UDA COLONIZZAZIONE = tecnologie ESPANSIONE dovuta a

annuncio pubblicitario
UDA
COLONIZZAZIONE
=
ESPANSIONE
strutture organizzative
TERRITORIALE
con
SCAMBI
BIOLOGICI-CULTURALI
a livello planetario
di uomini, piante, animali, agenti patogeni
tecnologie
dovuta a
SFRUTTAMENTO
piantagioni
migrazioni coatte
schiavitù
Obiettivo Formativo
Conoscere che gli scambi biologici-culturali oltre ad arricchire la bio-diversità possono portare alla
violazione dei diritti umani( migrazione coatta/schiavitù…) per costruire scambi rispettosi della dignità di
tutti.
F
Obiettivo
Discip
line
coinvo
lte
Descrizione delle
attività
Italian
o
1 Analizzare il
colonialismo
colombiano
attraverso lo
studio degli
scambi
culturali e
biologici
2 Presentare il
fenomeno del
colonialismo
del XIX e del
XX secolo
0 Rilevare
l’ostacolo
epistemologi
Repertori
o ORM
Organizz
azione/
Operazio
ni
Raggrup
pamenti
Disposizione della classe in
una situazione di circle
time ed effettuazione della
conversazione clinica.
Euristico
partecipati
vo e
dialogico.
Lavoro
con il
gruppo
classe.
Registratore
audio,
computer
per
trascrizione
conversazion
e clinica.
Storia/
geogra
fia/scie
nze
Analisi di testi.
Relazione di conoscenze
apprese.
Costruzione di mappe
riassuntive e di sintesi.
Ricerca
attraverso
la CL.
Discussion
e
orientata.
Attività di
sintesi
Lavoro
per piccoli
gruppi
Testi, filmati.
Storia
Analisi di una cartina
storica attestante il
fenomeno del
colonialismo/imperialismo
del XIX secolo
Analisi di
cartina
storica;
strategia
carta e
Lavoro
con il
gruppo
classe;
lavoro
Cartina
geografia
( All. A)
co mediante
la
conversazione
clinica.
Media
racconti.
individual
e
3 Analizzare
alcune delle
motivazioni
dell’imperiali
smo europeo
e i suoi
aspetti critici.
Italian
o/
filosofi
a
Presentazione di alcune
motivazione alla base della
legittimazione
dell’imperialismo/colonialis
mo nel XIX secolo.
Ricerca e
lettura
guidata di
testo
storico
Lavoro
con il
gruppo
classe
Testo
( All A)
4 Presentare il
caso del
colonialismo
Inglese
Inglese
Lettura della posizione di
Benjamin Disraeli.
Presentazione del
colonialismo inglese
Analisi e
lettura di
testi
storiografi
ci e storici
Lavoro
con
gruppo
classe;
individual
e
Testo
5 Sperimentare
una forma di
colonizzazione
in classe
Italian
o/
Storia
Attività ludica: “La
conquista dell’Abissinia” o
Risiko of Nations:
Ludico –
partecipati
vo
Lavoro
con
gruppo
classe.
Gioco ( All.
A)
Testo
(http://www.youtube.com/wa
Cartina
tch?v=4uCACNKURfo
6 Analizzare la
colonizzazione
italiana
(politica
estera di
Crispi, Giolitti,
Mussolini)
Storia
Studio della storia coloniale
italiana.
Analisi e
lettura di
testi
storiografi
ci e storici
Lavoro in
piccolo e
grande
gruppo;
individual
e
7 Rielaborare
criticamente
la storia
coloniale
nazionale
Italian
o
Lettura del testo di Ennio
Flaiano “ Tempo di
uccidere”
Lettura
guidata
e/o
narrazione
Lavoro
con
gruppo
classe;
individual
e
8 Generalizzare
la situazione
di
responsabilità
del
colonialismo
occidentale
Italian
o
Attività di metacognizione
e sintesi
Visione del film La
battaglia di Algeri e/o
Queimada film di Gillo
Pontecorvo.
Conversazi
one
Lettura
guidata
e/o
narrazione
Conversazi
one
Scrittura
creativa
Lavoro
individuale; con
gruppo
classe.
Testo
Testo
http://www.
youtube.com
/watch?
v=6sYH0Fge
sxo&feature
=related
9 Cogliere
attraverso un
processo di
spaesamento
le ragioni
dell’altro.
France
se
« Les Damnés de la
terre », 1961, tr. It. “I
dannati della terra”,
Einaudi, 2000
Lettura
guidata
1 Decolonizzare
0 la mente.
Lavoro
individual
e; con
gruppo
classe.
Testo
Italian
o
Drammatizzare attraverso
un role – playing la
situazione dei colonizzatori
e dei colonizzati.
Debriefing
Talk-show
o gioco di
ruolo
Lavoro
con
gruppo
classe
Gioco
1 Cogliere la
1 relazione tra
neocolonismo
e
Globalizzazion
e
Storia/
econo
mia/ge
ografia
Analisi delle caratteristiche
Analisi di
testo
scientifico.
Lavoro
con
gruppo
classe
Testohttp://
www.academ
ia.edu/65390
74/Necolonia
lismo_e_Glo
balizzazione_
lAfrica_subsa
hariana_negl
i_studi_postcoloniali
1 Consolidare le
2 conoscenze
acquisite
Italian
o
Analisi del percorso e meta
cognizione con
l’elaborazione di una
mappa sul concetto di
colonialismo
Metacogni
zione;
Lavoro
individual
e; con
gruppo
classe.
Quaderno
1 Attività di
3 verifica:
Italian
o
Laboratorio di scrittura
creativa in cui gli allievi
costruiscono un testo
argomentativo sul
colonialismo di oggi
Laboratori
o di
scrittura
creativa.
Lavoro
individual
e/ a
piccolo
gruppo
Quaderno
Conversazi
one
elaborazio
ne di una
mappa
Fase 0.Obiettivo: prelevare le pre-conoscenze degli allievi circa il concetto di colonizzazione
Cosa fa l’insegnante
Per introdurre l’argomento chiede agli allievi
di mettersi in circle time, spiega la modalità e
la funzione di svolgimento della
Conversazione Clinica.
Cosa fa l’alunno
Si dispone in circe time e ascolta
Pone una serie di domande stimolo del tipo:
1. Che cosa ti fa venire il termine
Risponde rispettando il proprio turno alle
domande stimolo
“colonizzazione”?
2. Chi è un colonizzatore?
3. Chi sono i colonizzati?
4. Che tipo di scambi ci sono tra colonizzatore
e colonizzato?
5. Come si diventa schiavi?
6. Cosa sono i Diritti Umani?
7. Quando si violano?
8. Quali esempi di violazione conosci?
Raggruppamento alunni: Lavoro gruppo-classe
Metodo: Conversazione clinica, Circle time
Mezzi e strumenti: Risorse umane, registratore, carta e penna
Fase 1 .Obiettivo: Analizzare il colonialismo colombiano attraverso lo studio degli scambi
culturali e biologici
Cosa fa l’insegnante
Cosa fa l’alunno
Presenta alcune carte sul colonialismo Osserva le carte e le completa costruendo la
spagnolo del 1500 e chiede di usare la legenda indicando le località degli
strategia “carta e racconti” per individuare insediamenti delle potenze coloniali spagnola
l’espansione dell’impero coloniale spagnolo e e portoghese nelle Americhe.( All. A)
portoghese del 1500.
Invita a confrontare un’immagine relativa allo
sbarco degli spagnoli nelle nuove terre e un
immagine
successiva
alla
dominazione
spagnola
aprendo
un
dibattito
sulla
trasformazione
delle
relazioni
tra
conquistatori e popolazioni indigene.
Osserva e partecipa al dibattito in cui emerge
la trasformazione delle relazioni tra
conquistatori e popolazioni indigene.(All. B)
Rafforza la riflessione sul “mancato incontro”
e sulla miopia dei conquistatori attraverso la
visione di alcuni you tube relativi alla
questione oggetto di studio. Cult Book – La
Osserva, annota e commenta.
conquista
dell’America
(Tzvetan
Todorov)
https://www.youtube.com/watch?v=foDfqH11XAw
Politica ed etica. La conquista dell`America.
http://www.raiscuola.rai.it/articoli/politica-edetica-la-conquista-dellamerica/4362/default.aspx )
( All. C)
Presenta una carta tematica sui prodotti del
commercio coloniale evidenziando come dalle
Americhe giungessero in Europa:
oro
argento
cotone
tabacco
cacao
canna da zucchero
Divide la classe in tre gruppi e assegna a
ciascun gruppo una tabella relativa agli
scambi tra Vecchio e Nuovo Continente con la
seguente modalità:
al 1 gruppo affida i dati relativi agli animali
domestici;
al 2 gruppo quelli relativi alle piante
domestiche;
al 3 gruppo quelli relativi alle malattie
infettive.
Osserva la carta e commenta. (All. D)
Forma il gruppo e riceve i dati.( All. E)
Chiede a ciascun gruppo di estrapolare i dati
ritenuti più significativi e di elaborare una
carta tematica relativa agli scambi oggetto di
studio.
Elabora la carta tematica; la espone in un
cartellone di classe e la espone ai compagni.
( All. F)
Rafforza le conoscenze apprese con la lettura
di alcuni brani del testo Lo scambio
colombiano di Alfred Crosby di cui consegnale
fotocopie e invita gli allievi alla lettura
integrale del testo. ( All. G)
Ascolta, prende nota,legge, commenta.
Organiz/Metodo: lettura e costruzione di carte; strategia “carte e racconti”;lezione; lettura;
conversazione orientata.
Raggruppamento alunni: lavoro per gruppi; con gruppo classe; individuale.
Mezzi e strumenti: carte; testi; internet
All. A
Mappa storica delle Americhe sotto la Spagna
All. C
Cult Book – La conquista dell’America (Tzvetan Todorov) https://www.youtube.com/watch?
v=foDfqH11XAw
Politica ed etica. La conquista dell`America.http://www.raiscuola.rai.it/articoli/politica-ed-etica-laconquista-dellamerica/4362/default.aspx )
All. D
A. Brusa “ L’officina della storia” pp.144-5 Ed Mondadori Paravia 2007
All. E
Distribuzione pre-colombiana di
organismi nativi con stretti legami
con gli esseri umani
Tipo di
organismo
Animali
domestici
Dal Vecchio Mondo al Nuovo
Mondo
Dal Nuovo Mondo al Vecchio Mondo

ape

alpaca

gatto

cavia

cammello

lama

pollo

tacchino

mucca
Piante
domestiche

capra

oca

ape da miele

cavallo

coniglio domestico

maiale

piccione

pecora

baco da seta

bufalo domestico

mandorla

amaranto (come grano)

mela

avocado

albicocca

fagiolo comune (pinto, lima, kidney, etc.)

carciofo

lampone nero

asparagi

peperone

banana

mirtillo

orzo

anacardio

barbabietola

chia

pepe nero

chicle

cavolo

chirimoya

cantalupo

peperoncino

carota


caffè
mirtillo palustre (specie mirtilli rossi di grandi
dimensioni, o uva ursina)

agrumi (arancia, limone,
etc.)

coca

cacao

cetriolo

cotone (specie fibre lunghe)

melanzana

guiava (comune)

lino

mirtillo

aglio

jicama

canapa

mais

kiwi

manioca (cassava, tapioca, yuca)

noce di cola

papaia

lattuga

arachide

mango

pecan

miglio

ananas

avena

patata

gombo

zucca

oliva

quinoa
Malattie
infettive

cipolla

oppio

pesca

pisello

pera

pistacchio

ravanello

rabarbaro

riso

segale

soia

canna da zucchero

taro

tè

rapa

grano

noce (inglese)

anguria

peste bubbonica

varicella

colera

influenza

lebbra

malaria

morbillo

scarlattina

vaiolo

febbre tifoide

tifo

febbre gialla

Framboesia

gomma

squash

fragola (varietà commerciali)

girasole

patata americana

tabacco

pomodoro

vaniglia

zucchini

sifilide
Fonte http://it.wikipedia.org/wiki/Scambio_colombiano
All. F
All. G
Fase 2 Obiettivo: Presentare il fenomeno del colonialismo del XIX secolo e del XX secolo
Cosa fa l’insegnante
Cosa fa l’alunno
Presenta una cartina dell’imperialismo
Osserva la cartina e ne elabora la legenda
europeo del XIX secolo e invita a elaborare
utilizzando la strategia “carta e racconti”( All.
una legenda sulla base della lettura della
A)
carta attraverso la strategia “carte e racconti”.
Presenta alcune cartine che mostrano le
trasformazioni del colonialismo tra il 1800 e il
Osserva le cartine e risponde alle domande
1945 (http://blog.libero.it/wrnzla/5972428.html)
e pone domande del tipo:
quali sono stati i maggiori stati colonizzatori?
Quali stati hanno preso una maggior dominio
coloniale tra al fine dell’800 e la seconda
metà del 900? Come mai? Perché?
Con l’ausilio della LIM presenta un breve
filmato sul colonialismo
https://www.youtube.com/watch?v=SFQ4jkm3_A
Divide la classe in gruppi di quattro allievi e
invita ad approfondire la questione del
colonialismo attraverso una ricerca su:
libri di testo
internet
scambiando le proprie idee con quelle dei
compagni.
Ascolta e prende nota.
Approfondisce con i compagni la questione del
colonialismo.
Chiede a ciascun gruppo di relazionare.
Relaziona
Organizzazione/Metodo:osservazione di carte; strategia “carte e racconti”; discussione
orientata; visione di youtube;attività di ricerca; attività di esposizione.
Raggruppamento alunni: lavoro con gruppo classe; per piccoli gruppi.
Mezzi e strumenti: carte; Lim; internet; testi; youtube.
All. A
Imperialismo XIX secolo
Leggi la presente carta storica della colonizzazione di fine 800 e narra la situazione delle potenze
colonizzatrici nel XIX secolo.
LEGENDA
Le colonie inglesi comprendevano:
Canada,India (con Pakistan e Bengala), Australia, Nuova Zelanda e buona parte del sud – centro Africa.
L’Impero britannico fu caratterizzato da una gestione più elastica di quella delle altre potenze coloniali,
concedendo ad alcune colonie una relativa autonomia attraverso lo stato di dominion . Con la conquista
dell’Egitto, la Gran Bretagna si assicurò il controllo sul Canale di Suez , uno dei punti strategici più
importanti del mondo.
Le colonie francesi comprendevano:
Algeria, Marocco,Tunisia, Africa occidentale francese; Madagascar;Nuova Caledonia; Polinesia francese;
Indocina francese
Le colonie spagnole comprendevano:
Rio de Oro; Guinea spagnola; Ifni; Indie orientali spagnole; Filippine; isole salomone; isole Caroline;
Marianne e Palau; Guam
Le colonie portoghesi comprendevano:
Angola; Monzambico
La colonie tedesche comprendevano:
Camerun, la Namibia, il Togo e la Tanzan; Papua Nuova Guinea e l’Arcipelago di Bismarck sulla costa nord
della Cina.
Le colonie italiane comprendevano:
Eritrea , Somalia e più tardi la Libia (1911-12)
Le colonie belghe comprendeva:
Congo
Il dominio americano comprendeva:
Hawaii;Nicaragua ( 1912)
Il dominio russo comprendeva:
Siberia, l’Alaska, l’Asia centrale ed il Caucaso.
ALL. B
Mappa del colonialismo nel 1920:
██ Regno Unito
██ Francia
██ Spagna
██ Portogallo
██ Olanda
██ Germania
██ Belgio
██ USSR
██ Giappone
██ Cina
██ Danimarca
██ Norvegia
██ USA
██ Italia
1936
Fase 3 Obiettivo: Analizzare alcune delle motivazioni dell’imperialismo europeo e i suoi
aspetti critici.
Cosa fa l’insegnante
Divide la classe in 3 gruppi ed assegna i seguenti
compiti:
 le cause storiche dell’imperialismo al
gruppo A; ( All. A)
 le motivazione ideologiche alla base
dell’imperialismo del XIX secolo attraverso
l’analisi dell’ode di Kipling “ Cuore di
Cosa fa l’alunno
Forma il gruppo all’interno del quale assume
un preciso ruolo.

