REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO

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REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
TRIBUNALE DI ROMA
Sezione Lavoro
Il Giudice designato, dr. Giovanni Armone
all’udienza del 18 luglio 2013, all’esito della camera di consiglio, alle ore 17, ha
pronunciato la seguente
SENTENZA
mediante lettura del dispositivo, nella causa iscritta al n. 44938/2011 R. G. Aff. Cont.
Lavoro
TRA
MARANZANO GENNARO ANTONIO
elettivamente domiciliato in Roma, via Monte Zebio, 32, presso lo studio degli avv.
Luciano Tamburro, Cristina Tamburro e Anna Rita Curci, che lo rappresentano e
difendono, in virtù di procura a margine del ricorso introduttivo;
ricorrente
E
ATAC spa
in persona del legale rappresentante p.t., elettivamente domiciliata in Roma, via
degli Scipioni, 281-283, presso lo studio degli avv. Giampiero Proia e Mauro Petrassi,
che la rappresentano e difendono, unitamente all’avv. Gian Francesco Regard, in
virtù di procure in atti;
resistente
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Con ricorso depositato il 9 dicembre 2011, il ricorrente ha esposto:
a. di essere stato assunto alle dipendenze dell’ACOTRAL (Azienda Consortile
Trasporti Lazio) l’11 giugno 1979 con la qualifica di operaio specializzato e di
avere fatto carriera all’interno dell’Azienda, nelle diverse denominazioni e forme
giuridiche dalla stessa assunte nel corso del tempo, fino a diventare direttore di
esercizio di Met.Ro. spa a decorrere dal 6 novembre 2001;
b. di aver espletato tale ruolo fino a tutto il 2009;
che a decorrere dal 1° gennaio 2010 si è realizzata una fusione per
incorporazione di Met.Ro. spa e Trambus spa in una nuova società denominata
Atac spa;
che con ordine di servizio del 19 gennaio 2010 è stato delineato il nuovo assetto
della macrostruttura Atac;
c. che nell’ambito del nuovo organigramma egli, pur mantenendo l’incarico di
direttore di esercizio, non è stato inquadrato in alcuna posizione organizzativa;
che a decorrere da quel momento egli è stato progressivamente esautorato dalla
funzione pur formalmente rivestita ed è stato privato dei suoi poteri e delle sue
prerogative;
d. che con ordine di servizio del 31 maggio 2010 si è realizzato un ulteriore riassetto
dell’organizzazione societaria, che ha comportato la costituzione di una nuova
Direzione Centrale Industriale, assegnata al sig. M. C., e il trasferimento
all’interno di tale direzione delle attività prima sottoposte alla precedente
posizione da lui ricoperta;
e. che in data 6 agosto 2010 egli è stato sostituito nell’incarico di direttore di
esercizio dall’ing. N. e in data 10 agosto 2010 è stato “collocato a disposizione
dell’amministratore delegato per incarichi speciali che saranno dettagliati con
comunicazioni dirette all’interessato”;
f. di non avere tuttavia mai ricevuto alcun incarico e di avere più volte segnalato
tale situazione al nuovo direttore di esercizio e all’amministratore delegato, che
era nel frattempo mutato;
g. di non aver ricevuto alcun incarico neanche nell’ambito della nuova disposizione
organizzativa del 3 febbraio 2011;
h. che in data 2 marzo 2011 gli è stata consegnata a mano una lettera di
licenziamento per motivi oggettivi, datata 24 febbraio 2011;
i. che già dal 3 marzo 2011 gli è stato impedito l’accesso ai locali aziendali e il
recupero anche dei propri effetti personali.
2. Il ricorrente ha pertanto chiesto al Tribunale adito di voler:
a. accertare e dichiarare che il licenziamento intimato nei propri confronti è
illegittimo e/o illecito o comunque ingiustificato, con conseguente condanna della
società resistente alla sua reintegrazione nel posto di lavoro, assegnazione delle
mansioni dirigenziali anteatte e pagamento di un’indennità equivalente alle
retribuzioni maturate dalla data del licenziamento all’effettiva reintegra;
b. condannare la resistente agli accantonamenti del TFR, al pagamento delle
differenze retributive e al risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale.
3. La società resistente si è costituita in giudizio, contestando la fondatezza della
domanda e chiedendone il rigetto.
4. La domanda è fondata e deve essere pertanto accolta nei limiti di seguito
precisati.
5. Gli atti persecutori.
6. L’istruttoria svolta ha dimostrato che il licenziamento impugnato è stato l’atto
conclusivo di un percorso persecutorio, intrapreso dall’azienda nei confronti del
ricorrente all’indomani della fusione per incorporazione e scandito da diversi
passaggi.
7. Anzitutto, nell’ordine di servizio del gennaio 2010, con cui si è proceduto alla
riorganizzazione della società all’indomani della fusione, il ricorrente, pur
mantenendo la qualifica formale di “direttore di esercizio”, è stato privato di
qualsiasi incarico dirigenziale (v. doc. 55).
8. Nei mesi successivi, poi, il ricorrente non è stato coinvolto nelle attività che
investivano le competenze e le responsabilità proprie del direttore di esercizio. Egli
non veniva più invitato alle riunioni operative, non era destinatario di comunicazioni
aventi per oggetto argomenti pur rientranti nel suo ambito di competenza, le
decisioni passavano sopra la sua testa e, in occasione di un incidente ferroviario
avvenuto il 20 aprile 2010 egli non è stato avvertito direttamente e
immediatamente del fatto, ma ne è venuto a conoscenza in via indiretta.
9. A proposito del mancato coinvolgimento del Maranzano nelle riunioni e nei
processi decisionali, si vedano le numerose note di servizio inerenti il servizio della
metropolitana, non indirizzate al ricorrente, nonché le dichiarazioni testimoniali rese
dai testi F. (“fino al marzo 2010 l'attività è più o meno continuata allo stesso modo.
Poi nel marzo 2010 si è insediato l'ingegner N. e quindi buona parte della segreteria
amministrativa del ricorrente è passata all'ingegner N., mentre il ricorrente ha
mantenuto la responsabilità di legge come direttore di esercizio, con particolare
riferimento alla legge 753, ma non faceva più nulla, la corrispondenza di sua
competenza è notevolmente diminuita e lui non veniva invitato alle riunioni nelle
quali doveva essere coinvolto il direttore di esercizio. Lui lo veniva a sapere
successivamente”), M. (“Ricordo che nei mesi di maggio e giugno 2010 ingegner N.
indiceva delle riunioni e ricordo di aver partecipato. A me pare di ricordare che a
marzo 2000 e 10 il ricorrente sia stato sostituito, ma ricordo anche che c'è stato un
periodo in cui direttore di esercizio erano due. Il ricorrente non partecipava alle
riunioni indette dall'ingegner N. nel maggio giugno 2000 e 10, non so dire per quale
motivo. Le riunioni che l'ingegner N. organizzava erano di carattere operativo e devo
dire che, siccome lui era appena arrivato, eravamo più nuovi (leggi: noi) responsabili
delle linee che lo aiutavamo nella sua attività di quanto lui non lo fosse noi.
