie di Broca, sia nel morbo di Parkinson esiste una correlazione tra i deficit che riguardano il sequenziamento linguistico nell’ambito della comprensione di una frase e quelli relativi alla successione dei movimenti manuali30. Questa correlazione tra sequenziamento motorio e sequenziamento cognitivo nella comprensione della sintassi31 indica ulteriormente che l’area di Broca controlla aspetti del linguaggio e dei movimenti manuali attraverso i suoi rapporti coi gangli della base. Un’ulteriore indicazione del ruolo esercitato dallo striato nella comprensione sintattica deriva da un recente studio effettuato su pazienti affetti da una forma di demenza legata alla cosiddetta degenerazione cortico-basale in cui si verificano danni del complesso striatocorteccia premotoria e lobi parietali superiori. Nelle persone affetta da questa degenerazione, ma non in quelle in cui i danni erano limitate alle aree frontali e temporali, è evidente una ridotta capacità di riconoscere violazioni semantiche, anche in assenza di disturbi afasici32. Ma al di là delle semplificazioni legate alla classica spiegazione delle afasie secondo il cosiddetto modello di Wernicke-Geschwind, esiste una domanda ancor più generale legata alle caratteristiche del danno linguistico che si verifica nelle afasie: il deficit dipende dalla perdita di parti del sistema del linguaggio oppure dalla incapacità di utilizzare correttamente le informazioni linguistiche disponibili? In altre parole, la “meccanica” di un’afasia come quella di Broca è paragonabile a un’automobile in cui si è verificato un danno a carico di una delle marce, ad esempio la seconda, oppure il cambio è a posto ma la frizione è bruciata? Più specificamente e fuori di metafora, i deficit di comprensione nei pazienti afasici derivano dalla perdita di informazioni linguistiche immagazzinate nella memoria oppure dal disfacimento di processi computazionali che agiscono sulle rappresentazioni degli input linguistici33? Questa seconda rappresentazione delle afasie si è fatta strada negli ultimi anni a seguito a seguito di uno studio che dimostrava come la natura del compito abbia un’influenza cruciale sulle prestazioni del paziente afasico. Si è giunti a questa nuova concezione sottoponendo dei soggetti con afasia di Broca a un test basato sull’abbinamento di una frase con immagini: i pazienti afasici che leggano la frase “il ragazzo fu calciato dalla ragazza” hanno difficoltà a capire chi dia un calcio a chi e se devono scegliere tra due immagini, una in cui un ragazzo sta dando un calcio a una ragazza e una in cui una ragazza sta dando un calcio a un ragazzo scelgono spesso l’immagine sbagliata. Tuttavia, in uno studio basato su questo test34, i pazienti che avevano perduto la capacità di abbinare una frase passiva come quella appena citata a un’immagine, potevano padroneggiare meglio un compito di giudizio grammaticale in cui si trattava di scegliere tra giudizi corretti e giudizi sintatticamente scorretti, anche in casi in cui le proposizioni erano composte da molteplici strutture sintattiche. Questo ed altri studi hanno indicato come sia la natura del compito ad influenzare le prestazioni degli afasici, il che fa ritenere che la difficoltà di comprendere la struttura grammaticale non dipenda da problemi di rappresentazione ma di elaborazione: in altre parole, gli afasici dispongono delle conoscenze sintattiche ma a seconda del contesto non sono in grado di servirsene. Anche nel caso di persone colpite dall’afasia di Wernicke è stato dimostrato che le loro conoscenze semantico-lessicali sono conservate ma che non vi hanno accesso o non riescono a farne uso in termini di comprensione del linguaggio. Una seconda teoria, sempre basata su deficit dell’elaborazione piuttosto che della comprensione, sostiene che il danno relativo ai processi mentali implicati nell’elaborazione dell’informazione è legato a un rallentamento dei tempi di esecuzione: i processi di accesso alle informazioni linguistiche codificate nella memoria funzionerebbero a una velocità ridotta e quindi comprometterebbe la comprensione del significato. Piuttosto che l’accesso al lessico sarebbe quindi compromessa l’integrazione lessicale, come indicano numerosi studi che dimostrano come i pazienti abbiano difficoltà a integrare il significato delle parole nel testo sulla base delle informazioni che precedono quella particolare parola e come il rallentamento nella gestione dell’informazione possa bloccare la comprensione. Ad esempio, nella proposizione “Carlo sta entrando nel caffè” il contesto ci dice che caffè significa bar e non il liquido contenuto nella tazza ma un afasico, a causa delle lentezza dei processi relativi alla selezione del significato di una parola, può restare completamente disorientato. Gli antecedenti del linguaggio nello sviluppo infantile. Questi