tenebra al gruppo B; ( All. B)
la critica al colonialismo attraverso il
romanzo di Joseph Conrad “ Cuore di
tenebra” NC Editori Roma 1992 al gruppo C.
( All. C)
Chiede di relazionare l’oggetto della propria attività
di ricerca e/o studio attraverso la elaborazione ed
illustrazione di un cartellone di sintesi.
Relazione, ascolta , chiede spiegazione e
discute.
Organizzazione/Metodo: attività di ricerca, analisi e lettura; attività espostiva, discussione
orientata; attività di sintesi.
Raggruppamento alunni: lavoro per gruppi; individuale; gruppo classe;
Mezzi e strumenti:testi; internet.
All. A
L’IMPERIALISMO http://www.itclucca.lu.it/areeprogetto/giovani900/pagine_del_web/imperialismo.htm
CONTESTO STORICO
Alla fine del XIX° secolo, Europa e Usa erano progrediti economicamente e socialmente in una misura senza
precedenti; il mutamento dovuto ai progressi nella scienza, nella tecnologia, nella cultura ecc…, fu
sbalorditivo. Mentre gli Stati Uniti erano assorbiti dalle loro vicende interne, in Europa, tra Germania e Gran
Bretagna, nacque una sfida economica che riguardava sia il settore industriale sia quello commerciale. La
sfida mostrò la sua portata alle origini del XX° secolo, quando la Germania superò la Gran Bretagna nella
produzione di ferro E acciaio e nelle esportazioni. Nonostante lo sviluppo economico e tecnologico
conferisse all’Europa una schiacciante superiorità sul resto del mondo, nuove potenze cominciavano ad
affacciarsi sulla scena mondiale (Usa, Giappone…) e ad ambire a posizioni più prestigiose e di potere; ciò
iniziò ad incrinare e ad inasprire i rapporti internazionali tra i vari stati. In questo contesto, che
preannunciava una grande e generale crisi ebbe origine l’imperialismo.Per comprendere il fenomeno,
occorre ricordare che, in seguito alla I Rivoluzione Industriale, il capitalismo industriale si era ormai
pienamente affermato in tutti i principali paesi europei e a partire dalla metà dell’800, periodo in cui si fa
nascere la Seconda Rivoluzione Industriale, esso fu affiancato dal capitalismo finanziario. L’imperialismo è,
quindi, espressione della Rivoluzione Industriale, e dello sviluppo capitalistico.
La Gran Bretagna, nella quale il sistema industriale si era affermato, prima che altrove, era alla testa di tale
processo.
DEFINIZIONE
L’imperialismo è la tendenza degli stati ad estendere il territorio sotto la loro influenza per creare comunità
politiche che conglobano sotto un unico dominio popolazioni e territori originariamente diversi e separati.
L’imperialismo fonda la sua ragion d’essere sull’esistenza di un rapporto di minaccia reciproca tra gli stati, di
una inimicizia tale da rendere in ciascuno di essi irresistibile il desiderio di rafforzarsi e di espandersi a spese
degli altri. Benché il termine sia relativamente recente (poiché entrò in uso alla fine dell’800 per indicare la
politica di espansione dell’Inghilterra Vittoriana), la tendenza imperialista era intrinseca in ogni potere
politico perché ogni stato avrebbe voluto (e vorrebbe espandersi) in misura maggiore o minore in ragione
della propria forza.
IMPERALISMO COME NUOVA FORMA DI COLONIALISMO
L’imperialismo viene anche concepito come l’esasperazione della politica coloniale che gli stati adottarono
fino al 1870 circa; in questa data nacque una nuova ondata colonialistica con motivazioni economiche
nettamente differenti da quelle che avevano sostenuto le precedenti esperienze coloniali. Il nuovo sviluppo
capitalistico aveva modificato i rapporti tra le aree industrializzate e quelle non sviluppate; infatti fino a quel
momento l’espansione coloniale aveva come fondamento il desiderio di scoprire territori da sfruttare
economicamente, ovvero da cui importare materie prime necessarie alle industrie nazionali, e in cui inviare
la popolazione numericamente in esubero per offrirle occasioni di lavoro e di guadagno. Ora l’obiettivo era
quello di conquistare nuovi mercati ove collocare i beni eccedenti rispetto alle possibilità di consumo del
mercato interno, inoltre le attività connesse con tale politica fornivano un’ottima occasione di sviluppo ad
alcuni settori industriali; infine la conquista di territori permetteva l’utilizzazione di ingenti capitali finanziari
che non trovavano impiego nel paese d’origine. A tali pressanti motivazioni economiche si andarono
affiancando quelle politico-militari, come la volontà di rafforzare le proprie posizioni all’interno del sistema
mondiale, attraverso l’accrescimento di domini extraeuropei. Essi diventarono lo strumento di verifica dei
rapporti di forza tra le varie potenze europee e le loro ambizioni rispetto al continente, che in seguito
porteranno alla prima Guerra Mondiale. L’ideologia imperialistica, quindi, sosteneva che ogni potenza, per
essere degna di tale nome, doveva colonizzare e possedere un impero.
Ti prego di non dimenticare che l’essere
che tu chiami tuo schiavo è nato dal tuo stesso seme,
gode del tuo stesso cielo, respira la tua stessa aria,
vive e muore come te!
Guardati dal disprezzare un uomo la cui condizione
può essere la tua, nel momento in cui gli manifesti
il tuo disprezzo.
Seneca, Lettere a Lucilio (63-65)
PRIMA FASE DEL COLONIALISMO
COLONIE: in America
COLONIZZATORI: Spagna e Portogallo
MOTIVAZIONI: Approvvigionamento di materie prime e emigrazione di popolazione eccedente
SECONDA FASE DEL COLONIALISMO
COLONIE: in Asia e Africa
COLONIZZATORI: Inghilterra, Francia e Germania
MOTIVAZIONI: Mercati di sbocco, investimento di capitali, accrescimento territoriale e opera civilizzatrice
Nell’imperialismo si trovano intrecciati aspetti politici ed economici, ma hanno pari importanza gli aspetti
ideologico-culturali.Infatti ogni manifestazione imperialistica si è sempre auto giustificata e quindi
interpretata, come mossa da ragioni di carattere ideale. E’ evidente la funzione di pretesto o di
razionalizzazione che hanno ricoperto, anche se collegate ad altre cause di natura diversa. Le nazioni
colonialiste tradizionali, a cui in Europa si aggiunsero l’Italia, il Belgio e la Germania, e fuori dall’Europa gli
USA e il Giappone, iniziarono la conquista delle zone colonializzabili dell’Asia e l’occupazione di tutta l’Africa
(essa cominciò solo allora ad essere conosciuta in tutta la sua ricchezza e vastità ). La rapidità con la quale
furono compiute le nuove conquiste, e l’immediata espansione di tutte le grandi potenze nell’ultimo
ventennio del XIX° secolo avrebbero provocato gravi conflitti, assai più gravi di quelli che precedentemente
avevano pesato sull’Europa. Vennero così escogitati strumenti per impedire o quanto meno attenuare tali
conflitti:
 Riunioni delle potenze in conferenze internazionali ( ve ne furono molte, l’idea partì da Leopoldo re
del Belgio: Bruxelles (’76-’90) Berlino (’78 e ’85) )
 Nuove forme di espansione ( protettorato, hinterlands, zone di influenza…)
 Ricostruzione di compagnie coloniali
L’ETA’ DELL’IMPERIALISMO: STORIA E CONCETTO
Il concetto di imperialismo è carico di molti significati ed è oggi spesso uno slogan politico, del quale si
ignora la genesi storica. Il contrasto tra le grandi potenze può essere rappresentato come una lotta
all’imperialismo, nella quale si intrecciano motivi politici, economici e ideologici. Storicamente bisogna
tentare di periodizzare e di caratterizzare nella loro specificità le varie epoche. L’esistenza degli “imperi”, la
volontà di espansione e di sopraffazione, lo spirito aggressivo sono molto antichi, e sono evidenti anche nel
mondo nel quale viviamo; tuttavia l’ “imperialismo al quale ci riferiamo è storicamente determinato, cioè il
periodo che va grosso modo dal 1870 al 1914-1918 . Alla definizione della specificità dell’<<età
dell’imperialismo>> hanno molto contribuito l’analisi e il dibattito, che in quello stesso periodo ebbero inizio
e poi si svilupparono sul concetto delle forme dell’imperialismo e che furono condotti soprattutto da parte
degli antimperialisti, e del marxisti in particolare. Ma è egualmente indubbio che tale discorso nasceva
dall’osservazione di fatti di una evidenza straordinaria, come la spartizione di un intero continente, l’Africa,
tra le grandi potenze coloniali, come la lotta per la penetrazione politica ed economica degli Stati europei e
degli Stati Uniti nell’Oriente e nell’America Latina. Vi erano precedenti antichi di tale espansione, ma mai
l’occupazione di territori e la subordinazione economica avevano assunto un ritmo così rapido e travolgente.
L’IMPERIALISMO NEL SISTEMA MONDO
Era puramente un caso che i protagonisti di queste azioni fossero gli Stati capitalistici e industrializzati
dell’emisfero occidentale, ai quali, con un rapido processo di industrializzazione, stava affiancandosi il
Giappone? Si tratta di chiedersi se sia lecito, o non sia addirittura necessario per la comprensione dei fatti
storici, cogliere alcune caratteristiche fondamentali di un certo periodo, che non sono puramente
economiche, ma investono le condizioni generali nelle quali gli uomini vivono. In tal senso la definizione di
“età dell’imperialismo” sembra a tutt’oggi la più adeguata a designare l’epoca storica nella quale il
capitalismo raggiunse una certa fase del suo sviluppo, permeò profondamente di sé tutte le strutture degli
stati industrializzati, e stese il suo sistema a tutto il mondo. Essenziale è l’integrazione nel sistema di ogni
parte del mondo, con l’accentuarsi del fenomeno dello sviluppo ineguale tra paesi avanzati e paesi arretrati.
La differenza tra l’economista puro, e il teorico dell’economia e lo storico è che i primi possono costruire un
modello in cui sia possibile anche ipotizzare lo sviluppo pacifico del capitalismo, la possibilità e la
convenienza di allargare il mercato interno e investire all’interno anziché all’estero, calcolare il passivo
dell’espansione coloniale; lo storico deve invece constatare che in un determinato periodo la
preoccupazione per il rifornimento di materie prime, per gli sbocchi di merci e di capitale ebbe una grande
importanza, che la difesa degli interessi militari si confuse con quella degli interessi economici, che il
conflitto tra il vecchio imperialismo e l’aggressivo imperialismo tedesco fu una delle cause determinanti
della prima guerra mondiale; lo storico deve constatare che tra il 1880 e il 1914, si compì l’integrazione
capitalistica del mondo. La contraddizione tra esasperato nazionalismo e dimensioni internazionali e
mondiali del fenomeno è un aspetto di questo periodo. Non sorprende che il dibattito sull’imperialismo
prenda inizialmente rilievo in Gran Bretagna, paese che aveva già a metà dell’Ottocento i più vasti interessi
imperiali e dove, negli anni Settanta, intorno alla politica di Disraeli si apriva un’accesa polemica.
LA POLITICA DI DISRAELI
Il discorso pronunziato da Disraeli nel giugno 1872 viene generalmente considerato come segno di chiusura
di un’epoca, l’età del liberalismo e l’inizio di quel “conservatorismo sociale”, che prenderà più tardi anche il
nome di “imperialismo sociale” e avrà in Chamberlain il suo più noto rappresentante. Disraeli, riferendosi
alla riforma elettorale del 1867-1868 affermava che questa legge era basata sulla fiducia che la gran massa
della popolazione fosse “conservatrice”, ovvero egli sosteneva che il popolo inglese è orgoglioso di
appartenere a un grande paese imperiale, e sono decise a mantenere il loro impero, che credono che la
grandezza e l’impero dell’Inghilterra debbano essere attribuiti alle sue antiche istituzioni.Come si vede,
l’obiettivo è di assicurare una base di massa alla politica imperiale , obiettivo che sarà raggiunto senza
grandi difficoltà nei successivi decenni, richiamandosi all’orgoglio nazionale e alle passioni nazionalistiche.
Attaccando la concezione cosmopolita del liberalismo, che in alcuni casi è raggiunta fino a prospettare la
possibilità della dissoluzione dell’impero. Disraeli riprende più volte il tema della difesa delle istituzioni
britanniche. Egli sostiene che la classe lavoratrice è attaccata ai principi nazionali, vuol mantenere la
grandezza dell’impero ed è orgogliosa di essere suddita del sovrano e parte attiva di tale impero.
L’IMPERIALISMO SOCIALE
Il conservatorismo e l’imperialismo prospettati da Disraeli, in nome del partito tory completano il
programma di difesa delle istituzioni, della tradizione e dell’impero con un altro punto che ne evidenzia
l’attributo “sociale”: l’impegno di elevare la condizione delle masse popolari. Contro il liberalismo sfrenato,
contro la fiducia nel regolamento automatico del mercato. Disraeli aveva buon gioco a presentare se stesso
e i tories come difensori degli interessi popolari e delle classi lavoratrici, sostenendo che non si poteva
realizzare nessun progresso importante se non si riusciva a ridurre <<le ore lavorative e rendere più umano
il lavoro>>.
AFFERMAZIONE DELL’IDEA IMPERIALE
Sul terreno politico la linea <<imperialistica>> di Disraeli appariva ancora, alla maggioranza dell’opinione
pubblica inglese, inaccettabile. Il liberale Gladstone riuscì ad avere ragione del suo avversario, rchiamandosi
ai principi del liberalismo, ripudiando lo spirito di conquista, esaltando la concezione di un impero fondato
sulla decentralizzazione e la libera cooperazione. E’ ben noto tuttavia che lo stesso Gladstone non poté poi
fare a meno di occupare l’Egitto. La Francia, l’altra grande antica potenza coloniale, non era da meno: tra il
1878 e il 1882 aveva proceduto ad occupare posizioni economiche e politiche sempre più importanti in
Tunisia.
L’AFRICA E L’IMPERIALISMO
La spartizione dell’Africa non fu per gli europei un’impresa eccessivamente difficile, poiché vi si accinsero
nel momento storico di massima superiorità rispetto agli altri continenti. Lo sviluppo economico e il
progresso tecnico conferivano loro una sicurezza e una forza invincibili, mentre la cultura e l’organizzazione
politica assicuravano un potenziale non inferiore a quello europeo. Che l’Europa avesse la potenza
necessaria per soggiogare l’Africa era evidente: ma i suoi governi lo volevano davvero? Nel ricercare in
Europa le cause dell’espansione verso l’Africa, i teorici dell’imperialismo hanno cercato in direzione
sbagliata. I mutamenti fondamentali che misero in moto il processo avvennero nella stessa Africa. Questo
continente entrò nella storia moderna in seguito al crollo di un’antica potenza nel nord e al sorgere di una
nuova nel sud.
LA POSIZIONE DI FERRY
Ferry pronunziò nel 1885 nel parlamento francese una vera e propria “teoria del colonialismo”; si parlava di
una forma moderna di colonizzazione: non più l’esportazione di coloni, ma di capitali e di merci che non
trovassero opportuno collocamento nella madrepatria. Ferry affermava che nella crisi, che tutte le industrie
europee attraversavano, la fondazione di una colonia costituisce la creazione di uno sbocco; con questo
riferimento alla crisi egli accennava alle difficoltà che si fecero sentire in tutti i paesi economicamente
avanzati, già inseriti cioè nel sistema capitalistico, a partire dal 1873 fino al 1896, in un ciclo al quale gli
studiosi hanno dato il nome di <<lunga depressione>>. Sovrapproduzione industriale, crollo dei prezzi, crisi
agraria, sovrabbondanza di capitali in cerca di investimenti furono dunque alcune delle caratteristiche
essenziali di quel ventennio; nonostante queste difficoltà, la capacità produttiva e la potenza economica dei
paesi industrialmente più forti non furono intaccate e maturarono le condizioni di un nuovo sviluppo, che si
manifestò negli ultimi anni del secolo e nel primo decennio del Novecento, suscitando un’ondata di
rinnovata fiducia capitalistica. All’affermazione della funzione economica delle colonie, si accompagnava
nella concezione di Ferry, che non tarderà a prevalere nei circoli dirigenti, il “diritto” delle “razze superiori” a
dominare “Quelle inferiori”. Ferry ribadiva con forza il suo concetto secondo cui compete alle razze superiori
un diritto, cui fa riscontro un dovere che loro incombe: quello di civilizzare le razze inferiori. Gli appelli
all’orgoglio nazionale, alla potenza economica e militare e l’ideologia della “missione civilizzatrice”
dell’uomo bianco e delle razze superiori trovarono un uditorio sempre meglio disposto ad accoglierli.
LA NUOVA ETA’ INDUSTRIALE
Si devono spiegare i fattori che distinguevano il tardo imperialismo del XIX° secolo dall’imperialismo delle
età precedenti, e ciò non si può fare senza tenere conto dei fondamentali cambiamenti, sociali ed
economici, del periodo successivo al ’70. In primo luogo, la rivoluzione industriale aveva creato enormi
differenze tra le parti sviluppate e quelle non sviluppate del mondo e le migliori comunicazioni e innovazioni
tecniche avevano aumentato smisuratamente le possibilità di sfruttare i territori sottosviluppati. L’industria
necessitava di nuovi mercati, la finanza voleva assicurarsi investimenti più sicuri e redditizi di capitale
all’estero, tutto ciò spingeva sempre più all’espansione oltremare. D’altra parte, la dipendenza crescente
delle società europee industrializzate dai territori d’oltremare per i rifornimenti di materie prime era stimolo
potente all’imperialismo; dal momento che nella nuova età industriale nessuna nazione poteva sperare
all’autosufficienza , era necessario che ogni paese industriale si creasse un impero coloniale protetto se
necessario da tariffe doganali contro la concorrenza estera, in cui la madrepatria avrebbe fornito manufatti
in cambio di materie prime. Gli errori insiti in questa dottrina sono stati spesso dimostrati, ma le critiche
non servirono a togliere l’efficacia psicologica. “I giorni delle piccole nazioni” diceva Chamberlain “sono
passati da un pezzo; sono arrivati i giorni degli imperi”. Non è stato sempre l’imperialismo caratterizzato dal
dominio di un popolo su altri e, in particolare, la Gran Bretagna non ha operato imperialisticamente anche
nell’età nella quale sembrava dominare la teoria del libero commercio?
La risposta che già dava Lenin non ha perso la sua efficacia: <<Politica coloniale e imperialismo esistevano
prima del capitalismo, ma le considerazioni “generali” sull’imperialismo che dimentichino le fondamentali
differenze tra le formazioni economico-sociali, degenerano in vuote banalità>>.Espansione politica e
penetrazione economica procedono di pari passo, e le preoccupazioni e le occupazioni di carattere militare
si confondono con la cura e la difesa delle posizioni economiche. Lord Salisbury, con non minore chiarezza di
Ferry affermava che <<il commercio di un grande paese commerciale come il nostro non può fiorire – e la
storia lo conferma sempre più – se non all’ombra dell’impero e coloro che vogliono liquidare l’impero per
far prosperare il commercio perderebbero l’uno e l’altro. Erano ormai questi i concetti che prevalevano sul
finire del secolo e nel primo decennio del Novecento nei governi e nelle classi dirigenti dei paesi europei,
con l’esaltazione, da una parte, dei progressi del capitalismo industriale, e con la speranza, dall’altra, di
risolvere le contraddizioni politiche ed economiche, che si manifestavano con l’inasprirsi della lotta di
classe, assoggettando le popolazioni “inferiori” e sfruttando le loro risorse a vantaggio della madrepatria.
HOBSON: NAZIONALISMO, IMPERIALISMO E ASPETTI ECONOMICI DEL COLONIALISMO
NAZIONALITA’ E COLONIE
Il colonialismo può essere considerato, come un’espansione di nazionalità, un ampliamento territoriale,
della lingua e delle istituzioni della nazione, quando consiste nella migrazione di parte di una nazione in
terre straniere disabitate o scarsamente popolate, in cui gli emigranti portano con sé pieni diritti di
cittadinanza nella madrepatria, oppure stabiliscono autogoverni locali in stretta conformità con le istituzioni
di essa e sotto il controllo definitivo. Poche colonie nella storia sono rimaste a lungo in questa condizione
quando erano distanti dalla madrepatria: esse hanno rotto la relazione e si sono costituite per proprio conto
come nazionalità indipendenti, o sono state tenute nel completo asservimento politico per quanto riguarda
tutti i livelli più alti di governo.
NAZIONALISMO E IMPERIALISMO
La novità del recente imperialismo, consiste soprattutto nella sua adozione da parte di diverse nazioni. Il
concetto di numerosi imperi in competizione è essenzialmente moderno. Il nazionalismo è una strada
maestra per l’internazionalismo: se prende un’altra rotta può evolvere in un pervertimento, quale
l’imperialismo, dove le nazioni, trasformano la rivalità dei vari tipi nazionali nella lotta accanita d’imperi in
competizione. L’imperialismo che ne deriva, è un imperialismo aggressivo, che fa fallire il movimento verso
l’internazionalismo, alimentando l’animosità tra gli imperi in competizione: il suo attacco alle libertà e
all’esistenza di razze più deboli o inferiori provoca in esse un corrispondente eccesso di autocoscienza
nazionale.
L’IMPERIALISMO E L’ECONOMIA
I politici assertori del libero scambio, ambivano al rapido sviluppo di un’effettiva e reale collaborazione tra le
nazioni (internazionalismo) non formale ma concretamente sviluppata attraverso la pacifica e vantaggiosa
circolazione dei beni e delle idee per quei governi che riconoscessero una giusta armonia negli interessi,
comunque tra popoli liberi. Queste lecite aspirazioni progressiste però si spensero con il prepotente avvento
del nazionalismo inteso come aspirazione imperial-coloniale. E’ così che, mentre nazionalità in grado di
coesistere, sono capaci di aiutarsi reciprocamente senza antagonismo diretto da interessi individuali, imperi
coesistenti che perseguono ciascuno la propria corsa espansionistica sia territoriale che industriale,
inevitabilmente divengono acerrimi nemici in grado di scatenare terribili eventi distruttivi. La natura di
questo antagonismo è facilmente comprensibile, se si analizza l’aspetto economico della “conquista dei
mercati”; aspetto determinante nella moderna produzione capitalistica. La lotta per l’Africa e l’Asia ha
virtualmente rielaborato la politica di tutte le nazioni europee, ha evocato alleanze che contrastano con
tutti i criteri naturali di affinità e di associazione storica, ha spinto ogni nazione continentale a consumare
una parte sempre crescente delle proprie risorse materiali ed umane per l’equipaggiamento militare e
navale, ha tratto dal suo isolamento nel pieno dell’ondata di competizione, la nuova grande potenza degli
Stati Uniti, proiettando sulla scena politica una costante minaccia di perturbamento per la pace ed il
progresso del genere umano.
I PARASSITI ECONOMICI DELL’IMPERIALISMO
Vedendo che l’imperialismo degli ultimi sei decenni è chiaramente condannato come sistema di commercio,
in quanto per una spesa enorme ha procurato un esiguo, malsicuro aumento dei mercati e messo a
repentaglio l’intera ricchezza della nazione, provocando il risentimento di altre nazioni, potremmo chiederci
da quale motivo la nazione Britannica sia indotta ad imbarcarsi in un affare così deleterio. La risposta
possibile è che gli interessi economici della nazione nel suo complesso sono subordinati a certi interessi
settoriali che usurpano il controllo delle risorse nazionali e le usano per il loro guadagno privato.
Nonostante il nuovo imperialismo sia stato un cattivo affare per la nazione, esso è stato un buon affare per
certe classi sociali ed entità economiche all’interno della nazione; in effetti la forte spesa in armamenti, le
dispendiose guerre, i gravi rischi e le difficoltà della politica estera, gli ostacoli alle riforme politiche e sociali
in Gran Bretagna, benché carichi di danni per la nazione, hanno servito bene gli attuali interessi economici
di certe industrie e professioni che hanno progredito smisuratamente e con la rapidità non eguagliabile in
situazioni di normalità. I risultati economici dell’imperialismo sono molteplici: un gran dispendio di pubblico
denaro in tutte quelle attrezzature a supporto della conquista come navi, cannoni, equipaggiamenti militari,
rifornimenti e con il risultato di generare enormi guadagni quando una guerra si manifesta o con il solo
allarme di guerra, prossima e possibile; nuovi prestiti pubblici e rilevanti fluttuazioni nelle Borse nazionali e
straniere, valorizzazione degli investimenti esteri, conquista di mercati per alcune merci di esportazione. E’
così che determinati interessi commerciali e professionali, nutrendosi dell’evento imperialistico sono
stimolati in contrasto con il bene comune. Se i 60.000.000 di sterline che attualmente si possono
considerare come la spesa minima per armamenti in tempo di pace, fossero sottoposti ad un’analisi
rigorosa, la maggior parte di essi sarebbe rintracciato direttamente nelle casse di alcune grandi società
impegnate nella costruzione di navi da guerra mezzi di trasporto e materiale bellico vario ed in tutti quei
rifornimenti logistici all’attività bellica. Attraverso questi canali principali i milioni fluiscono per alimentare
molte aziende secondarie, la maggior parte delle quali ben consapevoli di essere impegnate nell’esecuzione
di appalti per le forze armate. La posizione che questo commercio occupa, rispetto all’industria inglese nel
suo complesso non è grande, ma una parte di essa è estremamente influente e capace di esercitare un
condizionamento ed una pressione decisiva sulla politica. Le forze armate sono imperialiste per convinzione
e convenienza corporativa e il rafforzamento delle forze della marina dell’esercito e dell’aviazione accresce
per conseguenza il potere politico che le realtà militari esercitano.
IMPERIALISMO E INVESTIMENTI
Il fattore economico prevalente nell’imperialismo è l’influenza relativa agli investimenti. Ogni nazione
industriale avanzata ha teso a collocare una parte crescente del suo capitale fuori dei limiti della propria
area politica e di trarre un reddito crescente da questa fonte. La moderna politica estera della Gran
Bretagna è stata soprattutto una lotta per conquistare mercati d’investimento vantaggiosi. Ogni anno di più,
lo stato è diventata una nazione che vive sul tributo dell’estero e le classi che godono di questo tributo
hanno incentivo sempre crescente ad impiegare la politica pubblica, il denaro pubblico, la forza pubblica per
estendere il campo dei loro investimenti privati, per salvaguardare e far progredire i loro investimenti in
atto. Quel che vale per la Gran Bretagna, è altrettanto vero per la Francia, la Germania, gli Stati Uniti, e per
tutti i paesi in cui il moderno capitalismo ha posto ampie eccedenze di risparmio nelle mani di una
plutocrazia o di una classe media risparmiatrice. L’imperialismo aggressivo che costa tanto caro al
contribuente,che è di scarsa utilità per l’industriale e il commerciante e che è pieno di rischio per il
cittadino, è una fonte di grosso guadagno per l’investitore che non trova nel suo paese l’uso proficuo che
cerca per il proprio capitale, e insiste perché il suo governo lo aiuti a trovare investimenti sicuri e vantaggiosi
all’estero. Gli Investitori che hanno collocato il proprio denaro in terre straniere, a condizione che tengano
bene presente i rischi connessi con lo stato politico del paese, desiderano utilizzare le risorse del loro
governo per rendere minimi questi rischi e così aumentare il valore del capitale e l’interesse dei loro privati
investimenti. Le classi investitrici e speculative generalmente hanno anche richiesto che la Gran Bretagna
prendesse altre aree straniere sotto la sua bandiera allo scopo di assicurarsi nuove regioni per investimenti
vantaggiosi e speculazioni.
LA SPECULAZIONE FINANZIARIA
Se l’interesse particolare dell’investitore è soggetto a scontrarsi con l’interesse pubblico e a produrre una
politica rovinosa, ancor più pericoloso è l’interesse particolare del finanziere, il gestore generale degli
investimenti. La truppa degli investitori compone le grandi case finanziarie, che usano i valori di Borsa non
tanto come investimenti per procurarsi un interesse, quanto come materiale di speculazione sul mercato
monetario. Queste grandi società a carattere finanziario formano il nucleo del capitalismo internazionale.
Unite da legami organizzativi ferrei, sempre in stretto contatto reciproco, situate nel cuore stesso della
capitale economica di ogni stato, controllate, quasi unicamente da organizzazioni di uomini che hanno alle
spalle molti secoli di esperienza finanziaria, esse si trovano in una posizione unica per manipolare la politica
delle nazioni. Ogni grande atto politico che comporti un nuovo flusso di capitale, o un’ampia fluttuazione
dei valori degli investimenti attuali, deve ottenere la ratifica e l’appoggio pratico di questo piccolo gruppo di
re della finanza. Come investitori, la loro influenza politica non differisce sostanzialmente da quella degli
investitori minori, tranne nel fatto che essi hanno abitualmente un controllo pratico, degli affari in cui
investono. Come speculatori o negoziatori finanziari essi costituiscono, comunque, il più grosso fattore,
considerato singolarmente, nell’economia dell’imperialismo. Una politica che desta timori di aggressione
negli stati asiatici e che attizza la rivalità delle nazioni commerciali d’Europa, evoca ampie spese in
armamenti e debiti pubblici che si accumulano sempre, mentre le incertezze e i rischi che derivano da
questa politica danno luogo a quella costante oscillazione del valore dei titoli che è così vantaggiosa per
l’abile finanziere. La ricchezza di questi gruppi, la gamma delle loro operazioni e la loro organizzazione
cosmopolita ne fanno le principali cause determinanti della politica imperiale. Essi hanno il più ampio e
decisivo interesse nell’economia imperialistica, e i più ampi mezzi per imporre la loro volontà alla politica
delle nazioni. La forza motrice dell’imperialismo non è prevalentemente finanziaria; la finanza manipola le
forze patriottiche che sono generate da politici, soldati, filantropi, e commercianti; l’entusiasmo che
proviene da queste fonti è irregolare e cieco; l’interesse finanziario invece possiede quelle qualità di
concentrazione e di calcolo che sono necessarie per mettere in moto l’imperialismo, la diretta influenza
esercitata da grandi gruppi finanziari sull’<<alta politica>>, è fondata sul controllo che essi esercitano sulla
massa dell’opinione pubblica attraverso la stampa, che, in ogni paese “civile” diventa sempre più un loro
strumento obbediente. Lo schieramento delle forze economiche che appoggiano l’imperialismo è
rappresentato da un ampio gruppo di mestieri e professioni che cercano buoni affari ed impieghi redditizi
nell’espansione delle forze militari e civili, nella spesa per operazioni militari, nell’apertura di nuovi spazi
territoriali e nel commercio con questi, nel rifornimento di nuovo capitale che queste operazioni richiedono;
tutti questi fattori trovano poi una guida e una forza direttiva nel potere dei gruppi finanziari generali. Il
gioco di queste forze non appare in superficie. Esse non sono altro che parassiti che sfruttano il
patriottismo, nascondendosi sotto i suoi vessilli protettori.
LE RADICI ECONOMICHE DELL’IMPERIALISMO
Un’epoca di feroce competizione, seguita da un rapido processo di amalgama, ha portato un’enorme
quantità di ricchezza nelle mani di un ristretto numero di capitani d’industria. Nessun lusso privato a cui
questa classe potesse giungere ha tenuto il passo con il suo aumento di reddito, ed è cominciato un
processo automatico di risparmio su una scala senza precedenti. L’investimento di questi risparmi un altre
industrie ha contribuito a concentrare queste ultime sotto le stesse forze. Così un grande incremento dei
risparmi in cerca di investimenti redditizi è contemporaneo ad una più stretta possibilità di uso del capitale
esistente. Il rapido aumento di una popolazione, abituata ad un alto e sempre crescente livello di agiatezza,
assorbe nella soddisfazione dei suoi bisogni un’ampia quota del nuovo capitale; così la quota reale del
risparmio, unita ad un uso più razionale delle forme di capitale esistente, è stata nettamente superiore
all’aumento del consumo nazionale di manufatti. La capacità produttiva ha superato di gran lunga il livello
reale di consumo, e , in contrasto con la precedente teoria economica, è stata incapace di generare un
corrispondente incremento di consumo, abbassando i prezzi. (L’imperialismo americano è stato il prodotto
naturale della pressione economica di un improvviso avanzamento del capitalismo che non poteva trovare
un’utilizzazione all’interno e che aveva bisogno di mercati stranieri per merci e investimenti. Le stesse
necessità esistevano nei paesi europei, che spingevano i governi verso una politica di espansione.)
SOTTOCONSUMI E IMPERIALISMO
Il risparmio può essere giustificato economicamente e dal punto di vista sociale, quando il capitale in cui
esso prende materialmente corpo trova pieno impiego nel contribuire a produrre beni che, una volta
prodotti verranno consumati; il risparmio al di sopra di queste quantità, provoca dei danni, concretizzandosi
in un’eccedenza di capitale che non è necessaria a sostenere il consumo corrente, e che o resta inutilizzata,
o tenta di privare il capitale esistente del suo impiego, o ancora cerca un impiego speculativo all’estero sotto
la protezione del governo. Le motivazioni possono essere anche ricercate nella distribuzione differenziata
della ricchezza. Se fosse operante una distribuzione del reddito o potere di consumo sulla base dei bisogni,
il consumo salirebbe insieme con qualsiasi aumento della capacità produttiva, poiché i bisogni umani sono
illimitati, e non potrebbe verificarsi nessuna eccedenza di risparmio. In realtà accade tutto l’inverso in una
società economica in cui la distribuzione non ha relazioni costanti con i bisogni, ma è determinata da altre
condizioni che assegnano ad alcune persone un potere di consumo che supera ampiamente i bisogni o gli
usi possibili, mentre altri sono privi perfino del potere di consumo sufficiente a soddisfare completamente
le necessità primarie.
LA SOLUZIONE CONSUMISTICA
Non è il progresso industriale che richiede l’apertura di nuovi mercati ed aree d’investimento, ma la cattiva
distribuzione del potere di consumo che impedisce l’assorbimento di beni e di capitale all’interno del paese.
L’eccedenza di risparmio che è alla radice dell’imperialismo, si rivela così costituita di rendite, profitti
monopolistici, e altri immeritati elementi di redditi, che non essendo guadagnati col lavoro non hanno
legittima “ragion d’essere”. Privi di una naturale relazione con lo sforzo produttivo, spingono i loro
beneficiari ad alcuna corrispondente soddisfazione di consumo: ma costituiscono una ricchezza eccedente,
che tende ad accumularsi come risparmio eccedente. Solo con una svolta nell’equilibrio delle forze politicoeconomiche che tolga a questi possessori il loro eccesso di capitali, di redditi e lo faccia confluire o verso i
lavoratori (sotto forma di salari più alti), o verso la comunità, (sotto forma di esenzioni fiscali), in modo che
sia speso piuttosto di essere risparmiato, non ci sarà più bisogno di combattere per mercati stranieri o per
aree straniere d’investimento; quindi l’unica salvezza delle nazioni consiste nel sottrarre gli incrementi di
reddito immeritato alle classi possidenti, e di aggiungerli al reddito salariale delle classi lavoratrici o al
reddito pubblico, perché possano essere spesi nell’aumentare il livello di consumo.
Oppure http://www.treccani.it/enciclopedia/imperialismo_%28Enciclopedia-del-Novecento%29/
http://www.gmottis.ch/Scuola/MaterialeDidattico/Storia/Rivolauzione%20industriale/L
%27imperialismo.pdf
( Versione semplificata dagli allievi)
Il colonialismo alla fine del XIX secolo: IMPERIALISMO
 Alla fine dell’800 molti Stati europei come Francia, Inghilterra, Belgio, Italia,
Germania ripresero la corsa alla conquista delle colonie.
Gli stati europei estesero il loro dominio in Africa, Asia, e Oceania, dando vita ad
una nuova forma di colonialismo nota come imperialismo.