Immagino che il ricorrente non fosse presente a queste riunioni perché non veniva
invitato, ma non so essere preciso su questo, noi immaginavamo che c'era qualche
bega intorno a questo fatto. Ricordo che in quel periodo io incontravo a volte il
ricorrente nel suo ufficio e lui appariva avvilito, diceva che era ancora direttore di
esercizio, dava delle direttive alla regione al ministero dei trasporti, ma non riceveva
risposte. Era un periodo molto confuso, credo di ricordare qualcosa del genere.
Ricordo che in quel periodo il ricorrente chiedeva informazioni e delucidazioni ai suoi
superiori, credo anche all'amministratore delegato, ma non so essere più preciso”),
G. (A seguito della ristrutturazione il ricorrente rimase formalmente direttore di
esercizio, ma secondo me non faceva niente. Prima noi ci vedevamo spessissimo,
quotidianamente, dopo la riorganizzazione del gennaio 2010 ci vedevamo molto
meno. Io continuavo a svolgere il mio incarico, ma il ricorrente era molto meno
presente, non veniva convocato alle riunioni di lavoro che venivano indette. Le
riunioni venivano indette dall’ing. N., che però arrivò un po’ dopo e prese il posto del
ricorrente. Tra il gennaio 2010 e l’arrivo del N. non c’erano riunioni, tranne una,
convocata dal Coletti proprio per presentare il N. Nonostante questo, qualche
riunione fu convocata proprio dal ricorrente, il quale ci illustrava le difficoltà dovute
alla nuova organizzazione e le sue difficoltà specifiche con il Ministero dei trasporti e
le altre autorità competenti. Ci fu qualche altra comunicazione da parte del
ricorrente e poi a voce si lamentava continuamente. In quel periodo lui mi aveva
dato l’incarico di rivedere il regolamento di esercizio”.ADR: “Quando N. è arrivato, ci
ha fatto almeno tre o quattro convocazioni a cui il ricorrente non fu chiamato e il N.
ci diceva di far capo a lui, non al ricorrente. Nelle e-mail di convocazione c’ero io e gli
altri dirigenti di movimento, ma mi pare di ricordare che in copia tra i destinatari non
ci fosse il ricorrente”. Gli stessi testi F. e M. hanno poi riferito dell’incidente
ferroviario e del mancato coinvolgimento del Maranzano.
10. La situazione non è mutata nei mesi successivi, neanche dopo la ulteriore
riorganizzazione decisa con D.O. del 31 maggio 2010, che, pur creando nuove
direzioni e nominando nuovi dirigenti, ha confermato l’esclusione del ricorrente da
qualsiasi incarico dirigenziale effettivo. Egli rimaneva direttore di esercizio, con il
compito di coadiuvare il nuovo direttore della Direzione metro-ferrovie, ing. N., ma
allo svolgimento effettivo di tale compito egli non risulta essere stato mai chiamato.
I testi hanno riferito che il N. e il Maranzano non si vedevano praticamente mai (v. i
testi G. e F.), sicché deve ritenersi che anche il compito di coadiuvare il direttore
rimaneva sulla carta, nonostante peraltro che il N. fosse nuovo del settore e avesse
bisogno di confrontarsi con i responsabili delle singole tratte (secondo quanto
riferito dal teste M.).
11. Tale inattività ha poi ricevuto una consacrazione formale nell’agosto 2010,
allorché il ricorrente è stato privato anche del ruolo di direttore di esercizio, affidato
ufficialmente all’ing. N., ed è stato collocato a disposizione dell’amministratore
delegato per non meglio precisati incarichi speciali.
12. Neanche in tale nuova posizione, peraltro, il ricorrente è stato chiamato a
svolgere alcuna attività, neanche quando, da settembre 2010, è stato nominato un
nuovo amministratore delegato. Non solo ne hanno riferito i testi F. e G., ma anche
il teste D.L., indicato da parte resistente, ha riferito che probabilmente il vecchio
amministratore delegato non ha avuto il tempo di conferire incarichi al Maranzano
perché sostituito di lì a poco, mentre il nuovo amministratore è stato impegnato nei
primi mesi in una disamina della situazione organizzativa. Del resto, agli atti del
fascicolo di parte ricorrente (doc. 271) vi è una lettera del Maranzano in cui questi
chiede conto al nuovo amministratore delegato delle ragioni della sua forzata
inattività e tale lettera reca a margine un’annotazione a penna, verosimilmente
proveniente dallo stesso a.d. o dal suo assistente, in cui si chiede a un certo Riccardo
(che è verosimilmente il teste D.L., che era all’epoca il responsabile delle risorse
umane) a proposito del Maranzano “come mai è, di fatto, senza alcun incarico?”.
13. L’inattività è durata fino al marzo 2011, quando, dopo che si era proceduto a un
ulteriore riassetto, il ricorrente è stato licenziato per ragioni organizzative, in
particolare per la soppressione della posizione lavorativa da lui ricoperta.
14. La concatenazione cronologica delle diverse decisioni aziendali che hanno
coinvolto il ricorrente, l’inattività forzata cui è stato costretto, le modalità con cui è
stato trattato, la vaghezza dell’ordine di servizio successivo alla sua cessazione dalla
carica di direttore di esercizio, sono fattori che, considerati complessivamente,
inducono a concludere che le decisioni organizzative adottate erano strumentali alla
sua emarginazione lavorativa e alla sua successiva estromissione dall’azienda. Il
licenziamento non costituisce pertanto espressione della discrezionalità datoriale
alle prese con una riorganizzazione lavorativa imposta da esigenze esterne, né un
semplice licenziamento ingiustificato e/o sproporzionato, ma si è inserito,
costituendone il momento culminante, in un disegno persecutorio. Esso si configura
dunque come illecito.
15. Al riguardo, il Tribunale è ben consapevole della discrezionalità organizzativa di
cui gode l’imprenditore, specie nel delineare l’assetto dirigenziale; ed è altrettanto
consapevole del fatto che alcuni degli atti elencati, in sé considerati, si profilano
formalmente legittimi, in quanto espressione della citata discrezionalità.