diversi aspetti della conoscenza delle parole dipendono da un processo di apprendimento che si struttura lentamente a partire dagli antecedenti del linguaggio, i mattoni su cui si basa una costruzione di crescente complessità. Il linguaggio è parte di un continuum che dai gesti, risale alle situazioni e il linguaggio verbale si situa al vertice di una catena di acquisizioni fondate su dei momenti relazioni, dove gestualità e sensi garantiscono il contatto con la realtà, la significatività delle parole e anche la memorizzazione delle stesse. Questa fusione e mescolanza di elementi (sincretismo), tipica dell’apprendimento infantile, è alla base dell’interiorizzazione progressiva del linguaggio che in parte dipende dalla maturazione neurologica e muscolare, in parte dall'esercizio e in parte anche dal desiderio di comunicare. Lo studio dello sviluppo del linguaggio consente di cogliere quelle categorie motorie che, attraverso la loro struttura temporale e i loro nessi di causa-effetto danno vita al linguaggio e contribuiscono a formare diversi aspetti della mente. E’ stato considerato in precedenza come la motricità possa contribuire allo sviluppo del linguaggio, non soltanto perché parlare significa produrre movimenti (la fonazione) ma anche in quanto la successione dei movimenti corporei ha in sé una logica non dissimile da quella che caratterizza la successione delle parole nel linguaggio. Questi antecedenti del linguaggio si strutturano a partire dai primi mesi di vita: la comunicazione linguistica è infatti preceduta da una comunicazione pregrammaticale e prelessicale che costituisce i prerequisiti per la padronanza del discorso lessico-grammaticale degli anni successivi. Queste forme comunicative si effettuano tramite il pianto, i gesti, i vocalizzi e il balbettio. Inizialmente il neonato piange perché ha fame o sonno oppure perché avverte qualche disagio; ma già prima dei tre mesi si rende conto che piangendo può attrae l'attenzione. A quattro mesi può piangere quando la mamma smette di prestargli attenzione e a cinque quando lei entra nella stanza senza badargli. Altre cause del pianto possono essere: la comparsa di un estraneo dopo i sei-sette mesi, la paura per un fatto nuovo e improvviso, il timore di essere avvicinato da una persona sconosciuta. A partire dall’inizio del secondo anno di vita il pianto come mezzo di comunicazione e di richiamo man mano diminuisce perché il bambino incomincia ad esprimersi a parole, resta però come espressione di dolore e frustrazione. Nel corso del primo anno di vita emerge inoltre un repertorio iniziale di mimiche e gesti: sorridere e tendere le braccia per essere preso in braccio, divincolarsi per sottrarsi ad attività non gradite, voltare la testa dall'altra parte ecc., sono tutte modalità espressive con cui il piccolo comunica i suoi stati d'animo e le sue esigenze alle persone che si prendono cura di lui. In alcuni casi, questa comunicazione può anche avere valenze linguistiche, essere cioè un linguaggio dei segni. Tra le persone che si prendono cura del bambino e quest’ultimo si instaura, giorno dopo giorno, uno scambio fatto non soltanto di gesti e mimiche, ma anche di posture del corpo, uso dello spazio, pause, attese, scambi, azioni congiunte; ossia delle sequenze comunicative significative che creano i presupposti per una comunicazione fluida. Sin dall’inizio esiste una sensibilità al linguaggio umano: già dopo le prime settimane di vita, il piccolo muove il corpo in risposta alle unità di base in cui si articola il discorso e alla cadenza della frase (sincronia interazionale). Il primo esperimento, registrato con il videotape, fu impostato in modo da osservare i movimenti dei neonati in risposta a frasi in lingua inglese, a conversazioni in cinese, a suoni vocalici isolati, a leggeri rumori regolari35: i piccoli si muovevano sincronicamente con la struttura delle frasi e delle conversazioni (sia in lingua inglese che in cinese), indipendentemente dal fatto che le frasi e le conversazioni fossero registrate o dal vivo. Al contrario, i rumori e le vocali isolate non producevano risposte di tipo sincronico. I neonati possiedono quindi una sensibilità particolare ai suoni organizzati in linguaggio e il muoversi in sincronia con essi è un comportamento innato e involontario carico di implicazioni sociali: i movimenti in risposta al linguaggio umano hanno, infatti, l'effetto di incoraggiare l’adulto che sta parlando. Anche gli adulti, quando si parlano, compiono micro-movimenti che danno vita a quella che è stata definita come una sorta di “danza” inconsapevole dove chi parla modifica la postura del corpo, l'inclinazione del capo ecc. e chi ascolta compie, di rimando, altrettanti movimenti. Gli studiosi che si sono interessati a questo aspetto della comunicazione non verbale sono perciò inclini a ritenere che