Al contrario del colonialismo, l’imperialismo è caratterizzato dal fatto che prima lo
stato europeo conquista militarmente la colonia e poi gli industriali e i
commercianti di questo stato sfruttano le materie prime della colonia e vi
vendono i loro prodotti (trade after the flag).

Le cause fondamentali dell’IPERIALISMO europeo nel XIX secolo (1800) furono tre:

a) Lo spirito imperialista: gli stati europei, animati da un forte spirito di
conquista, si espansero in Africa e in Asia. Nella società si affermava sempre di più
il nazionalismo (ideologia che si basa sull’esaltazione della nazione) e il razzismo.
L’affermazione della propria potenza a spese di popoli inferiori divenne un’ideologia
corrente.
b) Lo sviluppo economico europeo: le industrie avevano bisogno di materie prime
(carbone, petrolio, cotone, ecc.) che sia nel continente asiatico, che in quello
africano erano molto abbondanti.
Inoltre le industrie sfornavano sempre più prodotti che non riuscivano ad
essere assorbiti dai mercati interni. Le colonie quindi servivano anche vendere i
prodotti ai popoli colonizzati.
c) Il forte aumento della popolazione: la popolazione europea dopo la metà del ‘800
era aumentata moltissimo. Era quindi sempre più difficile trovare possibilità di
lavoro e materie prime sufficienti, tanto che molti emigrarono nelle colonie per
avviare lì una nuova attività.
Nella maggior parte dei casi questo processo fu esasperato ed aggressivo
perché dominato solo dalla sete di ricchezza e di potere dei coloni.
Alcune nazioni, su tutte l’Inghilterra, imposero alle loro colonie anche la
propria cultura e il proprio modo di vita.

Francia e Inghilterra furono i primi stati europei ad insediarsi in Africa: la prima, che
aveva già conquistato l’Algeria (1830), estese i suoi territori nella parte occidentale
ed equatoriale del continente, mentre la seconda, che aveva tolto la l’Egitto alla
Turchia per il controllo del canale di Suez, entrò in possesso di un sistema coloniale che
dal Cairo arrivava fino a Città del Capo.

Alla spartizione dell’Africa presero parte anche il Belgio (Congo), l’Italia (Eritrea e
Somalia), la Germania (Togo, Camerun, Tanzania, Africa Sud-Ovest).