16. E’ noto tuttavia che “la condotta di mobbing postula la molteplicità di
comportamenti di carattere persecutorio, illeciti, o anche leciti se singolarmente
considerati, che siano stati compiuti in maniera miratamente sistematica e
prolungata contro il dipendente con intento vessatorio” (Cass. civ., sez. lav., 31-052011, n. 12048, Cass. civ., sez. lav., 17-02-2009, n. 3785, Cass. civ., sez. lav., 09-092008, n. 22893).
17. Nella specie, è evidente che la riorganizzazione del gennaio 2010, dovuta alla
fusione per incorporazione di due grandi società, ben poteva comportare una
rivoluzione dell’organigramma e una redistribuzione degli incarichi dirigenziali. Il
depennamento del ricorrente dalla posizione organizzativa apicale era dunque in sé
legittimo, tanto più che a lui venivano conservate le competenze di direttore di
esercizio. Lo stesso si può dire per la sostituzione del ricorrente in quest’ultimo ruolo
e per la sua assegnazione ad incarichi speciali, ad agosto 2010.
18. Poiché tuttavia è stato dimostrato: che nell’intervallo tra gennaio e agosto 2010,
il ricorrente è stato lasciato inattivo ed emarginato dalle decisioni aziendali inerenti
il ruolo, previsto dalla legge, di direttore di esercizio; che nell’agosto 2010 gli è stata
assegnata una posizione creata dal nulla e dagli incerti contorni, apparentemente
prestigiosa ma in realtà vuota di contenuti; che nei mesi successivi al ricorrente, in
tale ultima posizione, non è stato conferito alcun incarico, tantomeno speciale; che
il licenziamento, avvenuto sette mesi dopo, è stato giustificato per soppressione del
posto ricoperto; non può che inferirsi che tutte le decisioni organizzative che si sono
susseguite erano finalizzate a precostituire le ragioni del successivo licenziamento.
Ne è chiara dimostrazione il fatto che il licenziamento sia stato motivato con il fatto
che la posizione ricoperta dal ricorrente era stata soppressa. In realtà, al momento
del licenziamento il ricorrente non ricopriva una posizione organizzativa ben
definita, poiché egli era stato collocato a disposizione dell’amministratore delegato
per incarichi speciali mai precisati, mentre la sua precedente posizione organizzativa
di direttore d’esercizio, insopprimibile perché prevista a livello normativo, era
tuttora esistente ed era stata affidata ad altri. Ciò rende palese l’intento dell’azienda
di svilire ed emarginare progressivamente il ricorrente, anche creando una posizione
organizzativa prima inesistente, onde poter meglio giustificare la sua eliminazione.
19. Il motivo illecito.
20. Il motivo illecito della marginalizzazione e del successivo licenziamento del
ricorrente è infine dimostrato da vari elementi indiziari.
21. Al riguardo, va ricordato come la giurisprudenza più recente, che il tribunale
condivide, pur ribadendo che l’onere della prova del motivo illecito a carico del
lavoratore, ha affermato: “Trattasi di prova non agevole, sostanzialmente fondata
sulla utilizzazione di presunzioni, tra le quali presenta un ruolo non secondario
anche la dimostrazione della inesistenza del diverso motivo addotto a giustificazione
del licenziamento o di alcun motivo ragionevole” (Cass. civ., sez. lav., 08-08-2011, n.
17087). In altri termini, colui che agisca per sentir dichiarare la natura
discriminatoria o comunque illecita del licenziamento non solo può avvalersi di
presunzioni (purché naturalmente gravi, precise e concordanti), senza che la
presenza di altri motivi di licenziamento escluda di per sé la natura discriminatoria
dell’atto; ma in aggiunta, se tali motivi non sussistono o se, pur dimostrati in
giudizio, si rivelano sproporzionati o inadeguati rispetto alla misura adottata, ciò
costituisce indice dell’intento discriminatorio.
22. E’ per questa ragione che la strumentalità della condotta tenuta dall’azienda nei
confronti del Maranzano e dunque la pretestuosità della giustificazione del
licenziamento formalmente addotta costituiscono il primo serio elemento
dell’esistenza del motivo illecito di licenziamento.
23. A questi ne vanno aggiunti altri.
24. Il Maranzano afferma di aver avuto, all’indomani della fusione, vari colloqui con i
nuovi vertici aziendali, nei quali gli sarebbe stato consigliato di cercarsi una
protezione politica. Il rifiuto da lui opposto sarebbe all’origine della
marginalizzazione e del licenziamento.
25. Ora, nessuno dei testi escussi ha dichiarato di aver assistito personalmente a tali
colloqui. Alcuni di loro hanno tuttavia riferito circostanze significative.
26. Così la teste F. ha riferito: “quando nel gennaio 2010 è arrivato l'ordine di
servizio che ha riordinato le varie aree dell'azienda, il ricorrente era in riunione e
ricordo che ho ricevuto io l'ordine di servizio e l'ho letto. L'ordine di servizio era
arrivato in via telematica. Quando il ricorrente è rientrato dalla riunione io gli ho
fatto leggere e lui è rimasto incredulo, in quanto l'ordine di servizio prevedeva che lui
rimanesse direttore di esercizio, ma tutte le aree operative erano assegnate ad altre
persone, in particolare le aree e le divisioni che in precedenza erano di sua
competenza erano state assegnate al dottor C. Confermo che nei giorni successivi, il
ricorrente si è attivato e ha avuto un colloquio con il dottor C. alla presenza della
dottoressa M. Non ricordo se tale incontro è avvenuto presso il nostro ufficio o
presso quello del dottor C. Non mi pare di aver assistito al colloquio, ma ricordo che il
ricorrente mi riferì il contenuto per sommi capi, dicendomi che gli era stato fatto
riferimento alla necessità di una protezione, ma lui mi disse che non aveva intenzione
di farsi proteggere da nessuno”.
27. Il teste M., poi, oltre ad aver parlato di voci generiche che circolavano in azienda
sulla volontà di rimuovere il Maranzano perché privo di protezione politica, ha
riferito di due episodi più specifici. A proposito dell’incidente ferroviario dell’aprile
2010, il teste ha dichiarato: “Ricordo che quel giorno verso le 9, 9,30 arrivò anche il
ricorrente e in quell'occasione io conobbi una nuova dirigente la Dott.ssa F., che mi
pare fosse responsabile della comunicazione. Nelle ore successive, verso l'ora di
pranzo, parlai con il ricorrente e lui si lamentava del fatto di non essere stato
avvertito direttamente data dell'incidente, ma di aver ricevuto notizia da la direzione
regionale trasporti, da una signora di cui non ricordo il nome che era la dirigente. Il
ricorrente mi disse anche che si era lamentato di questo con la Dott.ssa F., la quale
gli aveva suggerito di cercarsi una raccomandazione a questo fine. Lui era rimasto
sbalordito da questo consiglio e io in quel momento pensai che non c'era bisogno di
una raccomandazione, visto che era una figura tecnica prevista dalla legge”. Inoltre,
il teste ha dichiarato: “Su questo argomento io ho sentito solo nel 2008, in occasione
del cambio sindaco del comune di Roma, l'ingegner A. D., che era il responsabile del
settimo dipartimento e con il quale avevo rapporti di amicizia, fare riferimento
all'intenzione della nuova giunta di fare una sorta di spoil system, facendo il nome
del ricorrente e anche di altre persone come da sostituire. Non aggiunse altro né io lo
chiesi, ma mi sembrò strano anche allora proprio perché il direttore di esercizio è una
figura tecnica”.
