America Latina - luciogentilini

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Lucio Gentilini
AMERICA LATINA:
I POPOLI DI TRE MONDI IN UN CONTINENTE SOLO
Introduzione
La scoperta e la conquista del Nuovo Mondo trasformarono la vita sul pianeta Terra
in tutti i suoi aspetti, ma queste pagine si propongono di illustrare prevalentemente la
nuova ed originale situazione etnico-razziale, sociale, culturale e storica che venne a
crearsi in America Latina (che coi suoi 20.570.000 kmq. oggi si estende sul 14%
delle terre emerse) in seguito all’occupazione ed al dominio di Spagna e Portogallo, i
due paesi europei che per primi nel XV secolo si erano lanciati negli oceani e che si
erano arrogati il diritto di dividersi il mondo.
In base ai principi stabiliti dalle due bolle ‘Inter coetera’ di papa Alessandro VI del 3
e del 4 maggio 1493, e secondo le linee tracciate col Trattato di Tordesillas del 7
giugno 1494 (riportati nella sezione “Documenti scaricati” del sito) infatti:
l’impero spagnolo in America era costituito dai seguenti territori (al loro interno
articolati in una serie di ulteriori numerose unità amministrative che qui per
semplicità vengono omesse):
Vicereame della Nuova Spagna (capitale Città del Messico e comprendente gli
attuali Messico, California, Nuovo Messico, Arizona, Texas, Nevada, Florida, Utah e
parte del Colorado, Wyoming, Kansas e Oklahoma), Capitaneria Generale del
Guatemala e Chiapas (comprendente anche gli attuali El Salvador, Nicaragua,
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Honduras e Costa Rica), Capitaneria Generale di Puerto Rico (comprendente anche le
Isole Vergini e Cuba), Capitaneria generale di Santo Domingo, Vicereame della
Nuova Granada (dal 1718-19 e comprendente gli attuali Panama, Colombia,
Ecuador e Venezuela), Vicereame del Perù (capitale Lima), Capitaneria generale del
Cile e Nuova Extremadura, Vicereame del Río de la Plata (dagli anni Settanta del
Settecento e comprendente gli attuali Argentina, Bolivia, Paraguay e Uruguay),
Territori Insulari [oltre a Cuba e Puerto Rico, gli attuali Repubblica Dominicana,
Bahamas (dal 1670), Antigua e Barbuda (dal 1493 al 1632), Trinidad, Tobago,
Grenada (dal 1498 al 1674), Jamaica (fino al 1655), San Cristóbal, Dominica (dal
1493 al 1783), Barbados (dal 1518 al 1624), Santa Lucia (dal 1504 al 1654)];
l’impero portoghese in America comprendeva invece il solo Brasile.
Catastrofe demografica
Nell’ambito delle enormi trasformazioni dovute a quello che Crosby ha chiamato lo
‘scambio colombiano’, e cioè il trasferimento di vegetali e di animali dal Vecchio al
Nuovo Mondo e di animali e di vegetali in senso inverso – in pratica la ricostituzione
della Pangea, Oceania esclusa – un posto speciale merita l’arrivo in America, insieme
agli spagnoli, di malattie purtroppo comuni in Europa ma contro cui gli abitanti
dall’altra parte dell’oceano Atlantico non avevano sviluppato alcuna difesa
immunitaria: quando in tempi molto remoti gli antichi primi migratori erano passati
dalla Siberia all’Alaska (allora unite), il freddo intenso aveva ucciso i germi; le
condizioni proibitive della migrazione avevano eliminato i deboli ed i malati; gli
animali infine (dai quali molte malattie erano passate all’uomo), a differenza che in
Europa, in America erano molto più scarsi - ed il risultato era stato che gli amerindi
avevano potuto sviluppare resistenze solo ai microrganismi patogeni americani.
Dopo tanti millenni per queste genti americane l’arrivo degli europei fu dunque
assolutamente devastante: gli spagnoli portarono (inconsapevolmente) con sè vaiolo
(soprattutto), morbillo, varicella, tifo petecchiale, definiti collettivamente col termine
‘viruelas’ (cioè aspetto pustoloso e foruncoloso), insieme poi alle infezioni
respiratorie, enteriche, veneree ed infine alla peste ed alla malaria.
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Gli amerindi erano vissuti fino ad allora in un ambiente in cui queste malattie erano
del tutto assenti e non avevano dunque alcuna difesa immunitaria contro di loro: la
mortalità di massa, allora inspiegabile per tutti, infuriò così senza pietà facendo strage
dei nativi atterriti (e contribuendo potentemente al successo della conquista
spagnola).
Lo scambio di uomini e malattie fra le due sponde dell’Atlantico fu praticamente
unilaterale e questo processo non si verificò solo in America, ma dovunque gli
europei arrivarono: come scrive Crosby (“Imperialismo ecologico”, pag. 31), “il …
vantaggio delle proprie infezioni … spiega in gran parte come mai dei popoli
‘civilizzati’ abbiano così spesso potuto conquistare con tanta facilità popoli meno
progrediti (questo processo … è stato chiamato legge di McNeill)” e (pag. 179)
“Furono i loro germi, e non gli imperialisti in se stessi, malgrado tutta la loro brutalità
ed insensibilità, a essere i principali responsabili dell’aver spazzato via gli indigeni e
dell’aver aperto le neo-Europe a un’invasione demografica”.
Sull’entità della popolazione indigena americana al momento dell’arrivo degli
europei le stime sono quanto mai diverse: per Williamson allora vivevano in America
più 57 milioni di individui – ma egli avverte della incertezza di questa cifra (per
esempio quella dell’impero degli aztechi a seconda degli studiosi varia da un
massimo di 25 milioni ad un minimo di 4,5!); Eakin dai 25 ai 125 milioni (ma ritiene
più realistico pensare dai 50 ai 75 milioni); Harvey giudica che in America Latina ci
fossero allora almeno 13 milioni di indigeni.
Anche le cifre dei morti nelle pandemie sono approssimate ed indicative, ma risultano
ugualmente spaventose: per esempio c’è chi afferma che solo il vaiolo eliminò da 1/3
ad ½ degli arauachi di Haiti, oltre a gran parte degli aztechi e dei sudditi degli incas;
c’è addirittura chi sostiene che gli aztechi all’inizio del XVII secolo, dopo
un’ottantina d’anni che erano entrati in contatto con i bianchi, si erano ridotti da 25
ad 1 milione di individui; intere etnie rischiarono comunque l’estinzione (o la
subirono) e la morte di massa spazzò senza pietà il continente in un delirio di
distruzione che annientò almeno i 2/3 della popolazione complessiva; per alcuni
studiosi nei primi cinquant’anni dall’arrivo dei bianchi si estinse dall’85% al 90%
della popolazione amerinda; per Eakin dopo un secolo non vivevano in America
Latina più di 3 milioni di indiani; nel XVII e XVIII secolo le pandemie continuarono
poi la loro marcia furiosa in Nordamerica con gli stessi effetti sugli sfortunati ed
impotenti indigeni, spesso precedendo l’arrivo stesso degli invasori bianchi che
trovarono così enormi spazi praticamente vuoti (come nel caso di ampi settori degli
attuali Stati Uniti).
Nell’America Latina solo dopo un secolo dall’arrivo degli europei la popolazione
indiana ricominciò a crescere, ma intanto si era paurosamente assottigliata.
Se a tutto ciò si aggiungono i radicali sconvolgimenti prodotti dai nuovi animali,
piante, coltivazioni e dalle migrazioni sempre più massicce di europei (fra il 1750 ed
il 1930 la popolazione delle neo-Europe crebbe 14 volte!) si stenta a rendersi conto
davvero della profondità che raggiunse l’affermazione dell’Europa in America.
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L’America spagnola degli Asburgo
Gli spagnoli del XV e del XVI secolo erano in possesso di tutti i requisiti culturali
necessari per conquistare tanta parte dell’America: dopo essere stati impegnati per
otto secoli nella ‘reconquista’ della Spagna stessa (ed i portoghesi del Portogallo)
contro i mori mussulmani, essi erano dunque avvezzi a vivere in mezzo a gente
diversa e, soprattutto, a combatterla.
Per secoli erano stati decisamente posseduti da una spinta (ri)conquistatrice che aveva
profondi caratteri razziali e religiosi (basti pensare all’importanza che aveva per loro
la ‘limpieza de sangre’, alla radicale pulizia etnico-religiosa operata ai danni degli
ebrei e dei mori, alla sentitissima esigenza di difendere, affermare ed imporre con
tutti i mezzi la ‘fé catholica’, l’unica ammessa); per secoli la ‘reconquista’ aveva
permesso ai più intraprendenti ed aggressivi di acquisire terre (e titoli) strappandole
ai mori; essi erano abituati a far lavorare sotto di sè gente diversa da loro (i mori
rimasti sul territorio); la fortissima legittimazione ed affermazione del potere
monarchico essi la facevano derivare proprio da quest’opera di riaffermazione
inestricabilmente politica e religiosa; il potere della Chiesa Cattolica era indubbio e
assoluto; la difficoltà poi di ripopolare i territori (ri)conquistati ai mori aveva infine
causato la prevalenza dell’allevamento (soprattutto per la lana) sulla coltivazione,
facendo nascere quell’economia del ranch che tanta diffusione avrebbe poi avuto
anche in America.
Gli spagnoli non dubitarono mai di avere il pieno diritto di occupare e di governare i
nuovi immensi (e sconosciuti) territori e di sottometterne gli abitanti, legittimati come
si sentivano dal tradizionale diritto di scoperta e di conquista e, soprattutto, dalla
massima (per loro) autorità sulla Terra, il papa Alessandro VI, che con le due bolle
‘Inter coetera’ gliel’aveva (ed ai portoghesi) esplicitamente riconosciuto (per
sempre!) a patto che si adoprassero per la conversione dei nativi alla fede cattolica.
Le bande di avventurieri (o poco più) che si lanciarono nella conquista erano mossi
comunque esclusivamente dal bruciante desiderio di ricchezza e di dominio: per
questo – tutto al contrario dei pionieri che si sarebbero insediati nei futuri Stati Uniti si concentrarono, almeno inizialmente, nei territori dove già esistevano società
strutturate e sviluppate (come in Messico, in Centramerica ed in Perù) e che quindi
avrebbero potuto fornir loro sostentamento e mano d’opera.
Così come avveniva per i possedimenti europei degli Asburgo di Spagna, anche in
America venne fondata una pluralità di vice-reami e di altri organismi politici, distinti
fra loro ma uniti sotto la stessa Corona e la stessa Chiesa: la divisione principale fu
quella fra il nord (la Nuova Spagna con capitale Città del Messico) ed il sud (con
capitale Lima), ma la vastità del territorio e la mancanza di vie di comunicazione
portarono presto a tutta un’ulteriore serie di sotto-strutture amministrative (soprattutto
le ‘audiencias’).
Per gestire ed amministrare con ordine il nuovo impero sia la Corona che la Chiesa
Cattolica si mossero con grande tempismo.
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La Corona spagnola – almeno sulla carta – cercò infatti fin da subito di definire lo
status degli indios; di controllare il commercio ed il lavoro nei suoi nuovi sconfinati
possedimenti; di assicurarvi la propria autorità amministrativa e giudiziaria; di
diffondere il Cattolicesimo (e distruggere le religioni locali) e la cultura e la civiltà
europee.
Appena conquistata una regione, l’’adelantado’ ne assumeva la direzione ed
assegnava – secondo la ‘capitulaciòn’ regale - la terra ai conquistatori: una ‘peonìa’
(circa 40 ettari) ad ogni fante ed una ‘caballerìa’ (circa 200 ettari) ad ogni cavaliere;
l’’encomienda’, cioè il controllo di una tenuta insieme al lavoro gratuito ed al
pagamento di un tributo da parte delle comunità indiane sottomesse, era poi uno
speciale privilegio per lo spagnolo che ne veniva investito, che tuttavia non era
ereditario né comprendeva diritti feudali sugli indios che rimanevano - almeno sulla
carta - sudditi della Corona: l’’encomendero’ doveva invece proteggerli e farli
educare al Cattolicesimo.
Fin da subito la stessa Isabella di Castiglia vietò apertamente la schiavitù degli indios;
nel 1512 le leggi di Burgos vollero estendere i controlli della Corona sulle
‘encomiendas’ stesse vietandovi la schiavitù; dopo la morte di Ferdinando d’Aragona
nel 1516 il reggente cardinal Cisneros cercò a sua volta di portare giustizia (diciamo
così) nei Caraibi (allora l’unico possedimento americano della Spagna); l’intera
gestione delle colonie venne sottoposta alla direzione del ‘Consiglio supremo delle
Indie’ (istituito nel 1524): nel 1535, dopo la conquista di Cortèz, venne creato il
vicereame della Nuova Spagna e l’autorità regia venne riaffermata con un accurato
sistema di controlli e di equilibri contro le tendenze anarchiche ed autonomistiche dei
‘conquistadores’ stessi; la bolla del 1537 di Paolo III definì infine gli indios uomini
responsabili e quindi capaci di intendere e di accettare il Cattolicesimo.
Tuttavia, al di là delle intenzioni della Corona, le distanze proibitive e le difficoltà
oggettive fecero sì che i nuovi signori in America poterono assicurarsi il pieno
dominio delle terre e delle genti da loro assoggettate e si impegnarono così fin da
subito in un asservimento spietato e feroce della popolazione indigena che venne
sottoposta a ritmi e livelli di lavoro insostenibili ed a terribili punizioni: lo
sfruttamento degli indios nelle campagne, nelle miniere d’oro e d’argento, ed in
seguito nelle piantagioni, non conobbe limiti nel pretendere il massimo rendimento
possibile dai disgraziati sottoposti e spremuti fino allo stremo delle loro forze.
Per parte loro gli ‘encomenderos’ più facoltosi presto divennero classe dirigente che,
per quanto spesso in attrito coi funzionari regi e coi loro tribunali, cominciarono ad
impadronirsi della terra e ad assicurarsi grandi possedimenti privati, le ‘haciendas’,
molto ambite e fonte di sicuro prestigio.
Le denunce dell’orrore coloniale da parte degli onnipresenti missionari spagnoli –
famosissime quelle di padre Francisco de Vitoria e, soprattutto, di padre Bartolomè
de Las Casas (cui è dedicata San Cristòbal de Las Casas, la città più importante del
Chiapas) che combattè la tesi aristotelica della schiavitù per natura sostenuta dal
padre Juan Ginés de Sepulveda, spinsero infine Carlo V a promulgare nel 1542 le
“Nuove Leggi” in base alle quali venne ribadito che gli indios erano suoi liberi
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sudditi, la loro schiavitù era dunque vietata, il loro lavoro andava regolamentato e la
giustizia doveva essere esercitata dalle “audiencias” presiedute dallo stesso Vicerè.
Col suo ‘Breve resoconto della distruzione delle Indie’ (1542) Las Casas iniziò poi a
diffondere quella ‘leggenda nera’ sulla conquista spagnola delle Americhe che venne
utilizzata molto da tutti i (numerosi) nemici della Spagna per screditarla: ciò è almeno
quanto sostiene Eakin, mentre Williamson postdata la nascita di tale leggenda alle
denunce mosse dai gesuiti quando nel 1767 vennero cacciati dalle loro missioni
americane.
I due autori non si dilungano molto su questo punto, nondimeno sembrerebbe chiaro
che per loro le accuse mosse dai religiosi furono esagerate e frutto anche di
pregiudizi, ma tutti i resoconti (anche quelli citati da loro) sono pieni di violenza e di
episodi raccapriccianti, senza dimenticare che si trattava di intere civiltà aggredite e
distrutte per pura brama di ricchezza e di potere: lo stesso Eakin (“The History of
Latin America”) che a pag. 63 ricorda la nascita di questa leggenda, già a pag. 64
afferma poi che “La rapidità della conquista dei Caraibi e la devastazione dei nativi
furono spaventose”.
Bisogna insomma decidersi se la ‘leggenda nera’ fu appunto una leggenda o una
denuncia corretta della dolorosissima verità: in queste pagine si pensa che ciò che
venne denunciato sia stato tutto vero, anche se ciò non significa che in America
vivessero solo innocenti ‘buoni selvaggi’ travolti dalla furia di avventurieri corrotti e
senz’anima: anche aztechi ed incas erano a capo di imperi espansionistici, dominatori
violenti di popoli sottoposti (che infatti si erano ribellati permettendo la conquista
spagnola), e solo alcune delle tribù più primitive erano pacifiche, nondimeno rimane
ovvio chi in America era l’aggressore e chi l’aggredito.
Per parte sua, Carlo V era mosso dalla necessità di affermare su quelle terre lontane
la propria autorità assolutistica contro la nobiltà locale (spesso formata dagli stessi
‘conquistadores’ o dai loro eredi) ed in questo senso va interpretata la proclamazione
della non ereditarietà delle ‘encomiendas’ (che scatenò risentite rivolte) e, più in
generale, di ricompensare i ‘conquistadores’ ed i loro eredi con titoli e feudi ma di
affidare la gestione delle colonie a fedeli funzionari appositamente inviati dalla
madrepatria: degno di nota fu che, allo scopo di mantenerli fidati e disinteressati, a
questi funzionari era fatto divieto – almeno sulla carta - di sposare donne appartenenti
alle famiglie colà residenti, di praticare il commercio e di comprare terra.
Decisamente intenzionati ad inserire i nuovi possedimenti nella loro compagine
imperiale ed a sottoporli al loro controllo, Carlo V ed i suoi successori inviarono
sempre funzionari capaci perché gestissero terre e uomini con ordine e legalità.
Il compito di difendere i diritti degli ‘indios’ dalle mire predatorie degli spagnoli
residenti fu sentito sempre seriamente dalla Corona che ricorse per questo ad una
sorta di ‘apartheid’: indiani e bianchi vennero separati, ognuno nel proprio territorio,
in ‘republicas’ indipendenti l’una dall’altra e supervisionate da funzionari regi: nelle
loro ‘republicas’ gli indiani poterono continuare a vivere secondo la loro civiltà nella
misura in cui questa era compatibile con le esigenze dei dominatori, ma quando
necessario venivano trasferiti e raggruppati in nuove aree di residenza - le
‘congregaciònes’ e le ‘reducciònes’.
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Ogni settore indiano fu diviso in ‘corregimientos’ ed il ‘corregidor’ spagnolo doveva
vigilare sul benessere (sic) dei suoi amministrati, raccogliere i tributi e soprattutto
fornire i lavoratori necessari e richiesti per le opere pubbliche, nei campi e nelle
miniere.
Era questo il “repartimiento”, cioè del diritto-dovere degli stessi capi-villaggio
indiani e dei funzionari regi di imporre a rotazione il lavoro forzato agli indigeni
sempre più scarsi: il ‘repartimiento’ fu così uno degli strumenti principali dello
sfruttamento sistematico ed organizzato del lavoro degli indiani.
In ogni caso la Spagna non aveva i mezzi per mantenere in equilibrio le due
comunità, la bianca e l’indiana, (soprattutto per le spese delle guerre di Filippo II in
Europa): le distanze fra le due sponde dell’Atlantico erano troppo grandi ed i contatti
troppo difficili così con la morte di Filippo II (1598) gli indiani caddero ancor più
definitivamente nelle mani dei bianchi.
Il potere della Corona divenne insomma sempre più nominale, anche se – a parole –
indiscusso, e le ‘republicas’ di fatto un sistema di segregazione razziale.
I regnanti spagnoli stabilirono che le popolazioni che avevano raggiunto un certo
livello di civiltà (soprattutto incas ed aztechi) ed accettavano la sovranità spagnola e
la conversione al cattolicesimo (e di lavorare per i nuovi padroni) avrebbero goduto –
almeno sulla carta – di alcuni diritti fondamentali: sarebbero divenute anch’esse
suddite e non sarebbero potute essere fatte schiave.
La concezione paternalistica di una sistemazione simile è evidente, come non
sorprendenti furono l’endemica corruzione ed i costanti abusi.
Tutto al contrario, nei confronti dei recalcitranti – cioè di coloro che rifiutavano il
‘requiremiento’, cioè la dichiarazione ufficiale di sovranità del monarca spagnolo, e/o
che resistevano alla conversione - e delle tribù più selvagge e primitive era però lecita
la ‘guerra giusta’ e la conseguente riduzione in schiavitù.
Il ragionamento era semplice: chi si sottometteva (e lavorava) avrebbe avuto un
trattamento umano (per i canoni di allora), gli altri sarebbero stati uccisi o resi
schiavi: impadronirsi delle ricchezze del nuovo continente e sfruttarle sarebbe stato
infatti impossibile senza il lavoro servile degli indiani – tanto che a causa della loro
altissima mortalità si dovettero ben presto importare schiavi negri dalle coste
atlantiche dell’Africa.
La pratica della tratta degli schiavi negri dall’Africa era permessa perché a quelle
sfortunatissime popolazioni non veniva riconosciuto lo status di esseri ‘civilizzabili’ e
dunque le si poteva ridurre in schiavitù esattamente come quegli indios contro i quali
si poteva esercitare la ‘guerra giusta’: fin dalla scoperta dell’America schiavi negri
cominciarono così ad essere trasportati dall’Africa in America e già nel 1510
Ferdinando d’Aragona (ormai vedovo e successore di Isabella di Castiglia) ne aveva
autorizzato il traffico, ma fu il boom delle piantagioni di canna da zucchero nei
Caraibi ed in Brasile nella seconda metà del secolo che lo trasformò in un’attività
fondamentale ed in costanti sviluppo ed accelerazione.
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La tratta dei negri divenne sempre più massiccia ed istituzionalizzata: per oltre tre
secoli sarebbe continuata e cresciuta senza posa praticamente in tutti i territori
americani tanto che si calcola che – su una popolazione complessiva dell’Africa che
andava dagli 80 ai 120 milioni di persone - dai 12 ai 15 milioni di negri furono
trascinati nelle infernali navi negriere nel Nuovo Mondo (ma altrettanti morirono
prima di arrivare a destinazione).
Le piantagioni di canna da zucchero nei Caraibi - diffuse a partire dal secondo
Cinquecento - assorbirono la metà circa degli schiavi importati e quelle del Brasile
almeno un altro terzo.
Bianchi, rossi e neri
L’arrivo degli spagnoli e dei portoghesi dall’Europa fu subito seguito dunque da
quello dei negri dall’Africa: già prima dello sbarco di Cortèz sulla terraferma (nel
1519) i popoli di tre continenti si erano quindi incontrati e convivevano sullo stesso
territorio – genti diversissime che erano vissute fino a quel momento ignorando
ognuna l’esistenza delle altre, in società e civiltà indipendenti l’una dalle altre e
praticamente con nulla in comune se non l’appartenenza alla razza umana (cosa che
comunque allora era di fatto negata).