In Asia l’espansionismo coloniale europeo interessò imperi di antichissime civiltà come
quella cinese e giapponese.
L’Inghilterra fu la prima a conquistare i porti cinesi. In seguito anche Russia, U.S.A.
e Germania cominciarono a conquistare territori e mercati orientali.
Le nazioni europee trassero così enormi vantaggi da questa politica di sfruttamento
diffondendo inoltre la loro civiltà, la loro cultura, i loro sistemi di governo, la religione e la
lingua.
Questo fatto a volte suscitò vari conflitti tra la mentalità e la cultura occidentale e quelle delle
popolazioni locali.
L’Imperialismo ebbe notevoli ripercussioni anche sul sistema politico europeo perché
stimolò un’agguerrita competizione fra i vari Stati, alimentata dai nascenti
nazionalismi.
Ciò contribuì a far scoppiare contrasti e dissidi tra le potenze europee che portarono, nel 1914,
al primo grande conflitto mondiale.
“Spartizione
nel
dell’Imperialismo
dell’Africa”
periodo
All. B
“ Il fardello dell’uomo bianco”
Addossatevi il fardello del Bianco –
Mandate i migliori della vostra razza –
Andate, costringete i vostri figli all’esilio
Per servire ai bisogni dei sottoposti;
Per custodire in pesante assetto
Gente irrequieta e sfrenata –
Popoli truci, da poco soggetti,
Mezzo demoni e mezzo bambini.
Addossatevi il fardello del Bianco –
Resistere con pazienza,
Celare la minaccia del terrore
E frenare l’esibizione dell’orgoglio;
In parole semplici e chiare,
Cento volte rese evidenti,
Per cercare il vantaggio altrui,
E produrre l’altrui guadagno.
Addossatevi il fardello del Bianco –
Le barbare guerre della pace –
Riempite la bocca della Carestia
E fate cessare la malattia;
E quando più la mèta è vicina,
Il fine per altri perseguito,
Osservate l’Ignavia e la Follia pagana
Ridurre al nulla tutta la vostra speranza
Ode di Kipling
All. C
Quando il povero Marlow, sull’onda della passione
giovanile per le carte geografiche ed i luoghi esotici,
ottiene l’incarico, non può immaginare a cosa sarebbe
andato incontro. Una volta arrivato in Africa, Marlow
conosce la sua missione: raggiungere il signor Kurtz, a capo
di una delle stazioni più importanti per la Compagnia e
riportarlo indietro poiché gravemente malato. Il viaggio
verso Kurtz porta Marlow a guardare negli occhi il male. E’
un viaggio, infatti, verso la ferocia dello sfruttamento
coloniale, l’avidità e la sete di potere dell’uomo
occidentale. Ed è in questo enorme cuore di tenebra che
precipita Kurtz, divenendo irrimediabilmente pazzo.
Marlow, invece, riesce a “farcela” e ad arrivare in piedi alla
fine di tutto questo orrore, per poi raccontare la sua storia
nella nebbia del Tamigi.
Da “Joseph Conrad “ Cuore di tenebra”
Impossibile giudicare il signor Kurtz alla stregua di un uomo qualunque. No, mille volte no! Ecco –tanto per
darle un’idea –un giorno, non mi vergogno a dirlo, voleva uccidermi,… ma io non lo giudico.” “Ucciderla!”,
esclamai. “E perché?” “Bah,avevo una piccola quantità d’avorio che mi aveva dato il capo del villaggio vicino
alla mia casa. Sa, io uccidevo della selvaggina per loro. Beh, lui lo voleva e non voleva sentir ragioni. Dichiarò
che mi avrebbe fatto fuori se non gli davo l’avorio e se non sparivo immediatamente dal paese, visto che
aveva il potere e anche la voglia di farlo, e non c’era niente al mondo che potesse impedirgli di ammazzare
chiunque gli fosse garbato. Ed era vero… Gli diedi l’avorio. […] ll signor Kurtz era ritornato giù al fiume,
portando con sé tutti i guerrieri della tribù lacustre. Era stato assente molti mesi –per farsi adorare,
immagino –ed era rientrato inaspettatamente, con l’intenzione, secondo ogni apparenza, di compiere una
razzia dall’altra parte del fiume o a valle. Evidentemente la brama di avere altro avorio aveva trionfato su –
come dire? - sulle aspirazioni meno materiali. Puntai il binocolo sulla casa. Non c’erano segni di vita:
scorgevo solo il tetto che crollava, il lungo muro di fango che faceva capolino sopra l’erba, con tre buchi
quadrati a guisa di finestre, non uno della stessa misura dell’altro, tutto a portata della mia mano, per così
dire. E poi feci un movimento brusco e uno dei pali superstiti di quello steccato scomparso emerse nel
campo del mio binocolo. Vi ricordate che da lontano ero rimasto colpito da certi tentativi di decorazione,
che risaltavano ancor di più nello stato disastroso di quel luogo. Adesso li vedevo più da vicino e l’effetto
immediato fu che tirai indietro la testa come per evitare un pugno. Poi col binocolo, esaminai
attentamente un palo dopo l’altro e capii il mio errore. Quei pomi rotondi non erano ornamentali, ma
simbolici; erano espressivi ed enigmatici, sorprendenti e inquietanti, cibo per la mente oltre che per gli
avvoltoi, se ce ne fossero stati a guardare dal cielo, cibo in tutti i casi per delle formiche abbastanza
industriose da arrampicarsi sul palo. Sarebbero state ancora più impressionanti, quelle teste impalate, se il
loro volto non fosse stato girato dalla parte della casa. Solo una, la prima che avevo notato, era rivolta verso
di me. Non fui così nauseato come potreste credere. Il mio brusco scatto indietro non era stato che un
moto di sorpresa. Mi ero aspettato di vedere un pomo di legno là, capite. Deliberatamente, tornai a
guardare la prima che mi era apparsa: nera, rinsecchita e infossata, la testa con le palpebre chiuse era
sempre là, come addormentata in cima a quel palo e, con le labbra secche e raggrinzite che lasciavano
scoperta la sottile fila bianca dei denti, aveva anche l’aria di sorridere, sorridere in continuazione per
qualche sogno ilare e infinito del suo sonno eterno […] Quelle erano le teste dei ribelli.
Fase 4 Obiettivo: Presentare il caso del colonialismo Inglese
Cosa fa l’insegnante
Cosa fa l’alunno
Presentazione dell’imperialismo inglese attraverso Lettura di carta e di legenda. ( All. A)
una carta tematica
legenda di fase 2.
con ripresa dei dati della
Divide la classe in quattro gruppi ed assegna a
ciascuno un tema:
L’impero britannico al gruppo A
L’imperialismo di Disraeli al gruppo B
La rivolta dei sepoy al gruppo C
La liberazione dell’India dall’imperialismo britannico
al gruppo D
Chiede di relazionare l’oggetto della propria attività
di ricerca e/o studio attraverso la elaborazione ed
illustrazione di un cartellone di sintesi.
Forma il gruppo e riceve il compito. ( All. B)
Relazione, ascolta, chiede spiegazione e
discute.
Organizzazione/Metodo: strategia carta e racconti; attività di ricerca, studio e sintesi;
discussione orientata e esposizione
Raggruppamento alunni: lavoro con gruppo classe; per piccoli gruppi; individuale.
Mezzi e strumenti: carte; testi; internet
All. A
L’Impero Britannico dal 1918 al 1922 quando, sotto re Giorgio V del Regno Unito, raggiunse la sua massima
espansione. L’Impero Britannico si formò in 300 anni, attraverso una serie di fasi di espansione tramite il
commercio, la colonizzazione o la conquista, alternate con fasi di diplomazia pacifica e commercio o da
contrazione dell’Impero. I suoi territori si trovavano in ogni continente e in ogni Oceano, e fu spesso
accostato all’Impero Spagnolo, sul quale “non tramontava mai il sole”. Benché la sua superficie massima fu
raggiunta nel 1918 e mantenuta tale fino al 1932 (anno in cui fu concessa l’indipendenza dell’Iraq), il suo
culmine come potenza economico-politica fu tra la fine del XIX secolo e gli inizi del XX. Esso andò
gradualmente ad essere smantellato dopo la seconda metà degli anni cinquanta; il primo duro colpo per la
potenza imperiale britannica, però, fu nel 1947, con la concessione dell’indipendenza dell’India; nonostante
ciò, nel 1955 l’Impero Britannico era ancora vastissimo e misurava 29.804.182 km².
All. B
Gruppo A
Impero coloniale inglese.
L’Inghilterra gettò le basi del proprio impero coloniale nel XVI secolo potenziando la flotta e inaugurando
un’aggressiva politica commerciale, con la Compagnia delle Indie Orientali che entrò in sfida con la potenza
spagnola. La colonizzazione inglese ebbe anche un’importanza religiosa: le colonie dell’America del Nord
furono fondate dai Padri Pellegrini, con l’obbiettivo di creare una colonia puritana. L’espansione coloniale
continuò con una politica antispagnola e attuando la conquista dei Caraibi. L’Atto di navigazione del 1651
stabilì che le merci importate o esportate dalle colonie dovessero essere trasportate solo con navi inglesi:
questa politica di protezionismo avrebbe dato inizio ad un lungo conflitto navale (Olanda).Nel continente
nordamericano la presenza inglese si affermò lungo le coste e al termine della guerra di successione
spagnola, gli inglesi acquisirono importanti privilegi coloniali e proseguirono nella colonizzazione, con
drastiche conseguenze per l’occupazione francese. Alla fine del XVII secolo la presenza inglese in India era
ancora limitata, ma in seguito cominciò ad espandersi di nuovo a spese della Francia. Il governatore
britannico sconfisse tutti permettendo alla Compagnia delle Indie Orientali di assumere una posizione
dominante nel Bengala. In seguito, l’Inghilterra restituì alla Francia le isole caraibiche di Martinica e
Guadalupa.La ribellione della colonie del New England, sfociata nella guerra d’indipendenza americana,
portò alla nascita degli Stati Uniti d’America, indipendenti dalla madrepatria. Nel frattempo la corona
britannica manteneva il controllo sulla colonia indiana e fondava un primo insediamento in Australia.
All’inizio del XIX secolo intraprese una serie di campagne in India per consolidare il proprio dominio nella
regione: fu in quel periodo che l’inglese divenne la lingua ufficiale nei territori conquistati. Dopo la rivolta
indiana del 1857, il governo dell’India passò direttamente alla corona. Durante il governo conservatore la
Gran Bretagna riprese la sua ispirazione imperialistica che le fece occupare una parte dell’Africa, per
controllare il Canale di Suez. L’espansione coloniale in Africa avvenne in competizione con Francia e
Germania, e l’Inghilterra si aggiudicò alcuni territori dell’Africa occidentale e meridionale. In Africa gli inglesi
sperimentarono i primi provvedimenti di decolonizzazione a favore dei coloni bianchi, a cui concessero
l’autogoverno, iniziando così la formazione dell’Unione Sudafricana (1910).Alla fine della Prima Guerra
Mondiale (1919) l’impero coloniale britannico raggiunse la sua massima estensione, con l’acquisizione di
gran parte dei territori africani. La guerra tuttavia provocò una diffusione di nazionalismo e
indipendentismo, che caratterizzarono i decenni seguenti. Con lo statuto di Westminster del 1931 la Gran
Bretagna riconobbe autonomia costituzionale ai Dominios (colonie con autogoverno). In India l’ombra di un
massacro in cui l’esercito inglese fece fuoco sulla folla di dimostranti, influenzò i rapporti tra il Congresso
Nazionale indiano e la corona inglese, nonostante le riforme concesse da quest’ultima.
Il fragile equilibrio che l’impero britannico conservò fino al 1939 venne sconvolto dallo scoppio della
Seconda Guerra Mondiale. La presenza inglese in India era ormai puramente formale.
Nel dopoguerra la decolonizzazione fu rapida nelle colonie asiatiche: India e Pakistan ottennero
l’indipendenza nel 1947.
Parallelamente alla fine dell’impero coloniale nacque il Commonwealth britannico, un’istituzione
multirazziale di cui attualmente fanno parte una cinquantina di paesi.
Gruppo B
L’imperialismo di Disraeli http://fatti-su.it/benjamin_disraeli
Disraeli fu un sostenitore dell’espansionismo e della volontà di preservare l’Impero britannico nel
Medioriente e nell’Asia centrale. Malgrado le obiezioni del suo gabinetto di governo e senza il consenso del
parlamento, egli ottenne con l’appoggio di Lionel de Rothschild il 44% delle azioni della compagnia del
Canale di Suez.
Disraeli e Gladstone si scontrarono sulla politica inglese nei Balcani. Disraeli vide la situazione come una
materia di interesse strategico ed imperialista, attenendosi alla politica di lord Palmerston nel supporto
all’Impero Ottomano contro l’espansione russa in Crimea. Secondo il biografo Blake, Disraeli credeva che la
Gran Bretagna avesse il dovere morale di aiutare le altre nazioni nella loro emancipazione in virtù della sua
lunga tradizione costituzionale. Gladstone, ad ogni modo, vide l’atto anche in termini morali con molti
cristiani bulgari massacrati dai turchi e pertanto tale azione si sarebbe dimostrata immorale per chiunque.
Disraeli inoltre introdusse il Royal Titles Act 1876 col quale la regina Vittoria ottenne il titolo di Imperatrice
d’India, ponendola quindi allo stesso livello dello zar russo. Nella sua corrispondenza privata con la regina,
egli propose di “ripulire l’Asia centrale dai moscoviti e spostarli verso il Mar Caspio”. Per contenere
l’influenza russa, egli lanciò l’invasione dell’Afghanistan e siglò la Convenzione di Cipro con la Turchia con la
quale l’isola strategica veniva posta sotto il controllo della Gran Bretagna.
Disraeli guadagnò un altro successo diplomatico nel Congresso di Berlino del 1878 nel quale impedì alla
Bulgaria di ottenere una propria indipendenza piena, limitando la crescente influenza della Russia nei
Balcani e rompendo la Lega dei Tre Imperatori.
Gruppo C
La rivolta dei sepoy http://www.emiliosalgari.it/india/rivolta_sepoy.htm
Gli eventi politici e militari che sfociarono nella “rivolta dei sepoy” del 1857-58 hanno origini lontane e
motivazione profonde. I sepoy erano le truppe indiane che prestavano servizio militare negli eserciti della
Compagnia delle Indie (l’organizzazione commerciale che deteneva in realtà il potere su gran parte del
subcontinente indiano) ed il loro malcontento nasceva dal fatto che erano spesso utilizzati fuori dei confini
indiani con il conseguente rischio di perdere la loro casta, cosa molto sentita dai sepoy quasi tutti reclutati
tra le classi alte dei bramani e dei rajput. Uscendo dai confini infatti si veniva “contaminati” ed i soldati
pensavano che fosse una strategia per renderli più facilmente convertibili al cristianesimo. Inoltre le recenti
vittoriose campagne militari avevano rafforzato nelle truppe la coscienza della propria importanza ed ormai
gli indiani erano, nell’Esercito del Bengala, in rapporto di schiacciante superiorità numerica rispetto agli
europei. Sul malcontento delle truppe indiane si andò poi ad innestare un malcontento più generale in
seguito al mutamento della politica inglese. Nella prima metà dell’Ottocento. Infatti, la Compagnia
abbandonò la tradizionale politica di non ingerenza negli usi e nei costumi dei sudditi indiani ed introdusse,
seppure gradualmente, una serie di riforme che andavano tutte a modificare e stravolgere usi e costumi
millenari. Dal punto di vista politico la Compagnia iniziò ad applicare il LAPSE, il cosiddetto “Principio di
scivolamento”. Secondo una tradizione indiana secolare, quando il regnante rimaneva senza eredi sceglieva
il proprio successore adottandolo come figlio. In questo modo il figlio adottivo ereditava al pari del figlio
naturale legittimo. In India la Compagnia, rifiutava di riconoscere validità alle adozioni e, alla morte del
regnante senza figli legittimi, decretava l’estinzione della dinastia. A ciò seguiva, secondo il principio del
LAPSE, l’annessione dei possedimenti della dinastia estinta. Così nel 1853 alla morte dell’ultimo PESHWA di
Poona (capo della confederazione dei Maratti) al figlio adottivo NANA SAHIB fu negata non solo la
successione ma anche la pensione riconosciuta al padre adottivo quando era stato esautorato di ogni
potere. Il governatore generale Lord DALHOUSIE (1848-1856) estese e forzò la dottrina del lapse arrivando
ad annettere (1856, proprio poco prima di tornare in patria) ai territori della Compagnia il regno di Oudh (o
Awadh) nel quale la casa regnante non era per niente estinta ma accusata di malgoverno. Con ciò la
Compagnia compiva ancora un passo in avanti: si avocava il potere di sindacare nel merito l’operato del
regnante indiano. Dinanzi agli occhi dei sudditi quindi il maharajah diventava un mero uomo di paglia
tenuto a rendere conto al burattinaio inglese delle sue azioni. L’Oudh probabilmente era il più ricco tra gli
stati indiani e senz’altro il più antico e leale di tutti gli stati alleati ed era vero che ormai il NAWAB viveva
sfarzosamente a Lucknow dilapidando fortune ma la cosa fu vista dalla popolazione come un vero e proprio
sopruso. Tale annessione aumentò inoltre a dismisura il senso di disagio all’interno dell’Esercito del Bengala
in quanto quasi la metà di esso era costituito da indiani provenienti dall’Oudh compromettendo il legame di
fiducia che fino ad allora li aveva legati strettamente alla Compagnia. In questo quadro generale la scintilla
che fece divampare il fuoco che covava fu la distribuzione ai sepoy di un nuovo modello di fucile, l’ENFIELD
a retrocarica che, per sfruttare a pieno l’ampio volume di fuoco che permetteva, necessitava che le
cartucce, prima di essere inserite nel caricatore, venissero spuntate con i denti. Essendo tali cartucce unte di
grasso c’era il sospetto (per alcuni storici fondato) che il grasso utilizzato fosse di vacca e/o di porco
costringendo così i soldati della Compagnia a violare i propri precetti religiosi, fossero indù (grasso di vacca)
o musulmani (grasso di porco). Ci fu una serie di disobbedienze duramente represse finché il 10 Maggio
1857 a MEERUT, una località a circa 60 km a nord di Delhi, scoppiò una rivolta della guarnigione per liberare
i compagni precedentemente imprigionati per un episodio d’insubordinazione legato al problema delle
cartucce. La ribellione si estese velocemente e un mese dopo in tutte le province del N-O e dello Oudh la
bandiera inglese sventolava solamente ad Agra, Lucknow e Kanpur.Nonostante i numerosi successi iniziali
ben presto i ribelli subirono una battuta d’arresto dovuta alla loro incapacità di collegare le varie aspirazioni
in un unico progetto d’ampio respiro nazionale.Dalle regioni limitrofe partì la riscossa inglese: nel
settembre 1857 la città di Delhi venne stretta d’assedio e dopo furiosi bombardamenti il giorno 14 ebbe
inizio l’assalto finale che si concluse il giorno 20 con la conquista della città. Gli Inglesi ripresero il controllo
di Kanpur e nel marzo 1858 anche la città di Lucknow si arrese al più grande esercito inglese mai radunato in
India (erano affluiti robusti rinforzi dalla Cina e dalla madrepatria).Con la caduta di Lucknow ed il suo
saccheggio, la rivolta perse ogni forza propulsiva ma i combattimenti, con il loro corollario di violenze e di
massacri, proseguirono ancora. Nell’autunno del 1858, dopo atrocità non inferiori a quelle commesse in
precedenza dai rivoltosi, gli Inglesi ripresero il totale controllo dell’Oudh.
Gruppo D
La liberazione dell’India dall’imperialismo brittanico. http://it.wikipedia.org/wiki/Storia_dell’India
Nel 1911 il Re Giorgio V si fece incoronare Imperatore dell’India nella nuova capitale Delhi e riunificò il
Bengala con le nuove province di Bihar e Orissa. Nel 1916 la Lega Musulmana e il Congresso Nazionale
Indiano si unirono nella richiesta di autonomia. Nel 1918 il governo promulgò il Rowlatt Act, una legge che
