Achille Colucci POPPER A CONFRONTO Una lezione di umana civiltà ARMANDO EDITORE SOMMARIO Introduzione 9 I. Elementi epistemologici e realtà umana 1. Il contributo prodromico del mondo parmenideo e presocratico 2. Il senso della narrazione hegeliana 3. Il paradosso severiniano 4. Teoria dei “tre mondi”, linguaggio umano, valore della libertà 5. L’incidenza kantiana 13 II. Attualità e valore della lezione popperiana 1. L’“arbitrium liberum” come principio e come fine 2. Scienza e valori: oltre l’evoluzionismo deterministico e il tecnologismo mercatistico 3. Società aperta e civiltà democratica 4. La deriva adultistica 5. L’identità aperta 73 73 82 91 101 109 Ringraziamenti 121 Indice dei nomi 123 13 25 36 43 60 In memoria del caro amico Salvatore Rapisarda INTRODUZIONE «Vera dignità risiede solo in chi nell’ora silenziosa della più intima riflessione può ancora dubitare, eppure rispettar se stesso in umiltà di cuore». W. WORDSWORTH La meditata convinzione di imprimere, allo svolgersi della tela speculativa, una marcatura decisamente antropocentrica, assegna, seguendo la direzione indicata da Karl Raimund Popper, migliore fondatezza ad ogni tentativo di ragionevole ricerca. È, infatti, in questo spazio di identità che prende corpo l’edificio popperiano, nel quale vengono accolte e confutate, con particolare cura, le teorie plurime del moderno liberalismo, nella prospettiva di un più convincente ampliamento di un orizzonte gnoseologico il più possibile orientato a sollevare l’instabile condizione esistenziale da non poche distorsioni di ordine teorico e anche pratico. Non a caso, da Die beiden Grundprobleme der Erkenntnistheorie, prodotto nel 1934, a Open Society and Ics Enemien, fino al saggio Una patente per fare TV, riportato in Cattiva maestra televisione (Marsilio, 2002), il problema della dignità umana e della sua libertà costituisce il nucleo di tutto il pensiero del filosofo, la cui tenuta è costantemente e coerentemente sostenuta dall’evidente forte raccordo che lega l’incipit della sua proposta epistemologica, falsificazionista, con l’explicit della conseguente concezione etica e politicosociale. Prendendo l’abbrivio da un’attenta interpretazione dell’antica filosofia greca, chiaramente articolata intorno ai tentativi e alle reali possibilità dell’umano di disvelare le ragioni di verità compiuta dell’essere 9 del mondo e dell’esser-ci nel mondo, Popper si fa convinto sostenitore di un razionalismo critico consapevole del senso del limite dell’uomo e della fallibilità che ne deriva. La razionalità, avverte l’epistemologo viennese, non ha il potere di definire esaustivamente e di giustificare l’essere in sé per il semplice fatto che la mente umana non pare disponga di un criterio necessario di verità in virtù del quale possa precisare con estrema assolutezza ciò che è affatto certo in analogia a ciò che appare: «È soltanto l’idea di verità che ci consente di parlare sensatamente di errori… e rende possibile la discussione razionale, cioè la discussione critica nella ricerca degli errori, con la seria intenzione di eliminarne quanti più possiamo, al fine di avvicinarci alla verità»1. Ciò, evidentemente, presuppone prima di tutto la inequivocabile e decisiva uscita dal fascinoso tempio di “coalescenza arcaica” della grecità antica, ove veniva sacralizzata la fusione tra l’idéa e l’idein, ovvero tra l’immagine e il vedere, e, perciò, tra pensiero ed esistenza, tra pensare ed essere2. Come del resto, accade al bambino, che, nella fase pre-concettuale, annota Piaget, non è in grado, a causa della sua visione unilaterale, di dissociare il termine dall’oggetto concreto che direttamente esperisce. In questo particolare periodo, infatti, il bambino non riesce a distinguere l’idea dalla cosa che fisicamente vede e tocca3. Nel senso che «le parole servono semplicemente ad indicare gli oggetti e sono dei suoni senza significato fino a che il bambino non ha avuto un contatto più ricco con gli oggetti stessi e non li ha esplorati con le mani e con gli occhi»4. Il concetto che il bambino ha di fiore non assume i caratteri categoriali del genere di attinenza ma coincide esattamente con quel fiore particolare, ad esempio una margherita, che proprio allora concretamente scopre, e conosce attraverso lo sviluppo di personali strutture che riverberano l’immagine che egli inizia a costruire della realtà: «il bambino costruisce ciò che il mondo è per lui… Il concetto che un bambino ha di un albero deriva dal suo rapporto con gli alberi… Un bambino allevato dove ci sono soltanto 1 K. POPPER, Conjectures and Refutation, trad. it. Congetture e Confutazioni, il Mulino, Bologna 1972, p. 393. 