Al momento dell’arrivo degli spagnoli molti e molto diversi fra loro erano stati i
popoli indiani, buona parte dei quali era stata sottomessa negli imperi aztechi ed inca
di cui aveva subito il peso e contro i quali si era ribellata alleandosi con i
‘conquistadores’: in seguito alla distruzione dei loro antichi dominatori indiani i capi
di questi popoli erano tornati in qualche modo in carica e spesso furono proprio loro
ad intendersi con gli spagnoli e ad organizzare la fornitura del lavoro dei loro sudditi
ed il pagamento dei loro tributi: per il resto la loro vita continuò più o meno come
prima anche se, avendo accettato i nuovi padroni, ne accettarono facilmente anche la
religione - seppur mantenendo in vita molti aspetti delle loro.
Inoltre, dopo che le strutture imperiali di aztechi ed incas erano state distrutte, anche i
loro aristocratici avevano dovuto scegliere se collaborare coi nuovi padroni spagnoli
o continuare a lottare - e la prima opzione aveva offerto numerosi vantaggi perché in
questo caso avevano potuto mantenere almeno il parte il loro status sociale, ricevere
terre e persino diventare ‘encomenderos’, mentre i loro figli erano accettati nelle
scuole spagnole per nobili.
Naturalmente con ciò non si vuole affatto negare la spaventosa violenza della
conquista né la brutalità dell’oppressione e dello sfruttamento da parte degli spagnoli,
ma sottolineare che se nacquero nuove società e nuovi individui di sangue ‘misto’,
ciò non fu frutto soltanto di costrizione e di imposizione.
Per quanto diversi fossero e per quanti sconvolgimenti la conquista spagnola avesse
portato in America, tuttavia spagnoli, aztechi ed incas avevano in fondo anche
qualcosa i comune, come il principio del potere assoluto (perché di origine divina),
l’importanza enorme della religione nella gestione del potere, il carattere signorile
della società e la lunga esperienza di conquista.
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Mentre la popolazione indigena decresceva consistentemente non solo per le malattie
e lo sfruttamento, ma anche per i suicidi, gli aborti, la rinuncia a procreare, l’apatia e
la disperazione – terribile atto d’accusa contro gli spagnoli – quella bianca al
contrario aumentava, sia per i continui nuovi arrivi che per una forte spinta
riproduttiva: gli spagnoli continuavano certamente ad arrivare in America ma solo
una minima parte di loro era di sesso femminile, così le unioni ‘miste’ furono
inevitabilmente numerose, anche perché per le indiane (in genere appartenenti alle
classi alte) ciò costituiva motivo di prestigio sociale.
Corona e Chiesa incoraggiavano il matrimonio vero proprio, ma questi legami
rimanevano comunque largamente irregolari e, dato il perdurante principio della
‘limpieza de sangre’, era molto difficile poi che uno spagnolo legittimasse un suo/a
figlio/a di sangue ‘misto’: ciò creò il problema dei sempre più numerosi ‘mestizos’
che, in genere non riconosciuti dai loro padri, stentavano a trovare una collocazione
anche nelle comunità indiane e divenivano quindi nomadi, fuorilegge, o trovavano
impiego presso i bianchi.
Non era raro infine che gli spagnoli disponessero di veri e propri harem (soprattutto
nella prima fase della conquista e nelle zone più remote come il Paraguay).
Anche gli schiavi negri in genere erano maschi ed anch’essi dunque si unirono a
donne indiane nonostante la disapprovazione dei bianchi che li giudicavano troppo
inferiori anche nei confronti delle indiane stesse (!): fin dall’inizio nell’America
spagnola si formò dunque una società composta di appartenenti a razze diverse e di
tutta una complicata serie di individui nati dagli incroci fra di esse, di altri individui
nati da questi ultimi e via via con ulteriori complicazioni - e questo fatto condizionerà
sempre la vita delle colonie praticamente fino ai giorni nostri.
Eppure, se confrontato con quello nordamericano il rapporto fra le razze in America
Latina è stato ben più fluido ed indefinibile: negli Stati Uniti infatti la divisione fu
netta (e lo resterà fino agli anni Sessanta del Novecento): bianchi da una parte e nonbianchi dall’altra, senza vie di mezzo.
Ciò si spiega facilmente si si pensa che l’emigrazione (fondamentalmente inglese),
nelle Tredici colonie prima e negli U.S.A. poi, fu spesso di pionieri, cioè di famiglie
che cercavano spazi liberi (da indiani) o da liberare e che l’importazione schiavi
dall’Africa fu molto meno massiccia e confinata quasi esclusivamente al Sud: le tribù
indiane che i pionieri incontrarono sparse nelle sconfinate praterie erano formate da
nomadi cacciatori ed esse vennero sterminate o relegate e sigillate nelle riserve: per
questi emigranti fu dunque molto più logico tracciare un confine netto fra le razze e
relegare in quella ‘inferiore’ tutti quelli che non erano di discendenza completamente
bianca (addirittura nel 1910 negli U.S.A. fu ufficialmente annullata ogni categoria di
sangue-misto: o si era bianchi o si era neri).
In America Latina invece i conquistatori erano quasi tutti uomini (e pochi) che
trovarono civiltà molto più numerose e sviluppate: fu ovvio quindi che si unissero fin
dall’inizio con indiane e poi con negre creando fin da subito una gran folla di persone
di sangue-misto (che naturalmente presero ad incrociarsi anche fra di loro) che,
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seppur relegate e segregate, nondimeno non potevano che rendere più vaga ed incerta
la separazione razziale.
Le donne negre che si erano unite (l’avessero voluto o no) a dei bianchi partorivano
‘mulatos’ (da mulo, l’incrocio fra il cavallo e l’asina – e lo stesso termine tradiva il
profondo disprezzo razzistico), mentre i nati da unioni fra neri ed indiani erano gli
‘zambos’, molto più raramente figli illegittimi.
I relativamente fortunati che riuscivano a fuggire nelle foreste e qui a riunirsi in
gruppi di sopravvivenza, le ‘palenque’ o ‘cumbe’, erano vittime di vere e proprie
spedizioni punitive di caccia se non erano già morti di fame o di malattia.
Eppure, nonostante tutto, capitava che gli schiavi venissero liberati o che riuscissero a
comprarsi la loro libertà, tanto che alla fine del Settecento la maggioranza dei negri
era libera (!) anche se, seppur (diciamo così) giuridicamente emancipati, il
pregiudizio razziale li manteneva ai margini inferiori della società.
Naturalmente la discriminazione rimaneva potente anche in America Latina, basta
pensare che in una società in cui ogni persona (bianca, s’intende) era identificata da
un numero enorme di cognomi, paterni e materni, cioè dove si insisteva sulla
discendenza (pura), gli schiavi e i poveri di campagna fino al secolo scorso non
ebbero che il nome, come gli animali e le cose.
La Chiesa nel Nuovo Mondo spagnolo
In America Latina conquista e cattolicizzazione procedettero sempre di pari passo e
non solo perché l’evangelizzazione degli ‘indios’ era sentita profondamente ed era
specificamente prescritta dal papa come unica giustificazione alla conquista stessa,
ma anche perché a quei tempi Stato e Chiesa erano inestricabilmente connessi e non
era nemmeno pensabile che l’uno potesse procedere senza l’altra: infine, senza una
conquista spirituale nemmeno quella materiale sarebbe stata possibile.
Quando l’America venne scoperta e ci si rese conto che era davvero un ‘nuovo
mondo’ della cui esistenza non esisteva traccia né nei testi della classicità greca e
romana né tantomeno nella Bibbia, la Chiesa Cattolica dovette affrontare il duro
compito di stabilire chi erano questi indiani e che cosa si doveva fare con loro: erano
dotati o no di ragione (con tutto quel che ne conseguiva in fatto di responsabilità
morale e capacità di autogoverno)? Avevano o no un’anima (erano cioè uomini o
animali)?
Il dibattito fu serio: come si è già visto, i due contendenti più noti furono Bartolomè
de Las Casas che sosteneva l’umanità degli ‘indios’ e la conseguente necessità di
convertirli con la persuasione e non con la forza e Sepùlveda che sulla scorta di
Aristotele e di San Tommaso li riteneva invece esseri inferiori contro cui la ‘guerra
giusta’ e la riduzione in schiavitù erano legittime, finchè la bolla di papa Paolo III
‘Sublimis Deus’ del 1537 risolse la questione rispondendo in modo affermativo ad
ambedue le domande.
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Data la distanza e l’estrema difficoltà del compito, il papato concesse ai monarchi
iberici il ‘Patronato Reale’, cioè il diritto del re di nominare i responsabili delle
cariche ecclesiastiche nelle Americhe.
Spagnoli e portoghesi furono sempre convinti di fare il lavoro di Dio (mentre gli
infedeli, indiani, africani – o mori – che fossero, facevano quello del diavolo): il
compito di cattolicizzare gli indiani fu così sempre considerato della massima
importanza sia dalla Corona che dalla Chiesa Cattolica che si affrettò ad inviare nelle
Americhe prima i francescani, poi i domenicani, gli agostiniani finchè nel 1568
arrivarono i più importanti e decisi di tutti, i gesuiti.
La missione cattolicizzatrice era infatti davvero difficilissima: si trattava di portare i
Vangeli a genti di un altro mondo che, sparsi in territori selvaggi e sconosciuti,
parlavano lingue misteriose, praticavano culti del tutto differenti ed avevano una
civiltà altrettanto indecifrabile.
I missionari si dedicarono con alacrità e coraggio al loro compito, imparando lingue e
culture delle popolazioni da convertire e cercando di inserire nei limiti del possibile il
Cattolicesimo nelle diverse mentalità che incontravano: furono studiosi (in fondo i
primi antropologi) preziosi, capaci ed instancabili anche se il loro scopo rimase
sempre quello di convertire e quindi di distruggere quel che venivano imparando dei
popoli nativi dell’America.
I missionari erano ovviamente convinti di salvare l’anima dei loro convertiti, ma,
oltre a questo, nei limiti del possibile li volevano anche ‘civilizzare’, pur lasciando
che seguissero i loro sistemi di vita quando non erano incompatibili con quelli
europei: sicuramente li volevano poi proteggere anche dall’aggressività degli
spagnoli stessi ed anche dalla loro corruzione, convinti com’erano di trovarsi in un
ambiente vergine e dunque rimodellabile secondo i canoni della semplicità ed
innocenza evangeliche.
Essi radunarono gli indiani, sparsi in territori vasti e scollegati, in ‘congregaciones’,
si presero sinceramente cura di loro cui trasmisero anche un’istruzione tecnica:
volevano difenderli dalla rapacità degli spagnoli con cui entrarono spesso in urto e di
cui denunciarono la violenza e la sopraffazione, tanto che nel loro sforzo di creare
nuove comunità pure e pacifiche insospettirono la Corona stessa.
Anche in questo caso non si può però non riconoscere anche il (solito) atteggiamento
paternalistico oltrechè razzistico: per due secoli il clero rimase rigorosamente bianco,
gli indiani essendo considerati inadatti ed i ‘mestizos’ (i meticci nati da un bianco e
da un’indiana) oltretutto figli illegittimi.
La Chiesa inoltre partecipò anch’essa allo sviluppo economico delle colonie grazie al
possesso di terra e capitali (secondi solo alla Corona), alla sua opera educativa
(gratuita solo per i poveri) ed assistenziale, ed anche alle sue capacità imprenditoriali
e finanziarie: la sontuosità di chiese e conventi in America Latina ben testimonia
questa capacità di intervenire nella vita economica, ma al di fuori delle aree che
controllavano direttamente i religiosi non poterono far molto contro l’oppressione
sfrenata dei padroni bianchi ai danni dei sottomessi indiani.
Secondo Scipione Guarracino i missionari ‘uccisero’ gli indiani ‘nello spirito’, cioè si
impegnarono a distruggere le religioni e le culture indigene cercando in tutti i modi di
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annullare l’identità degli ‘indios’ per sostituirla con la propria - ed è vero che senza di
loro la conquista non sarebbe stata nemmeno possibile o sarebbe finita in un
massacro senza fine ed in un delirio di violenza sfruttatrice.
Ma la semplice verità è che, una volta toccata dall’Europa, per l’America era
comunque finita: certo giustizia vuole che gli spagnoli e gli europei avrebbero dovuto
lasciare gli ‘indios’ padroni in casa propria, instaurare con loro rapporti paritetici e di
reciproco rispetto, istituire scambi fondati sull’uguaglianza dei due partners, imparare
ed insegnare l’uno dall’altro con una sincera apertura al diverso … ma questi sono
sogni ad occhi aperti.
Con la fondazione del suo tribunale prima a Lima (1569) – oggi truce museo – e poi a
Città del Messico (1570), insieme all’ondata cattolicizzatrice per iniziativa di Filippo
II nelle Americhe arrivò anche la temibile Santa Inquisizione spagnola con le sue
interminabili e minuziose inchieste, i suoi inflessibili tribunali, le sue spaventose
camere di tortura ed i suoi famigerati ‘autodafé’ - le crudeli manifestazioni pubbliche
del trionfo della fede sull’eresia tramite le processioni che terminavano coi roghi in
piazza dei condannati.
La Santa Inquisizione speciale (spagnola, appunto, ma in seguito estesa anche al
Portogallo) era stata affidata ai Re Cattolici (e poi anche a quelli del Portogallo) fin
dal 1478 ed era ottimamente servita con successo per compattare e difendere la
Chiesa Cattolica, ‘ripulire’ la Spagna (e poi il Portogallo) da ebrei e da mori e
fermare la Riforma protestante al di là dei Pirenei: così ora era perfettamente logico
esportarla anche in quelle terre lontane (dopo averlo fatto perfino in India!) se si
voleva cancellare l’errore e rafforzare la presa politica e religiosa della spada e della
croce.
Sessuofobia, indagini minuziosissime sugli antenati, controllo sistematico della vita
privata, esorcismi per gli ossessi e gli indemoniati, repressione a tutti i livelli … nulla
restò fuori del campo di rifermento dei giudici e degli inquisitori invasati e a volte
corrotti, questi ulteriori esportatori dell’Europa in America che secondo Toby Green
scatenarono perfino gravi e perduranti nevrosi sociali (nel senso freudiano del
termine).
Secondo Harvey tuttavia la Santa Inquisizione nelle Americhe fu comunque più
moderata che in madrepatria e riguardò solo i bianchi ed i loro schiavi negri (non gli
indiani): egli afferma così (pag. 4) che in tre secoli la Santa Inquisizione in America
giudicò solo seicento casi (e solo un centinaio di persone finirono al rogo, senza
contare però quelli morti durante la prigionia e/o per le torture subite), nondimeno
essa arrivò in ogni città e gli imputati a volte dovevano essere trasportati per migliaia
di chilometri prima di arrivare al tribunale.
Anche la Santa Inquisizione entrò nella complessa e continua lotta fra Chiesa e
colonizzatori ed anch’essa prese spesso le difese degli indiani, tanto che sempre
Harvey arriva ad affermare che (pag. 4) “Dà la misura della ferocia del dominio
coloniale spagnolo il fatto che l’Inquisizione nell’America spagnola fu considerata
una forza illuminata e liberatrice che in genere prendeva le parti dei derelitti” (lett.
‘underdog’) (!!!).
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Eppure, nonostante tutti gli sforzi dei missionari e della Santa Inquisizione, così come
le razze anche i credi religiosi finirono inevitabilmente per mescolarsi: la conquista
dei cuori e delle anime fu infatti solo parziale – né in fondo sarebbe stato possibile
altrimenti - tanto che Eakin parla a questo proposito di ‘folk Catholicism’, di un
‘cattolicesimo per il popolo’ in cui le vecchie credenze si fusero con le nuove.
Forse l’esempio più evidente di questo sorgere di un culto davvero americano, in cui
nulla è rimasto indiano od africano ma nemmeno europeo, è l’esaltata venerazione in
Messico della Vergine di Guadalupe, cioè di una Madonna impensabile in un altro
contesto.
In Brasile e nei Caraibi furono le credenze africane ad incrociarsi inestricabilmente
con quelle europee, mentre nell’America spagnola quelle indiane: è naturale infatti
che siano stati i gruppi etnici più numerosi ad influire sull’assimilazione del
Cattolicesimo e sulla formazione di questi nuovi ibridi religiosi.
L’economia coloniale spagnola
L’economia dell’America spagnola fu organizzata in un regime di stretto monopolio:
la ‘Casa de Contrataciòn’ di Siviglia gestiva il flusso delle merci americane in arrivo
nei porti spagnoli autorizzati e quello in senso inverso: prodotti agricoli e materie
prime (soprattutto oro ed argento, che rimase la principale risorsa in arrivo
dall’America per tutto il periodo coloniale) in cambio di manufatti (e del mercurio
indispensabile per la raffinazione dell’argento stesso).
La maggior fonte di ricchezza dell’America spagnola era l’attività estrattiva dei
metalli preziosi, oro e soprattutto argento, concentrata nel Messico centrosettentrionale (Zacatecas e Guanajuato) e nell’attuale Bolivia (Cerro Rico a Potosì).
Per avere un’idea di che tipo di economia si trattava basta prendere in esame il caso
più famoso, quello di Potosì: dopo che nel 1544 vi fu scoperto l’oro e soprattutto
l’argento, essa, a oltre 4mila metri di altitudine, col nome di Villa Imperial de Carlos
V divenne la città più grande d’America ed anche una delle maggiori del mondo.
Potosì era anche la città più ricca d’America, ma non certo per gli ‘indios’ ed i negri
impiegati in condizioni orribili come schiavi: costretti a restare nei gelidi cunicoli
anche per mesi senza poter uscire alla luce, i ‘mitayos’ (i minatori) morivano presto
di sfinimento (anche se veniva loro data la foglia di coca da masticare, prima
appannaggio dei soli regnanti), di malattia, di fame, di freddo e di maltrattamenti, e
sorte analoga toccò a coloro che lavoravano negli ‘ingenios’ (le fonderie) dato l’uso
del velenoso mercurio nel processo di raffinazione dell’argento: ben presto gli indios
non bastarono più e vennero impiegati allora schiavi negri (scaraventati dalle assolate
savane africane o dalle foreste tropicali nel gelo dei cunicoli andini).
Al visitatore di oggi si dice che nelle miniere di Potosì i morti nei tre secoli di
sfruttamento coloniale furono non meno di 8 milioni, ma le cronache entusiastiche
del tempo parlavano solo delle favolose ricchezze che effettivamente vi venivano
estratte.
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Dal 1503 al 1660 arrivarono in Europa (contrabbando a parte) 16mila tonnellate
d’argento (che triplicarono quello allora presente) e 185 d’oro (che aumentarono del
20% quello a disposizione) dando un enorme e fondamentale contributo allo sviluppo
della sua economia, altrimenti gravemente carente di capitali.
Le miniere erano in mani private, ma la quinta parte del minerale estratto che spettava
alla Corona era facilmente ottenuta dalla madrepatria in quanto era lei che forniva il
mercurio indispensabile alla raffinazione dell’argento (l’oro era presente in minor
quantità).
Dal punto di vista etnico-razziale lo sviluppo e la complicazione dell’economia
americana e la costante mescolanza fra le razze comportò inevitabilmente un
allentamento – ma non la scomparsa! – della separazione fra le due repubbliche, la
bianca e la rossa, con trasferimenti in un senso o nell’altro mentre la presenza di
schiavi ed ex-schiavi neri faceva anch’essa sentire i suoi effetti.
Nelle comunità indiane, spesso ricomposte attraverso trasferimenti forzosi e
deportazioni – l’altissima mortalità rendeva necessari simili sistemi – nelle nuove
‘reducciònes’ e ‘congregaciònes’ la Chiesa Cattolica seppe operare con successo nel
garantire ordine e legami stabili e contribuì quindi alla difesa degli indios nei
confronti degli spagnoli e dei creoli: sembra incredibile, ma Wiliamson (pag. 139)
riferisce che “Comunità indiane e singoli nell’ultimo secolo del governo spagnolo
[cioè nel Settecento] controllavano circa i 2/3 della terra coltivabile” anche se
l’ispanizzazione era destinata a continuare con successo e se i capi indiani stessi
collaboravano coi bianchi nel fornir loro manodopera e nel lucrare loro stessi sui loro
ex-sudditi.
I ‘mestizos’ (di padre bianco e madre indiana) vivevano invece in una sorta di terra di
nessuno: erano liberi, ma dovevano pagare una tassa speciale ed erano soggetti a
numerose restrizioni giuridiche.
Inevitabilmente il loro numero cresceva né erano tutti riconducibili allo stesso gruppo
(numerosa era infatti le gamma degli incroci) per cui col tempo – e soprattutto nel
Settecento – alcuni di loro cominciarono ad essere via via in qualche modo assimilati,
almeno per quel che riguardava i loro diritti civili.
Situati ben in fondo alla scala sociale erano i negri, nonostante ci fosse sempre più
bisogno di loro data la decrescita della popolazione indiana e l’aumento della loro
importazione, legale o di contrabbando che fosse.
Il loro tasso di mortalità era superiore a quello delle nascite così la loro richiesta era
continua e molto alta: il loro traffico era un commercio regolato e legale e, benchè
condotto in un primo periodo dai portoghesi, era anch’esso sotto la direzione della
‘Casa’ di Siviglia.
La tratta era molto redditizia ed olandesi e francesi col tempo si affiancarono ai
portoghesi in questa turpe attività finchè gli inglesi con il trattato di Utrecht (1713)
ottennero il monopolio della fornitura ufficiale di schiavi (l’’asiento’): la tratta
provocò sempre qualche dubbio e malumore di ordine morale che però veniva presto
tacitato perchè c’era bisogno di manodopera schiava, i negri erano considerati esseri
inferiori e per la Chiesa Cattolica anche la schiavitù in fondo era un mezzo per salvar
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loro l’anima attraverso la conversione: raccomandava comunque di trattarli
umanamente.
Cosa significasse trattare umanamente un povero disgraziato catturato con la forza,
strappato da tutti i suoi affetti e dal suo mondo, trasportato nelle luridissime e
puzzolentissime stive delle navi negriere molto peggio di un animale, venduto come
una merce qualsiasi, comprato come si fa con una bestia da soma, messo a lavorare
ininterrottamente per tutta la giornata in un clima torrido e soffocante, tenuto in
catene, alimentato col minimo indispensabile a farlo sopravvivere e sottoposto a
crudeli punizioni per la minima disobbedienza, è davvero difficile da comprendere:
forse significava non maltrattarlo inutilmente, non ammazzarlo di lavoro, non farlo
crepare di fame; insomma considerarlo una risorsa utile e dunque da non sprecare.
L’affermazione dei creoli
Lo sviluppo delle Americhe a partire dalla metà del XVI richiese prodotti agricoli ed
artigianali in sempre maggior quantità che la Spagna non fu più in grado di
provvedere: essa dovette così ridursi a comprare all’estero quel che poi solo lei
poteva spedire oltreoceano ed è inutile dire che contro questo monopolio fiorirono il
contrabbando e la pirateria, anche perché in Europa la Spagna era impegnata in
guerre contro Olanda, Inghilterra e Francia che subito estesero il loro attacco anche
sull’Atlantico.