stabiliva misure eccezionali per chiunque fosse accusato di terrorismo.
Mohandas Karamchand Gandhi, detto il Mahatman (la grande anima) guidò il movimento di protesta contro
l’applicazione della legge e un anno più tardi cominciò ad attuare le sue campagne di disobbedienza civile.
Nel 1921 fu promulgata una nuova costituzione indiana in cui veniva concessa ampia autonomia agli indiani
per l’insegnamento, le opere pubbliche l’agricoltura e l’industria, ma veniva lasciato agli inglesi il controllo
diretto sulla difesa, la politica estera, il sistema giudiziario e quello finanziario e in cui veniva ribadito il
concetto che il governo di Delhi doveva render conto solo al parlamento britannico. Questa politica scavò
un solco incolmabile tra gli inglesi e il movimento nazionale indiano. Allora Gandhi propagandò e attuò
forme di lotta basate sulla non violenza, sulla disobbedienza civile, sulla non collaborazione con i
colonizzatori. Riuscì a coinvolgere grandi masse, poiché fece della sua lotta quasi una religione, cosicché gli
indiani videro in lui un profeta da seguire. Nel 1930 Gandhi effettuò la marcia del sale: percorse a piedi un
lungo cammino, fino al mare, dove raccolse alcuni cristalli di sale. Questo semplice gesto era un reato: gli
inglesi avevano il monopolio del sale in India perciò nessun indiano poteva procurarsi del sale, se non
comperando quello venduto dagli inglesi. Le manifestazioni del movimento nazionalista costrinsero gli
inglesi a promettere all’India la concessione dell’indipendenza, a cui effettivamente si giunse il 15 agosto del
1947. Bisogna però sottolineare la grande importanza di Bhagat Singh e Udham Singh in quanto sono
descritte come le persone che hanno fatto giustizia di tutte le persone massacrate dal Raj Britannico, infatti
Udham Singh si recò in Inghilterra per assassinare l’autore del Jallian Wala Bagh massacre, cioè il “massacro
del Bagh di Jallian” un giardino nel quale si erano riuniti protestanti contro l’arresto di esponenti
Indipendentisti Indiani, a un certo punto però un blitz inglese uccise molte delle persone presenti in quel
giardino, senza motivo.
L’indipendenza e la partizione dell’India (1947)
Il 14 agosto e 15 agosto 1947, nella partizione dell’India, nacquero due stati sovrani, la Sovranità del
Pakistan (più tardi Repubblica islamica del Pakistan) e l’Unione dell’India (più tardi Repubblica dell’India)
dopo che il Regno Unito garantì l’indipendenza dell’India britannica. In particolare il termine si riferisce alla
partizione del Bengala, provincia dell’India britannica tra lo Stato pakistano del Bengala orientale (ora
Bangladesh) e lo Stato indiano del Bengala occidentale; così come alla partizione della regione del Punjab
dell’India britannica tra la provincia del Punjab dello Stato del Pakistan occidentale e lo Stato indiano del
Punjab. La secessione del Bangladesh dal Pakistan con la guerra di liberazione del Bangladesh nel 1971 non
è coperta dal termine partizione dell’India; così come non lo sono le precedenti separazioni
Fase 5 .Obiettivo: conoscere la colonizzazione dell’Etiopia
Cosa fa l’insegnante
Propone un gioco dell’oca sulle principali
tappe della conquista dell’Abissinia.
Cosa fa l’alunno
Gioca. ( All. A)
Invita ad approfondire la conquista italiana
dell’Etiopia attraverso la visione di “Fascismo:
la conquista dell’Etiopia “ e di “Guerra in Etiopia”
e un’attività di ricerca sull’uso dei gas durante
la guerra.
Osserva, ascolta, ricerca e studia.(All. B)
Partecipa al dibattito, ascolta e approfondisce
le proprie conoscenze.
Apre un de-briefing sulla conquista italiana
dell’Etiopia
Organizzazione/Metodo: attività ludica; attività di ricerca, discussione orientata.
Raggruppamento alunni: lavoro con gruppo classe; individuale.
Mezzi e strumenti: gioco; testi; internet.
All. A
All. B
Fascismo: la conquista dell’Etiopia http://www.raistoria.rai.it/articoli/fascismo-la-conquistadelletiopia/7726/default.aspx
Guerra in Etiopia 1935-36 http://www.youtube.com/watch?v=4Vw7r-t0v_E
Il 2 ottobre 1935, in un famoso discorso pubblicato il giorno successivo su tutti i giornali italiani,
Mussolini annunciò l’inizio di una guerra provocata senza alcuna causa plausibile, rispolverando
come giustificazione la bruciante sconfitta subita dall’Italia alla fine del secolo precedente: «Con
l’Etiopia abbiamo pazientato quaranta anni! Ora basta!». L’esito della guerra era facilmente
immaginabile considerato l’enorme dispiegamento di mezzi disposto dall’Italia. Il 3 ottobre le
truppe italiane invasero l’Etiopia dall’Eritrea, occupando in breve tempo Adua, Axum, Adigrat,
Macallè. A metà novembre la direzione delle operazioni fu affidata al generale Pietro Badoglio, che,
dopo aver affrontato la controffensiva etiopica, entrò ad Addis Abeba il 5 maggio 1936. Il 9 maggio
1936 Mussolini poté proclamare la costituzione dell’Impero italiano di Etiopia, attribuendone la
corona al Re d’Italia Vittorio Emanuele III.
L’impiego dei gas
La pianificazione operativa italiana dell’aggressione all’Etiopia prevedeva fin dall’inizio la
possibilità dell’impiego delle armi chimiche, in particolare gas asfissianti; il deposito principale
venne organizzato a Sorodocò dove il “servizio K” dell’esercito ammassò tra l’aprile 1935 e il
maggio 1936 6.170 quintali di fosgene, cloropicrina, iprite, arsina, lewisite, oltre a 84.000
maschere antigas. Anche il generale Graziani considerava l’impiego di armi chimiche: l’8
settembre 1935 richiese infatti al generale Baistrocchi l’invio nel suo settore di 55.000
maschere e 60.000 proiettili d’artiglieria, bidoni a scoppio, candele e bombe a mano caricate
con aggressivi chimici e gas lacrimogeni.
Fu direttamente il generale Badoglio che a partire dal 22 dicembre 1935 prese la decisione di
impiegare in modo cospicuo gli aggressivi chimici; questa scelta era motivata dalla situazione
operativa sul campo non molto favorevole per l’esercito italiano che si trovava nella necessità
di frenare la controffensiva etiopica nello Scirè, nel Tembien e nell’Endertà e venne messa in
atto non solo contro le truppe nemiche ma anche per seminare il panico nelle retrovie, tra la
popolazione, colpendo con gas tossici villaggi, pascoli, mandrie, laghi e fiumi. Dal 22 dicembre
1935 al 18 gennaio 1936 furono impiegati sui settori settentrionali 2.000 quintali di bombe, di
cui una parte con gas; il 5 gennaio 1935 Mussolini aveva richiesto una pausa di queste
operazioni per motivi di politica internazionale in attesa di alcune riunioni della Società delle
Nazioni, ma fin dal 9 gennaio il generale Badoglio riprese i bombardamenti chimici e comunicò
a Roma gli effetti terrorizzanti sul nemico. Mussolini a più riprese approvò questo
comportamento; il 19 gennaio 1936 scrisse di “impiegare tutti i mezzi di guerra – dico tutti –
sia dall’alto come da terra”; il 4 febbraio ribadì a Badoglio che lo autorizzava a “impiegare
qualsiasi mezzo”. Ancora il 29 marzo 1936, alla vigilia della battaglia di Mai Ceu, Mussolini
confermò l’autorizzazione a Badoglio “all’impiego di gas di qualunque specie e su qualunque
scala.
Badoglio e l’apparato militare italiano mantennero uno stretto segreto sulla guerra chimica, i
giornalisti furono tenuti lontano, le squadre del “servizio K” bonificarono il terreno vicino alle
truppe italiane, solo pochi ufficiali e alcuni piloti furono informati. Grazie a queste precauzioni,
la grande maggioranza dei soldati italiani non venne a conoscenza dell’impiego dei gas e non
ebbe esperienza diretta dei fatti, al contrario le testimonianze sono numerosissime tra gli excombattenti etiopici. A Mai Ceu, secondo i racconti, i soldati abissini, istruiti a “sentire l’odore”,
“cambiare strada” e “lavarsi subito se contaminati”, avrebbero attraversato, prima di entrare in
battaglia, un “cordone di iprite” che durante la notte aveva perso parte della sua efficacia.
Nonostante le precauzioni dell’apparato militare di Badoglio, le ricorrenti proteste
internazionali, dopo la denuncia del Negus alla Società delle Nazioni del 30 dicembre 1935,
testimonianze di osservatori e giornalisti stranieri e il bombardamento italiano di ospedali da
campo svedesi e belgi, costrinsero il regime, dopo avere prima negato recisamente, ad
ammissioni parziali, minimizzando le dimensioni dei fatti e giustificandoli come ritorsioni
“legittime” per l’impiego di pallottole esplosive Dum-dum da parte etiopica, vietati dalla
convenzione di Ginevra. Le denunce italiane, erano basate inizialmente su un telegramma
falsificato che accusava una ditta britannica delle forniture di queste pallottole; in realtà, in
piccole quantità, gli etiopici fecero uso di queste pallottole, generalmente di proprietà
personale dei soldati che le impiegavano per cacciare. Gli abissini inoltre praticarono torture e
brutalità contro i loro prigionieri di guerra.
Fase6 Obiettivo: Analizzare la colonizzazione italiana (politica estera di Crispi, Giolitti,
Mussolini)
Cosa fa l’insegnante
Cosa fa l’alunno
Osserva ed individua le terre colonizzate dal
Presenta una carta delle terre colonizzate dall’Italia
governo italiano alla fine dell’800 e nella
supportata da una legenda ( All. A)
prima metà del 900.
Ascolta, prende nota e regista la bibliografia.
Presenta una pagina sulla
questione
della
storiografia
sul
colonialismo italiano e
suggerisce
una
bibliografia
di
riferimento: A.Del Boca
L’Africa nella coscienza
degli
italiani.
Miti,
memorie,
errori,
sconfitte, Laterza, Bari
1992; Mondadori, Milano
2002; A.Del Boca
La
nostra
Africa.
Nel
racconto di cinquanta
italiani
che
l’hanno
percorsa, esplorata e
amata N Pozza 2003
Giorgio Rochat, Il colonialismo italiano. Documenti,
Torino, Loescher, 1988, pp. 224 – Ristampato nel
1988 ( All. B)
Metodo: lettura di carta; lezione; lettura di testi.
Raggruppamento alunni: lavoro con gruppo classe; individuale
Mezzi e strumenti: carta; testi
All. A
Per Impero coloniale italiano si intende l’impero coloniale costruito nel XX secolo dall’Italia, con colonie in
Asia, Africa ed Europa orientale. Ufficialmente l’impero viene istituito il 9 maggio 1936 con la nomina di
imperatore d’Etiopia di Vittorio Emanuele III.
Il colonialismo italiano, che ebbe inizio nel 1882 con il possedimento di Assab in Eritrea, fu un fenomeno
storico che comportò l’espansione della sovranità del Regno d’Italia su 4 territori d’Africa (la Libia, la
Somalia, l’Etiopia e l’Eritrea), sul Dodecaneso e sull’Albania. In Cina vi fu una piccola colonia a Tientsin. Con
la seconda guerra mondiale tutte le colonie furono perse; solamente la Somalia italiana rimase sotto
amministrazione fiduciaria italiana fino al 1960.
Stato degli studi e fonti
http://www.storiaefuturo.com/it/numero_7/laboratorio/5_colonialismo-italiano-in-etiopia~108.html
Gli studi sul colonialismo italiano fino alla seconda metà degli anni Sessanta vennero condotti da persone
provenienti dagli ambienti coloniali, le quali per una semplice questione anagrafica avevano avuto a che
fare con l’impero di Mussolini come militari, o amministratori in colonia o funzionari nel ministero dell’Africa
italiana. Per forza di cose essi non avrebbero mai potuto scrivere una storia critica.
Nel 1965 il giornalista Angelo Del Boca pubblicò un volume piccolo ma intensissimo, sulla guerra d’Etiopia e
i successivi anni di occupazione. Di straordinario impatto furono le testimonianze dei protagonisti di allora,
raccolte dall’autore, inviato in diversi paesi africani per conto della “Gazzetta del popolo” di Torino. Nel 1973
lo storico Giorgio Rochat pubblicò in una collana ad uso degli studenti delle scuole medie superiori un
saggio sul colonialismo italiano, ponendo al centro del discorso incapacità, fallimenti ed efferatezze
commesse dagli italiani, in Libia ed Etiopia.
Oggi in Italia gli studi sul colonialismo in generale e sui rapporti tra invasori e indigeni hanno fatto notevoli
progressi.
Una critica della colonizzazione italiana
Tra le molte, una domanda molto semplice che ci siamo posti sin dall’inizio è se il colonialismo italiano
avesse dietro di sé un disegno o un progetto. Perché l’Italia dalla fine dell’800 intraprese una politica
espansionista? A cosa sarebbero serviti i possedimenti coloniali? La domanda ce la siamo posta sia per
comprendere l’imperialismo liberale sia quello fascista. La risposta è che non venne fatto alcun progetto di
lungo termine per sfruttare le colonie e renderle economicamente produttive. L’Italia liberale prima e poi
quella fascista attuarono una politica espansionista esclusivamente per questioni interne e per alleanze con
poteri economici che dalle imprese coloniali avrebbero avuto lauti guadagni. Il belpaese non avrebbe
minimamente potuto competere con le altre potenze europee sotto il profilo militare, e nemmeno pensare
di guadagnarsi uno spazio economico dove esercitare la sua egemonia. Comunque sia, a parole entrambi i
ceti dirigenti presentarono sempre tutte le campagne coloniali come la risposta più efficace ai problemi
dell’emigrazione e della pressione demografica. A parole quindi il colonialismo italiano fu un colonialismo
demografico. Ormai è stato appurato dalla ricerca storica che i coloni italiani furono un numero irrilevante.
Detto questo, abbiamo cercato di periodizzare l’espansione coloniale italiana in periodi che
successivamente sono stati confrontati con i modelli teorici della teoria coloniale che sono: colonizzazione
commerciale, colonizzazione a piantagione, colonizzazione a mezzo schiavi e colonizzazione demografica.
Rappresentano in estrema sintesi differenti gradini dello sviluppo economico delle colonie. Sono fasi
consequenziali ma possono anche coincidere. Fertilità dei suoli, sviluppo demografico, costo della forza
lavoro, erano le componenti essenziali della teoria tramite le quali gli economisti coglievano le discontinuità.
Il passaggio da una fase all’altra era causato dalla caduta del profitto, problema che veniva risolto con
l’introduzione di un nuovo di sfruttamento dei suoli e della manodopera. Nessuno di questi modelli è però
adatto a fornire una risposta, perché il colonialismo italiano fu sempre improvvisato, nessun modello
teorico venne mai applicato. Se da un lato non ravvisiamo nelle intenzioni della classe dirigente italiana
alcun progetto concreto, è pur vero che una politica degna della peggiore colonizzazione demografica era
propagandata e recepita dagli uomini che poi andavano in Africa. Nelle svariate pratiche della dominazione
coloniale abbiamo riscontrato, oltre ad una continuità tra Italia liberale e fascista, la costante presenza di
una impronta razzista con la quale veniva giustificata l’esclusione degli indigeni. Le colonie non
appartenevano più alle genti locali, gli italiani si erano trasferiti per popolare, riprodursi e valorizzare le
nuove terre. Si trattava del leit motiv dei propugnatori della colonizzazione demografica, non solo gli italiani.
Nelle fasi delle varie indipendenze tutte le potenze imperialistiche riproposero la propaganda demografica,
trasformandola e adeguandola alle nuove esigenze. La modernizzazione di settori tradizionali delle società, i
trasferimenti forzati, le inclusioni in confini artificiali, e soprattutto la presenza di bianchi vennero presentati
nelle assisi internazionali a riprova del fatto che alcuni processi del colonialismo erano divenuti irreversibili.
Più nelle colonie vi era presenza di bianchi, e più le rispettive madri patria assumevano atteggiamenti rigidi
e di chiusura di fronte alle richieste dei popoli africani. Nemmeno l’Italia repubblicana rimase estranea al
conformismo imperialistico, basti ricordare nell’immediato dopoguerra le rivendicazioni per mantenere un
protettorato su Eritrea e Somalia, e negli anni ‘70 la querelle sull’espulsione degli italiani dalla Libia. Senza
dubbio la colonizzazione italiana del Corno d’Africa portò in ampli territori un modello di organizzazione
sociale differente da quello tradizionale, venne abolita la schiavitù e, allo stesso tempo, il lavoro salariato e
la carta moneta fecero la loro comparsa ma questi non sono elementi sufficienti per assolvere l’avventura
coloniale italiana.
Bibliografia
A.Del Boca L’Africa nella coscienza degli italiani. Miti, memorie, errori, sconfitte, Laterza, Bari 1992;
Mondadori, Milano 2002
A.Del Boca La nostra Africa. Nel racconto di cinquanta italiani che l’hanno percorsa, esplorata e amata Neri
Pozza 2003
Giorgio Rochat, Il colonialismo italiano. Documenti, Torino, Loescher, 1988, pp. 224 – Ristampato nel 1988
Eritrea, Somalia, Libia, Etiopia sono le terre su cui si
sofferma lo storico Angelo Del Boca, terre che in
settanta anni hanno visto operare, viaggiare, costruire,
distruggere, amare e odiare due milioni di italiani sul
loro suolo. “La nostra Africa” non è il titolo di un libro
nostalgico dei ‘bei tempi delle colonie’ e quel possessivo
‘nostra’ non va inteso nel senso in cui gli italiani del
fascismo interpretavano il ‘Mare nostrum’. Se infatti c’è
uno storico che più di ogni altro ha avuto il coraggio di
dire tristi verità sulla colonizzazione e di smantellare uno
dei miti più cari agli Italiani, quello del ‘bono italiano’,
nato come compensazione alle numerose
manchevolezze, diciamo così, che abbiamo esportato
anche in terra d’Africa, questo è stato Angelo del Boca.
Si potrebbe dire che la storiografia delle colonie italiane
va vista in due tempi: prima di Del Boca, quando anche
gli storici ben intenzionati non volevano credere che noi
ci eravamo comportati come tutti gli altri colonizzatori,
dopo Del Boca, quando le prove da lui trovate- tra una
certa ostilità generale- avevano assunto il colore
definitivo della verità. Tutto questo non ha mai voluto
significare che gli italiani non abbiano amato l’Africa o
che nelle colonie siano arrivati solo stupidi e feroci
generali, come Graziani o altra gente di malaffare, come
gli spietati avventurieri e soldati di pochi scrupoli e di
grandi appetiti. La storia d’oltremare dell’Italia è stata
più breve di quella di altri paesi. Ma in questi pochi
decenni oltre due milioni di coloni, operai, impiegati,
esploratori, viaggiatori, missionari, architetti, artisti,
archeologi arrivati in queste terre per le più diverse
ragioni, hanno dato il meglio di loro stessi a contatto col
Continente nero e sono riusciti a trasformare i loro
interessi casuali o di guadagno in qualcosa di molto più
duraturo, di cui si sentono gli echi ancora oggi nei figli di
chi aveva fatto dell’Africa una seconda patria. E che ha
prodotto un immenso corpo cartaceo, fatto di memorie,
ricordi stanziali e di viaggio, esplorazioni serie e per
ridere, e così via, un materiale molto spesso
sconosciuto, straordinariamente interessante ma
pochissimo letto, in cui solo Del Boca poteva districarsi,
scegliendo gli autori e i brani più adatti a un lettore di
oggi. Un lavoro unico, fatto per dare il panorama più
ampio possibile della nostra presenza in Africa, in cui
‘nostra’ ha lo stesso senso della “Mia Africa” di Karen
Blixen. Quello di un grande amore che rimane intatto
nella memoria.
Fase 7 Obiettivo: Rielaborare criticamente la storia coloniale nazionale
Cosa fa l’insegnante
Cosa fa l’alunno
Ascolta e prende nota del testo da leggere.