28. Il teste G. a sua volta ha dichiarato: “Ho sentito parlare del colloquio che alla fine
del 2009 il ricorrente ha avuto con l’avv. D.L.. Fu lui a riferirmelo, perché io ero
andato nel suo ufficio dopo aver ricevuto una telefonata proprio dal D.L., in cui
questi mi minacciò dicendomi che dovevo considerarmi responsabile, con il mio capo,
della rivolta, della protesta che in quel momento c’era presso il deposito da parte dei
macchinisti metro, per il servizio durante il periodo natalizio. Quando glielo riferii, il
ricorrente mi parlò dell’incontro che aveva avuto con il D.L. e mi disse che questi gli
aveva detto che lui era stato messo lì dalla politica e rispondeva alla politica.”
29. Tutte queste deposizioni, benché in buona parte de relato e de relato actoris, se
lette alla luce dell’oggettivo svolgimento dei fatti, dimostrano che effettivamente vi
era, già all’indomani delle elezioni amministrative del 2008 e del cambio di giunta, e
ancor più dopo la fusione della fine del 2009, l’intenzione di far spazio a nuovi
dirigenti ed estromettere una parte dei vecchi e che il criterio per compiere tale
scelta non era oggettivo o tecnico, ma era di carattere politico. Quest’ultima
espressione non significa che i dirigenti da licenziare siano stati necessariamente
scelti tra quelli di centro-sinistra, cioè di colorazione politica opposta a quella della
giunta comunale insediatasi nel 2008, ma che almeno nel caso del Maranzano si è
inteso colpire un dirigente che non aveva una specifica appartenenza o protezione.
Significative al riguardo sono le deposizioni dei testi citati da parte resistente. Così il
P., che aveva l’incarico di gestione del personale, ha dichiarato: “C'erano delle
persone che simpatizzano notoriamente per altri partiti. Confermo con riferimento al
capitolo 47 che a seguito del processo di fusione sono stati mantenuti in servizio
dirigenti anche apicali che notoriamente non erano simpatizzanti della corrente
politica corrispondente alla nuova amministrazione del comune di Roma. Si tratta di
persone che svolgevano anche attività sindacale o politica in senso lato”. Il D.L.,
responsabile del personale, ha riferito: “Nella riorganizzazione culminata nell'ordine
di servizio del 2010, escludo che si sia tenuto conto delle caratteristiche simpatie
politiche dei vari dirigenti ed escludo che glielo abbia influito il fatto che, circa due
anni prima, ci fosse stato il cambio di sindaco di giunta del Comune di Roma. Non ho
mai sentito parlare della colorazione politica di uno o dell'altro dirigente come
fattore decisivo per il mantenimento della sua posizione”. Il teste C., già direttore
industriale della resistente dopo la fusione, ha infine riferito: “per quanto riguarda la
collocazione politica all’interno dell’azienda del ricorrente, posso dire che circolavano
voci più o meno su tutti i dirigenti a proposito della loro collocazione politica, ma si
trattava di discorsi vaghi. Comunque il ricorrente, secondo queste voci era collocabile
più sul centro sinistra. Per quanto ho potuto constatare durante la mia permanenza
in azienda, questi discorsi non trovavano riscontro nella realtà, nel senso che le
posizioni dirigenziali non venivano distribuite secondo l’appartenenza politica. Per il
periodo in cui io ho lavorato lì, il 70 % delle posizioni dirigenziali erano ereditate dal
passato. Preciso inoltre che mai il ricorrente mi ha parlato di una sua appartenenza,
collocazione o preferenza politica, neanche in riferimento alle precedenti gestioni”.
30. Il ricambio ha evidentemente riguardato solo una parte dei dirigenti e tra quelli
sostituiti non vi sono stati coloro che, per il loro impegno sindacale e politico anche
sul fronte opposto a quello dell’amministrazione in carica, avrebbero potuto dare
maggiori problemi. Proprio il fatto che il Maranzano rivestisse un ruolo tecnico e non
avesse particolari protezioni o colorazioni politiche ha indebolito la sua posizione (il
teste G. ha dichiarato: “non mi risulta che in azienda il ricorrente abbia mai fatto
professione delle sue idee politiche”) e ha indotto l’azienda a sceglierlo tra coloro
che dovevano essere estromessi, attraverso il percorso progressivo che si è descritto
in precedenza.
31. La reintegra e il risarcimento del danno.
32. L’illiceità del licenziamento lo rende nullo e giustifica l’accoglimento della
domanda di reintegra avanzata dal ricorrente. Già prima della modifica dell’art. 18, l.
300/70 ad opera della l. 92/2012, infatti, l’art. 3, l. 108/90 estendeva la tutela reale
ai licenziamenti nulli nei confronti dei dirigenti.
33. Ne consegue che la resistente deve essere condannata a reintegrare il ricorrente
nel posto di lavoro precedentemente occupato o in altro equivalente e a
corrispondere in suo favore un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima
retribuzione di fatto, pari a € 15.357,14 mensili, dalla data del licenziamento
all’effettiva reintegrazione, oltre rivalutazione monetaria e interessi legali sulla
somma via via rivalutata dalle singole scadenze al soddisfo, nonché al versamento
dei contributi previdenziali e assistenziali per lo stesso periodo (l’ammontare
dell’ultima retribuzione di fatto si ricava dalla busta paga di marzo 2011, allegata in
atti). Le mensilità spettanti dalla data del licenziamento alla data della presente
pronuncia sono state tra loro sommate e poi rivalutate al 30 giugno 2013, ultima
data per la quale sono disponibili i coefficienti Istat di rivalutazione. Tale calcolo ha
dato il risultato di € 451.589,61 s.e.o. (€ 15.357,14 x 26 mensilità, oltre interessi e
rivalutazione ex art. 429 c.p.c.).
34. Il danno non patrimoniale.
35. Il ricorrente ha chiesto il risarcimento dei danni non patrimoniali derivati dalla
condotta vessatoria tenuta dall’azienda.