Fin dalla fine del XVI all’interno dell’impero americano della Spagna si sviluppò una
contraddizione sempre più grave perché la madrepatria aveva bisogno soprattutto
dell’argento americano per finanziare le sue guerre in Europa, mentre le colonie
risentivano del monopolio così contrario ai loro interessi ed avrebbero voluto
commerciare direttamente coi paesi reali fornitori delle merci importate e che invece
solo la Spagna aveva il diritto di inviar loro.
Come se tutto ciò non bastasse, la Spagna, sbilanciata dalle sue spese eccessive, andò
in bancarotta nel 1557, nel 1575 e nel 1596: dipese così in misura crescente
dall’argento americano ma contemporaneamente dovette ridurre le spese per l’
America.
Qualcosa non funzionava davvero nell’impero su cui ‘non tramontava mai il Sole’.
Il dominio iberico nell’Atlantico era stato presto insidiato da pirati e corsari (questi
ultimi autorizzati dai loro sovrani con un’apposita ‘lettre de marque’) che
aggredivano i convogli in rotta dall’America e devastavano le sue coste: la guerra
della Spagna contro olandesi, inglesi e francesi si fece pesantemente sentire anche
fuori d’Europa ed essa nel Seicento andò peggiorando per la Spagna che fra l’altro
dovette subire la perdita di tante isole caraibiche a favore dei suoi numerosi nemici.
Ancor oggi accanto alle Antille spagnole esistono infatti anche quelle olandesi,
inglesi e francesi, ma quel che fu peggio per la Spagna fu che le sue rotte atlantiche
vennero sempre più impedite ed ostacolate: il danno da essa subito è evidente, ma,
contemporaneamente ciò comportò anche una maggiore autonomia delle sue colonie
e quindi un aumento del ruolo e del potere dei creoli (gente di sangue spagnolo ma
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nata in America) ed una crescente importanza della produzione per il consumo locale,
quindi agricoltura e nascente manifattura al posto dell’attività mineraria ed estrattiva.
L’inarrestabile declino della Spagna del XVII secolo - e la sua conseguente calante
possibilità di intervenire oltreoceano – rafforzarono insomma le élites locali che
divennero una vera e propria oligarchia (creola): i creoli erano sempre più autonomi
dalla madrepatria e la loro economia sempre più sulla via dello sviluppo - tutto al
contrario di quella spagnola.
Le ‘hestancias’, le sempre più grandi (ed autosufficienti) tenute agricole, erano in
pieno rigoglio in questa terra dove riviveva una sorta di feudalesimo fondato sulla
segregazione razziale e dove gli indiani (spalleggiati spesso dalla Chiesa Cattolica)
resistevano come potevano all’usurpazione delle terre delle loro comunità - a volte
anche con successo; il commercio passò largamente in mani private e le ricchezze
così accumulate vennero reinvestite; anche la produzione interna di manufatti – e di
navi! - non potè che svilupparsi con la conseguente formazione di una classe di
artigiani e di lavoratori specializzati.
Il Brasile portoghese
Scoperto per caso il 22 aprile 1500 dal portoghese Pedro Alvares Cabral in rotta per
l’Africa e fuori dagli interessi coloniali del Portogallo - allora interessato a rifornire
l’Europa di spezie dall’Asia -, in base alla divisione del pianeta decisa a Tordesillas
fra Spagna e Portogallo il Brasile si trovava nella metà orientale del pianeta e spettò
dunque di diritto al secondo.
Inizialmente poco considerata, la nuova terra offrì ai suoi primi colonizzatori (i
‘degradados’, piccoli commercianti, emarginati e criminali banditi dalla madrepatria)
solo il ‘brazil’, un legno da cui si poteva estrarre il colore rosso scuro, e gli scarsi
insediamenti sulla costa si occuparono solo di questo commercio: tuttavia proprio per
la loro bassa estrazione sociale questi ‘degradados’ si rifecero una vita nel nuovo
possedimento integrandosi molto presto con i nativi e procreando un alto numero di
figli di sangue misto.
L’attenzione dei francesi per le grandi parti della costa brasiliana ancora libere spinse
Lisbona a predisporre una completa occupazione dell’intera fascia atlantica della
colonia: nel 1533 la costa fu così divisa in dodici “capitanie”, ognuna delle quali
affidata ad un ”donatario”, e largo spazio fu lasciato anche all’iniziativa dei privati.
Anche la Chiesa in Brasile fu un essenziale strumento di amministrazione e di
governo ed era l’istituzione che riusciva a tenere insieme ed a dare coesione alle
comunità sparse in un territorio così immenso: anche in Brasile i vescovi erano di
nomina regia.
Per lunghi decenni l’economia del Brasile si basò sull’esportazione del ‘brazil’, ma
negli anni Ottanta del Cinquecento il ben più remunerativo zucchero divenne la
principale risorsa della colonia: date le loro piantagioni nelle Azzorre, a Madeira e
nelle isole di Capo Verde, i portoghesi erano esperti coltivatori della canna da
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zucchero, ma quando vollero produrla nella nuova colonia si scontrarono con la
mancanza di manodopera dato che gli indiani, che pure si erano mostrati disponibili
al lavoro per abbattere gli alberi di ‘brazil’, rifiutavano però quello molto più duro
nelle piantagioni.
I portoghesi non avevano infatti trovato società numerose e ben strutturate come
quelle degli aztechi, degli incas e dei maya incontrate invece dagli spagnoli, ma genti
selvagge, nomadi e non facili alla sottomissione: se questi primitivi (ed anche
cannibali) indigeni non erano stati ritenuti degni ed in grado di esercitare diritti di
sovranità - e ciò aveva facilitato le pretese di dominio dei portoghesi - dall’altra parte
però i maggiori strutturazione e sviluppo delle società indiane incontrate dagli
spagnoli avevano permesso a questi ultimi di organizzarle e di sottometterle nel
durissimo lavoro coatto, cosa invece molto più difficile per i portoghesi.
Il bisogno di manodopera e la convinzione che gli ‘indios’ del Brasile erano dei
selvaggi contro cui era legittima la ‘guerra giusta’ spinsero i coloni a specializzarsi
nella caccia all’indigeno per renderlo schiavo, operazione non facile nelle
intricatissime foreste in cui gli ‘indios’ si muovevano con naturalezza da
innumerevoli generazioni, ma in cui anche i predatori bianchi di esseri umani
impararono presto a orientarsi ed a destreggiarsi.
L’arretratezza degli ‘indios’ del Brasile non frenò poi nemmeno lo slancio
missionario ed evangelizzatore della Corona che per questo si appoggiò ai ben
determinati gesuiti che dalla metà del Cinquecento cominciarono ad arrivare nel
paese: anche in Brasile i gesuiti ebbero il grande compito di trattare con le
popolazioni locali, di riorganizzarle e di trasformarle da nomadi o semi-nomadi in
sedentarie e concentrate nei villaggi appositamente fondati - e l’operazione ebbe un
grande e stupefacente successo: i campi e le piantagioni delle missioni dove i nativi
lavoravano raccolti e protetti prosperarono e suscitarono le invidie dei piantatori che
dovevano ricorrere invece al lavoro servile degli schiavi catturati nelle foreste.
La differenza (come anche nell’America spagnola) con la ferocia, la brutalità, la
rapacità ed il disprezzo dei colonizzatori è evidente e ci fu sempre tensione fra i
sostenitori di questi due sistemi, come costante fu lo sforzo dei gesuiti di proteggere
gli ‘indios’ dall’aggressione dei bianchi, ma, nonostante tutto, gesuiti (e ordini
religiosi in genere) e colonizzatori condividevano però anche un’affinità culturale di
fondo perché ambedue erano convinti della superiorità della propria civiltà e
dell’inferiorità di quella degli indiani.
La civiltà indiana non era considerata nemmeno civiltà, ma arretratezza,
superstizione, idolatria e barbarie: per gli uni dunque gli indiani andavano asserviti e
trattati come animali, per gli altri andavano invece capiti, trattati umanamente,
educati e riplasmati perché ritenuti innocenti, riscattabili dalle tenebre e dall’errore ed
in grado di imparare a vivere del loro pacifico lavoro (naturalmente diretto e
sottoposto ai bianchi), ma per nessuno dei due essi potevano e dovevano rimanere
com’erano né erano in grado di autogestirsi.
L’atteggiamento dei gesuiti nei confronti dei nativi fu paternalistico e protettivo e
sicuramente anche la loro fu un’intrusione che comportò un profondo snaturamento
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delle società indiane, ma pretendere che a quel tempo ci fosse rispetto per gli ‘indios’
e per i loro diritti sarebbe un’astrazione del tutto astorica.
Anche se gli ‘indios’ del Brasile erano giudicati inferiori a quelli più sviluppati
nell’America spagnola, la loro caccia, cattura e riduzione in schiavitù suscitarono
ugualmente le proteste e l’opposizione dei gesuiti (e l’imbarazzo della Corona) che
subito si scontrarono con i cacciatori di schiavi e con la schiavitù stessa degli ‘indios’
ma non poterono fare molto dato che la produzione aveva le sue esigenze e che i
‘senhores de engenho’ (i padroni delle piantagioni di zucchero) costituivano l’élite
della società.
Il problema della manodopera si aggravò poi ulteriormente quando nel 1695 nella
regione di Minas Gerais (a nord di Sao Paulo) e qualche anno dopo nel Mato Grosso
e a Goiàs venne trovato l’oro e ben presto anche giacimenti di diamanti.
Insomma: nelle piantagioni (e in seguito anche nelle miniere) c’era bisogno di
lavoratori, anzi di schiavi, ma schiavizzare gli indios era un’operazione contestata e
soprattutto essi non bastavano nemmeno, anche a causa delle stragi operate dalle
malattie (come quelle a Bahia e dintorni che arrivò a sterminare da un terzo alla metà
della popolazione e che spinse i terrorizzati ed affamati sopravvissuti nelle braccia
dei coloni).
La caccia e la cattura degli schiavi erano dunque insufficienti per mancanza di
‘indios’, così la soluzione al problema fu trovata nell’importazione di schiavi negri
dalle coste atlantiche dell’Africa.
I portoghesi, insediati anche sulle coste dell’Africa dalla metà del Quattrocento, erano
pratici della tratta di schiavi negri che erano ritenuti più adatti al terribile lavoro nelle
piantagioni, avevano le stesse immunità virali dei bianchi e nei riguardi della cui
riduzione in schiavitù non esistevano le remore morali e le obiezioni come nel caso
degli indiani: essi furono la soluzione al problema e dalla fine del Cinquecento la loro
importazione cominciò a svilupparsi su larga, stabile e crescente scala.
Le morti di questi poveretti superavano le nascite e dunque i vuoti andavano riempiti
mentre lo sviluppo delle piantagioni e dell’attività estrattiva aumentavano
ulteriormente la richiesta di lavoro servile: nel XVII il 42% di tutti gli schiavi
trasferiti in America finivano in Brasile e ciò alterò profondamente la composizione
etnico-razziale del paese dati anche i numerosi incroci, ‘mulatos’ o ‘pardos’ (bianconegra), ‘mamelucos’ o ‘caboclos’ (bianco-indiana) e ‘cafusos’ (negri-indiani).
Quella del Brasile era insomma era una società integralmente schiavista e la frontiera
di fatto esistente cogli indiani del selvaggio e sconosciuto interno amazzonico fu per
tutto il periodo coloniale teatro di barbara ferocia e di una inesausta caccia all’indiano
da schiavizzare.
Il ‘sertao’, questo sterminato spazio selvaggio e difficilmente penetrabile, attrasse
sempre i disadattati ed i mezzo-sangue alla ricerca di uomini e di risorse (i metalli
preziosi) ma offrì anche rifugio agli schiavi fuggitivi che all’interno fondavano
comunità note come ‘quilombos’ o ‘mocambos’ - di cui erano alla ricerca le spietata
spedizioni punitive: nella regione di Sao Paulo la caccia agli indiani divenne
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un’attività di alta specializzazione ed organizzata anche con spedizioni (le
‘bandeiras’) composte di migliaia di membri e che potevano durare anche anni (!).
Data la loro abilità, i servizi dei ‘bandeirantes’ erano richiesti anche quando c’era una
guerra contro le tribù dell’interno o quando bisognava sgombrare (dai suoi abitanti)
una zona per adibirla a pascolo per le mandrie: in questo modo la frontiera si spostava
verso l’interno dove sorgevano insediamenti sempre più avanzati.
La penetrazione portoghese di coloni e missionari oltrepassò la linea (immaginaria)
tracciata a Tordesillas e nuovi confini con i possedimenti spagnoli (più o meno quelli
fin dove il Brasile ancor oggi si estende) furono così fissati nel 1750 col trattato di
Madrid, ma la vera frontiera era in verità quella lunghissima e mal definita fra civiltà
e barbarie, continuamente teatro di aggressioni e saccheggi: guerrieri indiani, banditi,
schiavi fuggitivi, ‘desperados’, potenti ‘rancheros’ e avventurieri, si affrontavano e
compivano le loro gesta in uno spazio dove solo lentamente lo stato riuscì ad arrivare
portando un minimo di ordine e legalità.
Il Brasile fu insomma portato sotto l’autorità della Corona pezzo per pezzo ed anche
dal bisogno di consolidarne il possesso per frenare altre potenze europee che ci
avevano messo gli occhi sopra [o, come nel caso dell’Olanda, che nel 1630 avevano
occupato Pernanbuco e nel 1641 l’Angola: nel 1648-49 i portoghesi sarebbero riusciti
a rientrare in possesso di ambedue i territori (ma non del loro impero commerciale in
Asia che sarebbe stato perso per sempre)].
Naturalmente anche i gesuiti si movevano verso l’interno alla ricerca di anime da
convertire e di uomini da civilizzare: nuove missioni sorgevano dunque insieme a
nuovi villaggi e nuove piantagioni, così che le polemiche e gli scontri fra religiosi e
coloni continuarono a riprodursi nei nuovi insediamenti con grande intensità, tanto
che più volte i missionari vennero espulsi dalle zone in cui più accesi erano stati i
confronti.
La battaglia dei gesuiti era meritoria ma perdente perché urtava contro le insuperabili
necessità della colonizzazione: certamente il trattamento umano che essi praticavano
nelle loro missioni testimoniava la possibilità di pacifica ed anche fraterna
convivenza fra i popoli, ma era un’attività marginale che non avrebbe permesso un
vero sviluppo economico del Brasile.
Detto in altri termini, era la conquista portoghese stessa del Brasile ad implicare
l’orrore della schiavitù e dello sfruttamento crudele con tutta la loro indicibile
sofferenza: la causa e la radice del male stava insomma nella riduzione del Brasile a
colonia e tutto il resto era solo una serie di conseguenze.
Le cifre del disastro e le montagne di morti strazianti, di vite di solo ed assoluto
dolore non sono nemmeno conoscibili: i nativi non avrebbero mai potuto fornirle e gli
sterminatori non perdevano certo tempo a contare e documentare qualcosa che per
loro non aveva alcun valore.
Eppure il Brasile portoghese godette sempre di una ben maggiore compattezza che
non l’America spagnola: la mancanza in esso di civiltà indiane avanzate permise
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infatti di intendere e costruire la colonia come un’estensione del Portogallo stesso
anziché come un insieme di regni e repubbliche indiane distinti.
Gli ‘indios’ erano giudicati barbari selvaggi e dunque non avevano il diritto di essere
protetti e difesi in loro proprie repubbliche – politica che nell’America spagnola
aveva sempre suscitato l’opposizione dei creoli: inoltre i coloni bianchi del Brasile
erano posti sullo stesso piano degli abitanti della madrepatria, mentre nell’America
spagnola i ‘peninsulares’ erano di diritto i governanti e gli amministratori ed
ostentavano un atteggiamento di superiorità nei confronti dei creoli.
Circa il commercio, la Corona portoghese preferì concedere licenze a vascelli anche
di potenze amiche e ciò permise sensibili risparmi: il Brasile poi fu sempre più
integrato dell’America spagnola nell’economia mondiale perchè il Portogallo aveva
basi e possedimenti in quattro continenti e non imponeva il monopolio sul commercio
di manufatti che lasciava arrivassero anche da altri paesi (la cui capofila era
l’Inghilterra).
Come crocevia di un commercio che coinvolgeva quattro continenti il Brasile sarebbe
presto diventato molto più ricco della madrepatria, ormai poco più che semplice
intermediaria, anche perché immetteva sul mercato sempre nuovi prodotti come il
tabacco, il cacao ed infine il caffè la cui richiesta era molto forte.
L’America spagnola dei Borboni
Come si è già visto, il sistema politico nell’America spagnola degli Asburgo era stato
semplice e lineare: il re aveva il potere assoluto per volontà di Dio, l’unico al di sopra
di lui, e governava tramite i ‘peninsulares’ che inviava direttamente nelle colonie; la
Chiesa era la potente collaboratrice del sovrano, attiva, ricca ed onnipresente; la
cultura dominante era ovviamente quella spagnola, ma tutto quello di indigeno che
non contrastava con essa (e con il cattolicesimo) era di fatto ammesso.
Dopo i ‘peninsulares’ l’aristocrazia creola godeva a sua volta di grande prestigio e di
grande potere, poi via via si scendeva nella scala sociale ed etnica (creoli, indiani,
‘mestizos’, ‘mulatti’, negri liberati, schiavi negri): la separazione netta e decisiva era
comunque quella fra bianchi e non-bianchi ma, anche se la Corona aveva cercato di
mantenere separate le comunità indiane da quelle bianche, la sempre più complicata
presenza dei nati da matrimoni ‘misti’ aveva reso le separazioni razziali piuttosto
fluide così che la gerarchia sociale era molto più articolata ed indefinibile di quel che
poteva sembrare a prima vista.
Per parte loro i creoli avevano cominciato a sentirsi ‘espanoles americanos’ e a
sviluppare un certo orgoglio patriottico ed una crescente volontà di autonomia oltre
ad una loro propria cultura e ad una loro propria arte - inevitabilmente condizionate
dalle influenze indiane e negre: essi provavano poi un crescente risentimento verso i
‘peninsulares’, quegli spagnoli che non appena arrivavano dalla madrepatria già
ostentavano un’aria di superiorità e pretese di comando .
Nel corso del Seicento la crisi e la progressiva perdita di controllo dell’Atlantico da
parte della Spagna aveva indebolito la sua capacità di agire sulla scena americana e
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l’aristocrazia creola ne aveva approfittato per aumentare la sua capacità di governo,
così alla fine del secolo, mentre la Spagna aveva languito, le sue colonie americane
avevano invece prosperato: anche se non proprio ufficialmente, le élites creole ne
avevano di fatto preso in mano la direzione ed erano state capaci di allargare la loro
sfera commerciale sia fra di loro che, grazie alle Filippine, con l’oriente; il
contrabbando fioriva e la Corona spagnola lasciava (o era costretta a lasciar) fare
anche se aveva sempre più bisogno delle risorse (l’argento) americane.
Questa situazione conobbe un brusco cambiamento quando all’inizio del Settecento,
in seguito alla guerra di successione spagnola (1701-13), col nome di Filippo V
divenne re di Spagna il francese Filippo di Borbone, nipote di Luigi XIV: l’arrivo del
nuovo sovrano (iniziatore della dinastia che ancora oggi regna in Spagna) aprì le
porte anche nell’America spagnola alle idee dell’Illuminismo che piano piano ne
cominciarono a rivoluzionare la vita innanzitutto in campo culturale, dove le
università e l’istruzione in generale vennero sempre più informate ai saperi pratici e
concreti.
Nella sua battaglia per l’affermazione della ragione e per il conseguente
rinnovamento della società l’Illuminismo in Europa si scontrò duramente contro i
privilegi della nobiltà e soprattutto contro la Chiesa, accusata di oscurantismo, di
intolleranza e di difendere i suoi anacronistici privilegi - ed in ciò si trovò alleato di
quei sovrani, detti appunto ‘illuminati’ che, sempre in nome della ragione e delle
riforme ad essa ispirate, vollero riaffermare il loro potere assoluto contro aristocrazia
e clero.
Pensatori illuministi e ‘despoti illuminati’ si trovarono insomma alleati contro gli
stessi nemici (aristocrazia e clero) ed anche l’azione politica dei Borboni sul trono di
Madrid fu così ispirata da centralismo, razionalizzazione e modernizzazione dello
stato [con un’accelerazione soprattutto sotto Carlo III (1759-88) e del suo ministro
marchese de Sonora dopo che la sconfitta nella guerra dei Sette anni (1756-63) aveva
fatto perdere alla Spagna molte posizioni compresa l’Avana e Manila cedute
all’Inghilterra].
Fin da subito Filippo V fu ben conscio di quanto terreno era stato perso nel suo
sterminato impero americano, di fatto ora largamente autonomo, e si impegnò a
fondo per ristrutturarlo in base ai tre principi di centralizzare (cioè di riaffermare il
potere del re), razionalizzare (cioè modernizzare e rendere più adeguata la struttura
amministrativa ed economica) e nazionalizzare (cioè controbattere e limitare il ruolo
degli altri paesi europei nella navigazione e nel commercio atlantico).
Per fare tutto ciò anche in America bisognava ridurre e piegare il potere
dell’aristocrazia creola e della Chiesa, ed allo scopo di ristrutturare e di rendere più
efficiente l’impero venne così inviato in America l’abile e deciso Josè de Gàlvez.
Riorganizzazione dei confini amministrativi, sostituzione dei creoli con funzionari
regi nei posti di comando, riaffermazione del monopolio commerciale con la
madrepatria e lotta al contrabbando, proibizione della produzione di merci in
concorrenza con quelle spagnole, rivitalizzazione della riscossione delle tasse ed
aumento di quelle dovute dagli indios, furono tutte misure che alterarono l’assetto e
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l’economia americani a tutto vantaggio degli accresciuti e riconfermati interessi della
madrepatria.
Per riordinare e per adeguare l’amministrazione dei domini americani, migliorarne le
vie e le rotte commerciali e meglio difenderle dagli attacchi francesi e soprattutto
inglesi, nel 1718-19 venne creato il nuovo Vicereame della Nuova Granada (con
capitale Bogotà e comprendente gli attuali Colombia, Panama, Ecuador e Venezuela),
negli anni Settanta il Vicereame de la Plata (con capitale Buenos Aires e
comprendente gli attuali Argentina, Uruguay, Paraguay e Bolivia - il ‘Perù Superiore’
come era chiamato allora) ed infine nuove ‘audiencias’: occhiuti e fidati intendenti
inviati dalla madrepatria vigilavano attenti che le direttive e gli ordini di Madrid
trovassero piena applicazione.