2 G. CALOGERO, Storia della logica antica, vol. I, L’età arcaica, Laterza, Bari 1967. 3 J. PIAGET, Lo sviluppo mentale del bambino, Einaudi, Torino 1967. 4 S. ISAACS, Dalla nascita ai sei anni, trad. it. di C. Ranchetti, a cura di A. Marzi, Giunti-Barbera, Firenze 1952, p. 69. 10 dei pini, può avere in un primo momento un concetto di alberi simile alla concezione che un adulto ha dei pini»5. Aspetto, questo, per altro verso comparabile all’idea “oscura” di Leibniz, non sufficiente “a riconoscere la cosa e distinguerla”6. La suddetta maglia concettuale, evidentemente, nel mentre rimanda a quanto innanzi richiamato a proposito del pensiero greco arcaico, contestualmente si raffigura, tenuto conto della fondatezza della “idea di verità” avanzata da Popper, come costante spinta verso un sempre più ardito ampliamento congetturale nel grande spazio della ricerca, segnatamente contemporanea, che, a mio parere, soprattutto con riferimento al pensiero del filosofo viennese, di là pure dalle considerevoli presupposizioni parmenidee e poi socratiche, nonché da incompiute attestazioni di principio del tempo post-scolastico e, poi, rinascimentale, è fondamentalmente in debito con la tessitura speculativa kantiana. Che più e meglio è riuscita a chiarire perché e come andrebbero assunte, umanamente, opportune distanze dal mondo platonico, che per molti aspetti riaffiora nell’idealismo hegeliano, e da quella concezione topica della filosofia aristotelica che, debordando in un complicato dualismo logico, e metafisico, pretendeva di assegnare all’attività del pensiero la capacità di pervenire alla conoscenza assoluta e necessaria. Riscontrato che la cifra di verità di cui può disporre la ragione umana, principalmente sul mero piano logico, rimane parecchio lontano dagli ermetici funambolismi della dialettica hegeliana, come pure da ogni altra forma di assolutizzazione, Popper è dell’avviso che nessun modello di sviluppo potrebbe risultare comprensibile facendo ricorso a una qualsiasi “forza misteriosa” esterna all’intelletto, per il semplice fatto che ogni genere di conoscenza si rivela solitamente falsificabile e che ogni tentativo di falsificazione è segnato dal manifestarsi di antinomie prodotte dallo stesso discorso critico. La qual cosa convalida almeno due assunzioni, a livello teorico e soprattutto sul piano pratico, e cioè che il pensiero umano è meramente perfettibile e che, giustamente, «le contraddizioni non esistono nella realtà, ma solo nel no5 B.J. WADSWORTH, La psicopedagogia nel pensiero di Jean Piaget, La Scuola, Brescia 1985, pp. 42-44. 6 G.W. LEIBNIZ, Nuovi saggi sull’intelletto umano, Laterza, Bari 1988, p. 241. 11 stro pensiero, e che dobbiamo liberarci da esse se vogliamo procedere scientificamente»7. Senza ricadere, seguendo il percorso epistemologico popperiano, nell’atavica persistente certezza di poter conoscere stabilmente l’essere del mondo, evitando, così, come già per le “narrazioni” di un travisato tipo di illuminismo delirante, di trasformare la scienza in un nuovo totem della necessità e dell’assolutezza, e mantenendo, perciò, la disposizione a superare, pro bono pacis, la “irresistibile” attitudine gnoseologica “a porre e a dare risposte di tipo cosmogonico” a vantaggio di una più umana procedura, di tipo cosmologico, riguardante, piuttosto, la “struttura dell’universo e il materiale di cui esso è fatto”8. E, conseguentemente, a beneficio di una prospettiva perennemente allargata alla possibilità di un mondo migliore, nel quale ogni sbocco epistemologico riesca, mediante l’identità – comune al genere umano – aperta, a diserrare di continuo, di là da ogni differenza complementare, sentieri sempre più larghi di conoscenza razionale e di convivenza responsabile. Di umana saggezza. 7 P. BERALDI, Karl R. Popper. Mito della certezza e ragionevolezza umana, Laterza, Bari 2008, p. 38. 8 D. ANTISERI, Karl R. Popper interprete dei filosofi greci, in «Working Paper», n. 40, a cura del Centro di Metodologia delle Scienze Sociali, Luiss, Roma 1997, p. 5. 