36. Ora, il danno da mobbing richiede, secondo la più recente elaborazione
giurisprudenziale, che il Tribunale condivide, il ricorrere dei seguenti elementi: “a)
una serie di comportamenti di carattere persecutorio — illeciti o anche leciti se
considerati singolarmente — che, con intento vessatorio, siano stati posti in essere
contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo,
direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di
altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi; b) l’evento lesivo della
salute, della personalità o della dignità del dipendente; c) il nesso eziologico tra le
descritte condotte e il pregiudizio subìto dalla vittima nella propria integrità psicofisica e/o nella propria dignità; d) il suindicato elemento soggettivo, cioè l’intento
persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi” (v. Cass. civ., sez. lav., 05-112012, n. 18927, Cass. 31 maggio 2011, n. 12048, Cass. 26 marzo 2010, n. 738).
37. Sui requisiti a) e d) ci si è soffermati nei paragrafi precedenti.
38. In ordine all’evento lesivo della salute e al nesso eziologico, il CTU medico-legale
nominato nel presente giudizio, che si è avvalso anche di un consulente psichiatrico,
ha riferito nella sua relazione – approfondita, logica e coerente con la
documentazione medica prodotta dal ricorrente – che il ricorrente “risulta affetto
da Disturbo depressivo maggiore, episodio singolo, di livello moderato, cronico che
configura un’invalidità permanente valutabile nella misura del 20 % (venti per cento)
della totale” e che tali menomazioni “sono riconducibili allo stress-lavoro correlato
subito dal ricorrente in particolare nel periodo compreso tra i primi mesi del 2010 ed
il termine del rapporto lavorativo”. Il CTU ha aggiunto che, pur non potendosi
ritenere che il licenziamento sia stato in sé causa diretta della psicopatologia, “esso
è da considerarsi solo l’ultimo degli antecedenti causali, verificatosi al culmine di un
lungo periodo di stress, che ha verosimilmente causato l’aggravamento della
psicopatologia che già era in fieri” (v. pag. 14 della relazione).
39. Il CTU ha replicato inoltre adeguatamente alle osservazioni critiche rivolte alla
sua relazione dai CTP.
40. Quanto alle deduzioni del CTP di parte resistente, secondo cui il CTU non
avrebbe tenuto conto della fusione per incorporazione all’origine dei mutamenti
organizzativi aziendali e non avrebbe menzionato le costrittività organizzative cui il
Maranzano è stato sottoposto, va detto quanto segue. La prima osservazione non è
vera, perché il CTU ha dato conto della fusione a pag. 2 dell’elaborato, sia pure in
modo sintetico. La seconda osservazione non è appropriata, essendo corretta la
replica del CTU secondo cui la sua valutazione sul nesso causale tra menomazione e
costrittività organizzativa deve essere compiuta dal consulente in astratto, restando
demandato al giudice valutare la sussistenza, l’entità e l’illiceità delle costrittività
stesse.
41. Quanto alle deduzioni del CTP di parte ricorrente, secondo cui il disturbo
depressivo avrebbe dato luogo a un’invalidità più grave di quella riscontrata nella
relazione, anche in considerazione dell’episodio ischemico occorso al ricorrente nel
marzo 2010, anche qui le repliche del CTU sono risultate appropriate. La relazione
psichiatrica del coadiutore del CTU parla di disturbo moderato, cosicché appare
coerente con una storia di stress-lavoro correlato della durata di circa un anno e con
l’assenza di sintomi psicotici, ascrivere tale menomazione alla tabella delle invalidità
rubricata “Disturbo depressivo maggiore cronico – forme da lieve a moderata o lieve
complicata – 10-30” e collocare la percentuale di invalidità del ricorrente in
posizione intermedia, al 20%. Quanto all’episodio ischemico che ha colpito il
ricorrente nel marzo 2010, il CTU ne ha tenuto conto nell’anamnesi e lo ha anche
indicato come episodio nel quale per la prima volta si è manifestato lo stress, ma ha
spiegato coerentemente che esso, pur sintomatico, non ha avuto esiti invalidanti,
cosicché esso di per sé non ha aggravato l’invalidità riscontrata.
42. L’accertamento della menomazione della salute comporta la risarcibilità del
danno biologico.
43. Oltre a tale voce, va poi riconosciuto il danno esistenziale.
44. Al riguardo, va anzitutto osservato che alcuni dei testi ascoltati, i quali si
trovavano maggiormente a contatto con il Maranzano, hanno riferito che il
ricorrente era in quel periodo avvilito e si lamentava continuamente della situazione
di inattività (v. G. e M.). Anche il fatto che egli abbia scritto numerose lettere ai
responsabili per conoscere il proprio destino, lamentandosi della condizione in cui si
trovava (v. i documenti in atti), denota il disagio che egli viveva per la forzata
inattività.
45. Inoltre, il CTU ha dichiarato, sulla base dell’anamnesi e dell’esame compiuto dal
consulente psichiatrico, che la menomazione “ha certamente prodotto riflessi
negativi sulla sfera esistenziale e relazionale” (pag. 14 della relazione).
46. Infine, va ricordato che, nell’ipotesi di demansionamento o dequalificazione, a
maggior ragione quando tali fatti vessatori sfocino poi in un atto espulsivo, la lesione
investe quella specifica componente della persona, che è la personalità morale del
lavoratore (art. 2087 c.c.). Ebbene, in tali ipotesi, la giurisprudenza di legittimità,
anche nel suo orientamento più rigoroso e pur comunque richiedendo l’allegazione
puntuale delle conseguenze negative prodotte dall’inadempimento datoriale, ha
affermato che il danno esistenziale trova nell’ambito del rapporto di lavoro il suo
terreno di elezione (secondo alcuni, esclusivo), poiché in tale ambito si danno
“specifici pregiudizi di tipo esistenziale da violazioni di obblighi contrattuali
nell’ambito del rapporto di lavoro. In particolare, dalla violazione dell’obbligo
dell’imprenditore di tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del lavoratore
(art. 2087 c.c.). Vengono in considerazione diritti della persona del lavoratore che,
già tutelati dal codice del 1942, sono assurti in virtù della Costituzione, grazie all’art.