Il potere tornò decisamente nelle mani dei ’peninsulares’, ancor più boriosi e
sprezzanti di prima, e per le élites creole questo fu un duro colpo e creò seri
risentimenti.
Oltre a introdurre un serie di riforme per aumentare la produzione sia in Spagna che
in America, i Borboni cercarono poi in tutti i modi di rendere più fluido ed
organizzato il commercio atlantico nell’ambito dell’impero, ma anche di mantenerlo
chiuso con la riaffermazione del monopolio spagnolo su di esso: le merci dalle
Americhe potevano infatti essere trasportate solo in determinati porti spagnoli (come
Siviglia e Cadice) e la Spagna era la sola a poter vendere in America.
L’operazione per un verso fu un successo perché l’estrazione dell’argento crebbe
fortemente soprattutto in Messico (che arrivò ad essere tre volte quella peruviana),
altri porti spagnoli vennero aperti al commercio americano che fu permesso anche fra
le varie colonie, e ci si affidò a terzi per effettuare i trasporti visto che la flotta
spagnola era ormai fuori gioco: il volume di traffico crebbe così del 700% (!).
Tuttavia lo sforzo di escludere da questo commercio gli altri paesi (cioè l’Inghilterra)
non riuscì nel suo intento perché la Spagna era semplicemente troppo debole per
tenerne fuori i mercanti (e gli onnipresenti contrabbandieri) e troppo povera per
rifornire lei stessa le sue colonie di quel che necessitavano in misura crescente.
Il momento più pericoloso per un regime dispotico si verifica quando esso cerca di
riformare se stesso, così una parte dei creoli cominciò a reagire a questa nuova
politica che subiva come tirannica e spogliatrice, oltrechè negatrice di consuetudini,
privilegi ed equilibri consolidati - mentre il clero aborriva la nuova mentalità laica e
si sentiva minacciato da uno stato che pretendeva di fare senza e contro di lui.
I creoli si sentirono amaramente discriminati dai ‘peninsulares’, dalla sfiducia
preventiva nei loro confronti e dall’esclusione dalla conduzione della vita politica dei
territori in cui erano nati e che conoscevano molto meglio dei funzionari che
arrivavano pieni di boria dalla madrepatria: inoltre essi si vedevano sfuggire grandi
possibilità di guadagno e di arricchimento data pervicace volontà regia di non
permettere loro di commerciare liberamente e di vedere gravate invece le loro merci
da ogni sorta di tasse e balzelli.
I sudditi delle altre etnie, la grande maggioranza della società, rimanevano poi
profondamente legati alla Chiesa ed al ricordo della passata monarchia cattolica ed
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anche per loro il riformismo illuministico borbonico rappresentò l’incrinarsi di un
equilibrio.
La monarchia cattolica degli Asburgo era stata capace di tenere in qualche modo
unita e sotto controllo una società così profondamente eterogenea e segnata da
differenze tanto profonde perchè aveva saputo offrire ad ogni suo componente il
proprio posto ed il proprio ruolo grazie anche alla tradizione della sacralità della
Corona ed alla sua indissolubile unione con la Chiesa: ora invece in nome del
progresso e del cambiamento, della razionalità e dei nuovi principi dell’Illuminismo e
della direzione centrale di ogni attività di governo, veniva a mancare quella capacità
di saper distinguere le differenze con misure particolari e nella società si apriva così
una serie di fratture che la minarono profondamente.
Forse era inevitabile che i tempi nuovi arrivassero anche in America, ma si aprì ora
un’éra di conflitti e di instabilità.
Borboni e Chiesa nell’America spagnola
Altro bersaglio dell’azione governativa borbonica fu la Chiesa Cattolica: come
dappertutto (o quasi) in Europa essa era vista come un ostacolo al pieno esercizio del
potere dello stato ed inoltre le sue enormi ricchezze (soprattutto immobiliari)
venivano giudicate eccessive e un impedimento allo sviluppo di un’economia
moderna basata sul mercato: numerose furono le misure messe in atto per ridurre
l’influenza del clero sulla vita pubblica e per privatizzarne le proprietà terriere, ma
ciò sconvolgeva le basi stesse su cui l’America spagnola era stata edificata e
funzionava da due secoli e mezzo.
Inevitabili furono le resistenze anche accese: oltretutto il potere regio, scisso dal
legame con la Chiesa e basato solo su se stesso, risultava incomprensibile e frutto di
arbitrio tirannico, soprattutto nelle comunità indiane dove il basso clero da secoli si
era occupato del loro benessere e dei loro bisogni e vi aveva posto salde radici.
Dopo anni di lotte la rottura dello stato fu totale proprio con i campioni intellettuali
della Chiesa, i gesuiti, che nel 1767 vennero scacciati dalla Spagna e da tutti i suoi
domini, America inclusa, anche perché ciò permise di incamerarne le enormi
ricchezze – e di distribuirle poi a quella nuova nobiltà fedele per ricompensarla e
legarla ancor più strettamente alla monarchia riformatrice.
La reazione dei gesuiti americani, in genere creoli, fu comprensibilmente molto dura:
fra l’altro essi denunciarono le violenze della conquista, le orribili brutalità commesse
dai ‘conquistadores’ e dagli spagnoli ai danni degli ‘indios’ ritenuti innocenti, indifesi
e strappati con ferocia alla loro vita ritenuta semplice e pura: contro l’epopea eroica
della conquista nacque così – sostiene Eakin - la ‘leggenda nera’ dell’oppressione e
della devastazione portate proprio da chi si vantava di appartenere ad una civiltà
superiore, anzi all’unica e vera civiltà.
[Si è già visto che Williamson retrodata la nascita di questa leggenda nera agli scritti
di de Las Casas di due secoli e mezzo prima ed anche che a parere di chi scrive
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queste pagine non si trattò purtroppo di leggenda, ma della verità – sicuramente nera
però, questo sì].
I gesuiti denunciarono infine la tirannia della Corona spagnola nei confronti non solo
degli ‘indios’ massacrati, violentati, depredati e sfruttati senza fine, ma anche degli
stessi creoli dominati e paralizzati dalle pretese spagnole.
Il Brasile al tempo di Pombal
IL vento riformista dell’Illuminismo col suo potente soffio coinvolse anche il
Portogallo e di conseguenza anche il Brasile: esso trionfò nel lungo governo del
marchese di Pombal (1750-77), il potente ministro di José I che volle decisamente
modernizzare e trasformare il paese ed il suo impero: la grande statua che lo (lui, e
non il suo re!) ricorda in cima ad un enorme piedistallo nella grande e centrale piazza
di Lisbona che porta il suo nome testimonia la stima che i portoghesi ancor oggi gli
vogliono manifestare.
Da bravo illuminista, lo scopo di Pombal era quello di liberare le energie e le capacità
della società che venivano invece soffocate e costrette dalle barriere del privilegio e
della tradizione: anche in Portogallo la borghesia premeva per conquistare gli spazi di
manovra che le avrebbero permesso di arricchirsi e di svilupparsi e il marchese fu il
suo uomo.
Per ridurre almeno i privilegi e l’influenza della nobiltà portoghese Pombal approfittò
di un supposto tentativo di assassinare il re per arrestare alcuni dei più noti e potenti
aristocratici e per farli torturare e giustiziare; colpì duramente quelli che lo
ostacolavano ed elevò i piccoli o nuovi nobili che invece lo sostenevano.
Impadronitosi addirittura della direzione della Santa Inquisizione, Pombal (in piena
contraddizione con le sue idee illuministiche) non esitò a servirsene contro i suoi
avversari (!).
Circa l’impero, anche per Pombal il problema era arrestarne il declino e controbattere
la crescente potenza di Francia ed Inghilterra, ma lo scontro in Brasile assunse toni
del tutto particolari.
Dopo che ormai inglesi ed olandesi si erano impadroniti del commercio con l’Asia, il
Brasile era diventato il principale motore dell’economia dell’intero impero
portoghese: all’aumento della produzione dello zucchero nel Seicento, nella prima
metà del Settecento si era infatti aggiunto il grosso aumento di quella dell’oro (e di
altri remunerativi prodotti agricoli).
Sembra che nel Settecento il paese producesse così l’80% di tutto l’oro del mondo (!)
e quando purtroppo alla fine del secolo le sue vene si erano ormai esaurite, proprio
allora vennero scoperti ingenti giacimenti di diamanti che ben presto permisero al
Brasile di superare l’India come maggior esportatore del pianeta: grazie al Brasile in
breve tempo il Portogallo era divenuto insomma uno dei paesi più ricchi del mondo e
la colonia era diventata la ‘mucca da latte’ dell’intero impero - che però aveva
bisogno di riforme cui Pombal si dedicò alacremente.
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La capitale venne trasferita da Salvador (a Bahia) a Rio de Janeiro, più centrale e
massimo centro commerciale del paese: a ciò si accompagnò una maggior
centralizzazione amministrativa e politica (guidata da Lisbona) ma
contemporaneamente aumentarono i centri in cui le direttive arrivavano e da cui
dovevano essere portate avanti; allo scopo di meglio sviluppare l’economia
dell’intero complesso imperiale venne incoraggiata la produzione manifatturiera nella
madrepatria e quella del Brasile venne ristretta all’esportazione di beni primari come
oro, diamanti e zucchero; il commercio venne più strettamente monopolizzato ed
altre riforme furono infine rivolte al miglioramento della produzione.
E tuttavia, proprio come nel caso dell’America spagnola, il tentativo di chiudere e di
monopolizzare i traffici all’interno dell’impero non riuscì: nemmeno il Portogallo
aveva forza e navi sufficienti per lascia fuori l’Olanda e soprattutto l’Inghilterra, da
secoli sua partner commerciale e protettrice politica.
La rivolta delle Tredici colonie nordamericane contro l’Inghilterra fece aumentare
ulteriormente le esportazioni brasiliane - che riuscirono anche a diversificarsi (per
esempio col caffè) - verso i mercati inglesi e il Brasile era sempre più centrale
nell’intera economia imperiale ma, a differenza che nell’America spagnola, le sue
élites bianche si strinsero sempre più con quelle della madrepatria, anche per
l’esigenza di tracciare un solco netto con la grande maggioranza della popolazione di
colore.
Tuttavia, come in tutta Europa, anche in Brasile il bersaglio principale delle riforme
illuministiche fu la Chiesa Cattolica sia per i suoi privilegi giudicati ormai
anacronistici, sia per le sue ricchezze su cui lo stato voleva mettere le mani, sia
perché era la portatrice della tradizione e della conservazione, sia perché pretendeva
di avere l’esclusivo diritto di legittimare il potere dei re e sia perché era un
ingombrante corpo autonomo ed indipendente nella società che limitava e bloccava
quindi il ruolo dello stato: i campioni della Chiesa erano gli organizzatissimi,
dottissimi e disciplinatissimi gesuiti contro cui lo scontro in Portogallo fu totale,
anche per una decisa animosità personale del marchese nei loro confronti.
Anche altri ordini religiosi si videro espropriare di tanti loro beni e subirono altre
misure ostili, come le restrizioni per l’entrata in monasteri e conventi, tutte chiare
testimonianze della volontà di laicizzare la società e di aprirla al cambiamento.
La questione – se possibile – si complicò ulteriormente perché il sopracitato trattato
di Madrid, che in America stabiliva i confini fra possedimenti portoghesi e spagnoli,
non poteva divenire effettivo finchè i gesuiti spagnoli non avessero riconosciuto il
passaggio delle loro missioni ad est del fiume Uruguay al Brasile, cioè sotto il
Portogallo: essi invece per difendere i loro assistiti indiani si opposero con decisione.
La loro resistenza sfociò in una guerra (1754-56) e Pombal accusò l’ordine di
insubordinazione, poi nel 1758 addirittura di aver cospirato per assassinare il re (!) ed
infine l’anno seguente li espulse da tutto il territorio dell’impero e ne confiscò le
proprietà: i benefici per i piantatori furono cospicui perché essi poterono appropriarsi
delle ben gestite tenute dei gesuiti - e dei loro lavoratori che videro peggiorare
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notevolmente le loro condizioni perchè divennero ora dei forzati (come voleva anche
Pombal, favorevole ad un loro più ‘razionale’ sfruttamento).
Cominciano le rivolte
I creoli – ¼ circa della popolazione - di fronte al riformismo centralizzatore che
voleva mantenere l’America spagnola in una netta e definita condizione coloniale
governata dagli ‘europeos’ – l’1% della popolazione totale - si divisero: i
conservatori tradizionalisti rimpiangevano il ‘laissez faire’ della debole monarchia
asburgica, salvo chiedere più spazio per loro stessi, e volevano legami stretti con la
Chiesa in quanto pensavano che Corona e Chiesa fossero le migliori garanti del loro
status e dei loro interessi; i liberali erano invece compresi dello sforzo
modernizzatore borbonico ed erano d’accordo colla politica volta a recidere molti
legami con la Chiesa stessa, ma chiedevano nondimeno più spazio per se stessi.
C’erano poi anche coloro (certamente ancora piccole minoranze) che cominciavano a
pensare seriamente che l’unica soluzione ai problemi del continente fosse
l’indipendenza vera e propria – non per niente erano questi gli anni in cui gli echi
della guerra d’indipendenza del Nordamerica e poi della rivoluzione francese
cominciavano ad arrivare anche in America Latina.
Tuttavia queste divisioni non esistevano praticamente più di fronte al timore (od al
terrore) nei confronti delle pur sempre possibili sollevazioni delle masse schiave,
sfruttate, sottomesse, segregate e discriminate dei non-bianchi su cui i creoli minoranza ricca e privilegiata – galleggiavano da signori: era questa particolare
composizione sociale, unita al bisogno dei creoli di difendersi dalla maggioranza
della popolazione, che impediva la formazione di una vera ed efficace opposizione
come invece era avvenuto nelle tredici colonie inglesi (ed in Europa).
Finchè la Spagna garantiva la sottomissione delle masse non-bianche lo
sconvolgimento prodotto dal riformismo illuministico non poteva incanalarsi in una
seria proposta alternativa ed il risentimento restava un mugugno fine a se stesso.
I creoli in genere erano insoddisfatti dei Borboni, ma la loro maggioranza continuava
a vedere pur sempre la monarchia come baluardo contro il caos e l’anarchia – e la
perdita dei loro privilegi - che le masse dei non-bianchi avrebbero potuto scatenare
una volta che non fossero più state trattenute dalla forza delle truppe spagnole e
(soprattutto per i conservatori) persuase dalla Chiesa e dalla tradizione: e queste
certamente non erano paure infondate perché proprio rivolte di questo tipo
cominciarono a scuotere l’intero assetto della società ispano-americana.
La prima rivolta di un certo rilievo fu quella di Condorcanqui che, preso il nome di
Tupac Amaru (l’ultimo sovrano inca ad aver resistito agli spagnoli), nel 1780 si
sollevò in Perù ed in Bolivia chiamando a raccolta gli indiani ed anche i creoli: questi
ultimi tuttavia lo abbandonarono subito quando cominciarono i massacri
indiscriminati di bianchi e nemmeno tutte le comunità indiane lo seguirono, così,
impossibilitato a resistere, egli nel 1782 fu sconfitto, catturato e squartato vivo nella
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piazza di Cuzco - nel cui parco centrale oggi alcune lapidi ricordano i martiri di
questo primo tentativo.
Circa 100mila persone (quasi tutti indiani) erano periti nella sommossa – cifra
enorme data la scarsità della popolazione.
Nel 1800 si calcola infatti che in America Latina (spagnola e portoghese) vivessero
14-15 milioni di persone (metà di quelle spagnole si trovavano nella Nuova Spagna):
1-2 milioni erano di origine africana, 3-4 milioni di sangue misto (i ‘castas’) e 3
milioni bianchi, solo 40mila dei quali ‘penisulares’: il resto era costituito da indiani.
Nel 1781 fu la volta nel nuovo vicereame della Nuova Granada, ma anche in questo
caso dopo aver raccolto iniziali simpatie (anche fra il clero) le comunità indiane in
rivolta furono lasciate sole sotto la guida di Galàn e conseguentemente sconfitte:
stessa sorte ebbe anche una rivolta in Venezuela poco tempo dopo.
Queste rivolte dimostrarono chiaramente che, a quasi tre secoli dalla conquista, tutto
un equilibrio sapientemente costruito nei secoli, una volta messo in discussione dalla
monarchia borbonica, rischiava di saltare e che le conseguenze potevano essere
drammatiche (per i creoli) ed imprevedibili: il risentimento e l’odio degli ‘indios’
erano ancora molto vivi ed i creoli, per quanto in urto con la monarchia borbonica e
divisi fra loro, non erano certo disposti a cadere dalla padella dell’assolutismo
illuministico nella brace degli ‘indios’ in armi e, atterriti dalle conseguenze di un
eventuale successo degli insorti, non poterono che schierarsi decisamente dalla parte
dell’autorità coloniale.
Il vento delle rivoluzioni americana e francese investì anche il Portogallo ed il Brasile
dove già nel 1788-89 era scoppiata una prima rivolta, seguita da una a Rio de Janeiro
nel 1794, da un’altra di negri e mulatti a Bahia nel 1798, da un’altra ancora a
Pernambuco nel 1801 e da un’ultima per la liberazione degli schiavi a Bahia nel
1807: per quanto si fosse trattato di episodi in fondo isolati, nondimeno essi
spaventarono i bianchi che sentivano di trovarsi su ciglio di un vulcano e vennero
così repressi senza pietà.
Quel che successe poi nella francese Haiti – l’unica rivolta di schiavi coronata dal
successo – rafforzò potentemente tutti i bianchi nei loro incubi più profondi.
La rivolta servile di Haiti
Occupata dalla Francia a metà Settecento, Santo Domingo (di cui Haiti è la parte
occidentale) verso la fine del secolo era divenuta la maggior produttrice di zucchero
del mondo e con un’esportazione di 50mila tonnellate annue contribuiva per 1/3 a
tutto il commercio estero francese (!), ma il 90% della sua popolazione era costituito
di schiavi (!).
Quando la Francia rivoluzionaria negli anni Novanta del Settecento cadde nelle spire
della guerra civile anche la popolazione nera insorse e sotto la guida del leggendario
Toussaint Louverture cominciò a sterminare la popolazione bianca: truppe francesi,
inglesi e spagnole tentarono l’invasione dell’isola per sedare la rivolta che
minacciava di estendersi alle altre isole dell’arcipelago, ma i soldati europei perirono
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presto a decine di migliaia soprattutto di malaria e di febbre gialla - ironia del destino,
stavolta erano i bianchi a morire in massa per le epidemie in America.
Mentre la rivolta si complicava in lotte intestine, Toussaint divenne dittatore militare
e tentò di continuare la produzione di zucchero nelle piantagioni, ma gli ex-schiavi si
rifiutarono di lavorarci seppur da uomini liberi.
Nel 1802 Napoleone – fatta per il momento pace (di Amiens) con l’Inghilterra - inviò
un esercito al comando del generale Leclerc che ferocemente tentò di risottomettere
l’isola, catturò e deportò in Francia Toussaint (che morirà in carcere l’anno
successivo), ma in realtà riuscì soltanto a compattare i mulatti coi negri ed a condurre
campagne di sterminio tanto orribili quanto inutili: lo stesso Leclerc morì di febbre
gialla e la ripresa della guerra con l’Inghilterra costrinse i francesi ad un’umiliante
ritirata alla fine del 1803.
Il 1 gennaio 1804 il successore di Toussaint, Dessalines, ed i suoi generali finalmente
poterono proclamare l’indipendenza, ma dei 400mila schiavi liberati 1/3 era morto
nei lunghi e spietati anni di guerra.
L’impensabile era avvenuto: gli schiavi, gli ultimi nella scala sociale, i semi-umani
ben inferiori agli stessi indiani, avevano sconfitto la Francia, potenza militare ben più
grande della Spagna, ed avevano dimostrato di essere disposti a pagare prezzi
altissimi per la loro libertà.
L’indipendenza di Haiti merita un posto d’onore e d’eccezione nella storia (non
solo moderna), ma per i creoli americani divenne la peggior catastrofe immaginabile
da evitare ad ogni costo.
La Spagna spazzata via dall’Atlantico
Dopo che i danni provocati dall’Inghilterra all’impero spagnolo in America in seguito
all’alleanza della Spagna con la Francia nella guerra dei Sette anni (1756-63) erano
stati in qualche modo rimediati dalla vittoria franco-spagnola nella guerra
d’indipendenza degli Stati Uniti, l’isolamento dell’America spagnola dalla
madrepatria si ripropose di nuovo in seguito alla decisione del re di Spagna Carlo IV
(sul trono dal 1788 al 1808) di allearsi (ancora una volta) con la Francia termidoriana
nel 1796: sotto l’influenza di Manuel Godoy, dominatore a corte e amante di sua
moglie, egli si mise così in urto (ancora una volta) con l’Inghilterra (alleata del
Portogallo) che da secoli non chiedeva altro che colpirla nei suoi traffici atlantici.
Per la Spagna del tempo i traffici atlantici erano tuttavia della massima importanza: i
suoi orgogliosi abitanti, pieni di un senso dell’onore e di una fede religiosa di sapore
ancora medievale, si consideravano combattenti e governanti, non commercianti e
trafficanti, e per tre secoli avevano così succhiato le ricchezze dell’America
(soprattutto i suoi metalli preziosi) per mantenersi in questo stato di sprezzante
nobiltà senza dedicarsi veramente allo sviluppo economico del loro impero.
La Spagna era così diventata uno stato parassitario ed arretrato ed il suo oro ed il suo
argento erano fluiti sempre più copiosi ad alimentare le economie degli altri stati
europei (magari suoi acerrimi nemici!) da cui era costretta a comprare quel che non
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riusciva a produrre lei stessa: il fatto che ora non fosse più in grado di difendere le
sue rotte era per lei quindi molto grave.
Sconfitta nel 1797 al capo St. Vincent e coi suoi porti bloccati dall’onnipotente flotta
di Nelson, la flotta spagnola subì il colpo di grazia e venne praticamente spazzata via
a Trafalgar nel 1805: i contatti della Spagna con le sue colonie (e col loro argento!)
si interruppero (ancora una volta) e se per la Spagna ciò costituì un colpo terribile,
ma, tutto al contrario (ancora una volta), ciò si tradusse in un vantaggio per i creoli
che ebbero nuovamente la possibilità di autogestirsi in autonomia e di commerciare
liberi con chi volevano (soprattutto con l’Inghilterra stessa!), cioè di realizzare le loro
aspirazioni maggiori.
[Non tutti i motivi che alimentavano l’insofferenza dei creoli nei confronti della
Spagna erano comunque apprezzabili: essi infatti si risentirono profondamente
quando il 10 febbraio 1794 Godoy fece emanare dal re un decreto che permetteva
anche agli appartenenti alle razze non-bianche il diritto di acquisire il titolo di ‘Don’
e, peggio ancora, nell’agosto 1801 di poter comprare addirittura titoli di nobiltà (!)].
