Enzo Bianchi: «Gli islamici? Inseriamoli nelle

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GENTE VENETA | Società e cultura
Sabato, 14 Ottobre 2000 | Noi & l'islam- Parla il priore della comunità monastica di Bose
Enzo Bianchi: «Gli islamici? Inseriamoli nelle
strutture politiche e sociali»
A "Fondamenta. Città di lettori", a Venezia dal 5 all'8 ottobre scorsi, c'era anche Enzo Bianchi,
priore della comunità di Bose, studioso di misticismo e preghiera nelle diverse religioni. Giovedì
5 era a colloquio con André Chouraqui, uno dei massimi interpreti dell'ebraismo
interconfessionale. Perché non approfondire proprio con Enzo Bianchi il tema dell'integrazione
degli immigrati islamici in Italia? Quali sono le strade da seguire per raggiungere
l'integrazione dei musulmani? Per prima cosa il mondo cristiano deve attuare un'accoglienza
intelligente. Negli ultimi anni troppe volte si è affrontato il problema con superficialità, usando
semplici slogan del tipo "apriamo le frontiere e accogliamoli". Ma accoglierli veramente significa
dare loro uno spazio, una soggettività, inserendoli nelle nostre strutture politiche, civili e sociali.
Certo, è un'operazione che richiede tempi lunghi e soprattutto un'adeguata preparazione della
gente e del territorio. Quindi non condivide le idee del card. Biffi? Credo che le affermazioni
del cardinale di Bologna siano una voce fuori dal coro, non in sintonia con l'opera e le direttive
del papato di oggi. Non si deve fare dell'Islam il nuovo nemico. Invece noi cristiani siamo da
secoli abituati a vivere con un nemico all'orizzonte: prima il diverso, l'eretico, l'ateo, il comunista,
adesso l'islamico. Indubbiamente l'Islam è una diversità, ma dipende da noi accoglierlo e farlo
maturare nella modernità. Purtroppo fino ad oggi non è stato assegnato al mondo islamico
nessun ruolo culturale e politico, né in ambito internazionale, né, cosa ancor più grave, nel
bacino del Mediterraneo. Con il confronto invece si potrebbe impedire l'indurimento della loro
identità religiosa, cioè il fondamentalismo. Dunque l'accoglienza intelligente passa
attraverso il dialogo? Certamente. Non dobbiamo avere paura del dialogo, perché il confronto
con l'altro ci aiuta ad essere più consapevoli della nostra identità, anche da un punto di vista
religioso. Il dialogo può aiutarci nella ricerca della verità, perché l'altro, con la sua diversità, ci fa
approfondire il nostro essere cristiani. Non dimentichiamo che proprio la Chiesa cattolica ha
inventato il dialogo interreligioso; e se oggi la Chiesa aspira ad essere una religione mondiale,
deve farsi luogo di confronto, dove i vari integralismi e fondamentalismi si dissolvono, lasciando
spazio alla ricerca comune della verità. Ma anche l'altro ha bisogno di un luogo proprio
dove dialogare e pregare. Ritiene giusto costruire moschee nel nostro territorio? Sì, ma
proporzionalmente alla nostra capacità di accogliere intere comunità. Potrebbe essere utile
anche per conoscere la loro fede, la loro cultura. In realtà noi oggi facciamo la nostra battaglia
contro l'Islam senza sapere chi sono gli islamici. La gente li conosce solo attraverso degli
slogan: sono quelli che hanno molte mogli, il marito è il capo e la donna non conta nulla. Questo
non è conoscere l'altro. Lei dice che il cristiano deve farsi pellegrino, sentirsi sempre come
uno straniero. In che senso? I cristiani hanno tanti modi di essere pellegrini: essi non hanno
patria, ogni terra per loro è patria e questo li pone in una condizione continua di pellegrinaggio.
E anche l'attesa del regno di Dio, della Gerusalemme celeste, li rende pellegrini in questo
mondo. Credo che se noi approfondissimo di più la nostra qualità di pellegrini, vivremmo meglio
nella compagnia degli uomini e riusciremmo a ricercare la verità nella dolcezza della carità.
Serena Spinazzi Lucchesi
Tratto da GENTE VENETA, n.37/2000
Articolo pubblicato su Gente Veneta
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