Presenta il testo di Ennio Flaiano £ Tempo di
uccidere” ( All. A) e ne propone la lettura a casa
Invita a relazionare e a costruire con il gruppo classe
un cartellone di sintesi sui risultai del colonialismo
italiano.
Relazione, scambia opinioni e costruisce un
cartellone di sintesi. ( All. B)
Metodo: lettura di testo; attività espositiva; conversazione orientata; attività di sintesi.
Raggruppamento alunni: lavoro individuale, con gruppo classe.
Mezzi e strumenti: testi; internet.
All. A
Flaiano, nato a Pescara nel primo decennio del
`900, ha vissuto il Fascismo e ha partecipato
alla Guerra d'Etiopia con il grado di
sottotenente, e questa esperienza gli ha
permesso ad anni di distanza di scrivere il suo
romanzo, in cui la forza evocatrice dei paesaggi
e delle emozioni è sì concisa, secondo uno stile
prettamente giornalistico, ma così facendo
permette un vivace abbozzo delle immagini
che sembrano uscire da fotografie sbiadite del
secolo scorso. Flaiano racconta le vicende di un
tenente dell'esercito italiano che, durante una
breve licenza, si perde nella boscaglia, si
imbatte in una giovane etiope che violenta. La
ragazza, che scoprirà chiamarsi Miriam, lo
accompagna per un tratto del percorso, ma
nella notte, cercando di uccidere una tigre,
Da quel momento inizia un lungo percorso attraverso la
foresta, i campi, gli accampamenti Per il tenente è la
ricerca inconsapevole di un'espiazione del suo peccato,
descritto dalla feroce penna di un satirico che mette a
nudo la fragilità dell'uomo incapace di confrontarsi con i
propri errori. La situazione assume connotazioni
drammatiche quando il tenente scopre sulla mano una
piaga che scambia per lebbra; di qui la paura e la vergogna
che lo portano a leggere in ogni persona che incontra un
accusatore, pronto a consegnarlo per il suo crimine. Così
si avvia una drammatica serie di eventi, tra una partenza
senza permesso, un tentativo di imbarco clandestino, un
furto, due tentati omicidi e una lunga fuga di nuovo nella
boscaglia dove incontra il padre della ragazza. È il vecchio
Johannes che, accoltolo nel suo villaggio distrutto da
un'incursione abissina, tenta di guarirlo, o almeno così
sembra. Il ritorno alla realtà è triste Il tenente, infatti, non
si sente completamente riabilitato: il vecchio lo ha
perdonato, e persino guarito dalla piaga, ma il rimorso e il
senso di colpa sono sempre presenti. Sono giudici severi, il
loro giudizio alla fine del libro è ancora sospeso: il tenente
tornerà in Italia, tornerà dalla moglie, tornerà alla sua
vecchia vita, ma quel giudizio sarà una spada di Damocle
sulla sua esistenza fino alla morte. Di questo romanzo
colpisce la contrapposizione, che Flaiano rende
magistralmente, tra la visione, a tratti allucinata, del
tenente, e degli altri suoi commilitoni. Il giovane vive nella
boscaglia, e la sua solitudine la trasforma in una prigione
della natura, si sente perseguitato da incubi e gli stessi
animali condannano con la loro presenza l'atto criminoso.
La dimensione da incubo assume così i toni di un delirio
l'uomo ferisce gravemente la giovane.
Convinto di non poterla portare in tempo al
campo italiano la uccide.
senza soluzione.
All. B
Fase 8 Obiettivo: Generalizzare la situazione di responsabilità del colonialismo occidentale
Cosa fa l’insegnante
Presenta il film di “ Pontecorvo” la battaglia di Algeri
e la inserisce nel quadro storico della
decolonizzazione della Francia del dopoguerra. ( All.
A)
Apre un dibattito.
Invita ad approfondire la questione dello scontro tra
colonizzati e colonizzatori attraverso la visione del
film “Queimada”di Pontecorvo.
Cosa fa l’alunno
Ascolta, prende nota, vede il film ( All. A)
Partecipa al dibattito.
Vede il film.
Partecipa al dibattito.
Apre un dibattito
Invita a scrivere un saggio breve sul processo di
decolonizzazione
Scrive un saggio breve sul processo di
decolonizzazione.
Invita a leggere alcuni elaborati e a socializzare le
riflessioni con il gruppo classe.
Legge e socializza le idee con il gruppo classe.
Raggruppamento alunni: lavoro con gruppo classe; individuale.
Metodo: lezione, visione di film; dibattito orientato; laboratorio di scrittura; negoziazione di
riflessioni.
Mezzi e strumenti: film; slide
La decolonizzazione e il Terzo mondo
All. A
(1945-1997)
L’accesso all’indipendenza dei paesi colonizzati è uno dei fenomeni più importanti del ‘900. Iniziato già dopo
la prima guerra mondiale, il processo di decolonizzazione ebbe la sua spinta decisiva nel secondo
dopoguerra. Coinvolse prima l’Asia e poi l’Africa e si attuò secondo varie modalità (modello francese e
modello inglese).
I paesi decolonizzati percepirono se stessi come un nuovo soggetto politico e andarono a costituire un terzo
blocco (“terzo mondo”) accanto ai due già esistenti, agli interessi dei quali non intendevano soggiacere.
I caratteri generali della decolonizzazione
E’ uno dei fenomeni più importanti del ‘900. Iniziato già dopo la prima guerra mondiale, ebbe la sua
spinta decisiva nel secondo dopoguerra.
Le cause della decolonizzazione:
 L’appoggio dato, durante la guerra, ai gruppi indipendentisti e anticolonialisti dai
belligeranti contro i propri nemici (in Asia ad es. il Giappone appoggia i guerriglieri in
funzione antinglese o antifrancese) fa sì che essi acquistino forza e prestigio.
 Il ruolo di Usa e Urss che appoggiano la decolonizzazione per sostituirsi ai vecchi
dominatori: la decolonizzazione viene appoggiata per liquidare il vecchio ordine
mondiale fondato sull’eurocentrismo e sostituire ad esso l’influenza delle due nuove
potenze. Sebbene animate da volontà dominatrice (sostituire la loro influenza a quella
dei vecchi dominatori), le due superpotenze ebbero un ruolo decisivo nell’avviare la
decolonizzazione.
 Il principio di autodeterminazione dei popoli, uscito dalla Carta atlantica del 1941
(frutto dell’incontro nella baia di Terranova tra Churchill e Stalin per accordarsi sul
futuro ordine mondiale), si imporrà come nuovo codice etico-politico internazionale.
Le forme della decolonizzazione
Vi furono sostanzialmente due modelli di decolonizzazione
a) il modello inglese: graduale abdicazione al proprio dominio e trasformazione
dell’Impero in una comunità volontaria di nazioni sovrane
b) il modello francese: tenace resistenza ai modelli indipendentistici (  guerra d’Algeria) e
tentativo di riunire le colonie in un unico Stato.
Il rapporto dei paesi decolonizzati con l’Europa continuò comunque a persistere, soprattutto sul
piano culturale (lingua, costumi, ecc.). Sul piano politico invece difficilmente la democrazia di
stampo occidentale si impose nelle colonie nelle quali si affermarono piuttosto regimi autoritari, per
varie ragioni:
a) il peso di una tradizione culturale differente che non rappresentava un terreno fertile
per la democrazia
b) il peso dell’eredità del governo Europeo, che era stato di tipo autoritario nelle colonie
c) il carattere delle dirigenze locali, spesso cresciute nelle forze armate, e non espressione
di borghesie radicate nella società
d) grave arretratezza economica
L’indipendenza dei paesi del Maghreb – La guerra d’Algeria (1954-62)
Gli anni ’50 Sono gli anni dell’indipendenza dei paesi del Maghreb: Marocco e Tunisia seguiranno
vicende incruenti mentre in Algeria si scatenerà una guerra lunga e cruenta.
I casi meno cruenti: Marocco e Tunisia Nel ’56 – dopo una serie di repressioni militari – diventano
indipendenti dalla Francia Marocco e Tunisia, che manterranno una posizione moderata e filooccidentale in politica estera.
La guerra d’Algeria Ben più cruenta invece la vicenda dell’Algeria, dove erano presenti oltre un
milione di coloni francesi (i cosiddetti pieds-noirs) che detenevano privilegi rispetto agli algerini.
Soprattutto dopo il successo della rivoluzione nasseriana, i nazionalisti si mostrano meno inclini alle
soluzioni moderate e fondano l’FLN, il cui capo era Ben Bella.
Lo scontro culmina nella battaglia di Algeri (1957), con drammatici episodi di guerriglia urbana, che
dura quasi nove mesi. Conseguenza di ciò è la crisi della Quarta repubblica che spiana la strada al
ritorno al potere di De Gaulle. Egli pone fine alla questione algerina nel ’62, con gli accordi di Evian.
I coloni francesi in Algeria abbandonano in massa il paese.
Nell'ottobre 1957, mentre i paracadutisti del
colonnello Mathieu rastrellano la Casbah, Ali La
Pointe, uno dei capi della guerriglia algerina,
rievoca il passato, l'organizzazione dell'FLN
(Fronte di Liberazione Nazionale), gli attentati, gli
scioperi, le delazioni. Ali La Pointe è ucciso, ma tre
anni dopo, in dicembre, il popolo algerino scende
in piazza, proclamando la propria volontà di
indipendenza. Sobria rievocazione di taglio
documentaristico sulla base di una solida
sceneggiatura di Franco Solinas che, con forte
coralità e qualche dilatazione nelle fasi degli
attentati, mostra una guerra di popolo, spiegando
anche le ragioni del "nemico", i francesi. Leone
d'oro alla Mostra di Venezia, il film ebbe vasta
risonanza internazionale, soprattutto sui mercati
di lingua inglese, diventando, fra l'altro, un film di
studio per le Black Panthers. Musica di E.
Morricone e splendido bianconero scope di
Marcello Gatti.
All. B
https://www.youtube.com/watch?v=jeRifo7o1uw
Queimada è un'isola immaginaria dell'arcipelago delle Antille, da
diversi secoli sottoposta alla dominazione politica ed economica del
Portogallo. La corona britannica, interessata ad ampliare i propri
commerci nella zona, appoggia la causa d'indipendenza della ricca
borghesia dell'isola ed invia William Walker, un agente inglese sotto
copertura diplomatica incaricato di fomentare la rivoluzione borghese
a Queimada. Questi è un uomo pragmatico e intelligente, e riesce a
coinvolgere nella rivoluzione anche gli schiavi neri dell'isola,
servendosi della leadership di un uomo molto carismatico tra i
diseredati di Queimada, José Dolores che lo stesso Walker si è
incaricato di indottrinare ideologicamente. La rivoluzione borghese
avrà successo e nell'isola s'instaurerà il debole e incapace governo
borghese di Teddy Sanchez. Quando il giovane rivoluzionario José
Dolores infiammerà ancora una volta la sua gente per chiedere
l'indipendenza economica dall'Inghilterra e l'uguaglianza di tutti gli
uomini, sarà ancora Walker, ormai disilluso, l'incaricato di fermare
questa nuova rivolta che sarà domata con l'intervento diretto dei
cannoni e delle truppe inglesi che bruciando le piantagioni di canna
da zucchero faranno uscire allo scoperto i rivoltosi. Ancora una volta
l'isola sarà bruciata come dice il suo nome in portoghese:
queimada.William Walker, che nel film rappresenta la metafora del
capitalismo imperialista, non di per sé cattivo, ma costretto ad agire
secondo le fatali e impersonali leggi del profitto, tenterà di far fuggire
José Dolores, ma questi rifiuterà ed accetterà il destino
dell'impiccagione che lo attende, per rimanere un esempio da seguire
per i futuri rivoluzionari. Sarà proprio uno di questi ad uccidere,
pugnalandolo, l'emissario inglese che stava per tornare in patria.
Fase 9 Obiettivo: Cogliere attraverso un processo di spaesamento le ragioni dell’altro.
Cosa fa l’insegnante
Presenta il testo di F. Fanon, I dannati della terra,
Einudi, 1962 e lo inquadra storicamente
Cosa fa l’alunno
Ascolta e prende appunti
Raggruppamento alunni:
Metodo:
Mezzi e strumenti:
da Frantz Fanon, I dannati della terra, Einudi, 1962
trascrizione a cura di Valerio per www.resistenze.org per l'anniversario della morte di Fanon (06/12/1961)
Nell'opera di Fanon, e in particolare in questo suo libro, si è
realizzata la presa di coscienza del significato universale
della rivoluzione dei popoli coloniali e dell'avvento del
"terzo mondo" come protagonista della nuova storia. Anche
se il libro getta le sue radici nella rivoluzione algerina, e si
alimenta della sua straordinaria esperienza, esso trascende
di gran lunga l'ambito di una particolare nazione, per
studiare l'intero processo su un piano internazionale, che
tende a dare alla storia un'universalità effettiva e a fare
dell'umanità intera il suo soggetto consapevole. La
prefazione è di Jean-Paul Sartre.
Prefazione (di Jean Paul Sartre)
Settembre 1961
Or non è molto, la terra contava due miliardi d'abitanti, ossia cinquecento milioni d'uomini e un miliardo e
cinquecento milioni d'indigeni. I primi disponevano del Verbo, gli altri se ne servivano. Tra quelli e questi,
reucci venduti, feudatari, una falsa borghesia inventata di tutto punto fungevano da intermediari. Nelle
colonie la verità si mostrava nuda; le «metropoli» la preferivano vestita; bisognava che l'indigeno le amasse.
Come madri, in certo modo. L'élite europea prese a fabbricare un indigeno scelto; si selezionavano gli
adolescenti, gli si stampavano in fronte, col ferro incandescente, i principi della cultura occidentale, gli si
cacciavano in bocca bavagli sonori, parole grosse glutinose che si appiccicavano ai denti; dopo un breve
soggiorno in metropoli, li si rimandavano a casa, contraffatti. Quelle menzogne viventi non avevano più
niente da dire ai loro fratelli; risonavano; da Parigi, da Londra, da Amsterdam noi lanciavamo parole:
«Partenone! Fratellanza!», e da qualche parte, in Africa, in Asia, labbra si aprivano: «... tenone! lanza!»
Erano i tempi d'oro.Finirono: le bocche s'aprirono da sole; le voci gialle e nere parlavano ancora del nostro
umanesimo, ma era per rimproverarci la nostra inumanità. Ascoltavamo senza scontento quei cortesi
elaborati d'amarezza. Dapprima fu un bello stupore: ma come? Parlan da soli? Vedete, però, che cosa
abbiamo fatto di loro! Non dubitavamo che accettassero il nostro ideale, poiché ci accusavano di non
essergli fedeli; questa volta, l'Europa credette alla sua missione: aveva ellenizzato gli asiatici, creato questa
specie nuova, i negri greco - latini. Fra noi, soggiungevamo molto praticamente: lasciamoli sbraitare, li
consola; can che abbaia non morde.
Venne un'altra generazione, che spostò la questione. I suoi scrittori i suoi poeti, con incredibile pazienza
cercarono di spiegarci che i valori nostri aderivano male alla verità della loro vita, che essi non potevano né
affatto respingerli né assimilarli. All'incirca questo voleva dire: voi fate di noi dei mostri, il vostro umanesimo
ci pretende universali e le vostre pratiche razziste ci particolarizzano. Li ascoltavamo, molto disinvolti: gli
amministratori coloniali non son pagati per leggere Hegel, e infatti lo leggono poco, ma non han bisogno di
quel filosofo per sapere che le coscienze infelici s'impigliano nelle loro contraddizioni. Efficacia nessuna.
Dunque, perpetuiamo la loro infelicità, non ne verrà fuori che fumo. Se ci fosse, ci dicevan gli esperti,
un'ombra di rivendicazione nei loro piagnistei, sarebbe quella dell'integrazione. Mica accordarla, beninteso:
si sarebbe rovinato il sistema che poggia, come sapete, sul supersfruttamento. Ma basterà — dicevano —
tener loro davanti agli occhi quella carota: galopperanno. Quanto a ribellarsi, eravamo tranquillissimi: quale
indigeno cosciente si sarebbe messo a massacrare i bei figli d'Europa al solo scopo di diventare europeo
come loro? Insomma, incoraggiavamo quelle malinconie e non ci parve male, per una volta, di attribuire il
Premio Goncourt a un negro: era prima del '39.
I961. Sentite: «Non perdiamo tempo in sterili litanie o in mimetismi stomachevoli. Abbandoniamo
quest'Europa che non la finisce di parlare dell'uomo pur massacrandolo dovunque lo incontra, in tutti gli
angoli delle sue stesse strade, in tutti gli angoli del mondo. Sono secoli … che in nome d'una pretesa
"avventura spirituale" essa soffoca la quasi totalità dell'umanità », Questo tono è nuovo. Chi osa pigliarlo?
Un africano, uomo del Terzo Mondo, ex colonizzato. Egli soggiunge: «L Europa ha assunto una velocità cosi
pazza, disordinata … che va verso abissi da cui è meglio allontanarsi». In altre parole: è fottuta. Una verità
che non è bella da dire, ma di cui — vero, cari coabitatori del continente? — siam tutti, tra pelle e pelle,
convinti.
C'è da fare una riserva, però. Quando un francese, per esempio, dice ad altri francesi: «Siamo fottuti!» — il
che, a conoscenza mia, accade pressoché tutti i giorni dal 1930 — è un discorso passionale, scottante di
rabbia e d'amore, l'oratore ci si mette dentro con tutti suoi compatrioti. E poi soggiunge generalmente: «A
meno che …» È chiaro di che cosa si tratta: non si devono più commettere altri sbagli; se le raccomandazioni
sue non sono seguite alla lettera, allora e soltanto allora il paese si disintegrerà. Insomma, è una minaccia
seguita da un consiglio e quei discorsi urtano tanto meno in quanto scaturiscono dall'intersoggettività
nazionale. Quando Fanon, invece, dice dell'Europa che corre alla sua rovina, lungi dal levare un grido
d'allarme, egli propone una diagnosi. Questo medico non pretende di condannarla senza scampo — si son
visti miracoli — né di darle i mezzi per guarire: constata che agonizza. Dal di fuori, basandosi sui sintomi che
ha potuto raccogliere. Quanto a curarla, no: ha altri pensieri pel capo; che crepi o sopravviva, lui se ne
infischia. Per questo motivo, il suo libro è scandaloso. E se voi sussurrate, giovialoni e imbarazzati: «Quante
ce ne dice!», la vera natura dello scandalo vi sfugge: giacché Fanon non «ve ne dice» affatto; la sua opera —
così scottante per altri — rimane per voi gelida; si parla di voi spesso, a voi mai. Finiti i Goncourt neri e i
Nobel gialli: non ritornerà più il tempo dei premiati colonizzati. Un ex indigeno «di lingua francese» piega
quella lingua a esigenze nuove, ne usa e si rivolge ai soli colonizzati: «Indigeni di tutti i paesi sottosviluppati,
unitevi!» Che scadimento: per i padri, eravamo gli unici interlocutori; i figli non ci considerano nemmeno più
come interlocutori validi. Siamo gli oggetti del discorso. Certo Fanon ricorda di passata i nostri delitti famosi,
Sétif, Hanoi, Madagascar, ma non perde fatica a condannarli: li adopera. Se smonta le tattiche del
colonialismo, il gioco complesso delle relazioni che uniscono e oppongono i coloni ai «metropolitani», è per
i suoi fratelli; lo scopo suo è di insegnar loro a sventare i nostri colpi.
Insomma, il Terzo Mondo si scopre e si parla con questa voce. Si sa che esso non è omogeneo e che
comprende ancora popoli asserviti, altri che hanno acquisito una falsa indipendenza, altri che si battono per
conquistare la sovranità, altri infine che hanno raggiunto la libertà plenaria ma vivono sotto la minaccia
costante di un'aggressione imperialista. Queste differenze sono nate dalla storia coloniale, quanto dire
dall'oppressione. Qui la Metropoli si è accontentata di pagare qualche feudatario: là, dividendo per
imperare, ha fabbricato di tutto punto una borghesia di colonizzati; altrove ha fatto colpo doppio: la colonia
è nello stesso tempo di sfruttamento e di popolamento. Così l'Europa ha moltiplicato le divisioni, le
opposizioni, forgiato classi e talvolta razzismi, tentato con tutti gli espedienti di provocare e di accrescere la
stratificazione delle società colonizzate. Fanon non dissimula nulla: per lottare contro di noi l'ex colonia
deve lottare contro se stessa. O piuttosto i due fanno uno. Al fuoco della pugna, tutte le barriere interne