In ogni caso il miglior esempio di questa nuova situazione si verificò quando a
respingere l’attacco inglese a Buenos Aires ed a Montevideo furono le milizie creole,
non le truppe del Vicerè che invece fuggì e che venne interamente scavalcato nelle
sue funzioni dagli organi di autogoverno locale.
Eppure, proprio l’estrema debolezza e l’incolmabile lontananza della Spagna non la
resero più temibile e, dunque, i creoli non avevano più nulla da recriminare al
mantenimento del suo impero americano, ormai poco più che formale e senza
conseguenze pratiche - a parte la continuazione del rispetto della tradizione, fatto che
manteneva pur sempre una sua importanza.
I creoli avevano di fatto, se non di diritto, quel che volevano e ciò (perché no?)
poteva bastare - e fu così che in America la situazione precipitò solo in seguito a
nuovi sviluppi della situazione in Europa, cioè quando Napoleone invase l’intera
penisola iberica.
L’occupazione napoleonica di Spagna e Portogallo
Dopo la vittoria sulla quarta coalizione (1806) Napoleone si rese conto della necessità
di occupare il Portogallo (e non solo) per estendere anche a quel paese il blocco
continentale che aveva imposto in tutta Europa per escluderne le navi e le merci
inglesi.
Fortemente dipendente dall’Inghilterra che da tempo ne controllava i commerci e la
vita economica ed in cui i britannici avevano effettuato anche cospicui investimenti,
il Portogallo costituiva invece una grande base per il contrabbando ed un importante
punto d'appoggio della Royal Navy con ciò vanificando la politica imperiale francese
volta a soffocare l’Inghilterra, altrimenti invincibile.
Il 18 ottobre 1807 il generale Junot attraversò così il confine con la Spagna per
marciare su Lisbona alla testa di un’armata di 22.000 uomini: la Spagna, già alleata
della Francia contro l’Inghilterra ed aderente al blocco continentale, non solo per
questo accolse con favore le truppe francesi sul suo territorio.
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Il 27 ottobre 1807 fra Spagna e Francia venne infatti stipulato il trattato di
Fontainebleau che prevedeva la spartizione del Portogallo fra i due alleati: anche tre
reparti spagnoli invasero così il Portogallo ed il 1 dicembre 1807 i francesi entrarono
a Lisbona senza aver dovuto nemmeno combattere: tutta la corte (con una folla di
10mila persone!) riuscì però a fuggire frettolosamente (su navi inglesi) alla volta del
Brasile sfuggendo per un soffio alle truppe degli invasori.
Considerando comunque rischiosa la situazione di Junot, isolato in Portogallo a
grande distanza dal confine francese, e data la necessità di supportare meglio le sue
operazioni, Napoleone cominciò ad inviare in Spagna ulteriori truppe e di fatto
occupò anche questo paese.
La dirigenza e la corte spagnole erano divise e reagirono confusamente e con
complotti a questi sviluppi, ma lo spirito della fiera e cavalleresca Spagna non si era
spento: il 17-18 marzo 1808 una rivolta militare, il ‘Tumulto di Aranjuez’ (dove la
corte si era trasferita), originata da una congiura aristocratica e dal diffuso
malcontento popolare, portò alla destituzione ed all’imprigionamento dell’odiato
Godoy.
Il 2-3 maggio 1808 un’ulteriore violenta insurrezione contro le truppe francesi
provocò poi aspri scontri a Madrid con molte vittime: in pochi mesi l’intero regno era
in rivolta, la sollevazione nazionale e popolare antifrancese si era diffusa in tutte le
regioni e le 17 giunte insurrezionali (guidate da quella di Siviglia) organizzavano la
ribellione pienamente sostenute anche dalle masse popolari e dichiararono guerra alla
Francia.
Napoleone rispose costringendo all’abdicazione sia Carlo IV che il figlio successore
designato Ferdinando e facendo proclamare suo fratello Giuseppe re di Spagna, ma in
tutto il paese si era ormai diffusa una sanguinosa guerriglia in difesa del re legittimo
Ferdinando VII (‘el deseado’, il desiderato, prigioniero in Francia): impossibilitate ad
affrontare i francesi in campo aperto, le giunte organizzarono milizie che furono
efficaci nel costringere sulla difensiva le truppe occupanti.
Inevitabilmente la guerra, potentemente illustrata da Goya, fu caratterizzata da gravi
atti di violenza, brutalità, torture e atrocità di vario genere compiuti da tutte due le
parti ma, oltre ai guerriglieri, la Spagna disponeva anche di un esercito regolare che
poteva ancora mettere in pericolo l’armata nemica dispersa sul territorio e che il 15
giugno 1808 riuscì addirittura ad impadronirsi della squadra navale francese ancorata
a Cadice.
Per domare l’ostinata resistenza spagnola lo stesso Napoleone dovette risolversi ad
una nuova e ben più massiccia invasione a capo di un esercito di 200mila uomini che
alla fine del 1809 riuscì a rimettere Giuseppe sul trono di Madrid e ad occupare tutto
il paese ad eccezione di Cadice dove, protetta dalla flotta inglese, la Giunta Centrale
si rifugiò a continuare i suoi lavori.
Questa ‘guerra peninsulare’ (come la chiamarono gli inglesi) produsse un profondo
rivolgimento anche nella politica estera ed atlantica della Spagna: fin da quando
Filippo V era diventato re (un secolo prima) essa era stata alleata della Francia e
conseguentemente nemica dell’Inghilterra, ma ora questa alleanza si era
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completamente rovesciata e gli inglesi (i padroni del mare), i nemici di ieri, erano
diventati gli amici e gli alleati di oggi.
La Corte portoghese a Rio
Il trasferimento della corte portoghese a Rio ebbe effetti profondi e decisivi per il
Brasile: il 7 marzo 1808 con l’arrivo (a Bahia) di 10mila persone fra cortigiani,
soldati e la corte stessa, il paese si sentì infatti aumentato di importanza ed il suo
governo risultò inevitabilmente rafforzato.
La liberalizzazione del commercio (in pratica ancor più dominato dall’Inghilterra) e il
permesso di produrre manifatture, attività finora vietata per non fare concorrenza a
quelle portoghesi, furono fra le decisioni prese immediatamente da Joao IV che più
andarono incontro alle aspettative dei coloni e che resero il Brasile ancora più
autonomo.
Nonostante ciò, la politica di accentramento e di rafforzamento monarchico suscitò
anche reazioni negative da parte di alcune oligarchie locali che addirittura si
rivoltarono in nome della repubblica, ma furono facilmente domate.
Intanto in Portogallo, dopo che Wellesley (il futuro duca di Wellington) vi era
sbarcato in forze, nel settembre 1810 gli anglo-portoghesi avevano riconquistato
Lisbona e si apprestavano a liberare l’intero paese dai francesi.
Il Messico al tempo di Napoleone
Il Messico era la colonia più ricca e popolosa della Spagna (aveva la metà degli
abitanti di tutta l’America spagnola): qui i ‘peninsulares’, chiamati derisivamente
‘gachupinos’, erano meno dello 0,5% di tutta la popolazione ma avevano in mano la
direzione politica ed amministrativa della colonia: essi governavano su 1 milione di
creoli che a loro volta dominavano 4 milioni di indiani e 2 milioni di sangue-misto
(molto pochi erano i negri e quasi tutti sulla costa caraibica).
Il Messico si estendeva allora su un territorio circa doppio di quello attuale ed
assicurava alla madrepatria grandi profitti mentre le masse sfruttate e discriminate
pativano la fame soprattutto nelle periodiche carestie: era presso questi diseredati che
l’azione della Chiesa si faceva maggiormente sentire controbilanciando decisamente
il peso dello stato stesso.
Fin dal 1810 il creolo Miguel Hidalgo y Costilla, nato nel 1753 ed ordinato
sacerdote nel 1778, allontanato e contestato dalle gerarchie religiose e dalla Santa
Inquisizione per le sue idee ed i suoi comportamenti moderni, scandalosi ed
anticonformisti (viveva fra l’altro con la madre delle sue figlie), dopo che la sua
cospirazione di Querétaro era stata scoperta, il 16 settembre 1810 (ancor oggi
celebrato in Messico come ‘Giorno dell’indipendenza’) lanciò alla folla il suo ’Grito
de Dolores’ chiamando il popolo alla sollevazione contro gli spagnoli per
l’indipendenza in nome di Ferdinando VII e della Vergine di Guadalupe (il cui culto
è ancor oggi sentitissimo).
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Saltando tutti gli steccati Hidalgo andò ben oltre le richieste dei creoli che
inizialmente l’avevano sostenuto e proclamò la fine del tributo pagato dagli indiani,
la restituzione delle terre loro usurpate, la liberazione senza compenso di tutti gli
schiavi, l’uguaglianza di tutti i cittadini indifferentemente dal colore della pelle e la
morte a tutti gli spagnoli.
Immediatamente masse di indiani e di ‘mestizos’ si scatenarono furiose armate di
lance, archi e machetes uccidendo tutti i bianchi (spagnoli o creoli che fossero) che
incontravano e saccheggiandone le proprietà, ma dopo l’iniziale successo la
conclusione della sollevazione fu fin troppo prevedibile: l’anno seguente le truppe
reali – inevitabilmente sostenute anche dai terrorizzati creoli - schiacciarono gli
insorti e le teste di Hidalgo (preventivamente torturato dalla Santa Inquisizione) e dei
suoi comandanti furono esposte per i seguenti dieci anni (!).
Il sacerdote ‘mestizo’ José Maria Morelos y Pavon per alcuni anni tentò di
continuare la lotta: nel 1814 proclamò l’indipendenza del Messico ed abbozzò una
costituzione equilibrata ed organica, ma nel dicembre dello stesso anno le sue truppe
furono sconfitte da quelle comandate dall’inflessibile Agustìn de Itùrbide e, dopo
essere stato anch’egli torturato dalla Santa Inquisizione, venne giustiziato il 22
dicembre.
Gli ultimi strascichi dell’insurrezione si protrassero senza esito fino al 1816: in pochi
anni erano morte dalle 200mila alle 500mila persone – e l’indeterminatezza stessa
della cifra (oltre alla sua enormità!) ben testimonia il grado di trascuratezza e di
indifferenza in cui le masse indiane e ‘mestize’ erano tenute.
La furia e la radicalità di queste rivolte furono la rivelazione che dopo tre secoli – tre
secoli! – di dominio spagnolo le masse sottomesse ed oppresse degli ‘indios’ e dei
‘mestizos’ erano ben lungi dall’essere state domate ed asservite: un vero e proprio
odio inestinguibile continuava a circolare nella società ed i creoli erano seduti su una
polveriera pronta ad esplodere.
Haiti insomma non era lontana.
Venezuela e Nuova Granada al tempo di Napoleone
Mentre le rivolte in Messico degli anni Dieci furono sicuramente scontri di classe ed
insieme etnico-razziali, nel resto dell’America spagnola invece il lungo e drammatico
periodo rivoluzionario fu causato fondamentalmente dalla volontà di raggiungere
l’indipendenza dalla Spagna e fu originato e reso possibile dall’invasione di
Napoleone che l’aveva paralizzata e le impediva qualsiasi intervento oltreoceano.
Tuttavia nell’America spagnola le lotte per l’indipendenza cominciarono in modo
piuttosto singolare: sul modello della madrepatria sorsero infatti dappertutto giunte (o
‘cabildos abiertos’) che, contro l’usurpatore francese cui nessuno voleva essere
sottomesso, dichiararono di prendere (temporaneamente) il potere contro gli odiati
invasori in nome di Ferdinando VII, il re legittimo, in attesa che egli potesse tornare
sul trono.
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Le lotte per l’indipendenza dell’America Latina cominciarono insomma con proclami
di fedeltà a Ferdinando VII (!) e durante la prima fase delle guerre di liberazione i
rivoluzionari combatterono duramente contro gli spagnoli ancora in nome di
Ferdinando VII (!).
Ambedue i contendenti si scontrarono proclamando insomma la loro fedeltà al
medesimo sovrano (!), tuttavia secondo Chasteen si trattò di una vera e propria
menzogna (la cosiddetta ‘maschera di Ferdinando VII’) cui i rivoluzionari dovettero
ricorrere per non spaventare e per non alienarsi i creoli conservatori e le masse nonbianche tradizionaliste: secondo questo storico i ribelli in realtà volevano
l’indipendenza e non certo ritornare sotto i Borboni, ma per il momento giudicarono
utile non spaventare gli animi e raccogliere e mobilitare il maggior numero di
categorie possibile professandosi sudditi devoti del re legittimo ed usurpato, una
causa molto romantica e capace di attrarre anche i più legati al passato.
Nei proclami americani di fedeltà a Ferdinando VII c’era tuttavia un grosso e
fondamentale elemento di novità: tutte le giunte proclamarono infatti che l’America
Latina sarebbe dovuta rimanere sì soggetta al re, ma solo a lui, non alla Spagna, con
la quale pretendevano al contrario di avere un rapporto di uguaglianza e parità: detto
in altri termini, il regno di Ferdinando VII avrebbe dovuto poggiare su ‘due pilastri’,
Spagna e America.
E’ evidente che ciò significava l’indipendenza (seppur sotto Ferdinando VII) e la fine
del regime coloniale.
Fu così che quando il 15 gennaio 1809 un emissario giunto dalla Spagna domandò
agli abitanti di Caracas di riconoscere come re Giuseppe Bonaparte, questi insorsero e
proclamarono una giunta lealista che doveva governare il paese in attesa del ritorno di
Ferdinando VII sul trono: tuttavia nei membri della giunta la acquisita possibilità di
decidere in modo autonomo del proprio destino fece subito breccia e le loro prime
decisioni furono l’abolizione delle tariffe commerciali, di tanti altri odiosi tributi (fra
cui quello particolare dovuto dagli indiani) e della schiavitù.
In questi agitati frangenti si mise in luce il giovane (era nato a Caracas nel 1783)
Simòn Bolìvar, uno dei più ricchi piantatori di cacao del paese tornato in patria dopo
anni di permanenza in Europa: egli finanziò di tasca sua la sfortunata missione
diplomatica che cercò inutilmente aiuto in Inghilterra e negli U.S.A. e fondò la
radicale ed indipendentistica ‘Società Patriottica di Agricoltura e di Economia’ che
subito chiese il ritorno in patria del notissimo e leggendario Francisco de Miranda di
cui Bolìvar era grande ammiratore.
Nato nel 1750 a Caracas, Francisco de Miranda aveva alle spalle una storia
incredibile: già colonnello nell’esercito regolare ed ardente apostolo
dell’indipendenza dell’America Latina, nel 1785 era partito per l’Europa dove aveva
combattuto nell’esercito rivoluzionario francese, sfuggito due volte al Terrore
giacobino (di cui conobbe il carcere), girato per tutte le corti, conosciuto, trattato,
stretto contatti, diventato membro di logge massoniche, amico di potenti e governanti
di numerosi paesi (e amante di Caterina II di Russia), sempre alla ricerca, oltre che di
libri (ne aveva accumulato una quantità enorme), di suscitare simpatia e sostegno alla
causa dell’indipendenza americana: aveva raccolto intorno a sé gli esuli americani,
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fondi per la causa e, sempre pieno di entusiasmo (e di donne), nel 1806 aveva tentato
una patetica e scriteriata - ma romantica - invasione del Venezuela (la cui
indipendenza aveva proposto senz’altro come primo passo per quella dell’intero
continente) presto abortita.
Miranda accettò senz’altro l’invito di tornare in patria ed il suo arrivo suscitò
entusiasmo ed addirittura tripudio.
Il 5 luglio 1811 su iniziativa di Bolìvar e dei suoi giovani radicali venne proclamata
l’indipendenza del Venezuela, ma anche se la nuova costituzione prevedeva la libertà
di stampa, l’abolizione di tutti privilegi dei militari e del clero e l’uguaglianza dei
cittadini di tutte le razze, in realtà il voto era riservato ai possidenti, la schiavitù
venne mantenuta ed i ‘llanos’ (le pianure) vennero privatizzate: Miranda e Bolìvar
litigarono furiosamente fra loro, incomprensioni e divisioni si moltiplicarono finchè il
26 ed il 29 marzo 1812 un terribile terremoto distrusse intere città.
Per un incredibile scherzo del destino le truppe realiste e le loro fortificazioni
rimasero praticamente illese mentre migliaia di patrioti perirono sotto le macerie (!):
la cosa venne interpretata come un segno divino ed i realisti colsero l’occasione per
passare al contrattacco con spietatezza e ferocia, sostenuti anche da molti indiani e
mentre alcune rivolte di schiavi (al grido di ‘viva il re!’) suscitarono grande allarme
fra tanti creoli.
Contro i decisi e spietati realisti i rivoluzionari si sbandarono ed agirono incerti e con
poca coordinazione così, di fronte all’inevitabilità della sconfitta e non vedendosi
appoggiato dai suoi amici inglesi su cui pure tanto aveva contato, Miranda, diventato
nel frattempo presidente, preferì trattare la resa: egli voleva evitare un ulteriore inutile
spargimento di sangue e riuscì ad ottenere condizioni di pace anche buone, ma alla
notizia della resa nel campo rivoluzionario scoppiarono sollevamenti e Miranda fu
accusato addirittura di tradimento.
Alcuni generali rivoluzionari arrivarono al punto di trattare a loro volta con gli
spagnoli e in cambio della propria salvezza personale glielo consegnarono: fra essi ci
fu anche Bolìvar (che pure come uno dei comandanti militari aveva commesso errori
gravissimi) che dichiarò che avrebbe voluto addirittura farlo fucilare (!).
Mentre questi generali ebbero salva la vita (uno di loro diventò addirittura aiutante di
campo del comandante dei realisti!) e poterono andarsene in esilio, Miranda, arrestato
ed abbandonato anche da tutti i suoi numerosi sostenitori ed ammiratori stranieri,
sarebbe morto in un carcere spagnolo nel 1816 dopo quattro anni di prigionia.
E’ difficile trovare le parole per commentare il suo fato – basti dire che ebbe una vita
piena di avventure (di ogni tipo) e conobbe l’altissima società internazionale del
tempo da cui fu sempre accolto con stima ed attenzione, ma non abbandonò mai
l’impegno e lo sforzo costanti e continui per la causa dell’indipendenza del suo paese
e del suo continente: la sua fine è una vergogna ingiustificabile per Bolìvar e per gli
altri suoi complici che dopo averlo chiamato e dopo che egli era subito accorso, lo
giudicarono traditore e lo vendettero in quel modo.
La vicenda si concluse poi in modo ancora più triste perché Monteverde, lo spietato e
feroce comandante spagnolo, non rispettò i termini della resa se non nei confronti di
coloro che gli avevano fatto catturare Miranda: in aperto spregio a quanto pattuito,
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milizie spagnole e bande di schiavi liberati si scatenarono su migliaia di patrioti che
vennero ammazzati, fucilati, imprigionati, perseguitati, e le loro proprietà confiscate
- lo stesso Bolìvar potè andare in esilio ma perse tutti i suoi cospicui possedimenti.
Questo primo tentativo rivoluzionario mise in luce la brutalità e la ferocia degli
spagnoli che si macchiarono di violenze anche raccapriccianti (su vecchi, donne e
bambini compresi) nella loro forsennata volontà di mantenere il loro dominio e la
loro presa sugli sfortunati abitanti delle colonie americane - la moderazione e
l’equilibrio di persone come Miranda erano davvero inappropriati e fuori luogo;
indiani e negri erano stati dalla parte del re perché odiavano i creoli che
consideravano i loro veri oppressori e sfruttatori: è illuminante sottolineare a questo
proposito che mentre nelle forze rivoluzionarie si arruolavano creoli, quelle spagnole
facevano largo ricorso a gente di colore che aveva una mentalità più tradizionalista, si
sentiva molto più vicina a Chiesa e Corona, aveva fame e voleva sfogarsi nel
saccheggio.
Ancora una volta la particolare situazione etnico-razziale dell’America produceva
risultati altrettanto particolari: tutti i princìpi sbandierati dai creoli erano intesi infatti
solo per loro stessi – come se la grande maggioranza della popolazione non esistesse
nemmeno o, meglio, dovesse esistere solo per essere sottomessa (quando non
schiava) ed emarginata.
Bolìvar comunque imparò la lezione: nessun compromesso poteva essere raggiunto
con gli spagnoli che erano ancora lontani dall’aver ripreso il controllo dell’intero
paese, molto grande e scarsamente popolato: Cartagena per esempio era ancora nelle
mani dei rivoluzionari e, qui accorso, egli lanciò il suo famoso manifesto in cui
proclamava la necessità di continuare la lotta senza tregua ed in cui riconosceva che
l’indipendenza del Venezuela e della Nuova Granada erano una cosa sola in vista
della Grande Colombia.
Bolìvar ricominciò così ad attaccare le posizioni spagnole una dopo l’altra: aiutato da
altre formazioni indipendentiste, egli adottò ora la tattica guerrigliera sopportando
enormi sacrifici nei durissimi trasferimenti e compiendo azioni limitate ma vittoriose
che riducevano continuamente lo spazio ancora a disposizione alle truppe spagnole.
Gli spagnoli preferivano ritirarsi senza combattere seriamente rimanendo così con le
loro forze praticamente intatte.
Per parte loro, le popolazioni di colore temevano il terrore che Monteverde aveva
scatenato ma, soprattutto, odiavano i creoli ed erano questi che militavano nelle
truppe di Bolìvar e dei rivoluzionari: gli spagnoli seppero fare buon uso di queste
genti, così soprattutto i negri, liberi o schiavi che fossero, furono lasciati senza
controllo e pienamente autorizzati ad abbandonarsi anche ad atti di raccapricciante
violenza e brutalità.
La lotta per l’indipendenza era divenuta a dir poco feroce e la risposta di Bolìvar fu
altrettanto netta: “La nostra vendetta rivaleggerà con la ferocia spagnola … e la
nostra guerra sarà fino alla morte … Ogni spagnolo che non cospirerà con tutti i
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mezzi … possibili contro la tirannia in favore della nostra giusta causa … sarà
inesorabilmente accoltellato”.
Fu questa la sua ‘guerra fino alla morte’: al terrore spagnolo si sarebbe risposto col
terrore rivoluzionario: gli spagnoli che avessero combattuto contro i rivoluzionari
sarebbero stati giustiziati sul posto; gli americani che fossero passati dalla parte dei
rivoluzionari sarebbero stati perdonati qualsiasi atrocità avessero commesso
quand’erano stati al servizio degli spagnoli; quegli americani che fossero rimasti dalla
parte degli spagnoli non sarebbero stati comunque uccisi.
La radicalità di queste minacce (messe poi in pratica) ben testimonia della profonda
violenza di cui il continente era intriso fin dalla sua conquista.
Insieme a ciò la sovrumana energia del ‘Liberatore del Venezuela’ (come venne
proclamato) e la sua capacità manovriera scompigliarono gli spagnoli costantemente
in ritirata.