esiste un’inclinazione innata per comunicare con i propri simili, suscettibile di perfezionamento e di sviluppo. Oltre al pianto e ai gesti, il neonato produce anche vocalizzi che sono simili in tutti i contesti linguistici: durante i primi sei mesi un bambino italiano produce gli stessi suoni di un bambino giapponese o svedese e non è certamente per caso se in molte lingue le parole “mamma” e “pappa” sono simili. La fase del balbettio ha inizio verso i tre e perdura fino agli undici, dodici mesi. All'inizio è una sorta di gioco che il piccolo pratica da solo – udendo e ripetendo le proprie produzioni casuali – o con altri. La prima forma di balbettio è costituita da vocali semplici o unite a consonanti (“ma”, “na”, “da”, “go” ecc.), successivamente, il controllo crescente rende possibile la lallazione o ripetizione dello stesso suono più volte (“ma-ma-ma-ma”). Con l'esercizio il bambino amplia il proprio repertorio e imita toni e inflessioni. Durante i primi sei mesi l'imitazione è generalizzata nel senso che il bambino non imita suoni specifici, ma imita in generale l'attività di produzione dei suoni, facendo eco alle frasi che l'adulto pronuncia (ecolalia). A sei mesi ha inizio l'imitazione di alcuni semplici suoni pronunciati dagli altri ma che fanno parte del repertorio del bambino e a undici mesi il bambino può pronunciare “ma-ma”, “ta-ta”, “pipi” e altre brevi composizioni bisillabiche che rendono comunicabili semplici concetti e bisogni fondamentali. Ad un anno, infine, il bambino imita suoni specifici e nuovi non presenti nella fase del balbettio. Il passaggio dal balbettio al linguaggio vero e proprio dipende non soltanto dallo sviluppo neurologico e dell'apparato fonetico, ma anche dall'esercizio e dagli incentivi. I bambini vocalizzano di più quando l'adulto parla e presta loro attenzione. Spesso l'adulto sottovaluta la capacità di percezione e di comprensione del bambino, in realtà il piccolo capisce prima di essere in grado di esprimersi e soprattutto può cogliere il valore delle inflessioni e dei cambiamenti di tono: si volta, ad esempio, verso chi parla e ha comportamenti diversi di fronte ad una voce adirata o gentile. Man mano le diverse associazioni tra i suoni, i significati e le loro valenze emotive entrano a far parte di una memoria sempre più efficiente, in grado di immagazzinare parole: in linea di massima, tra i 12 e i 18 mesi i bambini piccoli acquisiscono circa 50 nuove parole che si riferisco ad oggetti (i genitori, i cibi, i giocattoli ecc.), oltre a verbi come “mangiare” e parole interattive come “ciao”. Dai 24 mesi a 2 anni a mezzo l’acquisizione di nuovi vocaboli aumenta enormemente: si possono imparare 7-9 nuove parole al giorno, generalmente in modo corretto, tant’è che si parla di “esplosione nominativa”. Cosa succede nel cervello in questa fase dell’acquisizione linguistica? Le onde elettriche registrate in risposta alle parole che un bambino riconosce diventano “lateralizzate”, vale a dire si manifestano nell’emisfero sinistro del cervello mentre in precedenza, durante fasi più precoci dell’acquisizione linguistica, suscitano riposte cerebrali bilaterali, in entrambi gli emisferi. Se si prende in esame un gruppo di bambini di 20 mesi, quelli caratterizzati da un maggior sviluppo del vocabolario producono onde elettriche lateralizzate (a sinistra) in risposta alle parole che conoscono, mentre gli altri bambini, che hanno ancora un vocabolario più ridotto, hanno onde bilaterali: man mano che si sviluppano le competenze linguistiche queste promuovono un ruolo di predominio dell’emisfero sinistro che diventa sempre più responsabile del linguaggio. In sostanza, lo sviluppo della lateralizzazione, cioè la fissazione del linguaggio nell’emisfero sinistro, dipende dallo sviluppo del vocabolario, non dall’età cronologica36. Questi cambiamenti si accompagnano ovviamente a una serie di trasformazioni delle caratteristiche del cervello. Queste sono anzitutto di tipo strutturale: con la crescita, i processi maturativi a carico delle fibre nervose e il processo di “potatura” delle sinapsi e di riduzione del numero dei neuroni si diffondono a tutto il cervello ma esiste anche una correlazione diretta tra maturazione linguistica e maturazione (mielinizzazione) delle vie nervose che associano tra di loro i diversi snodi della rete del linguaggio. 1 Petitto, L. A. e Marentette, P. F. (2000) Babbling in the manual mode: evidence for the ontogeny of language. speech to language. Science 251, 1493–1496. 2 Goldin-Meadow, S. e Mylander, C. (1998) Spontaneous sign systems created by deaf children in two cultures. Nature 391, 279–281. 3 Lenneberg E. H. (1967) Biological foundations of language. New York: Wiley.Trad. it. Fondamenti biologici del linguaggi, Boringhieri, Torino, 1982. 4 Bauer RH. 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