devono liquefarsi, l'impotente borghesia di affaristi e di compradores, il proletariato urbano, sempre
privilegiato, il Lumpenproletariat dei bidonvilles, tutti devono allinearsi sulle posizioni delle masse rurali,
vero serbatoio dell'esercito. nazionale e rivoluzionario; in queste contrade di cui il colonialismo ha
deliberatamente arrestato lo sviluppo, il ceto contadino, quando si rivolta, appare prestissimo come la
classe radicale: esso conosce l'oppressione nuda, ne soffre molto più dei lavoratori delle città e, per
impedirgli di morire di fame, non occorre niente di meno che un'eversione di tutte le strutture. Trionfi, la
Rivoluzione nazionale sarà socialista; arrestino il suo slancio, la borghesia colonizzata prenda il potere, il
nuovo Stato, ad onta d'una sovranità formale, resta nelle mani degli imperialisti. È quel che illustra assai
bene l'esempio del Katanga. Cosi l'unità del Terzo Mondo non è fatta: è un'impresa in corso che passa per
l'unione, in ogni paese, dopo l'indipendenza come prima, di tutti i colonizzati sotto il comando della classe
contadina. Ecco quel che Fanon spiega ai suoi fratelli d'Africa, d'Asia, d'America latina: attueremo tutti
assieme e dappertutto il socialismo rivoluzionario o saremo battuti ad uno ad uno dal nostri antichi tiranni.
Non dissimula niente; né le debolezze, né le discordie, né le mistificazioni. Qui il movimento parte male; là,
dopo folgoranti successi, sta perdendo velocità; altrove si è fermato: se si vuoi che riprenda, occorre che i
contadini gettino la loro borghesia a mare. Il lettore è severamente messo in guardia contro le alienazioni
più pericolose: il leader, il culto della persona, la cultura occidentale, ma altresì il ristorno del remoto
passato della cultura africana: la vera cultura è la Rivoluzione; il che vuol dire che essa si modella a caldo.
Fanon parla a voce alta; noi europei, possiamo udirlo: prova ne sia che tenete questo libro tra le mani; forse
non teme che le potenze coloniali traggano profitto dalla sua sincerità?
No. Non teme nulla. I nostri procedimenti non son più aggiornati: possono ritardare talvolta
l'emancipazione, non la fermeranno. E non figuriamoci di poter ridimensionare i nostri metodi: il
neocolonialismo, sogno pigro della Metropoli, è fumo; le «Terze Forze» non esistono oppure sono le
borghesie fasulle che il colonialismo ha già messo al potere. Il nostro machiavellismo ha poca presa su quel
mondo sveglio che ha snidato una dopo l'altra le nostre menzogne. Il colono ha solo un rifugio: la forza,
quando gliene resta; l'indigeno ha solo una scelta: la servitù o la sovranità. Cosa può importargliene, a
Fanon, che voi leggiate o no la sua opera? Egli denuncia ai suoi fratelli le nostre vecchie furbizie, sicuro che
non ne abbiamo di ricambio. È a loro che dice: l'Europa ha messo le zampe sul nostri continenti, occorre
trinciarle fino a che le ritiri; il momento ci favorisce: niente succede a Biserta, a Elisabethville, nel bled
algerino senza che la terra intera ne sia informata; i blocchi assumono partiti contrari, si tengono in rispetto,
approfittiamo di questa paralisi, entriamo nella storia e la nostra irruzione la faccia universale per la prima
volta; battiamoci: in mancanza d'altre armi la pazienza del coltello basterà.
Europei, aprite questo libro, andateci dentro. Dopo qualche passo nella notte vedrete stranieri riuniti
attorno a un fuoco, avvicinatevi, ascoltate: discutono della sorte che riserbano alle vostre agenzie generali
di commercio, ai mercenari che le difendono. Vi vedranno, forse, ma continueranno a parlar tra loro, senza
neanche abbassare la voce. Quell'indifferenza colpisce al cuore: i padri, creature dell'ombra, le vostre
creature, erano anime morte, voi dispensavate loro la luce, non si rivolgevano se non a voi, e voi non vi
prendevate la briga di rispondere a quegli zombies[1]. I figli vi ignorano: un fuoco li rischiara e li riscalda, che
non è il vostro. Voi, a rispettosa distanza, vi sentirete funtivi, notturni, agghiacciati: a ciascuno il suo turno;
in quelle tenebre da cui spunterà un'altra aurora, gli zombies siete voi.
In tal caso, direte voi, buttiamo quest'opera dalla finestra. Perché leggerla giacché non è scritta per noi? Per
due motivi, di cui il primo si è che Fanon vi spiega ai suoi fratelli e smonta per loro il meccanismo delle
nostre alienazioni: approfittatene per scoprirvi a voi stessi nella vostra verità d'oggetti. Le nostre vittime ci
conoscono dalle loro ferite e dai loro ferri: questo rende la loro testimonianza irrefutabile. Basta che ci
mostrino quel che abbiam fatto di i loro perché conosciamo quel che abbiam fatto di noi. É utile? Sì, poiché
l'Europa è in gran pericolo di crepare. Ma, direte voi ancora, noi viviamo nella Metropoli e condanniamo gli
eccessi. È vero: non siete coloni, ma non valete di più. Quelli sono i vostri pionieri, voi li avete inviati
oltremare, vi hanno arricchiti; li avevate avvertiti: se facevano scorrere troppo sangue, li avreste sconfessati
in punta di labbra; allo stesso modo, uno Stato — quale che sia — tiene all'estero una turba di agitatori, di
provocatori e di spie che sconfessa quando li prendono. Voi, cosi liberali, cosi umani, che spingete l'amore
della cultura fino al preziosismo, fate finta di dimenticare che avete colonie e che là massacrano in vostro
nome. Fanon rivela ai suoi compagni — a certuni di loro, soprattutto, che restano un po' troppo
occidentalizzati — la solidarietà dei «metropolitani» e dei loro agenti coloniali. Abbiate il coraggio di
leggerlo: per questo primo motivo che vi farà vergogna e la vergogna, come ha detto Marx, è un sentimento
rivoluzionario. Vedete: anch'io non posso sciogliermi dall'illusione soggettiva. Anche io vi dico: «Tutto è
perduto, a meno che …» Europei, io rubo il libro d'un nemico e ne faccio un mezzo per guarire l'Europa.
Approfittatene.
Ed ecco il secondo motivo: se scartate le chiacchiere fasciste di Sorel, troverete che Fanon è il primo dopo
Engels a rimettere in luce l'ostetrica della storia. E non crediate che un sangue troppo vivo o sventure
d'infanzia gli abbian dato per la violenza non so qual gusto singolare: egli si fa interprete della situazione,
nient'altro. Ma ciò gli permette di ricostruire, una fase dopo l'altra, la dialettica che 1'ipocrisia liberale vi
nasconde e che ha prodotto noi quanto lui.
Nel secolo scorso, la borghesia considera gli operai come invidiosi, sregolati da grossolani appetiti ma ha
cura d'includere quei gran ferini nella nostra specie: a meno di essere uomini e liberi, come potrebbero
vendere liberamente la loro forza di lavoro? In Francia, in Inghilterra, l'umanesimo si pretende universale.
Col lavoro forzato, è tutto l'opposto: niente contratto; per giunta, occorre intimidire; dunque l'oppressione
si palesa. I nostri soldati, oltremare, respingendo l'universalismo metropolitano, applicano al genere umano
il numerus clausus: poiché nessuno può — senza reato — spogliare il suo simile, asservirlo od ucciderlo,
pongono a principio che il colonizzato non è il simile dell'uomo. La nostra forza d'assalto ha ricevuto
missione di mutare quell'astratta certezza in realtà: ordine è dato di abbassare gli abitanti del territorio
annesso al livello della scimmia superiore per giustificare il colono di trattarli da bestie da soma. La violenza
coloniale non si propone soltanto lo scopo di tenere a rispetto quegli uomini asserviti, cerca di
disumanizzarli. Niente sarà risparmiato per liquidare 1e loro tradizioni, per sostituire le nostre lingue alle
loro, per distruggere la loro cultura senza dar loro la nostra; li si abbrutirà di fatica. Denutriti, malati se
ancora resistono la paura finirà l'opera: si puntano sul contadino fucili; vengono civili che si stabiliscono sulla
sua terra e lo costringono con lo scudiscio a coltivarla per loro. Se resiste, i soldati sparano, lui è un uomo
morto; se cede, si degrada, non e più un uomo; la vergogna e la paura incrineranno il suo carattere,
disintegreranno la sua persona La cosa si fa senza dar fiato, ad opera d'esperti: i «servizi psicologici» non
datano da oggi. Né il lavaggio del cervello. Eppure, nonostante tanti sforzi, lo scopo non è raggiunto da
nessuna parte: nel Congo, in cui si tagliavano le mani dei negri; mica meglio che in Angola dove, or non è
molto, si foravano le labbra ai malcontenti per chiuderle con lucchetti. Né io pretendo che sia impossibile
cambiare un uomo in bestia: dico che non vi si arriva senza indebolirlo considerevolmente; i colpi non
bastano mai, occorre forzare sulla denutrizione. È questa la seccatura, con la servitù: quando si addomestica
un membro della nostra specie, se ne diminuisce il rendimento, e per poco che gli si dia, un uomo da cortile
finisce per costare più di quanto frutti. Per questo motivo i coloni son costretti ad arrestare l'addestramento
a metà: il risultato, né uomo né bestia, è l'indigeno. Picchiato, sottoalimentato, ammalato, impaurito, ma
fino ad un certo punto soltanto, egli ha, giallo, nero o bianco, sempre gli stessi tratti di carattere: è un pigro,
dissimulatore e ladro, che vive di nulla e non conosce altro che la forza.
Povero colono: ecco la sua contraddizione messa a nudo. Dovrebbe, come fa, si dice, il genio, uccidere quelli
che saccheggia. Il che purtroppo non è possibile: o non è forse necessario che li sfrutti? Mancando ai
spingere il massacro fino al genocidio, e la servitù fino all'abbruttimento, perde il controllo, l'operazione si
capovolge, un'implacabile logica la porterà fino alla decolonizzazione.
Non subito. Dapprincipio l'europeo impera: ha già perduto ma non se e accorge; non sa ancora che
gl'indigeni son falsi indigeni: fa loro male, a sentirlo, per distruggere o ricacciare il male che hanno in loro; in
capo a tre generazioni, i loro perniciosi istinti non rinasceranno più. Quali istinti? Quelli che spingono lo
schiavo a massacrare il padrone? Come non riconosce la sua stessa crudeltà rivoltarsi contro di lui?
L'asprezza selvaggia di quei contadini oppressi, come non vi ritrova la sua asprezza selvaggia di colono che
quelli hanno assorbita da tutti i pori e da cui non guariscono? La ragione è semplice: quel personaggio
imperioso, spiritato dalla sua onnipotenza e dalla paura di perderla, non si ricorda più chiaramente di essere
stato un uomo: si crede uno scudiscio o un fucile; è giunto a pensare che l'addomesticamento delle «razze
inferiori» si ottiene col condizionamento dei loro riflessi. Trascura la memoria umana, .i ricordi
incancellabili; e poi, soprattutto, c'è quello che egli forse non ha mai saputo: noi non diventiamo quello che
siamo se non con la negazione intima e radicale di quel che han fatto di noi. Tre generazioni? Fin dalla
seconda, appena aprivano gli occhi, i figli hanno visto percuotere i loro padri. In termini psichiatrici, eccoli
«traumatizzati ». Per la vita. Ma quelle aggressioni senza tregua rinnovate, anziché spingerli a sottomettersi,
li buttano in una contraddizione insopportabile di cui l'europeo, presto o tardi, farà le spese. E dopo, li si
addestri a loro volta, gli si insegni la vergogna, il dolore e la fame: non si susciterà ne loro corpi che rabbia
vulcanica la cui potenza è uguale a quella della pressione che viene esercitata su di loro. Non conoscono,
dicevate, se non la forza? Certo; dapprima sarà soltanto quella del colono e ben presto, soltanto la loro, il
che vuol dire: la medesima che si ripercuote su di noi come il nostro riflesso ci viene incontro dal fondo
d'uno specchio. Non illudetevi; attraverso quel pazzo rovello, per quella bile e quel fiele, attraverso il loro
desiderio costante di ucciderci, per la contrazione costante di muscoli potenti che han paura di sciogliersi,
essi sono uomini: attraverso il colono, che li vuole uomini di fatica, e contro di lui. Cieco ancora, astratto,
l'odio è il loro solo tesoro: il padrone lo provoca perche cerca di imbestialirli, non riesce a spezzarlo, perché i
suoi interessi l'arrestano a mezza strada; così i falsi indigeni sono umani ancora, per la potenza e
l'impotenza dell'oppressore che si trasformano, in loro, in rifiuto caparbio della condizione animale. Quanto
al resto abbiamo capito; son pigri, certo: ma è sabotaggio. Dissimulatori, ladri: caspita; i loro furtarelli
segnano l'inizio d'una resistenza non ancora organizzata. Non basta: ce ne sono che si affermano buttandosi
a mani nude contro i fucili; sono i loro eroi; e altri si fanno. uomini assassinando europei. Li si ammazza:
briganti e martiri, il loro supplizio esalta le masse atterrite.
Atterrite, sì: in questo nuovo momento, l'aggressione colonialista s'interiorizza in Terrore nei colonizzati.
Con ciò non intendo soltanto il timore che essi provano davanti ai nostri inesauribili mezzi di repressione,
ma anche quello che ispira loro il loro stesso furore. Son stretti tra le nostre armi che li prendono di mira e
quelle spaventevoli pulsioni, quei desideri omicidi che salgono dal fondo dei cuori e che essi non sempre
riconoscono: giacché non è, da principio, la loro violenza, è la nostra, rivoltata, che cresce e li strazia; e il
primo moto di quegli oppressi è di seppellire profondamente quell'inconfessabile ira che la morale loro e
nostra condannano e non è però che l'ultimo ridotto della loro umanità. Leggete Fanon: saprete che, nel
tempo della loro impotenza, la pazzia omicida è l'inconscio collettivo dei colonizzati.
Questa furia rattenuta, non potendo scoppiare, gira a tondo e sconvolge gli oppressi stessi. Per liberarsene,
giungono a massacrarsi tra loro: le tribù si battono le une contro le altre non potendo affrontare il nemico
vero — e potete contare sulla politica coloniale per mantenere le loro rivalità; il fratello, alzando il coltello
contro suo fratello, crede di distruggere, una volta per tutte, l'aborrita immagine del loro avvilimento
comune. Ma quelle vittime espiatore non placano la loro sete di sangue; si tratterranno dal marciare contro
le mitragliatrici solo facendosi nostri complici: quella disumanizzazione che respingono, ne accelereranno
per conto loro i progressi. Sotto gli occhi divertiti del colono, si premuniranno contro se stessi con barriere
soprannaturali, ora ravvivando vecchi miti terribili, ora legandosi stretti con riti meticolosi: così
l'ossessionato fugge la sua esigenza profonda infliggendosi manie che lo reclamano ad ogni istante.
Danzano: ciò li tiene occupati; ciò scioglie loro i muscoli dolorosamente contratti; e poi la danza mima in
segreto, spesso a loro insaputa, il «no» che non possono dire, gli omicidi che non osano commettere. In
certe regioni si servono di quest'ultima risorsa: la possessione. Ciò che un tempo era il fatto religioso nella
sua semplicità, una certa comunicazione del fedele col sacro, essi ne fanno un'arma contro la disperazione e
l'umiliazione: gli zar, i loa[2], i Santi della Santeria discendono in loro, governano la loro violenza e la
sprecano in trances sino all'esaurimento. Nello stesso tempo quegli alti personaggi li proteggono: ciò vuoi
dire che i colonizzati si difendono dall'alienazione coloniale esagerando l'alienazione religiosa. Con
quest'unico risultato, in fin dei conti, di cumulare le due alienazioni e che ciascuna si rafforza con l'altra.
Così, in certe psicosi, stanchi di esser insultati tutti i giorni, gli allucinati si immaginano un bel mattino di
udire una voce d'angelo che li complimenta; i frizzi non cessano per questo: ma si alternano con le
felicitazioni. È una difesa ed è il termine della loro avventura: la persona è dissociata, il malato si avvia alla
demenza. Aggiungete, per qualche infelice rigorosamente selezionato, quell'altra ossessione di cui ho
parlato più su: la cultura occidentale. Al loro posto, direte voi, preferirei ancora i miei zar che l'Acropoli. Be';
avete capito. Ma non del tutto, giacché non siete al loro posto. Non ancora. Altrimenti sapreste quelli non
possono scegliere: cumulano. Due mondi, fan due ossessioni: si danza tutta la notte, all'alba ci si accalca per
ascoltare la messa; di giorno in giorno la lesione aumenta. Il nostro nemico tradisce i suoi fratelli e si fa
nostro complice; i suoi fratelli fanno altrettanto. L'indigenato è una nevrosi introdotta e mantenuta dal
colono nei colonizzati col loro consenso.
Reclamare e rinnegare, simultaneamente, la condizione umana: la contraddizione è esplosiva. Perciò
esplode, lo sapete quanto me. E noi viviamo al tempo della deflagrazione: che l'incremento delle nascite
accresca la penuria, che i nuovi venuti debbano temere di vivere quasi più che di morire, il torrente della
violenza travolgerà tutte le barriere. In Algeria, in Angola, si massacrano a vista gli europei. E il momento del
boomerang, il terzo tempo della violenza: essa ritorna su di noi, ci percuote e, mica più delle altre volte, noi
non capiamo che è la nostra. I «liberali» restano storditi: riconoscono che non eravamo abbastanza gentili
con gli indigeni, che sarebbe stato più giusto e prudente accordar loro certi diritti nei limiti del possibile; non
chiedevan di meglio che di ammetterli per infornate e senza padrini in questo club così chiuso, la nostra
specie: ed ecco che quello scatenamento barbaro e pazzo non li risparmia mica più dei cattivi coloni. La
Sinistra Metropolitana sta a disagio: conosce la vera sorte degl'indigeni, l'oppressione senza quartiere di cui
sono oggetto, non condanna la loro rivolta, sapendo che abbiamo fatto di tutto per provocarla. E tuttavia,
pensa, ci sono dei limiti: quei guerrilleros dovrebbero avere a cuore di mostrarsi cavallereschi; sarebbe il
miglior mezzo di provare che sono uomini. Talvolta li strapazza: «siete degli esagerati, noi non vi
appoggeremo più». Quelli se ne fottono: per quel che vale l'appoggio ch'essa loro accorda, può altrettanto
bene metterselo al sedere. Appena la loro guerra è cominciata, hanno scorto questa verità rigorosa: noi ci
valiamo tutti quanti siamo, abbiamo tutti approfittato di loro, non hanno niente da provare, non faranno
trattamenti di favore a nessuno. Un solo dovere, un solo obbiettivo: cacciare il colonialismo con tutti i mezzi.
E i più avverti di noi sarebbero, a rigore, pronti ad ammetterlo, ma non possono far a meno di vedere, in
questa prova di forza, il mezzo tutto inumano che sottouomini hanno preso per farsi largire uno statuto
d'umanità: lo si accordi al più presto e cerchino allora, con imprese pacifiche, di meritarlo. Le nostre anime
belle sono razziste.
Avran vantaggio a leggere Fanon; questa violenza irrefrenabile, egli lo mostra perfettamente, non è
un'assurda tempesta né il risorgere d'istinti selvaggi e nemmeno effetto del risentimento:è l'uomo stesso
che si ricompone. Questa verità, noi l'abbiamo saputa, credo, e l'abbiamo dimenticata: i segni della
violenza, nessun dolore li cancellerà: è la violenza soltanto che può distruggerli. E il colonizzato si guarisce
dalla nevrosi coloniale cacciando il colono con le armi. Quando la sua rabbia scoppia, egli ritrova la
trasparenza perduta, si conosce nella misura stessa in cui si fa; da lontano noi consideriamo la sua guerra
come il trionfo della barbarie; ma essa procede da se stessa all'emancipazione progressiva del combattente,