Bolivàr potè così rientrare in trionfo a Caracas il 7 agosto 1813 dove fondò la
Seconda Repubblica e fu proclamato ‘Dittatore’, ma gli spagnoli con forze ancora
largamente intatte continuavano tuttavia a mantenere il controllo di ampi spazi della
sterminata campagna ed erano ben lungi dall’essere stati veramente sconfitti.
Metà del paese era composto dai ‘llanos’, le immense praterie del fiume Orinoco
dove vivevano i ‘llaneros’, mandriani di colore (negri, indiani e mezzo-sangue) ed
anche schiavi, primitivi e violenti, sempre a cavallo mezzi nudi e di fatto comandati
dai loro capi piuttosto dai padroni assenteisti – e fu con questi che gli spagnoli si
allearono.
Tomàs Boves, il loro capo, fu infatti autorizzato dai realisti a reclutare questi terribili
cavalieri attirati dall’odio per i creoli, dalla prospettiva di saccheggio e di poter
scatenare impuniti qualsiasi violenza: la loro bandiera era nera (il ‘vessillo di morte’)
e le loro armi acuminate lance (le armi da fuoco erano comunque piuttosto scarse
dappertutto).
Questi ‘cavalieri dall’inferno’ non persero tempo ed attaccarono le truppe dei patrioti
uccidendo senza eccezioni tutti quelli che cadevano nelle loro mani, donne e bambini
compresi, dopo averli torturati in ogni modo possibile: in un paese in cui vivevano
200mila bianchi, 200mila indiani e 500mila negri ed in cui gli spagnoli potevano
essere riforniti dal mare, era chiaro che le forze di Bolìvar non avrebbero potuto
prevalere.
Come se tutto ciò non bastasse, i creoli erano ancora profondamente divisi
(certamente non tutti erano contro gli spagnoli) e le rivalità fra i comandanti
rivoluzionari avevano creato seri disguidi fra le loro fila.
In un’orgia di orribile violenza sadica a Bolìvar, nonostante conseguisse anche
qualche vittoria e a sua volta eliminasse i prigionieri, non restò che ritirarsi ancora
una volta lasciandosi dietro un mattatoio dopo l’altro mentre la popolazione di
Caracas evacuava la città: fu di poco sollievo che Boves cadesse in battaglia perché il
suo successore a capo della ‘Legione infernale’, Morales, era ancora più crudele di
lui.
Il 7 settembre 1814 Bolìvar dovette fuggire imbarcandosi ancora una volta e
ritirandosi a Cartagena in Nuova Granada (oggi Colombia): qui la composizione
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etnica - 900mila bianchi, 300mila indiani, 140mila negri liberi e 70mila schiavi - era
sensibilmente diversa da quella del Venezuela e qui la lotta per l’indipendenza
continuava.
Fu così che l’instancabile Bolìvar riprese immediatamente la lotta e riuscì ad avere la
meglio sugli spagnoli finchè, entrato il 12 dicembre 1814 a Bogotà, venne proclamato
‘Pacificatore’ e comandante dell’esercito.
Se la guerra per l’indipendenza del Venezuela era stata violentissima e si era conclusa
con la sconfitta e con un bagno di sangue, in Colombia la vittoria era arrisa invece ai
patrioti, ma in ambedue i paesi esistevano ancora sacche di resistenza di ambedue le
parti.
Il Cile al tempo di Napoleone e l’indipendenza
dell’Argentina
Anche in Cile fu l’occupazione della Spagna da parte di Napoleone a mettere in moto
il processo rivoluzionario che avrebbe portato infine all’indipendenza: il 18 settembre
1810 anche qui infatti venne istituita (sempre in nome di Ferdinando VII) una giunta
rivoluzionaria che ben presto finì sotto il controllo dei moderati possidenti terrieri i
quali, sotto la guida di José Miguel Carrera e dei suoi fratelli, si imposero con la forza
sull’ala più radicale.
Da quel momento le forze indipendentiste risultarono fatalmente divise: il 27 marzo
1813 lo sbarco di un consistente corpo di spedizione spagnolo spinse comunque
l’allora trentacinquenne Bernardo O’Higgins (figlio illegittimo del precedente
Vicerè di origini irlandesi ed avversario politico dei Carrera) a mettersi a disposizione
del governo ed a sconfiggere le truppe spagnole che intanto però si andavano
irrobustendo grazie ai rinforzi in arrivo dal Perù – il più forte bastione realista.
Nonostante la coraggiosa guida di O’Higgins la sconfitta fu così inevitabile e
addirittura la stessa Santiago dovette essere evacuata: mentre gli spagnoli si
abbandonavano come al solito ad una orgia di efferate violenze, O’Higgins guidò una
disperata colonna di profughi che con una durissima marcia riuscì ad arrivare al di là
delle Ande, dove finalmente nell’ottobre 1814 trovò rifugio e ristoro a Mendoza, in
Argentina, ad opera del governatore locale José de San Martìn.
Nato il 25 febbraio 1778 sulle rive del fiume Uruguay nel vicereame del Rìo de la
Plata (Argentina) e figlio del governatore locale, José de San Martìn a sette anni era
stato trasferito in Spagna dove, entrato nell’esercito, aveva fatto carriera
combattendo valorosamente contro gli inglesi, i portoghesi ed infine i francesi: deluso
dalle Cortes di Cadice e convinto tuttavia della necessità dell’indipendenza del suo
paese natale, nel 1812 vi aveva fatto ritorno tradendo apertamente la Spagna che pure
aveva lealmente servito per ventidue anni.
San Martìn era arrivato in un paese in pieno rivolgimento: anche a Buenos Aires il 25
maggio 1810 una giunta rivoluzionaria aveva preso il potere guidata da Mariano
Moreno, un giornalista liberale: anche questa giunta aveva professato la sua lealtà a
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Ferdinando VII, aperto il paese al libero commercio e dichiarata l’uguaglianza di tutti
i cittadini indipendentemente dalla loro razza (anche se, ancora una volta, si trattava
di una facciata perché i non-bianchi – al solito – erano stati esclusi dal governo e dall’
amministrazione).
Mentre Montevideo (nel futuro Uruguay) ed Asunciòn (nel futuro Paraguay) – allora
ambedue facenti parte del Vicereame de la Plata insieme ad Argentina e Bolivia –
avevano proclamato la loro indipendenza sia dalla Spagna che da Buenos Aires e
nonostante a Buenos Aires l’indipendenza dalla Spagna non fosse stata proclamata,
ugualmente ancor oggi in Argentina la ‘Rivoluzione del maggio 1810’ è celebrata
come festa dell’indipendenza nazionale.
La nuova giunta aveva subito inviato un esercito per cercare di occupare anche il
Perù Superiore (la futura Bolivia) ed il Perù stesso, ma questo era stato duramente
battuto e aveva dovuto ritirarsi con una terribile marcia attraverso le Ande: a Buenos
Aires intanto lo scontro fra le fazioni rivoluzionarie era ripreso mentre i ‘gauchos’ (i
‘llaneros’ di colore delle ‘pampas’) non volevano obbedire a nessuno.
Giunto a Buenos Aires in questi frangenti, San Martìn non aveva perso tempo e,
grazie alla sua esperienza ed al suo procedere metodico, era riuscito a costituire una
forza armata, i Granatieri a cavallo, i cui ufficiali erano tratti dalle migliori famiglie e
la cui truppa dai ‘gauchos’: presto Montevideo era stata rioccupata, una costituzione
liberale varata ma un nuovo tentativo di conquistare il Perù, condotto dal comandante
dell’esercito, il generale Belgrano, era fallito miseramente un’altra volta.
Solo l’Argentina (e nemmeno tutta) era dunque stata liberata e San Martìn era
diventato governatore di Mendoza (vicino al crinale orientale delle Ande): qui la
situazione era di stallo mentre in Spagna gli eventi politici erano in rapida
evoluzione.
Sviluppi politici in Spagna
Confinata alla sola Cadice mentre il resto della Spagna era sotto l’occupazione
dell’esercito francese, ugualmente però la Giunta Centrale portò avanti alacremente i
suoi lavori per definire e preparare il futuro della nazione una volta che avesse
ritrovato la sua indipendenza - ed è di notevole importanza che essa discusse
ampiamente anche un problema che rivelava ancora una volta la mentalità razzista
allora imperante.
Il problema era questo: nell’assemblea di Cadice erano presenti (abbastanza per caso)
anche una trentina di delegati dall’America che, largamente minoritari, chiesero che il
loro numero, come quello degli spagnoli, fosse proporzionale a quello degli abitanti
dei paesi da cui provenivano: in questo modo sarebbero stati gli americani ad avere la
maggioranza dei seggi, ma ciò era giudicato inammissibile dai superbi spagnoli.
Tutti compresi dal senso dell’ ‘onore’, ovviamente riservato ai soli bianchi, essi non
potevano sopportare di essere contati alla pari con indiani, negri, ‘pardos’ (mulatti) ed
altri mezzo-sangue, mentre gli americani, già sostenitori come si è visto
dell’uguaglianza di America e Spagna sotto lo stesso re, insistevano anche che la
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maggioranza dei suoi sudditi era indipendente dalla loro appartenenza razziale e si
trovava quindi al di là dell’oceano.
Alla fine il decreto del 15 ottobre 1810 raggiunse un compromesso: in base al
principio che ‘i nativi dell’Europa e dei domini d’oltremare sono uguali nei diritti’,
esso stabilì che erano nativi (dunque con diritto di essere rappresentati) i bianchi (di
origine europea) e gli indiani ed i ‘mestizos’ (di origine americana), ma non i
‘pardos’ o mulatti (di origine parzialmente africana - nessuno si curò della parte di
sangue europeo nelle loro vene) nè tantomeno i negri (di origine africana), schiavi o
liberi che fossero.
Come si vede, qui non si teneva conto del luogo di nascita, ma di quello di origine, e
ciò, fra l’altro, permetteva agli spagnoli di conservare la maggioranza dei seggi nelle
Cortes: questo fu deliberato da un’assemblea che resisteva fieramente
all’occupazione straniera in nome della libertà e dell’indipendenza.
La ‘monarchia transatlantica’, fu la risposta di Cadice alla ‘corona su due pilastri’
degli americani.
Il 18 marzo 1812 a Cadice le Cortes promulgarono la famosa costituzione liberale che
proclamava che la sovranità risiedeva nella nazione e non più nel re: alla monarchia
(ereditaria) spettava il potere esecutivo e la nomina dei magistrati (quindi in pratica
anche il potere giudiziario); il potere legislativo era esercitato dalle Cortes, riunite in
una sola camera, i cui membri – fra i quali non comparivano appartenenti alla nobiltà
ed al clero - erano eletti a suffragio ristretto, ma il re aveva il diritto di veto sulle leggi
votate dalle Cortes stesse.
I numerosi articoli della nuova costituzione riformavano l’intera vita amministrativa
dello stato, riconoscevano che l’unica religione ammessa era quella cattolica e
vietavano l’esercizio di tutte le altre, ma abolivano la Santa Inquisizione.
Frutto di un popolo impegnato in un’epica guerra di liberazione nazionale, per
vent’anni (fino alla costituzione del Belgio del 1831) quella di Cadice sarebbe stata la
costituzione per antonomasia, la fonte di ispirazione per i liberali europei, ma
nell’impero d’oltremare essa fu assai meno apprezzata.
La costituzione di Cadice riconfermò infatti che gli americani erano uguali nei diritti
agli europei purchè non avessero traccia di sangue africano, ma riconfermò anche la
condizione di colonia dell’America.
Come se ciò non bastasse, la tensione nell’assemblea fu acuita dalle allusioni degli
spagnoli alla non completa ‘limpieza de sangre’ di tanti delegati americani: esse
suonarono offensive e derisive per i creoli là presenti, ma vien da dire che chi la fa
l’aspetti perchè quegli stessi americani, umiliati in Spagna per motivi razziali, in
patria disprezzavano a loro volta per lo stesso motivo indiani e mezzo-sangue, per
non parlare dei negri.
Alcuni delegati americani non accettarono simili esiti ed abbandonarono l’assemblea:
fra questi, come si è visto, San Martìn.
Intanto le vicende militari volgevano al meglio per la Spagna perchè Napoleone
dovette trasferire truppe colà impegnate per sostenere la disastrosa campagna di
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Russia che lui stesso diresse e ciò permise agli spagnoli (e agli inglesi) di
riguadagnare posizioni e territorio.
Dopo la sconfitta di Napoleone, il 24 marzo 1814 Ferdinando VII, ‘el deseado’,
attraversò la frontiera spagnola per tornare sul trono che il suo popolo così
valorosamente aveva difeso: egli tuttavia rifiutò la costituzione, sciolse le Cortes, fece
arrestare i liberali, si riaccordò con la Chiesa, ripristinò la Santa Inquisizione e
l’ordine dei gesuiti ed infine, in pieno accordo col clima della Restaurazione,
riaffermò il suo potere assoluto di origine divina.
Per quel che riguardava l’America spagnola, essa doveva tornare (o rimanere) alla
condizione di pura e semplice colonia.
L’inconsulta decisione di Ferdinando VII cancellava in un colpo solo anni di lotta e
di dibattito, chiudeva gli occhi di fronte alla realtà, dimenticava quanto erano
cambiate le società nei tormentosi anni di Napoleone e insomma era un chiaro
esempio dell’arretratezza mentale della Restaurazione in Europa, ma gli effetti più
gravi si sarebbero verificati nel suo impero americano.
La lotta per la Grande Colombia continua
Appena ritornato sul trono, subito Ferdinando VII inviò un corpo di spedizione
militare in Nuova Granada per riconquistarla e per riportarla alla sua condizione di
colonia e così anche l’ultima vittoria di Bolìvar fu di breve durata perchè i 15mila
veterani arrivati dalla Spagna al comando del generale Morillo riconquistarono in
breve tempo il paese e lo riassoggettarono alla Spagna: a Bolìvar non rimase che
imbarcarsi su una nave inglese per la Jamaica dove, senza un soldo e febbricitante,
arrivò a pensare addirittura al suicidio.
I giochi però si erano almeno chiariti ed espedienti come la ‘maschera di Ferdinando’
non avevano più senso: gli spagnoli si abbandonarono alle (purtroppo solite)
nefandezze ai danni della popolazione ed i favorevoli all’indipendenza, sconfitti ma
non domi, aumentarono i consensi e ripresero l’iniziativa ancora più agguerriti.
Fra questi Bolìvar che presto si rianimò e ricominciò a tessere la sua tela per una
Grande Colombia (Venezuela e Nuova Granada) che immaginava retta da una
benevolente autocrazia: gli orrori della guerra e la ferocia dei ‘llaneros’ l’avevano
disincantato dalla possibilità della democrazia in America Latina.
L’incredibile energia di Bolìvar ancora una volta emerse in tutta la sua inesauribilità:
rimessa in piedi una forza di invasione, nel marzo 1816 ripartì alla volta del
continente e riproclamò l’indipendenza del Venezuela, ma fu subito decisamente
sconfitto: non certo domo, già nel dicembre dello stesso anno tornò a Barcelona
(sulla costa nord-orientale del Venezuela) che ancora resisteva, ma, sopraffatto dal
numero, dovette ritirarsi sull’Orinoco e da qui, radunato un esercito di disertori e
fuggitivi, ricominciò la lotta.
Dovette imporsi con decisione su altri comandanti e leaders, ricevette volontari
dall’Inghilterra (la ‘Legione Albione’ piena di smobilitati dopo la fine delle guerre
contro Napoleone) e condivise coi suoi uomini (e con le donne ed i bambini che
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seguirono i loro mariti e padri!) tutte le incredibili durezze delle marce, delle malattie
e della guerra in un ambiente durissimo che richiese incredibili sacrifici: sempre in
movimento, intraprese con alterni esiti una battaglia dopo l’altra in una lotta spietata
in cui non c’era posto per la pietà e per la misericordia.
L’indipendenza del Cile
Dopo il fallimento dei tentativi di liberare la Bolivia e stabilita una linea di
fortificazioni che avrebbero dovuto fermare gli spagnoli se avessero cercato di
contrattaccare dal nord, San Martìn tornò a Buenos Aires dove concepì un nuovo
piano di azione: attraversare le Ande per liberare Santiago ed il Cile e da qui partire
per mare, doppiare capo Horn e sbarcare a Lima per espugnare il Perù dalla costa.
Nominato governatore della regione di Cuyo, ricominciò qui a reclutare soldati e ad
organizzarli in una forza di spedizione accogliendo fra le sue fila anche ex-schiavi
che temevano di tornare in catene se gli spagnoli avessero vinto e gli immancabili
inglesi smobilitati dalle guerre napoleoniche.
Fu in questo momento (proprio quello giusto!) che O’Higgins ed i suoi profughi
cileni arrivarono a Mendoza (appunto nella regione di Cuyo) e che San Martìn lo
preferì decisamente ai suoi rivali Carrera: anche sul suolo argentino infatti lo scontro
fra le due fazioni cilene continuò, ma San Martìn, forte ora del suo ruolo di guida
anche dei profughi cileni, optò decisamente a sostegno di O’Higgins e pose sotto
custodia i Carrera.
Calcolatore ed organizzatore metodico e paziente, San Martìn impiegò due anni per
prepararsi e per mettere meticolosamente a punto tutte le misure necessarie controinformazione e guerra psicologica compresa - alla terribile traversata ed a
raccogliere tutti i mezzi e tutte le risorse per la prima fase dell’impresa: 5.200 uomini,
10.500 muli, 1.600 cavalli e 700 bestie da macello vennero divisi in tre tronconi, uno
che avrebbe dovuto marciare a nord, uno a sud ed il principale, comandato da lui, al
centro.
Partiti nel gennaio1817, i primi due gruppi di invasori arrivarono in anticipo sul terzo
e, una volta in Cile, non incontrarono praticamente resistenza e si unirono ai patrioti
locali.
La traversata del gruppo al centro fu invece difficile ed impegnativa e ci volle un
mese per percorrere le 150 miglia con perdite che ammontarono ad un centinaio di
uomini e ad 1/3 degli animali: arrivati finalmente in Cile però non era più possibile
tornare indietro - si poteva solo vincere o morire.
Fu per la sua capacità di aver mantenuto in piedi il suo esercito che già il 12 febbraio
San Martìn potè sferrare il suo primo attacco e sconfiggere nettamente il nemico:
sempre schivo e modesto, egli rifiutò sia il denaro che il ruolo di capo di governo che
gli vennero offerti, lasciando che fosse O’Higgins a ricoprire il ruolo di Direttore
Supremo del Cile.
Nonostante i realisti mantenessero il controllo del sud del paese San Martìn era
convinto che la vittoria finale sarebbe arrisa ai patrioti solo con la conquista del Perù
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dove gli spagnoli erano ancora forti e numerosi: fedele al suo piano di attacco dal
mare, egli così si imbarcò per Buenos Aires dove, accolto come un eroe (nonostante
in Argentina la situazione fosse ben lungi dall’essere sotto controllo), rifiutò al solito
onori e denaro.
Il problema principale per un attacco dal mare era ovviamente quello di disporre di
una flotta e a ciò si adoperarono sia San Martìn che il governatore argentino
Pueyreddòn, ma proprio allora, nel gennaio 1818, arrivarono in Cile rinforzi spagnoli
che sconfissero i patrioti e marciarono su Santiago in cui O’Higgins, ferito, organizzò
la difesa mentre San Martìn marciò incontro al nemico.
Col suo esercito composto largamente di schiavi liberati, decisi a non tornare in
cattività, il 5 aprile 1818 San Martìn sconfisse infine gli spagnoli nella feroce
battaglia di Maipù: la vittoria fu decisiva e solo dopo di essa Argentina e Cile
poterono dirsi davvero liberati.
Intanto però l’adesione alle Province Unite del Rio de la Plata era stata rifiutata dagli
attuali Paraguay ed Uruguay ed a nulla valsero le spedizioni armate per riportarli
all’ordine: per l’Uruguay (cioè per la ‘riva orientale’ del Rio de la Plata) Brasile e
Argentina si combatterono a varie riprese finchè l’Inghilterra impose la sua
mediazione che portò alla formazione dello stato-cuscinetto.
In ambedue i paesi si sarebbero così installati regimi autoctoni che proclamarono
l’indipendenza non solo dalla Spagna ma anche dall’Argentina (e dal Brasile): il
Paraguay il 17 maggio 1811, l’Uruguay nel 1828.
L’indipendenza della Grande Colombia
Impegnato in un’estenuante guerra con continue fasi alterne, Bolìvar comprese che
senza i ‘llaneros’ non sarebbe stato possibile vincere mentre Morillo, per parte sua,
diffidava di Morales e dell’autonomia delle sue forze.
La novità che cambiò il corso degli eventi fu così che i seminudi e primitivi ‘llaneros’
– l’elemento decisivo ed indispensabile per ogni possibile successo in Venezuela –
cambiarono fronte: un gruppo di loro, capeggiato da José Antonio Pàez, mosse
contro gli spagnoli e quelli di Morales cominciarono a disertare per lui visto che gli
spagnoli pretendevano che essi ne accettassero gli ordini e la disciplina.
Anche i ‘llaneros’ di Pàez consideravano il saccheggio, le donne e l’eliminazione dei
prigionieri loro normali diritti, ma Bolìvar aveva imparato la lezione e si alleò
ugualmente con loro: questa intesa, netta svolta nella guerra, si accompagnò alla
decisione che la costituzione della futura repubblica avrebbe dovuto contemplare
anche l’abolizione della schiavitù, le libertà civili (religiosa compresa) ed il suffragio
ristretto solo dal censo e non dalla razza.
Ma la vittoria stentava ugualmente ad arrivare e nel maggio 1819 Bolìvar decise di
abbandonare la posizione di stallo sull’Orinoco, attraversare le Ande ed invadere la
Nuova Granada (la Colombia) dove gli spagnoli non si attendevano un attacco, si
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sentivano sicuri ed avevano poche forze dato il loro impegno contro i ‘llaneros’ di
Pàez in Venezuela.
Era un piano pazzesco che comportò una delle più epiche marce della storia: si trattò
di attraversare selvaggi fiumi in piena, i ‘llanos’ allagati fino alla vita, di scavalcare
una delle più grandi catene montuose del mondo da parte di indiani seminudi (alcune
centinaia di donne comprese) che non avevano visto altro che pianure … ma gli
spagnoli non si potevano certo aspettare una simile manovra e sarebbero stati colti
completamente impreparati.
Impossibile narrare le difficoltà e le sofferenze (e le perdite) di una simile impresa,
più impegnativa e molto meno preparata di quella di San Martìn di due anni e mezzo
prima: in essa morirono quasi i 2/3 degli uomini e tutti gli animali, ma quando
finalmente la stravolta armata di scheletri ambulanti giunse dall’altra parte della
cordigliera trovò aiuto, incoraggiamento, sostentamento e nuove reclute.