12 I ELEMENTI EPISTEMOLOGICI E REALTÀ UMANA «Anche se le leggi della matematica si riferiscono alla realtà, non possiedono una veridicità assoluta, e se l’avessero, allora non si riferirebbero alla realtà». A. EINSTEIN 1. Il contributo prodromico del mondo parmenideo e presocratico Considerato che l’arché dell’intero percorso popperiano è de facto segnato dalla volontà di mettere in luce il potere di praticabilità e, insieme, la centralità del libero pensiero, l’universo presocratico, da Talete in poi, rappresenta la migliore anticipazione di quella esigenza di riflessione critica necessaria ad affrancare la razionalità da ogni specie di condizionamento e a chiarire la natura congetturale del suo indirizzo esegetico. È, infatti, in questo cielo che va ricercato, secondo Popper, l’oriente del lògos, da cui inizia a dispiegarsi l’autonomia dell’intelletto e delle sue potenzialità interpretative riguardo alle rappresentazioni sensibili come pure nei confronti dell’imagismo mistico-religioso. E, nello specifico, egli assegna particolarmente a Parmenide il grande merito di aver, per primo, contribuito a individuare chiaramente le possibilità e i limiti della ragione umana. Ciò posto, va, comunque, ad ogni buon conto, preliminarmente precisato che l’effetto prodotto dal sopra descritto quadro ermeneutico deriva, per Popper, da una chiara strategia procedurale che, nell’affermare la netta demarcazione tra la incontrovertibile identità dell’idea dell’essere con la purezza del lògos 13 e la opinabilità di tutto ciò che nello spazio umano concettualmente implica la dissolvenza di tale incontrovertibilità, ha delineato il contesto nel quale, sempre secondo l’epistemologo viennese, è maturata quella “tradizione della discussione critica”1 nel cui solco è radicato il nostro pensiero filosofico e scientifico. Con la scuola ionica di Mileto, in un periodo di maggiore stabilità politica, iniziò a prendere corpo un bisogno di generica concretezza, ma fu, in particolare, con Anassimandro che la ragione cominciò ad aprirsi un varco di autonoma indagine cosmologica di là dalle succitate antiche subordinazioni. L’ápeiron rappresentò, infatti, per Anassimandro, quell’indefinito primordiale che, mentre permise di uscire dalla cattura nei ciechi anfratti teogonici e cosmogonici, aiutò quanti cercarono, con spirito critico, di evitare la reclusione del lògos in forme inopportune di assolutismo ideologico. Il lògos né coincide con la simbolizzazione mitica né può interamente esaurirsi nella rappresentazione sensibile; né è assolutamente mýtos né è unicamente phýsis: è pensiero puramente umano, necessariamente orientato a ridefinire incessantemente principi e senso del proprio destino. Talché la più genuina origine della tradizione scientifica e, assieme, culturale dell’Occidente va ascritta a quanti, a cominciare da Anassimandro, hanno iniziato a liberare il pensiero, operando una prima razionalizzazione rispetto alle antecedenti sistemazioni speculative azoiche. «Senza dubbio – evidenzia Popper – le teorie di Anassimandro sono state critiche e speculative piuttosto che empiriche: e, considerate come approccio alla verità, le sue speculazioni critiche ed astratte si sono rivelate più efficaci dell’esperienza osservativa o dell’analogia… Anassimandro ha creato le premesse per le teorie di Aristarco, Copernico, Keplero e Galileo»2. E se, in seguito, molte teorie si sono rivelate false, ciò non significa, aggiunge l’epistemologo viennese, che non abbiano contribuito allo sviluppo del pensiero filosofico e scientifico, fino alla corrente stagione concettuale. Come, del resto, è accaduto per «molte altre teorie basate su innumerevoli esperimenti, accettate dalla scienza moderna fino a poco tempo fa, e la cui scientificità non sarebbe comunque negata da 1 K.R. POPPER, Ritorno ai presocratici, in Il Mondo di Parmenide, ed. it. a cura di F. Minazzi, Piemme, Casale Monferrato 1998, p. 45. 2 Ivi, pp. 34-35. 14 nessuno, anche se ora sono ritenute false… Ci sono stati alcuni storici della scienza che hanno tentato di considerare come non-scientifica (o addirittura come superstiziosa) ogni conoscenza del passato non più accettata nell’epoca in cui scrivevano; ma questo è un atteggiamento insostenibile… molte false teorie sono state più utili per la ricerca della verità di altre, meno interessanti, ma ancora accettate. Le false teorie possono infatti fornire molteplici vantaggi; per esempio suggerendo alcune modifiche più o meno radicali, e stimolando la critica»3. Più chiaramente, in altra circostanza, lo stesso epistemologico spiega: «Il mondo non viene assimilato; viene fatto. Ciò non significa che io affermi che la teoria di Newton sia falsa e quella di Einstein vera, ciò significa solo che in questo esempio vediamo molto chiaramente come nella scienza, anche nella migliore e più sicura scienza, abbiamo sempre a che fare con un sapere ipotetico. Non con un sapere certo, ma con un sapere