32 Cost., quanto alla tutela dell’integrità fisica, ed agli art. 1, 2, 4 e 35 Cost., quanto
alla tutela della dignità personale del lavoratore, a diritti inviolabili, la cui lesione dà
luogo a risarcimento dei pregiudizi non patrimoniali, di tipo esistenziale, da
inadempimento contrattuale. Si verte, in sostanza, in una ipotesi di risarcimento di
danni non patrimoniali in ambito contrattuale legislativamente prevista.”. Tale
indirizzo è stato successivamente confermato ad es. da Cass. civ., sez. lav., 31-052010, n. 13281: “In tema di demansionamento e di dequalificazione, il
riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale,
biologico o esistenziale, non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso
introduttivo del giudizio, sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio
medesimo; mentre il risarcimento del danno biologico è subordinato all’esistenza di
una lesione dell’integrità psicofisica medicalmente accertabile, il danno esistenziale da intendere come ogni pregiudizio (di natura non meramente emotiva e interiore,
ma oggettivamente accertabile) provocato sul fare areddituale del soggetto, che
alteri le sue abitudini egli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita
diverse quanto all’espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo
esterno - va dimostrato in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall’ordinamento,
assumendo peraltro precipuo rilievo la prova per presunzioni, per cui dalla
complessiva valutazione di precisi elementi dedotti (caratteristiche, durata, gravità
ecc.) - il cui artificioso isolamento si risolverebbe in una lacuna del procedimento
logico - si possa coerentemente risalire dal fatto noto al fatto ignoto, ossia
all’esistenza del danno, facendo ricorso a quelle nozioni generali derivanti
dall’esperienza, delle quali ci si serve nel ragionamento presuntivo e nella
valutazione delle prove”. Unica condizione è quella di evitare duplicazioni, attraverso
l’attribuzione di distinti risarcimenti per pregiudizi identici.
47. Ora, nella specie, il ricorrente ha ampiamente allegato le conseguenze negative
che l’emarginazione e il licenziamento hanno provocato sulla sua personalità (v. pag.
138, 166 ss. del ricorso), mettendo in evidenza lo svilimento dell’immagine e della
dignità della sua persona, anche agli occhi degli altri dipendenti Atac e in
considerazione del ruolo strategico sino ad allora rivestito.
48. Quanto alla prova del danno, sono almeno due gli elementi che, unitariamente
considerati, fanno presumere una mortificazione della personalità morale del
Maranzano.
49. Anzitutto, va rilevato che il ricorrente è entrato in azienda come operaio
specializzato e, dopo essersi laureato da studente lavoratore, vi ha fatto una
brillante carriera, arrivando ad occupare un posto dirigenziale, a rivestire la delicata
carica di direttore di esercizio per molti anni e a ricevere encomi per il lavoro svolto
(v. doc. da 1 a 47 del fascicolo di parte ricorrente). Ciò è significativo della dedizione
al lavoro e della fedeltà all’azienda, e dunque sintomatico dell’importanza da lui
attribuita alla sfera lavorativa nella sua vita.
50. In secondo luogo, il pregiudizio biologico ha investito la sfera psichica, e in
misura non irrisoria, sicché è verosimile ritenere – come del resto attestato dal CTU
– che ciò abbia avuto riflessi sulla sfera esistenziale.
51. La quantificazione del danno.
52. Nella quantificazione del danno, per il danno biologico sono state applicate le
tabelle adottate dal Tribunale di Roma relative all'anno 2013, facendosi riferimento
al valore del punto di invalidità al 20 % per una persona di 54 anni (il ricorrente è
nato nel luglio 1957 e il danno si è cronicizzato nel 2011), ottenendo l'importo di €
42.786,46.
53. Il danno esistenziale è stato poi calcolato in percentuale sul danno biologico e
tale percentuale è stata equitativamente fissata al 20 %, in considerazione del fatto
che il disturbo depressivo è di grado moderato e che il periodo di
demansionamento/vessazione non è stato particolarmente lungo (circa un anno). A
titolo di danno esistenziale, spetta pertanto al ricorrente la somma di € 8.557,29.
54. L’aliunde percipiendum.
55. In ordine al danno biologico, tuttavia, è fondato il rilievo dell’Atac secondo cui
tale voce sarebbe potuta essere coperta dall’Inail attraverso il sistema indennitario
previsto dalla disciplina sulle assicurazioni sul lavoro, con conseguente esonero del
datore di lavoro. Il danno si è infatti indubbiamente verificato nell’ambito
dell’attività lavorativa ed è noto che, a seguito del d. lgs. 38/2000, la copertura
assicurativa dell’Inail si estende anche al danno biologico. Il ricorrente avrebbe
dunque ben potuto pretendere dall’Inail l’indennizzo, che si configura in capo al
lavoratore come aliunde percipiendum, sicuramente deducibile dalla somma sopra
liquidata. Ora, se si tiene conto che il sistema delineato dal d. lgs. 38/2000 prevede
l’erogazione dell’indennizzo in capitale fino al 16 % di invalidità e in rendita oltre tale
percentuale, facendo applicazione dei parametri contenuti nelle tabelle allegate allo
stesso d. lgs. 38/2000 si ha che il ricorrente avrebbe potuto percepire la somma di €
15.106,36 in capitale e una rendita annuale di € 1.446,07 dal 2011 a oggi, per
complessivi € 17.998,51. Dal pagamento di tale somma deve essere pertanto
esonerato il datore di lavoro.
56. L’esonero non è tuttavia integrale, come preteso dalla resistente.
57. Il tribunale ritiene infatti che, anche nel nuovo sistema, il danno differenziale
continui a essere concepibile. La giurisprudenza formatasi in materia di danno
differenziale, prima dell'entrata in vigore del 13 d.leg. n. 38 del 2000, partiva dal
presupposto che la limitazione fosse strettamente collegata alle componenti di
danno coperte dall'assicurazione obbligatoria, non in assoluto, ma secondo
l'evoluzione propria di quella normativa, secondo cioè l'individuazione dei danni
indennizzabili che nel corso degli anni la disciplina dell'assicurazione obbligatoria ha
compiuto. Ancora di recente, la Cassazione ne ha tratto la conclusione (Cass. civ.,
sez. lav., 05-05-2010, n. 10834) che “per le fattispecie sottratte, ratione temporis,
all’applicazione dell’art. 13 d.leg. n. 38 del 2000 la suddetta limitazione riguarda solo
il danno patrimoniale collegato alla riduzione della capacità lavorativa generica, e
non si applica al danno non patrimoniale (ivi compreso quello alla salute o biologico)
e morale per i quali continua a trovare applicazione la disciplina antecedente al
d.leg. n. 38 del 2000 che escludeva la copertura assicurativa obbligatoria”. Da ciò
pertanto consegue che il danno differenziale non è altro che il danno, in concreto
accertato, non coperto da assicurazione obbligatoria. Per i fatti verificatisi dopo
l'entrata in vigore del d. leg. 38/2000 ciò comporterà certo la irrisarcibilità del danno
biologico effettivamente indennizzato o indennizzabile, ma la piena risarcibilità del
danno biologico eccedente l'indennizzo (cosiddetto danno differenziale
quantitativo) e di tutti gli altri diversi danni che il giudice avrà accertato secondo le
regole della responsabilità civile e i criteri di liquidazione che gli sono propri
(cosiddetto danno differenziale qualitativo o complementare). Il principio della
integrale riparazione del danno subito può infatti formare oggetto solo di deroghe
esplicite e ragionevoli, che nella specie non sono ravvisabili né nella normativa
sull'indennizzo né altrove.