L’8 agosto il primo scontro con gli spagnoli fu una completa vittoria: essi fuggirono
da Bogotà dove il 10 Bolìvar entrò in trionfo.
Ora aveva uno stato da cui rifornirsi e da cui poter tornare in Venezuela dove
stazionava ancora il grosso delle forze nemiche: ben 27mila soldati erano ormai
complessivamente arrivati in America dalla Spagna e, oltretutto, da Cadice stavano
per partire nuove truppe destinate a soffocare i moti americani (altri 20mila soldati,
3mila cavalieri e 100 pezzi di artiglieria).
Eppure una improvvisa, imprevista e netta svolta nell’intera vicenda si realizzò
quando il 1 gennaio 1820 proprio quei reparti si ammutinarono ed il loro
‘pronunciamiento’ (rivolta) si espanse a macchia d’olio nell’esercito (e non solo)
costringendo Ferdinando VII ad accettare la costituzione: il nuovo governo liberale si
propose di intavolare trattative pacifiche coi rivoltosi americani, ma ciò in realtà
significava che nuovamente la Spagna non era più in grado di intervenire al di là
dell’Atlantico e in America le forze realiste ancora in campo potevano ora contare
solo su stesse.
In America il primo effetto del ‘pronunciamiento’ di Cadice fu l’incontro fra Morillo
e Bolìvar nel novembre 1820 e la stipula di un armistizio di sei mesi: Morillo era
spinto dal riconoscimento dell’insostenibilità della sua resistenza ora che dalla
Spagna non sarebbero più arrivati rinforzi e Bolìvar dalla constatazione che il
Venezuela dopo dieci anni di guerra era ridotto in condizioni miserabili e che, come
ebbe a scrivere, “bisognava porre fine a quell’orribile macello”.
L’armistizio tuttavia non poteva reggere, così il 21 marzo 1821 la popolazione di
Maracaibo insorse contro i realisti e Bolìvar, pronto a chiudere in una morsa le forze
nemiche in Venezuela, mosse le truppe dei suoi generali (Sucre, Santander, Pàez) ed
il 24 giugno 1821 nella battaglia di Carabobo sconfisse irrimediabilmente gli spagnoli
che poterono salvare meno di 1/10 del loro esercito: il 28 giugno il generale vittorioso
potè entrare (ancora una volta) a Caracas e proclamarvi la nascita della Grande
Colombia con capitale Bogotà.
Per parte sua, anche Panama si ribellò ai realisti e, dopo averli scacciati, chiese
l’annessione alla Grande Colombia.
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Era finita: la sconfitta della Spagna era irreparabile e un nuovo stato (vasto come 2/3
dell’Europa occidentale) era nato - ma al costo di almeno 250mila morti, inenarrabili
crudeltà e gravissime devastazioni.
L’indipendenza dell’Ecuador
L’agognato successo non si tradusse certo in una stasi nella campagna per
l’indipendenza dell’America Latina: era ora tempo di volgersi alla liberazione dei
territori a sud-ovest, ancora saldamente in mano agli spagnoli e da cui sarebbe potuta
partire una riscossa lealista.
In Ecuador, in Perù ed in Bolivia (allora chiamata Alto Perù), verso cui ora Bolìvar
si volse, la situazione etnico-razziale era comunque profondamente diversa da quella
della Grande Colombia: qui più della metà della popolazione era infatti indiana, un
terzo bianca ed il resto di sangue misto.
Bolìvar al solito non perse tempo e subito inviò il fidato Sucre e la Legione Albione
alla volta dell’attuale Ecuador: Sucre sconfisse gli spagnoli che si rinchiusero in
Quito (dove viveva mezzo milione di persone) e già il 13 dicembre 1821 lo stesso
Bolìvar partì lasciando Santander a capo della nuova repubblica indipendente del
Venezuela.
Ancora una volta con l’audacia (e la sconsideratezza?) che lo caratterizzava egli
scelse di attraversare le Ande con truppe e rifornimenti del tutto inadeguati: l’epica e
terribile traversata ricordò quella che aveva compiuto per arrivare inaspettato in
Venezuela dalla Colombia ed anche questa volta le difficoltà furono raccapriccianti e
le perdite elevatissime, ma il successo fu netto perché intanto Sucre aveva espugnato
Quito ed agli spagnoli non restò che arrendersi e partire per la Spagna.
Anche l’Ecuador era stato liberato ed il 22 giugno 1822 Bolìvar poteva entrare
trionfalmente a Quito.
L’indipendenza del Perù e della Bolivia
Sempre infastidito dalle manifestazioni di giubilo, San Martìn dopo altri due anni di
preparativi fu in grado di riprendere il suo progetto di attacco al Perù dal mare:
finalmente pronta, la flotta salpò da Valparaiso (in Cile) nell’agosto 1820 anche se
l’Argentina era caduta in preda a turbolenze interne ed il Cile stesso non era certo
entusiasta di finanziare una nuova avventura come questa e risentiva del governo
inevitabilmente autoritario di O’Higgins.
Il comando della flotta fu affidato al geniale, audace, spregiudicato, coraggiosissimo,
anticonformista, avido, avventuriero e ribelle trentacinquenne lord Thomas
Cochrane, appositamente avvicinato dall’ambasciatore cileno a Londra.
L’infinita spregiudicatezza di Cochrane gli fece concepire il piano (abortito) di
liberare addirittura Napoleone da Sant’Elena per coinvolgerlo nell’avventura (!) e la
flotta da lui comandata presto imbottigliò quella spagnola a Callao, il porto di Lima,
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ed egli potè così dedicarsi ad assaltare navi ed insediamenti sulla costa ancora in
mani spagnole.
Gli spagnoli infatti mantenevano ancora posizioni in Cile - in cui per la sua arditezza
e repentinità d’attacco Cochrane venne conosciuto come ‘El Diablo’ – e finchè le loro
navi rimanevano al sicuro nel porto di Callao la situazione era pur sempre di stallo.
Cochrane non era certo uomo da sopportare la stasi nelle operazioni: con arditissima
e geniale strategia riuscì così ad espugnare Valdivia, l’altro munitissimo porto nel
Cile meridionale ancora in mani spagnole chiamato la ‘Gibilterra del Cile’ per la sua
(fino ad allora) supposta imprendibilità.
Nonostante l’incredibile successo dell’operazione, Callao (e Lima) e quindi il Perù
erano tuttavia ancora in mani spagnole e fu San Martìn che allora prese in mano la
direzione strategica della guerra con un piano che ancora una volta rivelava la
meticolosità, la calma e la concretezza del suo procedere: egli ora puntava a suscitare
rivolte di schiavi mentre con una serie coordinata di avanzate e di sbarchi avrebbe
circondata per terra (oltre che per mare) Lima finchè non sarebbe stata costretta a
cedere.
La differenza fra il metodo e la pazienza di San Martìn e l’irruente aggressività di
Cochrane è evidente e non può certo stupire che i due non si capissero ed anche che si
affrontassero duramente, ma, nonostante la brillantezza delle imprese del secondo, fu
il calcolo del primo alla fine a prevalere: mentre le diserzioni a favore dei patrioti si
moltiplicavano, la campagna per suscitare la rivolta dei negri, degli indiani e dei
meticci procedeva inesorabile e il nodo intorno a Lima si stringeva sempre di più,
anche se la febbre decimava le truppe argentine e soprattutto cilene di San Martìn.
Alla fine di maggio 1821 il Vicerè spagnolo del Perù, De la Serna, accettò di
incontrare San Martìn e i due raggiunsero un accordo secondo il quale il primo
avrebbe nominato una reggenza in attesa che la Spagna designasse quale principe
della sua casata sarebbe divenuto re della nuova nazione indipendente.
Un accordo del genere non poteva soddisfare nessuno e gli avversari San Martìn lo
bollarono come monarchico (per non dire peggio), ma quando poco più di un mese
dopo gli spagnoli si ritirarono da Lima e si trincerarono a Callao furono proprio gli
abitanti della città, terrorizzati che orde di negri e di indiani invadessero la città, a
supplicare San Martìn di proteggerli ed egli il 9 luglio potè così entrare invitato nella
capitale senza aver dovuto combattere.
La sua strategia di stringere e soffocare il nemico stava funzionando.
Mentre Cochrane continuava con le sue brillanti gesta sul mare, il 18 luglio San
Martìn proclamò così l’indipendenza del Perù e ne venne acclamato ‘Protettore’, ma
non volle assumerne il governo che a suo dire andava lasciato ai peruviani stessi.
Ben presto anche Callao, impossibilitata ad essere rifornita, dovette arrendersi, ma
questa volta dopo la resa alcune centinaia di soldati vennero massacrati.
San Martìn intanto procedette ad una serie di riforme: vennero abolite la schiavitù, la
subalternità degli indiani (la stragrande maggioranza della popolazione) ed il tributo
da loro dovuto, la tortura e la Santa Inquisizione, mentre affermò l’’habeas corpus’,
la libertà individuale e l’indipendenza del sistema giudiziario, ma tutto ciò (come in
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Cile per O’Higgins) gli attirò l’ostilità dell’aristocrazia creola - che cospirava
addirittura con gli spagnoli ancora ben presenti nel paese ed asseragliati sulle Ande.
Un certo numero dei suoi stessi ufficiali, scontenti che non avesse (ancora)
combattuto contro gli spagnoli sui monti, era contro di lui; Cochrane lamentava di
non essere stato pagato; i cileni e gli argentini del suo esercito erano pur sempre degli
stranieri, come lui del resto, avvertito come un conquistatore piuttosto che come un
liberatore.
Bolìvar era sceso intanto dal nord per completare la liberazione dell’America Latina
con la conquista di Perù (e Bolivia): egli aveva liberato il nord dell’America centromeridionale, San Martìn il sud ed ora ambedue marciavano verso il centro per cui
bisognava stabilire chi e come avrebbe dovuto completare l’opera.
I due comandanti si accordarono per incontrarsi a Guayaquil il 27-28 luglio 1822 e
dopo due giorni di colloqui senza testimoni San Martìn lasciò campo libero a Bolìvar.
Non si potranno mai conoscere completamente le ragioni di questo abbandono del
riservato, aristocratico e dignitoso San Martìn a favore dell’energico, esaltato,
irrequieto, geniale, megalomane Bolìvar, ma San Martìn a Lima era comunque
diventato impopolare; era argentino e la maggioranza dei suoi soldati erano cileni,
poco entusiasti di seguirlo ancora; in Argentina i suoi successori erano divenuti suoi
oppositori e, pressati da grossi problemi di separatismo, gli negavano gli aiuti
richiesti; in Cile O’Higgins, anche lui fortemente contestato, non poteva venirgli in
soccorso.
Posto di fronte alla fama di Bolìvar di grande condottiero e senza i mezzi necessari,
San Martìn preferì dunque accontentarsi dei risultati raggiunti e lasciare al
‘Libertador’ ed a Sucre il compito di liberare il Perù (e la Bolivia).
Ancora una volta Bolìvar diede prova di essere senza scrupoli e totalmente compreso
di se stesso, ma anche ferreo nelle sue decisioni: riorganizzate le sue forze, il 1
settembre 1823 sbarcò così a Callao, l’importantissimo porto di Lima.
La popolazione bianca del Perù (1/4 di quella indiana) era abituata da secoli a vivere
del lavoro servile nelle miniere e nei campi e temeva sopra ogni cosa la sollevazione
dei suoi servi che poteva essere scatenata da progetti (anch’essi detestati) di riforma
sociale e di uguaglianza razziale – proprio quelli che in Venezuela avevano assicurato
a Bolìvar l’appoggio dei ‘llaneros’ e dei sangue-misto: qui dunque Bolìvar doveva
agire in modo diverso.
Occupata anche Lima, i patrioti mossero contro le numerose truppe spagnole
asseragliate sulle impervie montagne: fu una lotta dura in un territorio difficilissimo,
pieno di colpi di scena e di rivalità fra i comandanti rivoluzionari finchè nella
primavera 1823 furono gli spagnoli vincitori a rientrare in Lima, ancora più acclamati
di quanto lo era stato Bolìvar.
Riparato sulla costa settentrionale ed avvezzo a riprendersi dopo le sconfitte, Bolìvar
compì ogni sforzo per riorganizzare le sue forze e ricevere nuovi soldati dalla Gran
Colombia: nell’aprile 1824, raggiunto dalla notizia che gli spagnoli stavano litigando
fra loro, cioè fra chi era fedele alla costituzione e chi voleva Ferdinando VII sovrano
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assoluto, decise di cogliere l’occasione e ancora una volta intraprese una eroica (e
sconsiderata) marcia sulle Ande per snidarli e sconfiggerli.
Il 2 agosto la battaglia del lago Junìn fu una netta vittoria dei patrioti e (come nel
medioevo) fu combattuta con lance e spade dai dragoni in luccicanti uniformi ed
elmetto contro i ‘llaneros’, seminudi e coi loro copricapi di pelle di giaguaro, senza
che venisse sparato un solo colpo d’arma da fuoco (!), ma non fu risolutiva: fu infatti
Sucre che il 9 dicembre 1824 pur con forze inferiori assestò il colpo decisivo agli
spagnoli nella battaglia di Ayacucho.
Anche se il porto di Callao resistette fino al gennaio 1826, la vittoria di Sucre chiuse
definitivamente la partita della presenza spagnola non solo in Perù (e in Bolivia) ma
nell’America stessa e Bolìvar divenne anche Dittatore del Perù.
Secondo Harvey ora Bolìvar era ‘paragonabile a Tamerlano, Gengis Khan,
Alessandro Magno e Cesare Augusto, e quanto all’estensione della conquista, aveva
eclissato Cortés, Pizarro e Clive in India’; ‘in dieci anni aveva fatto a cavallo almeno
20mila miglia – gran parte delle quali in una terra estremamente inospitale – e
combattuto circa 300 battaglie e scaramucce’: ciò è sicuramente vero, ma l’America
spagnola non era più spagnola anche perché Ferdinando VII aveva fatto di tutto per
alienarsi simpatie e sostegni; perché i ‘pardos’ ed i negri (meno gli indiani, più
tradizionalisti) avevano combattuto per la fine della loro segregazione e
sottomissione; perché ogni volta che le truppe spagnole avevano riconquistato un
territorio si erano abbandonate a violente, ingiustificate e stupide rappresaglie e ad
atti di pura brutalità; ma soprattutto perché la Spagna stessa non aveva più la forza e
le risorse necessarie per mantenere in piedi un impero di quelle dimensioni e così,
anche se nel marzo 1823 la Santa Alleanza – per mezzo di un esercito francese che
aveva invaso la Spagna, questa volta senza trovare resistenza (!) – aveva permesso a
Ferdinando VII di riaffermare il suo assolutismo, per l’America Latina ciò non aveva
avuto alcuna conseguenza.
La sconfitta di San Martìn e di Bolìvar
Amaro fu il destino di San Martìn: imbarcatosi il 20 settembre 1822 per il Cile, dopo
due mesi tornò in Argentina ma ben presto dovette andarsene anche da lì: partì per
l’Europa dove morì nel 1850, vent’anni dopo Bolìvar.
Venne accusato di aver cercato di diventare imperatore (!), di essere un vile che
aveva avuto paura degli spagnoli sui monti (!), che i suoi ufficiali stessi gli si erano
ribellati, che si era portato via il tesoro del Perù (!): si fatica a comprendere il senso di
queste accuse tanto sono assurde, ma, visto che anche Bolìvar morrà abbandonato ed
osteggiato, che O’Higgins sarà fortemente contestato, combattuto ed esiliato (in Perù)
nel 1823, e Sucre addirittura assassinato, una risposta bisognerà pur darla.
La risposta più plausibile sembra risiedere nel fatto che la liberazione dell’America
Latina avvenne su una grossa contraddizione: i creoli non volevano la liberazione
della società americana, l’emancipazione di negri, indiani e ‘mestizos’, l’arrivo anche
dall’altra parte dell’Atlantico del liberalismo politico, ma solo prendere il posto degli
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spagnoli e gestire i propri interessi senza di loro: le guerre d’indipendenza
comportarono però anche la partecipazione di tutti i sottomessi e reietti che
combatterono duramente e senza dei quali la vittoria non sarebbe stata conseguita, per
cui ora il problema dei creoli era quello di disfarsi di loro e di ricacciarli nel loro stato
di asservimento.
I leggendari capi sotto cui masse di non-bianchi avevano militato erano di
conseguenza anch’essi un grosso impiccio.
Le rivalità e le lotte per il potere dei vari generali, le loro ambizioni e i loro intrighi,
fecero il resto.
Nonostante la grande impresa di affrontare e scacciare gli spagnoli dall’intera
America meridionale (e di essere stato inflessibile nel pagarne (e nel farne pagare)
tutti gli altissimi costi) e nonostante la sua altissima fama e la venerazione di cui era
circondato, anche Bolìvar dopo il trionfo conobbe solo delusioni e fallimenti su tutta
la linea.
Egli era convinto che solo un forte (ma costituzionale!) governo centrale sarebbe
stato adatto a guidare le neonate repubbliche; che queste avrebbero dovuto vivere
alleate e magari confederate; e che l’emancipazione politica e giuridica – ma senza
toccare i diritti di proprietà! - di tutti i cittadini di qualunque colore fosse la loro pelle
era un obiettivo irrinunciabile e prioritario.
Nulla di tutto ciò invece accadde e lui stesso, povero, stanco e malato, vide ben presto
fallire tutti i suoi obiettivi e cadere tutte le sue speranze: morì il 17 dicembre 1830 a
quarantasette anni, amareggiato e sconfitto.
La causa fondamentale che portò ad un risultato così triste risiede ancora una volta
nella particolare situazione etnico-razziale dell’America Latina: i creoli che avevano
combattuto contro gli spagnoli o che avevano sostenuto Bolìvar non avevano certo
condiviso i suoi programmi di uguaglianza politico-giuridica fra tutti i cittadini - e
l’emancipazione dei non-bianchi era guardata con estremo sospetto, quando non
apertamente temuta.
Per loro la struttura sociale dell’America Latina non sarebbe dovuta assolutamente
cambiare, i loro privilegi ed il loro dominio sociale non solo non avrebbero dovuto
essere limitati, ma anzi, senza più gli spagnoli a comandare, si sarebbero dovuti
rafforzare; i vari potentati locali non volevano un forte governo centrale che
intervenisse a sostenere le masse sottomesse ed emarginate, ma un debole controllo
esterno poco più che di facciata; per mostrare la sua indifferenza al colore della pelle
Bolìvar era arrivato al punto di costringere una sua nipote a sposare uno dei suoi
generali che era mulatto, ma i creoli volevano che quelle masse di indiani, di negri e
di sangue-misto, dopo che pure avevano tanto combattuto nelle fila del Liberatore,
tornassero al loro posto subalterno, sottomesso ed anche schiavo.
Le rivalità, le gelosie e le ambizioni dei suoi generali ebbero così sempre il sostegno
dei possidenti ogni volta che si opposero a Bolìvar e che cercarono di dividere,
separare e frammentare l’immenso territorio che egli aveva sempre inteso essere un
mondo unico, seppur articolato in stati indipendenti fra loro.
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Come dice Harvey (pag. 244) Bolìvar “aveva ottenuto la liberazione del Venezuela
inquadrando contro l’aristocrazia creola le forze che erano state il bastione della
monarchia – gli spossessati, i poveri, i ‘llaneros’, i negri sia liberi che schiavi, gli
indiani e i mulatti. … per tutto il continente questi erano stati quelli che l’avevano
sostenuto, che avevano combattuto per lui, realizzato la sua rivoluzione e che
l’avevano accolto”: per i creoli tutto ciò era intollerabile ed ora tutta questa gente
doveva ritirarsi e tornare al suo stato di soggiacenza.
Certamente Bolìvar non era un socialista né auspicò mai rivoluzioni sociali, ma
riconosceva ugualmente che anche le masse ignoranti, primitive e diseredate avevano
dei diritti che un forte governo avrebbe dovuto difendere e sostenere: il suo modello
era l’Inghilterra, moderata ma fuori dal medioevo.
Le costituzioni che Bolìvar propose (per esempio quella della Bolivia) non vennero
realizzate; i congressi internazionali che faticosamente cercò di organizzare si
conclusero con poco più che un nulla di fatto; le tensioni crebbero; ci furono aperte
rivolte ed insurrezioni armate a stento fatte rientrare (ma dopo che i tentativi di
Bolìvar erano stati rintuzzati); a Bogotà il 25 settembre 1838 Bolìvar stesso riuscì a
sfuggire in piena notte dalla sua camera da letto ai sicari che erano venuti ad
ucciderlo (!); il 4 giugno 1830 il valente e valoroso Sucre, colui che gli era caro come
un figlio, l’unico che gli era sempre rimasto fedele, fu assassinato: Bolìvar era finito e
scrisse che “chi serve una rivoluzione ara il mare” e che “i tiranni mi hanno strappato
la mia terra natia”.
La rivoluzione con tutti i suoi ideali, le sue speranze ed i suoi sacrifici, era ormai cosa
del passato.
Come osserva Chasteen ‘La generazione che ottenne l’indipendenza non governò a
lungo dopo che questa arrivò. Almeno questo vale per i principali leaders.’
Qualche eccezione ci fu come Pàez in Venezuela, ma furono, appunto, eccezioni.
L’indipendenza del Messico
Anche in Messico la situazione si rimise in moto dopo la rivoluzione liberale del
1820 in Spagna: Agustìn de Itùrbide, già veterano delle campagne contro Hidalgo e
Morelos ed inviato contro il loro erede Guerrero - venuto a conoscenza del
‘pronunciamiento’ di Cadice - si alleò con lui contro la Spagna (!) ed i due nuovi
alleati il 24 febbraio 1821 stilarono il Piano di Iguala in base alle cui ’Tre garanzie’ il
Messico sarebbe diventato una monarchia costituzionale indipendente (la cui corona
sarebbe stata offerta a Ferdinando VII o ad un principe della sua casata), il
Cattolicesimo sarebbe stato riconosciuto religione di stato (ma gli altri culti sarebbero
stati ammessi), l’esercito avrebbe integrato insieme ribelli e realisti e tutti i cittadini
sarebbero stati uguali di fronte alla legge indipendentemente dal colore della loro
pelle – e diversamente da quanto deciso a Cadice.
I principali presidi militari accettarono immediatamente il Piano, il Vicerè spagnolo
non fece opposizione ed il 27 settembre 1821 senza spargimento di sangue Itùrbide
entrò a Città del Messico in trionfo e divenne Reggente dell’Impero Messicano.
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Ancora migliore fu il destino del Guatemala (che comprendeva anche El Salvador,
Honduras, Nicaragua e Costa Rica): il 15 settembre 1821 la folla che a Guatemala
City chiese l’indipendenza in nome del Piano di Iguala venne infatti accontentata dal
governatore spagnolo senza spargimento di sangue e senza che nessuna battaglia
fosse mai stata combattuta (!) e nacquero così le Province Unite dell'America
Centrale (o Federazione Centro-Americana).