congetturale… la scienza non è l’assimilazione di dati sensibili che entrano in noi attraverso gli occhi, le orecchie e così via, e che noi poi in qualche modo mescoliamo, connettiamo mediante associazioni e quindi trasformiamo in teorie. La scienza consta di teorie che sono opera nostra. Noi facciamo teorie, noi affrontiamo il mondo con teorie, indaghiamo il mondo attivamente… Nella scienza possiamo tendere alla verità, e lo facciamo. La verità è il valore fondamentale. Quel che non possiamo raggiungere è la certezza»4. Risistemando il mondo dei presocratici in questa cornice ermeneutica, si comprende meglio il perché dell’attenzione che Popper riserva al “cosmologo” Parmenide, sul cui pensiero sono, a suo parere, incardinate tutte le concezioni filosofiche ed epistemologiche del nostro tempo. Fondamentalmente in relazione al valore che, sulla base delle trattazioni eleatiche, andranno ad assumere, sul piano logico e a livello gnoseologico, i concetti di parola e visione, verità e opinione, realtà e parvenza. D’altra parte, rimanendo l’essere parmenideo l’in-sé pensato nella sua totale immobile eternità, di là dai limiti fenomenici entro i quali spazio e tempo contengono l’apparente visione del divenire, Popper ritiene che il «il problema generale del mutamento è di natura 3 Ivi, pp. 35-36. K.R. POPPER, Scienza e Ipotesi, in K.R. POPPER, K. LORENZ, Il futuro è aperto, Rusconi, Milano 1996, pp. 74-75. 4 15 filosofica; tuttavia nelle argomentazioni di Parmenide e Zenone si trasforma quasi in un problema logico»5. In effetti, il fondo fertile della fioritura eleatica è, secondo Popper, rintracciabile solo a seguito di un’accurata rivisitazione di ciascuna delle due parti del “poema” del filosofo greco. Da cui affiora, tra l’altro, una virtuale e pure suggestiva luce metodologica. «Per comprendere la concezione parmenidea del mondo – sostiene l’epistemologo viennese – non è sufficiente considerare unicamente la prima parte del poema: il mondo dell’illusione, nella seconda parte, è indispensabile per la comprensione della prima parte. Pertanto la concezione che unicamente la prima parte del poema costituisca la teoria di Parmenide è erronea». «Nella sua grande scoperta Parmenide utilizzò ciò che ho chiamato lo stile tradizionale; ossia spiegò il mondo delle apparenze ipotizzando un mondo reale dietro di esso, il che ha costituito il metodo della scienza dei grandi pensatori ionici fino ai giorni nostri. Avanzo la tesi che la relazione tra la prima e la seconda parte del suo poema costituisce un’inversione dello “stile tradizionale”. In altre parole, Parmenide utilizzò lo “stile tradizionale” quando compì le sue grandi scoperte, ma poi lo invertì quando decise che il mondo delle apparenze era irreale, falso e nulla più che un’illusione o un incubo-un sogno cui non si deve dar credito»6. E comunque «la funzione della seconda parte del poema di Parmenide sarebbe quella di rafforzare l’impatto della prima parte. Tuttavia penso che essa riveli un’inquietudine, una mancanza di certezza: Parmenide avvertiva la necessità di spiegare il nostro mondo di errori e di illusioni, anche se solo per combatterlo e trascenderlo; sentiva e ammetteva la necessità di garantire il suo lettore contro le false presunzioni di conoscenza. Chiaramente… sentiva la necessità di sostenere la sua posizione attraverso quello che potremmo forse qualificare come un “attacco difensivo”… una “apologia parmenidea”… Il che, penso, costituisce un sintomo di debolezza. L’ammissione implicita che un’apologia è necessaria costituisce un riconoscimento, non voluto e probabilmente inconscio, che vi può essere più di quanto scorga l’occhio in quel mondo di illusione… Parmenide fu meno dogmatico e, almeno inconsapevolmente, più auto-critico di quanto in 5 6 16 K.R. POPPER, Il mondo di Parmenide, cit., p. 37. Ivi, p. 133. genere si possa essere inclini ad ammettere… egli fu, nonostante il suo approccio fondamentalmente dogmatico, non molto lontano dall’essere un “razionalista critico” come si potrebbe pensare»7. In effetti, alla base del mondo parmenideo, come già di gran parte dei presocratici, in particolare di Senofane, fondatore della scuola eleatica e maestro di Parmenide, rimane il convinto e fermo tentativo di liberare il pensiero, e dalle rappresentazioni sensibili che, poiché apparenti, non sono e, pertanto, possono fornire solo opinioni assumibili mediante un processo di verosomiglianza, e da tutte quelle fantasticherie mitologiche dimoranti nel cielo della grecità antica. Lo sforzo, antico e contemporaneo, in