58. Nella specie, ne consegue che il datore di lavoro non è esonerato dal
risarcimento né del danno esistenziale (che è certamente fuori dalla copertura Inail)
né della differenza tra il danno biologico accertato e liquidato nel presente giudizio e
quello indennizzabile dall’Inail. Dalla somma di € 42.786,46 (calcolata secondo i
criteri di cui al § 52) va pertanto dedotta la somma indennizzabile dall’Inail, calcolata
in € 17.998,51. A titolo di danno biologico, il ricorrente ha pertanto diritto a vedersi
corrispondere dall’Atac spa la somma di € 24.787,95, che, sommata a € 8.557,29
dovuta per il danno esistenziale, dà la somma totale di € 33.345,24 a titolo di danno
non patrimoniale.
59. Le differenze retributive.
60. Per le differenze retributive rivendicate, non è stata invece raggiunta la prova
integrale della loro spettanza in capo al ricorrente. La prova sussiste limitatamente
alla somma di € 14.175,81, che la resistente nella memoria difensiva ha riconosciuto
dovuta al ricorrente a titolo di ferie maturate e non godute. Anche tale somma deve
essere rivalutata al 30 giugno 2013, con il risultato di una spettanza a tale titolo di €
17.046,10.
61. Il credito complessivo del ricorrente.
62. Il credito del ricorrente verso Atac spa, rivalutato al 30 giugno 2013, ammonta
dunque a € 501.980,95 ed è costituito dalle seguenti voci: € 17.046,10, a titolo di
differenze retributive; € 33.345,24, a titolo di danno non patrimoniale; € 451.589,61,
a titolo di indennità risarcitoria da licenziamento.
63. La domanda riconvenzionale e la compensazione.
64. Nella memoria di costituzione, la resistente ha tempestivamente chiesto, nella
denegata ipotesi di accoglimento della domanda di reintegra e in via
riconvenzionale, la restituzione delle somme versate al ricorrente al momento della
cessazione del rapporto a titolo di TFR e indennità di preavviso, con eventuale
compensazione di tale controcredito con i crediti riconosciuti al ricorrente. Il
ricorrente non ha contestato di aver ricevuto tali somme.
65. La domanda è fondata, poiché il TFR e l’indennità di preavviso trovano
giustificazione solo nell’ipotesi di cessazione del rapporto lavorativo, cosicché, in
caso di ripristino del rapporto di lavoro con decorrenza dalla data del licenziamento,
tali pagamenti diventano automaticamente indebiti. Il ricorrente è pertanto tenuto
alla restituzione delle somme in suo favore versate, che, rivalutate alla stessa data
del 30 giugno 2013, ammontano a complessivi € 326.303,97. Al tempo stesso,
peraltro, le somme dovute a titolo di TFR, e che il lavoratore è tenuto oggi a
restituire, devono essere accantonate dal datore di lavoro.
66. Così accertata l’esistenza del controcredito, si tratta di stabilire se esso sia
opponibile in compensazione per intero ovvero entro i limiti di cui all’art. 1246 c.c..
Viene al riguardo in evidenza la discussa questione se i crediti nascenti da un unico
rapporto di lavoro siano soggetti a compensazione, e a quali condizioni. Il Tribunale
aderisce all’orientamento di legittimità che, nell’ammettere la compensazione tra i
crediti delle parti del rapporto di lavoro che in esso trovino origine, parla di
compensazione in senso atecnico solo quando tra i due crediti vi sia un nesso di
corrispettività.
67. Si veda al riguardo Cass. 11 marzo 2005, n. 5349 (seguita da Cass. 11 gennaio
2006, n. 260, Cass. 9 maggio 2006, n. 10629): “L'art. 1246 c.c. prevede che la
compensazione si verifica qualunque sia il titolo dell'uno o dell'altro debito; tale
disposizione nel suo testuale tenore, sancisce che, ai fini della compensazione, non è
necessaria l'identità o l'affinità dei titoli dei reciproci rapporti obbligatori,
affermando così la regola della compensabilità delle obbligazioni, ancorché derivanti
da fonti distinte, senza che, però, si sia perciò solo, autorizzati a desumere
l'esclusione della compensazione di obbligazioni scaturenti da un unico contratto o
da una unica fonte negoziale o da un unico evento. Una tale esclusione non si ricava
neppure dalle altre norme codicistiche che disciplinano l'istituto, e non a caso l'art.
1241 c.c. si limita a stabilire che "quando due persone sono obbligate l'una verso
l'altra, i due debiti si estinguono per le quantità corrispondenti", facendo riferimento
ai "due debiti", cioè alle due obbligazioni, senza alcun cenno all'unicità o pluralità dei
rapporti nei quali le obbligazioni hanno causa (v. in tal senso S.U. n. 775 del 1999 e,
da ultimo, Cass. sez l. n. 8924 del 2004). Peraltro, la tesi secondo cui in caso di
rapporto unico, anche se complesso, la valutazione delle rispettive pretese si
ridurrebbe ad un accertamento contabile delle poste di dare e avere è condivisibile
solo quando le obbligazioni derivanti da un unico negozio siano tra loro legate da un
vincolo di corrispettività che ne escluda l'autonomia, perché in tali ipotesi la non
compensabilità deriva dal fatto che l'elisione delle reciproche obbligazioni verrebbe
ad incidere sull'efficacia del negozio, ponendosi così la compensazione in contrasto
con la funzione del contratto. Quando, invece, le obbligazioni, ancorché nascenti dal
medesimo negozio, non siano in rapporto di sinallagmaticità, avendo carattere
autonomo, non v'è ragione alcuna per escludere la fattispecie dall'area della
compensazione in senso tecnico e dall'applicazione della relativa disciplina (v. ancora
S.U. n. 775 cit.). Deve pertanto concludersi che, ai fini della configurabilità della
compensazione in senso tecnico, sia irrilevante la pluralità o meno dei rapporti posti
a base delle reciproche obbligazioni essendo invece necessario solo che le suddette
obbligazioni quale che sia il rapporto (o i rapporti) da cui esse prendono origine,
siano "autonome" (nel senso di non legate da nesso di sinallagmaticità), posto che,
in ogni altro caso, non vi sarebbe motivo alcuno per escludere l'applicabilità della
disciplina prevista dall'art. 1246 c.c, che tiene conto anche delle caratteristiche dei
crediti (ad esempio, in relazione alla totale o parziale impignorabilità dei medesimi)
proprio per evitare, tra l'altro, che l'operatività della compensazione si risolva in una
perdita di tutela per alcuni creditori. Peraltro, escludere che, in alcuni casi, possa
operare l'istituto della compensazione disciplinato dal codice, non può essere un
modo indiretto per poi ammettere una sorta di "compensazione di fatto", oltre i
limiti previsti dalla disciplina codicistica e in ipotesi in cui tale disciplina non
ammetterebbe la compensazione. Le cd. "compensazioni atecniche", pertanto, in
mancanza di espressa previsione testuale, non possono essere estese oltre le ipotesi
in cui una compensazione non sia logicamente configurabile (obbligazioni in
sinallagma), dovendo, in ogni altro caso, ritenersi applicabile l'istituto della
compensazione previsto dal codice, con i limiti e le garanzie della relativa disciplina”.
