La lettura di Bolognini del 1997 si lascia alle spalle i grandi interpreti
da Musco a Turi Ferro, da Paolo Stoppa a Salvo Randone, Eduardo
ecc., che si sono cimentati nel ruolo di Ciampa, protagonista de "Il
berretto a sonagli" di Pirandello, per proporre il sottotesto farsesco
di una commedia all'italiana in cui Sebastiano Lo Monaco si rivela a
suo agio tra commedia dell'arte e pirandellismo .
di Enrico Bernard
Sicilia Teatro presenta
IL BERRETTO A SONAGLI
di LUIGI PIRANDELLO
con SEBASTIANO LO MONACO
MARINA BIONDI
Clelia Piscitello, Claudio Mazzenga
e con Franca Maresa, Rosario Petix, Elena Aimone
con la partecipazione di Isa Bellini
scene Helena Calvarese
costumi Cristina da Rold
musiche Giovanni Zappalorto
luci Giuseppe Di Stefano
regia MAURO BOLOGNINI
ripresa da Sebastiano Lo Monaco
In scena in questi giorni all'Eliseo ci sono due spettacoli che si
alternano e che hanno in Sebastiano Lo Monaco, protagonista di
entrambi i lavori, l'elemento in comune. Si tratta del monologo "Per
non morire di mafia" tratto dal libro del procuratore nazionale Piero
Grasso (che ho recensito qualche giorno fa) e de "Il berretto a
sonagli", una delle prime opere teatrali di Pirandello (quella che lo
convincerà a dedicarsi alla drammaturgia), nella fortunata edizione
del 1997 di Mauro Bolognini. Le cose non accadono mai per caso e
merita una riflessione il fatto, ma è una semplice constatazione, che
Pirandello, il procuratore Grasso e lo stesso Lo Monaco siano siciliani
e rappresentino, in questa loro sinergia teatrale, questioni legate alla
cultura e alla storia della loro terra.
Naturalmente il monologo tratto dal libro di Piero Grasso
tratta l'argomento della mafia nella sua scottante attualità e non ha,
per lo meno ad una prima lettura, nulla da spartire col testo
pirandelliano del 1917. Invito tuttavia il lettore ad andare a rileggere
la mia recensione, laddove alludevo al tema della mafia più o meno
ignorato (in teatro, non in letteratura) dal drammaturgo siciliano. E
notavo che soprattutto nel "Berretto a sonagli" (ma anche in "Liolà")
vi è una rappresentazione della struttura sociale che potrei definire
<protomafiosa>. Gli elementi base per questa interpretazione ci sono
tutti: il latifondista Cavalier Fiorica (che non compare) è una sorta di
feudatario che dispone degli altri a suo piacimento, - moglie del suo
<servo> o <portaborse> che dir si voglia Ciampa inclusa. Ciampa è
complice della tresca? La questione non è del tutto chiara, ma non
importa: salvate le apparenze, il <rispetto> del paese, si può
continuare ad interpretare il proprio <Pupo>, purché nessuno venga
a tagliare i fili facendolo afflosciare come un cappello gettato a terra.
Da Fifì, fratello della Signora Beatrice, la moglie del Cavaliere,
veniamo anche a sapere che
il delegato (oggi diremmo il
commissario) Spanò è al servizio e nei favori della famiglia: è infatti
lui, come ci spiega nel secondo tempo, a depistare le indagini con un
verbale che viene ridicolizzato dallo stesso Ciampa. Il quale da
ingenuo cornuto non vuole passare anche per fesso. Insomma, la
struttura sociale e familiare, intorno cui ruota la commedia
pirandelliana, ci fa sospettare che nel comportamento della signora
Beatrice, che denuncia il marito e cerca di farlo sorprendere in
flagrante reato di adulterio, ci sia un germe di rivolta. L'espediente
drammaturgico per farla scattare è certamente la gelosia, ma non mi
pare che essa basti a sostenerla in un'azione così socialmente
devastante come quella di far arrestare il marito per un reato
all'epoca piuttosto grave. Naturalmente non importerebbe un fico
secco al Cavaliere l'accusa di aver cornificato la moglie con la
coniuge del <servo> Ciampa (che ripete molte volte l'appellativo il
"Padrone", mentre potrebbe dire "il signor Cavaliere", questo per
sottolineare il suo ruolo di sottomissione e non di semplice
dipendenza). Su tutta la storia il paese ci farebbe comunque una bella
risata magnificando le doti maschili del potente signorotto e calando
in testa a Ciampa il "berretto a sonagli" del becco. E poi magari
commiserando la signora Beatrice col fatto che tanto una donna non
porta corna perché il maschio è cacciatore!