cui si snoda il destino umano rimane, comunque, ancorato alla tragicità della volontà di conoscenza, che implica il libero e indomito tentativo del pensiero di disvelare il proprio fondamento ontologico. Il merito maggiore di Popper sta nella sua risposta ermeneutica, da cui, peraltro, partono anche le sue argomentazioni socio-politiche e per di più critico-sociali. In essa egli ha chiaramente evidenziato la ragione di procedere preliminarmente alla ferma negazione di ogni racconto inclusivo e totalizzante e, di contro, ha mostrato un percorribile sentiero metodologico “aperto” e, perciò, di più ampio significato antropologico. Nel ricordare che «il criterio di falsificabilità è l’unico principio che consente di distinguere le proposizioni scientifiche, cioè quelle di cui è possibile indicare fatti tali da falsificare, da quelle puramente mitiche, o dogmatiche, che, inevitabilmente riconducono nei loro schemi ogni fatto specifico che possa invalidarle»8, Popper pone un preciso problema, e insieme una soluzione, riguardo a un paradigmatico valore della scienza e, più ancora, a una più matura e imprescindibile umanizzazione del sapere. Ragione per la quale il suo pensiero «costituisce un’eccellente base di partenza per chi sia interessato a comprendere e favorire la ricerca scientifica»9. Dal momento che “la verità è un ideale regolativo di cui non possiamo 7 16. 8 Ivi, pp. 205-207. P. BERALDI, K.R. Popper. Mito della certezza e ragionevolezza umana, cit., p. 9 M. PERA, Popper e la scienza su palafitte, Laterza, Bari 1982, p. VII. 17 mai dire che è realizzato in pratica”10. Sicché, di là da ogni rigurgito esclusivista, incrociando semmai le tracce teoretiche di quanti, come già Socrate e, poi, Duns Scoto e più ancora Guglielmo di Ockham, avevano inteso considerare su differenti livelli dimensione teologica e misura della scienza (e, conseguentemente, non ritenere più, in ogni caso, la verità umana come adaequatio intellectus et rei), Popper pone a fondamento del suo edificio speculativo una chiara «distinzione, o demarcazione, tra i sistemi empirici, o scientifici, e i sistemi metafisici»11. E, con più deciso realismo, egli accoglie e sostiene l’umano desiderio di verità entro l’orizzonte del possibile e del perfettibile, riposizionando l’uomo e il suo destino di verità inevitabilmente entro la più plausibile perimetria della verosimiglianza, tanto aderente al realismo critico del “senso comune” e a ogni teoria critica della scienza, che nella materialità storica «ha lo stesso carattere oggettivo e lo stesso valore ideale, o regolativo, dell’idea di verità oggettiva, o assoluta»12. Talché alquanto sofisticata e poco convincente appare la confutazione di Marcello Pera circa le presunte “difficoltà” e il conseguente fallimento del “concetto di verosimilitudine”, su cui poggiano le assunzioni gnoseologiche ed epistemologiche del filosofo viennese13. Il quale, radicato ermeneuta della frequente volontà di assalto cui l’uomo sottopone la propria lungimiranza intellettiva, rimette in campo l’antico aforisma sull’“homo mensura” per chiarire che «dobbiamo considerare la conoscenza umana come nostra misura nell’ambito della conoscenza»14. Posizione, questa, in parte, sotto alcuni aspetti, assimilabile a quanto asserito da Guido Calogero e, in larga misura, al pensiero contemporaneo, specialmente riguardo alla possibilità di conoscere la verità oggettiva, della cui natura, proprio perché apparente e limitata, non dovremmo avere l’assillante “motivo di preoccuparci” al di là delle nostre potenzialità15. E, pertanto, considerato che la gnoseologia, intesa come disvelamento necessario della natura della realtà ontologicamente considerata, non potrà avere 10 Ivi, p. 223. P. BERALDI, K.R. Popper. Mito della certezza e ragionevolezza umana, cit., p. 12. 12 Ivi, p. 43. 13 M. PERA, Popper e la scienza su palafitte, cit., pp. 223-232. 14 K.R. POPPER, Il mondo di Parmenide, cit., p. 220. 15 G. CALOGERO, Lezioni di Filosofia, vol. I, Logica, Einaudi, Torino 1960, p. 243. 