fuga in lui e fuori di lui, progressivamente, le tenebre coloniali. Appena comincia, è senza quartiere. Occorre
restare atterriti o diventar tremendi; ciò vuol dire: abbandonarsi alle dissociazioni d'una vita falsata o
conquistare l'unità natale. Quando i contadini toccano il fucile, i vecchi miti impallidiscono, gli interdetti
sono rovesciati ad uno ad uno: l'arma d'un combattente, è la sua umanità. Giacché, nel primo tempo della
rivolta, occorre uccidere; far fuori un europeo è prendere due piccioni con una fava, sopprimere nello stesso
tempo un oppressore e un oppresso: restano un uomo morto e un uomo libero; il sopravvissuto, per la
prima volta, si sente un suolo nazionale sotto la pianta dei piedi. In quell'istante la Nazione non si allontana
da lui: la si trova dove egli va, dove egli è — mai più lontano, essa si confonde con la sua libertà. Ma, dopo la
prima sorpresa, l'esercito coloniale reagisce: occorre unirsi o farsi massacrare. Le discordie tribali si
attenuano, tendono a sparire: anzitutto perché mettono in pericolo la rivoluzione, e più profondamente
perché non avevano altro ufficio che di deviare la violenza verso falsi nemici. Quando esse permangono —
come nel Congo — è che sono alimentate dagli agenti de colonialismo. La Nazione si mette in marcia: per
ogni fratello essa è dovunque altri fratelli combattono. Il loro amore fraterno è il rovescio dell'odio che
nutron per voi: fratelli in questo, che ognuno di loro ha ucciso, può da un momento all'altro aver ucciso.
Fanon mostra ai suoi lettori i limiti della «spontaneità», la necessità e i pericoli dell'« organizzazione». Ma
quale che sia l'immensità del compito, ad ogni sviluppo dell'impresa la coscienza rivoluzionaria si
approfondisce. Gli ultimi complessi si dileguano: vengano un po' a parlarci del «complesso di dipendenza»
nel soldato dell'ALN. Liberato dai paraocchi, il contadino prende coscienza dei suoi bisogni: gli davan la
morte ma lui tentava d'ignorarli; li scopre come esigenze infinite. In quella violenza popolare — per reggere
cinque anni, otto anni come hanno fatto gli algerini — le necessità militari, sociali e politiche non possono
separarsi. La guerra — non fosse che col porre la questione del comando e delle responsabilità — istituisce
nuove strutture che saranno le prime istituzioni della pace. Ecco dunque l'uomo instaurato in tradizioni
nuove, figlie future d'un orrendo presente, eccolo legittimato da un diritto che sta per nascere, che nasce
ogni giorno in prima linea: con l'ultimo colono ucciso, rimbarcato o assimilato, la specie minoritaria
scompare, cedendo il posto alla fratellanza socialista. E ancora non basta: quel combattente brucia le tappe;
potete ben pensare che non rischia la pelle per ritrovarsi al livello del vecchio uomo «metropolitano».
Osservate la sua pazienza: forse sogna talvolta una nuova Dien-Bien-Phu; ma potete credere che non ci
conta davvero: è un pezzente che lotta, nella sua miseria, contro ricchi potentemente armati. Aspettando le
vittorie decisive e, spesso, senza aspettarsi nulla, riduce a poco a poco gli avversari allo sconforto. Ciò non
avverrà senza perdite terribili; l'esercito coloniale diventa feroce: perquisizioni sistematiche, rastrellamenti,
raggruppamenti, spedizioni punitive; si massacrano le donne e i bambini. Lui lo sa: quest'uomo nuovo
comincia la sua vita d'uomo dalla fine; si considera come un morto in potenza. Sarà ucciso: non è soltanto
che ne accetta il rischio, è che ne ha la certezza; quel morto in potenza ha perso sua moglie, i suoi figli; ha
visto tante agonie che vuol vincere piuttosto che sopravvivere; altri approfitteranno della vittoria, non lui: è
troppo stanco. Ma questa fatica del cuore e all'origine di un incredibile coraggio. Noi troviamo la nostra
umanità al di qua della morte e della disperazione, lui la trova al di là dei supplizi e della morte. Noi siamo
stati i seminatori di vento; la tempesta, è lui. Figlio della violenza, attinge in essa ad ogni istante la sua
umanità: eravamo uomini a sue spese, si fa uomo alle nostre. Un altro uomo: di qualità migliore.
Qui Fanon si ferma. Ha indicato la strada: portavoce dei combattenti, ha reclamato l'unione, l'unità de
continente africano contro tutte le discordie e tutti particolarismi. Il suo scopo è raggiunto. Se volesse
descrivere il fatto storico della decolonizzazione, gli occorrerebbe parlare di noi: il che non è certo il suo
intento. Ma quando abbiamo chiuso il libro, esso continua in noi, nonostante il suo autore: giacché noi
sentiamo la forza del popoli in rivoluzione e vi rispondiamo con la forza. C'è dunque un nuovo momento
della violenza ed è a noi, questa volta, che occorre ritornare, poiché essa sta cambiandoci nella misura in cui
il falso indigeno si cambia attraverso di essa. A ciascuno fare le riflessioni che preferisce. Purché tuttavia
rifletta: nell'Europa d'oggi, tutta stordita dai colpi che le sono inferti, in Francia, in Belgio, in Inghilterra, la
minima distrazione del pensiero è una complicità delittuosa con il colonialismo. Questo libro non aveva
nessun bisogno d'una prefazione. Tanto meno in quanto non si rivolge a noi. Ne ho scritta una, tuttavia, per
portare fino in fondo la dialettica: anche noi, gente d'Europa, ci si decolonizza: ciò vuol dire che si estirpa,
con un'operazione sanguinosa, il colono che è in ciascuno di noi. Guardiamoci, se ne abbiamo il coraggio, e
vediamo quel che avviene di noi.
Occorre affrontare intanto questo spettacolo inaspettato: lo streap-tease del nostro umanesimo. Eccolo qui
tutto nudo, non bello: non era che un'ideologia bugiarda, la squisita giustificazione del saccheggio; le sue
tenerezze e il suo preziosismo garantivano le nostre aggressioni. Bella figura, i nonviolenti: né vittime né
carnefici! Andiamo! Se non siete vittime, quando il governo che avete plebiscitato, quando l'esercito in cui i
vostri fratelli più giovani han prestato servizio, senza esitazione né rimorso, si sono accinti a un «genocidio»,
siete indubbiamente carnefici. E se scegliete d'essere vittime, di rischiare un giorno o due di prigione, voi
scegliete semplicemente di tirarvi fuori dal gioco. Non vi tirerete via affatto: bisogna che ci restiate fino in
fondo. Capite finalmente questo: se la violenza è cominciata stasera, se lo sfruttamento o l'oppressione non
sono mai esistiti in terra, forse la nonviolenza ostentata può placare il dissidio, Ma se il regime per intero e
fin i vostri nonviolenti pensieri son condizionati da un'oppressione millenaria, la passività vostra non serve
che a schierarvi dal lato degli oppressori.
Voi sapete bene che siamo degli sfruttatori. Sapete bene che abbiam preso l'oro e i metalli, poi il petrolio
dei «continenti nuovi» e li abbiamo riportati nelle nostre vecchie metropoli. Non senza risulta eccellenti:
palazzi, cattedrali, città industriali; e poi, quando la crisi minacciava, i mercati coloniali eran lì per
estinguerla o stornarla. L'Europa, satura di ricchezze, accordò de jure l'umanità a tutti suoi abitanti: un
uomo, da noi, vuol dire un complice, giacché abbiamo approfittato tutti dello sfruttamento coloniale.
Questo continente grasso e smorto finisce per incorrere in quel che Fanon chiama giustamente il
«narcissismo ». Cocteau s'irritava di Parigi, «città che parla continuamente di se stessa». E l'Europa, che
altro fa? E quel mostro supereuropeo, l'America del Nord? Che cicaleccio: libertà, uguaglianza, fratellanza,
amore, onore, patria, che so io? Questo non c'impediva di tenere nello stesso tempo discorsi razzisti, porco
negro, porco ebreo, porco arabo. Spiriti buoni, liberali e delicati — neocolonialisti, insomma — si
pretendevano urtati da questa incongruenza; errore o malafede: niente di più congruo, da noi, che un
umanesimo razzista, poiché l'europeo non ha potuto farsi uomo se non fabbricando degli schiavi e dei
mostri. Fintanto che ci fu un indigenato, quella impostura non fu smascherata; si trovava, nel genere
umano, un'astratta postulazione d'universalità che serviva a coprire pratiche più realiste; cera, dall'altra
parte dei mari, una razza di sottouomini che, grazie a noi, tra mille anni forse, sarebbe arrivata al nostro
stadio. Insomma, si confondeva il genere con l'élite. Oggi l'indigeno rivela la sua verità; di colpo, il nostro
club così chiuso rivela la sua debolezza: non era altro che una minoranza. C'è di peggio: poiché gli altri si
fanno uomini contro di noi, si vede chiaro che noi siamo i nemici del genere umano; l'élite rivela la sua vera
natura: una banda di malfattori. I nostri cari valori perdono le ali; a guardarli da vicino, non se ne troverà
uno che non sia macchiato di sangue. Se vi occorre un esempio, ricordatevi quelle gran parole: com'è
generosa, la Francia. Generosi, noi? E Sétif? E questi otto anni di guerra feroce che sono costati la vita a più
d'un milione di algerini? E gli elettrodi? Ma capite bene che non ci si rimprovera d'aver tradito non so qual
missione: per la bella ragione che non ne avevamo alcuna. È la generosità stessa ad esser in causa; questa
bella parola sonante non ha che un senso: statuto elargito. Per gli uomini di fronte, nuovi e liberati, nessuno
ha il potere né il privilegio di dar niente a nessuno. Ognuno ha tutti i diritti. Su tutti; e la nostra specie,
quando un giorno si sarà fatta, non si definirà come la somma degli abitanti del globo ma come l'unità
infinita delle loro reciprocità. Mi fermo qui; finirete il lavoro voi senza fatica; basta guardare in faccia, per la
prima e l'ultima volta, le nostre aristocratiche virtù: esse stanno crepando; come sopravviverebbero
all'aristocrazia di sottuomini che le ha generate? Alcuni anni or sono, un commentatore borghese — e
colonialista — per difendere l'Occidente non ha trovato altro che questo: «Non siamo angeli. Ma noi,
almeno, abbiamo rimorsi». Che confessione! Un tempo il nostro continente aveva altre tavole di salvezza: il
Partenone, Chartres, i Diritti dell'Uomo, la svastica. Si sa adesso quello che valgono: e non si pretende più di
salvarci dal naufragio se non col sentimento molto cristiano della nostra consapevolezza. È la fine, come
vedete: l'Europa fa acqua da tutte le parti. Che è dunque successo? Questo, molto semplicemente, che
eravamo i soggetti della storia e che ne siamo adesso gli oggetti. Il rapporto delle forze si è rovesciato, la
decolonizzazione è in corso; tutto quel che i nostri mercenari possono tentare è ritardarne il compimento.
Ma bisogna ancora che le vecchie «Metropoli» ce la mettano tutta, che impegnino tutte le loro forze in una
battaglia perduta in anticipo Quella vecchia brutalità coloniale che ha fatto la dubbia gloria dei Bugeaud
[[3]], la ritroviamo, alla fine dell'avventura, decuplicata, insufficiente. S'invia il contingente in Algeria, esso vi
si trattiene da sette anni senza esito. La violenza ha cambiato senso; vittoriosi l'esercitavamo senza che
sembrasse alterarci: essa decomponeva gli altri, e,noi, gli uomini, il nostro umanesimo restava intatto; uniti
dal guadagno, i metropolitani battezzavano fratellanza, amore, la comunità dei loro delitti; oggi la stessa,
bloccata dovunque, ritorna su di noi attraverso i nostri soldati, s'interiorizza e ci possiede. L'involuzione
comincia: il colonizzato si ricompone e noi, ultras e liberali, coloni e «metropolitani» ci decomponiamo. Già
la rabbia e la paura son nude: si mostrano allo scoperto nelle «cacce all'arabo» d'Algeri. Dove sono i
selvaggi, adesso? Dov'è la barbarie? Non manca nulla, nemmeno il tam-tam: i clacson ritmano «Algeria
francese», mentre gli europei fan bruciare vivi dei mussulmani. Non molto tempo fa, Fanon lo ricorda,
psichiatri a congresso si addoloravano della delinquenza indigena: quelli si ammazzan tra loro, dicevano,
non è normale; la corteccia dell'algerino deve essere sotto sviluppata. In Africa centrale altri hanno stabilito
che «l'africano impiega pochissimo i lobi frontali». Questi studiosi avrebbero interesse oggi a proseguire
l'inchiesta in Europa e particolarmente presso i francesi. Giacché anche noi, da qualche anno, dobbiamo
essere colpiti da pigrizia frontale: i patrioti assassinano un po' i loro compatrioti; in caso di assenza, fanno
saltare la loro portinaia o la loro casa. Non è che un inizio: la guerra civile è prevista per l'autunno o per la
prossima primavera. Pure i nostri lobi sembrano in perfetto stato: non sarebbe forse piuttosto che, non
potendo schiacciare l'indigeno, la violenza ritorna su se stessa, s'accumula in fondo a noi e cerca uno sfogo?
L'unione del popolo algerino produce la disunione del popolo francese: su tutto il territorio dell'ex
metropoli, le tribù danzano e si preparano al combattimento. Il terrore ha lasciato l'Africa per impiantarsi
qui: ci sono dei furiosi puri e semplici, che voglion farci pagare col sangue la vergogna d'esser stati battuti
dall'indigeno, e poi ci son gli altri, tutti gli altri, altrettanto colpevoli (dopo Biserta, dopo i linciaggi di
settembre, chi mai è sceso in istrada per dire: basta?), ma più posati: i liberali, i duri duri della Sinistra molle.
Anche in loro sale la febbre. E l'astio. Ma che fifa! Si occultano la rabbia con miti, con riti complicati; per
ritardare il regolamento dei conti finale e l'ora della verità, han messo alla nostra testa un Grande Stregone
il cui ufficio è di mantenerci ad ogni costo all'oscuro. Non serve a niente; proclamata dagli uni, ricacciata
dagli altri, la violenza gira in tondo; un giorno scoppia a Metz, l'indomani a Bordeaux; è passata di qui,
passerà di là, è il gioco dell'anello. A nostra volta, passo per passo, percorriamo la strada che porta
all'indigenato. Ma per diventare indigeni completamente, occorrerebbe che il nostro suolo fosse occupato
dagli antichi colonizzati e noi crepassimo di fame. Non sarà così: no, è il colonialismo decaduto a possederci,
sarà presto lui a cavalcarci, rammollito e superbo; è questo il nostro zar, il nostro loa. E vi persuaderete,
leggendo l'ultimo capitolo di Fanon, che è meglio essere un indigeno nel peggior momento della miseria che
non un ex colono. Non è bene che un funzionario della polizia sia costretto a torturare dieci ore al giorno: a
quel ritmo, i suoi nervi crolleranno, a meno che si proibisca ai carnefici, nel loro stesso interesse, di far ore
supplementari. Quando si vuol proteggere con il rigore delle leggi il morale della Nazione e dell'Esercito,
non è bene che questo demoralizzi sistematica mente quella. Né che un paese di tradizione repubblicana
affidi, a centinaia di migliaia, i suoi giovani ad ufficiali putschisti. Non è bene, compatrioti miei, voi che
conoscete tutti i reati commessi in nostro nome, non è davvero bene che non ne facciate parola con
nessuno, nemmeno con l'anima vostra, per tema di dovervi giudicare. All'inizio ignoravate, voglio crederlo,
in seguito avete dubitato, adesso sapete ma tacete sempre. È degradante, otto anni di silenzio. E invano:
oggi, l'accecante sole della tortura è allo zenit, rischiara tutto il paese; sotto quella luce, non c'è più riso che
suoni giusto, né volto che non si trucchi per mascherare l'ira o la paura, né atto che non tradisca i nostri
disgusti e le nostre complicità. Basta oggi che due francesi s'incontrino perché ci sia un cadavere tra di loro.
E quando dico: uno ... La Francia, tempo fa, era il nome d'un paese; attenti che non sia, nel 1961, il nome
d'una nevrosi.
Guariremo? Sì. La violenza, come la lancia d'Achille, può cicatrizzare le ferite che ha prodotte. Oggi, noi
siamo incatenati, umiliati, malati di paura: al punto più basso. Fortunatamente ciò non basta ancora
all'aristocrazia colonialista: essa non può compiere la sua missione ritardatrice in Algeria senza aver
terminato prima di colonizzare i francesi. Indietreggiamo ogni giorno davanti alla mischia, ma siate certi che
non l'eviteremo: ne hanno bisogno, gli uccisori; si scaglieranno contro di noi e picchieranno nel mucchio.
Così finirà il tempo degli stregoni e dei feticci: dovrete battervi o marcire nei campi. È l'ultimo momento
della dialettica: voi condannate questa guerra ma non osate ancora dichiararvi solidali con i combattenti
algerini; niente paura, contate sui coloni e sui mercenari: vi faranno saltare il fosso. Forse, allora, con le
spalle al muro, libererete finalmente quella violenza nuova che suscitano in voi vecchi misfatti riscaldati. Ma
questa, come si dice, è un'altra storia. Quella dell'uomo. Il tempo s'avvicina, ne sono sicuro, in cui ci
uniremo a quelli che la fanno.
Jean-Paul Sartre
Traduzione di Carlo Cignetti
Fase 10 Obiettivo: Decolonizzare la mente.
Cosa fa l’insegnante
Cosa fa l’alunno
Raggruppamento alunni:
Metodo:
Mezzi e strumenti:
Talk-show o gioco di ruolo
Fase 11 Obiettivo: Consolidare le conoscenze acquisite
Cosa fa l’insegnante
Cosa fa l’alunno
Raggruppamento alunni:
Metodo:
Mezzi e strumenti:
Fase 12.Obiettivo: Verificare la competenza di cittadinanza attiva.
Cosa fa l’insegnante
Raggruppamento alunni:
Metodo:
Mezzi e strumenti:
Materiali
Lo scambio colombiano. Conseguenze biologiche e culturali del 1492
by Alfred W. Crosby
Cosa fa l’alunno
pubblicato da Einaudi
In una delle sue pagine più belle, Gabriel Garcia Marquez racconta del proliferare smisurato di animali
grandi e piccoli nel territorio immaginario di Macondo. L'autore ha detto poi che il fatto in sé non era
un'invenzione fantastica, ma un fenomeno registrato dalle antiche cronache. Come tale, infatti, viene
riportato anche nella grande sintesi bio-storica di Alfred W. Crosby, che, al pari dell'aneddoto romanzesco,
indica come l'incontro fra Vecchio e Nuovo Mondo sia stato evento ben più complesso di come di solito
viene studiato e descritto. Alfred W. Crosby prende in considerazione soprattutto il contesto biologico di ciò
che definisce lo scambio colombiano: piante e animali, che ne furono i protagonisti, vennero trasportati e
trapiantati da una sponda all'altra dell'Oceano venendo a costituire la trama diffusa e l'articolazione minuta
di un incontro che non si è ancora esaurito. Alcuni elementi ebbero all'inizio anche un valore strategico,
come i cavalli, che pure morivano a mucchi durante il viaggio, ma che venivano ostinatamente trasportati
perché carta vincente sulle schiere degli indios appiedati; oppure come il vaiolo, clandestino biologico nel
corpo degli europei, ma più essenziale della spada nello sterminio delle popolazioni. Non si trattò,
naturalmente, solo di uno scambio negativo, anche se la controversa questione dell'origine della sifilide
occupò a lungo la scena della discussione: l'ananas, il tabacco, la patata, il pomodoro attraversarono
l'Atlantico incrociando la canna da zucchero, il banano, il caffé, che andavano a impiantarsi sulle coste del
Nuovo Mondo con raccolti così prodigiosi da modificare le disponibilità alimentari, e quindi la demografia,
del Vecchio. Articolando dati e informazioni spesso dispersi o irragiungibili, il libro di Alfred W. Crosby offre,
così, un nuovo punto di vista per riconsiderare, lontano da retorica e semplificazioni, ma non senza
partecipazione, il vero significato della Scoperta.
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