La questione invece si complica per via dell'arresto che
avviene, come si giustifica il delegato Spanò, perché ci si mette di
buzzo buono a compiere l'affronto delle manette un altro funzionario,
uno guarda caso venuto dal Continente, cioé uno che fa rispettare la
legge senza guardare in faccia a nessuno, all'oscuro dei rapporti di
potere sul "territorio". Naturalmente Spanò mesterà nel manico,
inquinerà prove e indagini, riuscendo a far scagionare il Cavaliere
("verrà liberato stasera stessa" si affretta a precisare l'omino della
Questura con un'aria mafiosetta). Ma tant'è, la frittata, anche se
aggiustata con la ricetta sicula di Cosa Nostra, è fatta: il Cavaliere ha
dovuto subire l'onta del carcere, per giunta sputtanato dalla propria
moglie; Ciampa ormai è diventato "becco" ufficiale, e sulla Giustizia, il
famigerato verbale che Ciampa irride, meglio stendere un velo
pietoso.
Mi sono soffermato su questi passaggi ben noti del testo
pirandelliano, non tanto per raccontare la trama straconosciuta della
commedia, ma per evidenziarne in particolare due argomenti. Il
primo, evidente, è quello della struttura sociale abbozzata da
Pirandello: per quanto protomafiosa (siamo nel 1917 e l'intreccio tra
latifondismo e mafia verrà alla ribalta come tema nazionale solo con
la missione antimafia del prefetto Cesare Mori alla metà degli anni
Venti), la società rurale, qui delineata da Pirandello, è uno stadio di
passaggio dal teatro verista siciliano (ricordo il testo "I mafiuosi di la
Vicaria" del 1863 di Rizzotto e Mosca) ad un più recente testo di un
altro autore siciliano, Leonardo Sciascia ("L'onorevole" del 1965).
Ora, l'accostamento storico della piéce di Sciascia al testo di
Pirandello ci permette di analizzare un secondo e più sotterraneo filo
conduttore nei testi dei due autori siciliani: il tema della ribellione
femminile di Beatrice, nell'opera di Pirandello, e di Donna Assunta
nel lavoro di Sciascia.
Naturalmente l'accostamento Beatrice-Assunta potrebbe
occupare un intero saggio. Ma non è un caso che l'Assunta di Sciascia
porti il nome della madre della Beatrice pirandelliana: si tratta di una
citazione voluta e forse dovuta. Infatti, pur brevemente, va
sottolineato come con questi due personaggi femminili ribelli
(entrambe faranno o minacciano di far arrestare i mariti in odore di
mafia) il tema della rivolta al <sistema> trovi una soluzione
paradossale, quella della pazzia. Sappiamo che il tema della pazzia è
costante nell'opera di Pirandello (ed anche nella vità, poiché ne
soffriva la moglie) sia come concezione erasmiana dell'elogio della
follia (il matto può dire la verità in faccia agli altri); sia perché la
verità di un pazzo, per quanto vera, non può essere presa
<veramente> sul serio. Così Ciampa opportunisticamente rovescia la
sua teoria della <corda matta> che, da elemento di pericolosità
sociale e di rivolta, diventa lo strumento con cui la società immorale,
corrotta e mafiosa, narcotizza la denuncia del ribelle bollandolo
come un atto di <semplice> follia. Infatti, Beatrice - è la proposta di
Ciampa cui aderiscono immediatamente anche i parenti stretti della
signora - dovrà fingersi "matta", farsi ricoverare in manicomio,
affinché le cose, dopo l'atto di ribellione, tornino al loro posto: un
matto può togliersi lo sfizio di dire la verità, purché poi venga
ufficializzata la sua follia. Per la serie: tutti i matti dicono il vero, ma
nessuna verità può essere creduta ad un pazzo.