11 18 un senso compiuto, la “filosofia del conoscere” può acquistare valore entro i confini possibili alla ricerca umana allorché, come sostiene ancora Calogero, si fa “filosofia della pratica”, assumendo, così, una funzione etica, ossia un ruolo di orientamento verosimile, a rispetto della comune dignità16. L’attenzione che Popper riserva al “razionalista” Parmenide muove propriamente dalla transitorietà della “verosimiglianza”: «Se assumiamo – egli sostiene – che il termine eoikota di Parmenide… sia utilizzato per la prima volta nel senso di “verosimile” da Senofane… una delle ragioni per elaborare la Via della Verità è la superiore verosimiglianza della sua cosmologia»17. Il che sta a significare che nel momento stesso in cui finanche nel mondo eleatico vengono affermate e poste in aperta relazione due “vie” di accesso alla verità, quella della “conoscenza”, propria degli dei, e quella della “opinione o congettura”, praticabile dagli uomini, non è più razionalmente accettabile qualunque teorizzazione dogmatica. Se pure la filosofia parmenidea non può fare a meno di constatare che la «“verità certa” o la “certezza vera” (Senofane DK B 34:1 óaφές; Parmenide DK 28 B1:30: πίσuζ àληθήζ) è al di là delle nostre possibilità… tutta [la nostra conoscenza umana] è solo una ragnatela di congetture, di supposizioni»18. Tutto il resto avvierebbe, secondo Popper, verso un paradossale riduzionismo del pensiero eleatico, d’altronde presente in ogni versione oltranzista della riflessione filosofica e scientifica anche contemporanea. E, nella fattispecie, qualsivoglia approccio assolutistico, anche se Parmenide in definitiva mostrava maggiore apertura verso una soluzione stabilmente chiusa e incontrovertibile nella sua finitezza, certamente non potrebbe essere razionalmente assunto, per il semplice motivo che questa chiave rappresentativa della realtà non gioverebbe ad una autentica testimonianza di umana saggezza. D’altronde, aggiunge Popper, è emblematico l’atteggiamento di Senofane, il quale «invece di tentare di fare della sua scoperta un dogma universale, riconosce la sua scoperta come una congettura; come un’ipotesi. Come tutta la conoscenza pu16 Per un adeguato approfondimento del pensiero di G. Calogero: P. BERALDI, Guido Calogero. Dignità dell’uomo e ragione della democrazia, Laterza, Bari 2009. 17 K.R. POPPER, Il mondo di Parmenide, cit., p. 199. 18 Ivi, pp. 146-147. 19 ramente umana non è nulla più che “una ragnatela di congetture”. Né può essere qualcosa di più, giacché l’uomo è fallibile»19. Gli è che tutto l’interesse popperiano è concentrato sull’uomo umano e sulle sue possibilità, per cui ogni sforzo ermeneutico è, insieme, un convinto e coerente invito a leggere la storia del pensiero con le lenti di un sempre più maturo senso di ragionevolezza, evitando ogni potenziale opportunità di irrimediabile irrisione della legittima rispettabilità concettuale. Alimentati da tutte le filosofie finite dell’antichità e dell’età moderna, dal razionalismo cartesiano come pure dal modello idealistico e dalle esaltazioni tipiche dell’ultimo esasperato illuminismo scientista, i sistemi “chiusi” non solo vengono ininterrottamente invalidati dalla costante risistematicità del sapere scientifico ma, vieppiù, nascondono vergognose “trappole” per la dignità umana, peraltro angosciante motivo della condizione di disorientamento e di annichilimento che governa l’attuale momento epocale. La sconcertante volontà di estraniazione e di abbandono nelle annebbiate fumisterie dell’oblio rappresenta una sorta di irrazionale delirante tragico miscelato tentativo di auto-affermazione e, insieme, di auto-negazione nei confronti di quelle che Lyotard, con esplicito riferimento alla parabola post-moderna, chiama “grandi narrazioni”20. Con maggiore senso di umiltà e di avvertita ragionevolezza, il compito che Popper si propone è, invece, quello di ricondurre il nostro evento esistenziale entro il proprio spazio di conoscenza e di finalità, allo scopo di scongiurare ogni spropositata e disumanizzante fuga nelle chiusure ideologiche di un rinnovato modello dell’antico conservatorismo o, al contrario, dell’assurdo anarchismo. In quest’ottica va letto il suo interesse per la filosofia presocratica, antecedente ai successivi postulati di assolutezza e di necessità indotti dalle teorizzazioni platoniche e anche aristoteliche, e, d’altra parte, coevo degli enunciati assiomatici dell’atomismo materialistico. Nel senso che tanti “precursori di Platone e di Aristotele”, ad eccezione dei sofisti, possono dirsi “razionalisti” a motivo del fatto che essi «cercano di spiegare i fenomeni del mondo postulando un mondo nascosto, un mondo di realtà 19 20 20 Ivi, p. 126. Cfr. J.F. LYOTARD, La condizione postmoderna, Feltrinelli, Milano 1980. nascoste, dietro il mondo fenomenico»21 che prescinde dalla sicumera dimostrativa, già dominante in Democrito come pure in Aristotele e in tutta la filosofia classica, della cosiddetta “spiegazione ultima”. Sicché, essere “razionalista” significa, per l’epistemologo viennese, avere piena