68. Ne consegue che, quando il controcredito del datore di lavoro, nasce sì
nell’ambito del medesimo rapporto lavorativo, ma trova la sua fonte immediata non
nel contratto di lavoro, ma in un fatto autonomo addebitabile al lavoratore, esso è
suscettibile di compensazione in senso tecnico, ma nei limiti fissati dall’art. 1246 c.c..
69. Nella specie, la compensazione può integralmente operare per il credito
risarcitorio – pari a € 33.345,24 – che non ha funzione di sostentamento e non è
dunque riconducibile alla nozione di cui all’art. 545 c.p.c. Può invece operare solo
nella misura di 1/5 per i due crediti del Maranzano aventi natura retributiva e per
questo solo parzialmente compensabili (in quanto ex art. 1246 c.c. e 545 c.p.c. solo
parzialmente pignorabili), vale a dire per le somme dovute da Atac spa a titolo di
differenze retributive e di indennità risarcitoria da licenziamento, pari
complessivamente a € 468.635,70 (€ 17.046,10 + 451.589,60); per tali crediti la
compensazione può dunque operare per € 93.727,14.
70. Nel complesso, la compensazione può dunque operare per complessivi €
127.072,38.
71. In conclusione, Atac spa va condannata al pagamento in favore del ricorrente
della somma di € 363.567,92, così calcolata previa deduzione dal credito
complessivamente accertato della somma da portare in compensazione e della
somma già versata in corso di causa di € 11.340,65, a seguito dell’ordinanza ex art.
423 c.p.c. emessa all’esito dell’udienza del 19 dicembre 2012, oltre interessi e
rivalutazione monetaria dal 1° luglio 2013 al soddisfo.
72. La parziale reciproca soccombenza giustifica la compensazione delle spese
processuali nella misura del 20 %. Va tuttavia considerato che la resistente, dopo
aver tergiversato a lungo, ha rifiutato le proposte transattive formulate dal tribunale
alle udienze del 12 luglio 2012 e del 14 novembre 2012, proposte entrambe di
importo complessivamente inferiore alla somma poi riconosciuta al ricorrente
all’esito del presente giudizio. Tale contegno processuale giustifica, ex art. 420 c.p.c.,
la maggiorazione delle spese non compensate nella misura del 50 %. Applicando lo
scaglione da € 100.001 a € 500.000 di cui al DM 140/2012, si stima pertanto equo
liquidare le spese in € 11.250, per poi ridurle del 20 % e maggiorarle del 50 %,
giungendo alla somma finale di € 13.500,00, oltre contributo unificato, spese di CTU,
IVA e CPA come per legge.
73. La complessità della motivazione ha indotto a indicare in sessanta giorni il
termine per il deposito.
P.Q.M.
così definitivamente pronunciando sulla domanda proposta da Gennaro Antonio
Maranzano nei confronti di Atac spa, in persona del legale rappresentante p.t., con
ricorso depositato il 9 dicembre 2011, nella causa iscritta al n. 44938/2011 R.G.A.C.:
a) accoglie la domanda principale e, per l’effetto, dichiara la nullità del
licenziamento intimato da Atac spa nei confronti di Gennaro Antonio Maranzano in
data 2 marzo 2011;
b) ordina a Atac spa di reintegrare Gennaro Antonio Maranzano nel posto di lavoro,
con mansioni di dirigente;
c) dichiara Atac spa tenuta al risarcimento del danno in favore di Gennaro Antonio
Maranzano, nella misura pari all’ultima retribuzione di fatto, pari a € 15.357,14
mensili, dalla data del licenziamento all’effettiva reintegrazione, oltre rivalutazione
monetaria e interessi legali sulla somma via via rivalutata dalle singole scadenze al
soddisfo, nonché al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali per lo
stesso periodo;
d) dichiara Atac spa tenuta al pagamento in favore di Gennaro Antonio Maranzano
della somma di € 17.046,10, rivalutata fino alla data del 30 giugno 2013, a titolo di
differenze retributive per ferie;
e) dichiara Atac spa tenuta al pagamento in favore di Gennaro Antonio Maranzano
della somma di € 33.345,24, rivalutata fino alla data del 30 giugno 2013, a titolo di
risarcimento del danno non patrimoniale;
f) accoglie la domanda riconvenzionale e dichiara Gennaro Antonio Maranzano
tenuto al pagamento in favore di Atac spa della somma di € 326.303,97, rivalutata
fino alla data del 30 giugno 2013, a titolo di restituzione di somme non dovute;
g) dichiara parzialmente compensati nella misura indicata in motivazione i rispettivi
crediti e per l’effetto:
a. condanna Atac spa al pagamento in favore di Gennaro Antonio Maranzano della
somma non compensata di € 363.567,92, così calcolata previa deduzione della
somma già versata di € 11.340,65, oltre interessi e rivalutazione monetaria sulla
somma di cui al capo c), dal 1° luglio 2013 all’effettiva reintegrazione;
b. condanna Gennaro Antonio Maranzano al pagamento in favore di Atac spa della
somma di € 199.231,59, oltre interessi legali dal 1° luglio 2013 al soddisfo;
h) condanna Atac spa all’accantonamento delle quote di TFR dovute a Gennaro
Antonio Maranzano dalla data del licenziamento;
i) rigetta ogni altra domanda;
j) compensa le spese nella misura del 20 % e condanna Atac spa al pagamento in
favore di Gennaro Antonio Maranzano delle spese non compensate, liquidandole in
complessivi euro 13.500,00, oltre contributo unificato, spese di CTU, IVA e CPA come
per legge.
Motivi in sessanta giorni.
Roma, 18 luglio 2013
Il Giudice
Giovanni Armone
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