Questa che definirei la <recita della follia> con cui il matto dice
il vero, ma il vero non può essere vero perché è detto da un matto (l'
"Enrico IV" di Pirandello sarà incentratro proprio su questo leit
motiv) non è certamente cosa nuova nel teatro, basti pensare ad
Amleto o al "Principe Zerbino" del romantico tedesco Ludwig Tieck,
al quale Pirandello molto si ispira. Ma è nuovo usare la pazzia, non
tanto come atto di rivolta, bensì al contrario come atto di
omologazione con cui il pazzo che dice cose scomode viene in
qualche modo "accomodato" o "fatto accomodare" in manicomio,
affinché la sua follia (dire la verità) non sia più vera.
Leonardo Sciascia riprende ne "L'onorevole" questo
escamotage drammaturgico, che potremmo definire la <soluzione
Ciampa>, cioé la follia della signora Beatrice, quando il cardinale
Barbarino, venuto a conoscenza che la signora Assunta intende
denunciare il marito come esponente di una cosca politico-mafiosa,
ripropone il tema della <recita della follia>:
BARBARINO: No, lei non è pazza... mi fa piacere che riconosca di
avere bisogno di un po' di riposo, di un po' di isolamento... ma pazza,
via, non è il caso di parlare di pazzia... lei ha avuto una specie di
trauma [...]
C'è dunque un filo conduttore tra i due spettacoli in scena
all'Eliseo, quello sul libro del procuratore antimafia Piero Grasso, e la
commedia di Pirandello: la rappresentazione di una struttura sociale
che contiene al suo interno i germi del fenomeno della Mafia. Un
fenomeno che abbiamo visto appena abbozzato nel "Berretto a
sonagli", ma che torna inequivocabilmente nel dramma di Sciascia,
tanto che la soluzione finale (Ciampa e il Cardinal Barbarino sono in
perfetta sintonia) è il ricovero in manicomio per chi dice la verità
(sulla mafia).
L'allestimento del 1997 di Mauro Bolognini del "Berretto a
sonagli" non tiene conto di tutto questo e, come nelle corde del
regista scomparso nel 2001, alleggerisce la messa in scena
preferendo evidenziarne più gli aspetti comico-farseschi che quelli
filosofici. Dando per scontata la penetrazione del <pirandellismo>
nella cultura teatrale del pubblico, lo spettacolo vira decisamente
sulla farsa e cerca di far ridere sfruttando anche espedienti e gags da
commedia dell'arte. Del resto, deve essere stata la riflessione del
regista, la commedia dell'arte non fu del tutto estranea a Pirandello,
basti pensare a "Questa sera si recita a soggetto" che prende spunto
proprio da un espediente caro ai comici dell'improvviso. Così, nel
primo tempo, tra Ciampa e Don Fifì sembra di assistere agli scambi
verbali di Totò e Peppino o Ciccio e Franco (col rispetto parlando per
questi grandi interpreti) che fanno a non capirsi e a non sentirsi.
Pirandello se ne resta in disparte e osserva, non so se divertito o
inviperito. Fatto sta che il pubblico, al calare della prima tela, è
piuttosto moscio, mentre si surriscalda nel secondo atto quando
finalmente Pirandello diventa Pirandello, la farsa scema (nel senso
che si diluisce), Lo Monaco fa Ciampa a tutto tondo (pur se
bravissimo anche nel comico, il suo Ciampa del primo tempo è
piuttosto macchiettistico) e la Beatrice di Monica Biondi, sempre in
parte, può appoggiarsi su una struttura drammatica più solida.