consapevolezza della cifra progressiva di criticità e di sapere possibili all’intelletto umano e, conseguentemente, dimostrare di saper responsabilmente avanzare in questo spazio di transitoria ragionevolezza. In ogni caso, ciò che più conta è fare in modo che la ragione possa, in ogni passaggio della storia del pensiero, controllare e contenere eventi e fatti non di più che in un campo di umana saggezza il più ampio possibile, considerato che se, per assurdo, tale circostanza avesse potuto realizzarsi pienamente, «l’idea di una spiegazione ultima… sarebbe stata scartata dopo la pubblicazione della prima edizione di Principia di Newton nel 1687, o perlomeno dopo l’accettazione più o meno generale della teoria di Newton – diciamo, cinquant’anni dopo»22. Dal che emerge che la sostanzialità del criterio di falsificazione è costantemente sostenuta dalla umana volontà di perenne potenziamento del campo intellettivo, prodotta dall’incessante ricerca di ampliamento della conoscenza. Di contro, dimentichi sempre della nostra condizione, peraltro già considerata persino dall’amicale cautela prometeica che benignamente privò l’umano pensiero della conoscenza del futuro e con ciò di qualsiasi prospettiva di assolutezza, ricadiamo costantemente nel paranoico paradosso dell’arbitrario e malefico esercizio dimostrativo di dominio del sapere finito, fingendo la possibilità di conoscenza di “hypotheses”, ovvero di spiegazioni ultime di ermetiche “cause occulte” al di là dell’apparire fenomenico, di cui l’ennesimo epigono è senz’altro ascrivibile a quella sorta di delirio di onnipotenza emerso dal già detto radicale scientismo pseudo-illuministico, che ha consegnato alla scienza, ultima divinità, la presunzione di definire stabilmente il mondo e ogni verità sul nostro esserci nel mondo. Tanto che non poche teorie scientiste moderne e, soprattutto, contemporanee non esitano a spaziare da una tessitura positivistica a una proiezione 21 K.R. POPPER, J.C. ECCLES, L’Io e il suo cervello, vol. I, Armando, Roma 1986, p. 209. 22 Ivi, p. 229. 21 assolutamente spiritualistica. Bruce H. Lipton, biologo cellulare statunitense contemporaneo, contrario alla pretesa asserzione assiomatica che, nell’attestare la centralità della biologia molecolare riguardo alla morfologia genetica, afferma il primato del DNA, non esita ad accantonare ogni traccia democritea a favore di una soluzione “socratica”, nella quale egli crede di rintracciare, con assoluta certezza, l’essenza intima e vera di una energia invisibile che forgia la natura. Il che, più o meno leibnizianamente, rimanderebbe alla dimostrazione certa della realtà di un mondo invisibile, perfetto, di là dal mondo fisico, imperfetto, da cui emergerebbe la nostra identità, costituita, nelle intenzioni di Lipton, da cellule prodotte dalla suddetta Energia spirituale in un grande contesto chiamato umanità. Sicché l’unica entità che effettivamente governerebbe le molteplici particelle sarebbe ravvisabile in quella che il biologo statunitense chiama “campo” (di Energia), la cui consapevolezza renderebbe la mente conscia di essere più forte dei geni. Evidentemente, secondo la tesi di Lipton, la medicina ufficiale non riesce ancora a tenere conto del “campo” e, conseguentemente, non si premura di porre in essere un puntuale percorso formativo orientato ad un graduale affinamento di un corretto utilizzo della volontà, ovvero di quel potere spirituale che più definisce l’identità umana e che, perciò, gioverebbe a una più appropriata e superiore condizione esistenziale. La nuova e grande sfida che avrebbe davanti a sé l’umanità futura sarebbe quella di riconoscere il vero senso del nostro esserci nel ritrovamento della giusta realtà, per ricomporre la nostra identità autentica. In quest’ottica, il biologo statunitense ritiene opportuno considerare l’oggettività dell’Universo quantico. «La realtà di un Universo quantico – egli sostiene – riunisce ciò che Descartes aveva separato»23. Ed è, pertanto, propedeutica e necessaria per «aggregarci in comunità di persone con lo stesso orientamento di pensiero»24. Ciò, al fine di evitare di precipitare in un progressivo processo di autodistruzione, determinato dalla incapacità di vivere appieno la nostra vita, in quanto identità e cellula non sono, chiarisce Lipton in una sua conferenza sul tema in parola, la 23 B.H. LIPTON, La Biologia delle credenze. Come il pensiero influenza il DNA e ogni cellula, Macro Edizioni, Cesena (FC) 2006, p. 143. 24 Ivi, p. 238. 