Naturalmente la lettura di Bolognini, - ripresa e forse
accentuata dallo stesso Sebastiano Lo Monaco a distanza di oltre
dieci anni dal debutto - non pecca di scarsa originalità e di poco
coraggio ed è volutamente dissacrante: si lascia alle spalle i grandi
interpreti <seri> della tradizione pirandelliana che si sono cimentati
col "Berretto" (da Musco a Randone da Stoppa a Eduardo) per
reinventarselo alla luce della "commedia all'italiana" di cui è stato
indiscusso maestro. Sforzando (e un po' misticando) la teoria
dell'Umorismo di Pirandello, - che non aveva in mente propriamente
la farsa, bensì il "distacco critico dell'Autore nei confronti del
dramma", - Bolognini traduce Pirandello in un linguaggio più
fruibile e accettabile dal pubblico meno "difficile", che va a teatro come dice un altro personaggio pirandelliano, il direttore del teatro
Hinkfuss - solo per divertirsi. E segnalo un'intervista reperibile su
Youtube in cui Bolognini parla del suo modo di "servire" Pirandello
ad un tipo di spettatori meno sofisticato. Insomma, per tutto il primo
tempo, il <servo> Ciampa assomiglia più al goldoniano servitore di
due padroni che al segretario del Cavalier Fiorica!
Naturalmente e fortunatamente c'è un tempo per ridere ed uno
per pensare. Così il Ciampa-Lo Monaco cambia registro per un finale
in crescendo drammatico. Tuttavia, il passaggio dal genere farsesco a
quello dell'apologo filosofico (e sociopolitico, come dicevo) proprio
del testo di Pirandello, risulta alquanto brusco, neppure segnalato
tra i due atti da alcun cambio luci che restano praticamente fisse (il
disegno luci è di Giuseppe Di Stefano) o modifica scenografica
(tranne il tavolino del giardino che trova inspiegabilmente altra
collocazione). Le musiche (di Giovanni Zappalorto) non danno
riferimenti precisi: prima alludevano a temi del cinema caro a
Bolognini, la commedia all'italiana (del resto si parla di corna).
Mentre alla ripresa dello spettacolo, dopo la pausa, accennano per
alcuni istanti alla più surreale aria de "La strada" di Fellini. La scena
puntigliosamente realistica e monolite (di Helena Calvarese) che
rappresenta il portico della villa che dà sul giardino, con tanto di
aranceto, è internamente irrorata da una luce rossa inquietante che
fa tanto - inspiegabilmente - espressionismo tedesco.
E mi domando: vuoi vedere che sta proprio in questa
commistione di generi e citazioni il segreto di uno spettacolo che ha
raggiunto oltre 2000 repliche e fatto ottenere a Lo Monaco un Premio
Olimpico come miglior attore protagonista nel 2005? Premio
d'altronde strameritato da un Lo Monaco bravissimo in entrambe le
letture, quella farsesca e più discutibile del primo tempo e quella
drammaticamente eccellente del secondo, del protagonista Ciampa.
Tuttavia da cronista devo segnalare che la scolaresca che mi sta
accanto in sala ridacchia e parlotta, poco concentrata sulla
rappresentazione per tutto il primo tempo, mentre invece si fa
silenzio assoluto in sala nel secondo tempo, meno sfarfallante, in cui
Ciampa diventa finalmente un personaggio pirandelliano e conquista
lo spettatore. Bisogna forse concludere che dal 1997 il pubblico
teatrale è nuovamente cambiato e va oggi a teatro per sfuggire alla
farsa e allo spettacolo leggero, magari di genere televisivo, non per
ritrovarcelo?
Nel cast spicca Franca Maresa nel ruolo della vecchia Fana che
porta un'aria popolare e genuina nella vicenda e accorcia le distanze
tra la farsa e la realtà. Ma bravi e drammaticamente comici nei ruoli
(questi sì disegnati un po' macchiettisticamente da Pirandello per
contrastare il dramma di Ciampa) sono Claudio Mazenga (Fifì), Rosario
Petix (il Delegato Spanò), Isa Bellini (la madre di Beatrice) e Elena
Aimone (la Saracena).