22 stessa cosa, dal momento che ogni persona è espressione di una frequenza di luce bianca che si rifrange su cellule individuali, le quali, munite di propri differenti “ricettori”, assorbono un segnale in modo diversificato, dando, così, origine alla unicità di ogni essere umano. In ogni cellula entra, dunque, una diversa “colorazione” che proviene dall’esterno e, comunque, dalla stessa luce bianca. L’identità di ciascun essere umano è, allora, la luce ovvero lo Spirito, che è parte del tutto che entra in noi dall’esterno, e se il corpo muore ritorna all’esterno restando immortale nella identità. Ogni uomo è, nella architettura liptoniana, una parte di tutto ciò che è, della luce bianca, dello Spirito. Dal che desume che la mente è formata da una “supercoscienza”, generata mediante i ricettori, e da una “sub-coscienza”, derivante da esperienze e da ogni altro aspetto della corporeità, il cui compito, ineluttabile, è dato dalla necessità di partecipazione individuale alla stupefacente vitalità della comune luce energetica. Sempre che sia consentito a ciascuno di raggiungere, un po’ come per la “biga” platonica, il possesso dell’autoconsapevolezza, attraverso un accorto percorso formativo centrato sul primato della “super-coscienza” e sulle smisurate possibilità che ne derivano, compreso la forza di provocare il benessere psico-fisico, per il semplice motivo che la vita che abbiamo viene dallo Spirito, elemento, appunto, vitale, costitutivo del “Campo”. A supporto di questo suo fondamentismo, Lipton richiama un articolo, The mental Univers, di Richard C. Henry, docente di filosofia della Johns Hopkins University, a sostegno dell’immaterialità dell’Universo, nelle cui conclusioni viene asserito: «L’Universo è immateriale, è mentale e spirituale. Vivete e gioite (The Univers is immaterial – mental and spiritual. Live, and enjoy)». Asserzione, quest’ultima, che Lipton utilizza per dichiarare che la scienza ci consegna un messaggio positivo, in virtù del quale abbiamo la possibilità di creare il mondo che desideriamo, perché se e quando riusciremo a essere consapevoli di tanto, riusciremo a rinvenire il Paradiso in questo mondo. A mio parere, è del tutto evidente che l’ipostatizzazione fornita da Lipton è sostanzialmente una mistura dalla quale riverberano echi platonico-hegeliano-panteistico-acosmistici, peraltro non chiaramente definiti, che sfociano in una mitizzazione della scienza così definita, 23 fino a impregnare la natura di essenzialità solitamente ascritte a Dio. È, in definitiva, quella di Lipton, una sorta di teoresi, sotto certi aspetti eclettica e in ogni caso dogmatica, di una mescola chiaramente scientista, che mette in opera una inusitata vendemmia di natura e spirito con cui fondere e poi annullare la prima nel secondo; come pure una imperscrutabile liquefazione di un oscuro indeterminismo fisico in un serrato determinismo metafisico, meglio dello Spirito. Dimodoché, lungo i noti sentieri dello scientismo, viene via via sostituito il dogma della biologia molecolare con il dogma della energia spirituale, effetto determinante di un “campo” stabile meramente teorico. Che rimane assolutamente estraneo al concetto di campo fisico che Einstein intese utilizzare allo scopo di spiegare, entro i caratteri aperti della relatività, il senso della scoperta newtoniana, ovvero perché non sarebbe stato possibile «pervenire a una teoria razionale della gravitazione se non estendendo il principio di relatività»25. Trattavasi, per Einstein, di un elemento cardinale della sua rivoluzione scientifica, che ha senza dubbio aperto nuovi orizzonti nell’immenso scenario della fisica contemporanea. Non già di un assunto metafisico travestito con gli abiti della scientificità razionale, da cui, peraltro, è altresì ben distinta la Religiosità cosmica einsteiniana, che investe gli invalicabili spazi del mistero: «in questo senso, e soltanto in questo senso, io sono – sostiene il grande scienziato – fra gli uomini più profondamente religiosi» e comunque «non posso figurarmi un individuo che sopravviva alla sua morte corporale… Mi basta sentire il mistero dell’eternità della vita, avere la coscienza e l’intuizione di ciò che è, lottare attivamente per afferrare una particella, anche piccolissima dell’intelligenza che si manifesta nella natura»26. Senza la velleità di pervenire razionalmente a una dimostrazione assolutamente certa e inclusiva. Perché all’uomo non è dato che la lotta, che è tensione perenne per ciò che egli sente e non sa dire. 25 A. EINSTEIN, Come io vedo il mondo, Newton Compton, Roma 1981, p. 112. pp. 22-23. 26 Ivi, 24