Il Chiapas venne invece incorporato nell’Impero del Messico di cui Itùrbide cinse la
corona il 19 maggio 1822 col nome di Agustìn I (per quanto richiesto, nessun
membro della famiglia reale spagnola aveva voluto accettarla).
Itùrbide era sinceramente convinto della necessità sia di un forte potere centrale che
di una costituzione liberale, ma il Congresso risultò dominato dai possidenti creoli e
lui, forte del comando dell’esercito, si trovò ad essere anche il difensore ed il
rappresentante delle diseredate masse di colore.
Mentre la situazione economica ristagnava, la rivalità col Congresso non fece altro
che crescere e paralizzare la vita politica del nuovo stato finchè Agustìn I non lo fece
chiudere con la forza per rimpiazzarlo con una giunta a lui fedele, ma ciò esacerbò
ulteriormente gli animi anche perchè nemmeno le dure misure varate risolsero i
problemi economici del paese.
Nel dicembre 1822 Antonio Lopez de Santa Anna, giovane, ambizioso e brillante
ufficiale, iniziò una rivolta che presto venne appoggiata anche dai passati comandanti
guerriglieri (fra cui lo stesso Guerrero): quando il generale Echevarrì, inviato per
sedare l’insurrezione, si accordò invece con lo stesso Santa Anna per la nascita di una
Repubblica Federale del Messico e per l’elezione di un nuovo Congresso (secondo il
‘Piano di Casa Mata’), nonostante godesse ancora di appoggi fra le masse dei
diseredati, il 23 marzo 1823 Agustìn I abdicò e si imbarcò esule per Livorno, poi per
Londra.
Il Congresso intanto dichiarò Itùrbide fuorilegge da giustiziare immediatamente se
avesse rimesso piede in Messico (!), ma la situazione degenerava e il paese rischiava
la disintegrazione in tante parti: Itùrbide, ignaro della condanna, pensò così di tornare
in patria ma, appena sbarcato fu arrestato e subito dopo, il 19 luglio 1824, fucilato sul
posto senza processo.
Un altro padre – seppur molto particolare – dell’indipendenza dell’America Latina
finiva i suoi giorni esecrato e combattuto in quello stesso paese che egli aveva fatto
nascere: ancora una volta è facile comprendere che ciò che fu fatale ad Itùrbide fu la
sua difesa delle sottomesse masse di colore: non era certo questo che i bianchi
avevano voluto con le guerre di liberazione né volevano ora.
La stessa storia, anzi la stessa tragedia, si ripetè dunque anche in Messico.
Per parte loro, dopo anni di instabilità (e del crollo del prezzo dell’indaco, importante
prodotto di esportazione sui mercati mondiali) nel 1838 Honduras, Nicaragua,
Costa Rica, El Salvador e lo stesso Guatemala preferirono separarsi e proclamare la
loro indipendenza.
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L’indipendenza del Brasile
Dopo la sconfitta di Napoleone nel 1815 in Portogallo una Reggenza governò in
nome di Joao IV perchè il re preferì rimanere in Brasile (!), ma sull’esempio del
‘pronunciamiento’ di Cadice anche ad Oporto l’esercito il 25 agosto 1820 scatenò
una rivolta che cacciò la Reggenza ed incaricò le Cortes di scrivere una costituzione.
Dal Portogallo il fuoco rivoluzionario ben presto si estese anche al Brasile dove folle
in agitazione pretesero anche qui la costituzione: fu necessario ricorrere all’esercito
per sedare i tumulti, ma ciò incrinò seriamente il prestigio di Joao IV che, richiamato
oltretutto decisamente in patria dal nuovo governo liberale, il 22 aprile 1822 fu
costretto a nominare il figlio Dom Pedro Reggente in Brasile e ad imbarcarsi per il
Portogallo due giorni dopo.
Tuttavia il vero problema fu che il nuovo governo liberale di Lisbona pretese che il
Brasile tornasse ad essere una colonia e ciò suscitò la netta opposizione del paese: gli
anni di indipendenza che il Brasile aveva goduto dal 1807 non erano passati invano e,
forte del consenso popolare, anche Dom Pedro era nettamente contrario a questo
ritorno al passato.
Effettivamente la situazione era paradossale: il Brasile aveva allora una popolazione
di circa 4 milioni di abitanti (500mila bianchi, oltre 1 milione di schiavi negri,
400mila negri liberati, 300mila indiani ‘civilizzati’ ed 800mila primitivi
nell’impenetrabile interno), cioè quattro volte quelli del Portogallo, ma senza lo
zucchero e l’oro del Brasile il Portogallo rischiava di andare in rovina: un tempo le
truppe portoghesi avevano garantito il Brasile dalle rivolte degli schiavi ed era stato
questo il cemento che aveva compattato le élites locali con la madrepatria, ma ormai
l’esperienza dell’autogoverno aveva mostrato che il Brasile poteva far da solo e gli
aveva insegnato quant’era vantaggioso mantenere per sé le proprie ricchezze.
In un clima di tensione crescente il punto di non ritorno venne raggiunto il 7
settembre 1822 (ancora oggi festa nazionale in Brasile) quando, saputo che in
Portogallo si stava allestendo un corpo di spedizione che desse man forte al lealista
governatore di Bahia, Dom Pedro lanciò il famoso ‘grito di Ypiranga’ (fiume sulla
cui riva si trovava), ‘Indipendenza o morte!’.
Lo stesso re Joao IV aveva consigliato il figlio in questo senso (e di non tornare in
patria come il governo di Lisbona pretendeva) perché aveva saggiamente giudicato
che era meglio essere padre e figlio su due troni che opporsi a movimenti per
l’indipendenza dagli esiti imprevedibili: comunque il passo era stato compiuto e la
rottura era netta.
Il 1 dicembre 1822 il Reggente venne incoronato imperatore (costituzionale) col
nome di Pedro I, ma le province settentrionali erano ancora saldamente in mano ai
lealisti e, date le enormi distanze, una spedizione per assoggettarle non era possibile.
Fu in questo frangente che nel marzo 1823 arrivò a Rio il rinomatissimo Cochrane
che accettò di entrare al servizio dell’imperatore e dimostrò ancora una volta le sue
incredibili capacità, la sua audacia ai limiti della sconsideratezza, la sua
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imprevedibile genialità, la sua insuperabile maestria nell’ingannare e confondere il
nemico - e la sua fortuna.
Dopo soli pochi mesi, il 12 agosto 1822 Cochrane riuscì ad ottenere la resa anche
dell’ultimo bastione nemico e potè consegnare a Pedro I l’intero Brasile
settentrionale!
L’impresa era stata ai limiti della realtà e possibile solo per un uomo come Cochrane,
e, anche per le pressioni dell’onnipresente Inghilterra, il Portogallo stesso dovette
riconoscere l’indipendenza del nuovo impero.
Col trasferimento della corte a Rio - in cui venne costruita una ‘Versailles dei
Tropici’ - un nuovo equilibrio venne raggiunto: le élites brasiliane ottennero quel che
volevano perchè la nuova costituzione manteneva largamente i loro privilegi (sarebbe
rimasta in vigore fino al 1889) mentre una corona garantiva meglio i loro interessi
signorili.
Solo un secolo dopo infatti, con le numerose immigrazioni dall’Europa, la
maggioranza della popolazione del Brasile sarebbe stata bianca e per il momento la
mistica del potere imperiale – supportato anche dalla Chiesa – era dunque essenziale
per mantenere ordine e stabilità nel paese così razzialmente diviso.
Nel 1825 la guerra con l’Argentina terminò con la creazione dello stato-cuscinetto
dell’Uruguay mentre l’Inghilterra continuava comunque ad essere la garante
dell’ordine e la protettrice del Brasile (e del Portogallo): nel 1826 un trattato
commerciale riconobbe alla prima privilegi commerciali ed impose al secondo la
cessazione entro tre anni della tratta degli schiavi, argomento su cui l’Inghilterra era
sensibile fin dai tempi del congresso di Vienna.
Eppure, nonostante tutto, i sospetti che Pedro I volesse tornare all’assolutismo e le
continue lotte col Congresso crearono tensioni che il 7 aprile 1831 costrinsero
l’imperatore ad abdicare in favore del figlio di cinque anni: seguirono anni piuttosto
confusi caratterizzati da rivolte di negri, mezzo-sangue ed indiani, che in nome
dell’imperatore e della religione (al potere c’erano i liberali) in realtà testimoniavano
risentimento ed odio nei confronti del dominio e dei privilegi dei bianchi.
Ma rivolte e insurrezioni furono anche causate dalle aspirazioni separatiste, o almeno
federaliste, nelle varie immense e lontane regioni del paese.
Per noi italiani la più famosa di queste rivolte fu quella cui parteciparono anche dei
nostri connazionali fra cui Giuseppe Garibaldi (che proprio in quest’occasione
conobbe e sposò Anita), incaricato di condurre la guerra da corsa: fu la guerra dei
‘Farrapos’ (rivoluzionari) che nel 1835 scoppiò nel sud del paese (al confine con
l’Uruguay e con l’Argentina) e che l’anno seguente portò alla proclamazione
dell’indipendenza della Repubblica di Santa Caterina con capitale Porto Alegre.
Solo nel 1894 la repubblica fu incorporata nel Brasile ma ne fece definitivamente
parte solo dopo la seconda guerra mondiale.
Uno dei maggiori problemi che agitò il giovane impero fu quello della sempre più
contestata schiavitù perché, seppure in ritardo, gli inglesi erano riusciti a fermare
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l’infame traffico dall’Africa, gli schiavi esistenti non si riproducevano in modo
sufficiente e crescevano intanto i movimenti abolizionisti.
Era insomma necessario riorganizzare la società senza schiavi: nel 1871 la ‘legge del
libero utero’ stabilì che i figli degli schiavi sarebbero stati liberi e che i proprietari
che liberavano schiavi sarebbero stati indennizzati; nel 1884 un’altra legge previde la
liberazione degli schiavi ultrasessantenni, finchè sotto l’imperatrice Isabella il 13
maggio 1888 la schiavitù venne abolita senza indennizzi per i padroni espropriati.
Senza più schiavi i piantatori si trovarono in difficoltà ed alcuni di loro andarono in
rovina anche se venne incoraggiata l’immigrazione di lavoratori dall’Europa e molti
ex-schiavi rimasero nelle piantagioni (per salari da fame): quelli che invece se ne
andarono in città furono condannati alla miseria ed all’emarginazione e a condurre
una vita da reietti e da abbandonati.
Nessuno pensò di adottare misure per alleviare i tremendi problemi che la massa di
ex-schiavi si trovò ad affrontare: assolutamente nullatenenti, ignoranti, tenuti da
sempre in soggezione, discriminati e disprezzati, furono semplicemente abbandonati
a se stessi.
L’economia dell’America Latina dopo l’indipendenza
Al momento del raggiungimento della sua indipendenza l’America Latina non aveva
né i capitali, né la tecnologia, né il sistema educativo, né tantomeno – con le sue
masse di non-bianchi discriminati ed ai margini della società (quando non schiavi) la struttura sociale per poter pensare di competere economicamente con gli stati
europei e con gli U.S.A., per cui la sua economia rimase incentrata sull’esportazione
di materie prime e di prodotti agricoli: anche se argento e zucchero vennero presto
sostituiti da altre derrate ed altri minerali (carne, tabacco, caffè, rame, stagno, nitrati,
ecc.), in fondo poco cambiò dai tempi coloniali, se non che ora il commercio con
l’estero si svolgeva liberamente o, meglio, si concentrava nelle mani dell’élite creola
anziché rimanere monopolio dalla Corona (ed a vantaggio della madrepatria).
L’élite creola potè dunque mantenere la mentalità signorile del ‘rentier’ e non quella
borghese del capitalista che rischia nell’investimento e nella produzione perché le sue
esportazioni erano garantite dal suo possesso della terra.
Alla rivoluzione politica non se ne accompagnò insomma una sociale ed economica.
Un altro problema dell’economia dell’America Latina fu che molti paesi dipendevano
quasi esclusivamente dall’esportazione di un solo prodotto (Cuba per lo zucchero,
America Centrale, Colombia e Brasile per il caffè, Cile per il rame, Argentina per la
carne ed il grano, Bolivia per lo stagno, ecc.) e dunque erano particolarmente
vulnerabili alle oscillazioni dei prezzi sui mercati internazionali fuori del loro
controllo.
Col tempo questo ruolo in fondo subalterno dell’America Latina avrebbe cominciato
a modificarsi: negli anni Settanta dell’Ottocento i liberali furono al potere dappertutto
e l’età del positivismo arrivò anche sulle sponde occidentali dell’Atlantico col suo
motto ‘ordine e progresso’ (ancor oggi scritto sulla bandiera del Brasile).
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Tutto ciò si tradusse in una politica di modernizzazione e di sviluppo industriale:
sorsero le prime industrie e l’educazione cominciò a diffondersi, come anche la
decisa costruzione di tutta una serie di infrastrutture.
Ferrovie, strade, ponti in acciaio, navigazione a vapore, meccanizzazione della
produzione, illuminazione delle città, e quant’altro rivoluzionò la vita in Europa
provocò massicci cambiamenti anche in America Latina - e portò anche alla
formazione di nuovi ceti sociali.
Le esportazioni di materie prime e di prodotti agricoli rimasero tuttavia la risorsa
principale dei nuovi stati e il controllo di queste esportazioni continuò ad essere pur
sempre fortemente condizionato da interessi stranieri perché era dall’estero che
(come un tempo) arrivavano capitali, tecnologia e prodotti industriali finiti: questa
indiscutibile realtà ancor oggi divide gli analisti perché alcuni ritengono che
l’America Latina non riusciva a raggiungere gli standard europei e nordamericani
perché eterodiretta, altri, al contrario, perché lei stessa non era davvero decisa a
costruire una società capitalistica e preferiva rimanere ancora prevalentemente rurale
e signorile.
In ogni caso fin dopo la prima guerra mondiale fu l’Inghilterra ad esercitare la più
decisiva influenza sulle nuove repubbliche latinoamericane e sull’impero del Brasile
secondo la politica dell’ ‘imperialismo del libero commercio’ (e degli importanti,
‘generosi’ e numerosi prestiti ai governi), a significare che all’Inghilterra non
servivano più flotte militari od interventi armati per assicurarsi la salvaguardia dei
suoi interessi economici e la sua primogenitura politica.
Era stata questa la politica già ai tempi di Canning, ministro degli esteri inglese dopo
la morte di Castlereagh (1822), volta ad abbandonare lo scenario europeo (a meno di
gravi crisi) e di concentrarsi invece sul commercio nei sette mari e nei cinque
continenti.
Tuttavia, come dappertutto nel mondo, anche in America Latina fra le due guerre
mondiali, e soprattutto dopo la seconda, furono poi gli U.S.A. ad esercitare il ruolo
direttivo nella sua economia (e nella sua politica): essi avevano da tempo cominciato
la loro espansione nel continente - con l’acquisto da parte di Napoleone della
Louisiana, cioè dell’immenso territorio che arrivava al Mississippi dal golfo del
Messico al Canada (1803), l’incorporazione del Texas da dieci anni indipendente
(1846), la guerra contro il Messico che strappò a quest’ultimo il 40% del suo
territorio nord-occidentale (1848), la conseguente conquista del Far West, la guerra
per la conquista di Cuba e di Puerto Rico (1898) e la creazione dello stato-fantoccio
di Panama (1914) - e la loro potentissima economia (e la loro ideologia) seguendo la
‘politica del dollaro’ dilagò senza freni anche in questa parte del mondo.
La politica dell’America Latina dopo l’indipendenza
L’indipendenza dell’America Latina era stata finalmente conseguita, ma aveva fatto
emergere tensioni e rivalità di ogni genere ed aveva messo a nudo contraddizioni non
mai risolte che però la monarchia tradizionale spagnola era riuscita a mantenere sotto
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controllo: che i due massimi artefici dell’indipendenza, San Martìn e Bolìvar,
avessero sentito il bisogno di andare in volontario esilio proprio nel momento della
vittoria è estremamente significativo della loro disillusione – peraltro ben illustrata da
Gabriel Garcìa Marquez quando nel suo ‘Il generale nel suo labirinto’ canta con
struggente malinconia gli ultimi giorni di Bolìvar in Venezuela prima di
abbandonarlo, stanco e malato ma soprattutto amareggiato e intristito dalle divisioni e
dagli egoismi dei nuovi padroni del continente, ora spezzettato in tanti stati e pieno di
rivalità.
L’America spagnola si era frantumata e Williamson ricorda ancora una volta che
(pag. 239-40) “l’importanza storica dei Re Cattolici deriva dal loro successo nell’aver
trovato una formula politica in grado di tenere unita la Penisola Iberica e di tenerla
insieme al vasto impero d’oltremare. La natura della conquista e degli insediamenti
aveva portato alla formazione di centri popolati molto isolati e dispersi, così, una
volta che la struttura dello stato imperiale era stata rimossa, la soggiacente diversità
delle Indie era emersa e le varie regioni cominciarono ad allontanarsi dal centro.”
Oltre alla frammentazione dell’America Latina in tanti stati spesso rivali fra loro, il
maggior problema politico era però di ordine interno e risaliva alle radici
dell’indipendenza stessa, quando la Spagna (ed il Portogallo) aveva mostrato
apertamente di essere ormai troppo esausta per potersi permettere un impero in
America.
In realtà il suo declino era iniziato secoli prima con le bancarotte di fine-Cinquecento,
col ristagno economico dovuto al mancato ammodernamento economico e sociale,
colla dipendenza dall’argento (e da tanti altri prodotti) americano e colle guerre perse
in Europa: col tempo la pretesa di dominare gli immensi territori d’oltremare era
divenuta del tutto sproporzionata alle sue forze ed anche i creoli più conservatori si
erano resi conto che dovevano cercare altre strade ed altri mezzi che non fossero la
esausta monarchia spagnola per garantire e mantenere il loro status e difendere i loro
interessi.
I creoli erano una netta minoranza della popolazione che in maggioranza era indiana,
negra e di sangue misto, ma per tutti questi essi non prevedevano alcuno spazio nella
politica nè ogni altra vera emancipazione: quando non erano apertamente razzisti i
creoli nella migliore delle ipotesi sostenevano infatti che (purtroppo!) queste masse
non-bianche non erano ancora pronte e mature per partecipare su un piede di parità
alla gestione responsabile della società, che non erano (ancora!) in grado di uscire dal
loro stato di sottomissione e subalternità, ecc. ecc..
Il solito insopportabile ed ipocrita discorso che tutti i dominatori e tutti gli
imperialisti hanno sempre fatto, fanno (e faranno sempre) - dal ‘fardello dell’uomo
bianco’ di Kipling alla difesa del colonialismo e dello stesso schiavismo, dalla
giustificazione dell’apartheid sudafricana a quella per l’odierna (siamo nell’autunno
2012) guerra in Afghanistan – al quale non vale nemmeno la pena di rispondere.
La lotta politica era dunque condotta nell’ambito delle èlites sociali, economiche e
soprattutto razziali bianche: a leggere tanti libri di storia non ci si accorge nemmeno
di questa macroscopica realtà perché in essi si parla e si tratta esclusivamente dei
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bianchi – ma il silenzio su tutti gli altri appartenenti a tutte le altre razze ed incroci è
più eloquente di mille pagine.
La turbolenza dell’America Latina non è insomma minimamente spiegabile se non si
tiene conto del clima di separazione razziale e delle minacce che esso conteneva.
I creoli avevano voluto l’indipendenza (ed il libero commercio) per sé e, continuando
a galleggiare su un mare di non-bianchi (per tacere degli schiavi negri), avevano
inteso escluderli da ogni beneficio e gestione del potere, tanto che più volte questi
avevano nutrito – giustamente! - più speranze negli spagnoli ed in Ferdinando VII
che nei nuovi regimi.
La situazione etnico-socio-razziale in America Latina sembrava dunque irrisolvibile:
la rivoluzione era stata una rivoluzione politica, senza che a monte si fosse verificato
un cambiamento ideologico, economico e/o sociale, così le élites bianche avevano
combattuto e vinto solo per esercitare loro stessi il potere al posto dei ‘peninsulares’.
Viene voglia di citare Tomasi di Lampedusa quando a proposito della partecipazione
dei ‘galantuomini’ del Sud alla lotta per l’unità d’Italia affermò che per molti di loro
‘tutto doveva cambiare perché tutto restasse come prima’.
E la società latinoamericana era rimasta quella di prima, con tutte le sue profonde
divisioni ed esclusioni basate soprattutto su motivi razziali che ora i nuovi dirigenti
delle neonate repubbliche si trovarono a dover gestire direttamente.
Come dice Williamson (pag. 233) “L’America Latina era ancora formata da società
aristocratiche di bianchi che impiegavano una massa di lavoratori non-bianchi
variamente costretti in un’economia agraria o mineraria che esportava prodotti
primari in cambio di manufatti o generi di lusso. Sotto questo importante aspetto
l’’ancien règime’ non era scomparso mentre lo stato monarchico che gli aveva
permesso di funzionare era stato spezzato”.
Detto in termini marxisti, era cambiata la sovrastruttura ma non la struttura.
Ora che i creoli si erano finalmente impadroniti del potere dovevano quindi trovare il
modo di mandare andare avanti società immutate: essi avevano lottato solo per se
stessi e per i loro interessi e bisogni, ma ora dovevano trovare il modo di mantenerli
senza potersi richiamare a quegli equilibri ed a quei principi che la monarchia
cattolica aveva costruito nei secoli.
I creoli erano divisi sui modi adatti a raggiungere e mantenere il fine comune del
potere e della ricchezza per la loro classe e razza: i conservatori (che rimpiangevano
in fondo la monarchia cattolica) erano a favore di un forte governo centrale ed
insistevano sul mantenimento dello status e dei privilegi del clero e dell’esercito,
sicuri baluardi dell’ordine e della tradizione, sulla separatezza delle ‘repubbliche’
indiane e sullo sfruttamento servile dei loro membri, sul protezionismo, sulle
restrizioni nei confronti dei non-bianchi e sul mantenimento della schiavitù; i liberali
erano invece (a parole) a favore del decentramento del potere, credevano (a parole)
nel principio della sovranità popolare, nei diritti individuali (compreso quello di
proprietà), nell’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge, nella liberà di
pensiero, parola e religione, nel libero commercio, ed erano contrari a tutte le
limitazioni (anche razziali) che bloccavano la società e a tutti i privilegi (dell’esercito
e soprattutto della Chiesa).
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Tuttavia, date le particolari condizioni della società, molti di questi ultimi presto
disperarono nella democrazia ed optarono invece per un riformismo dall’alto che
modernizzasse la società - anche se questo significò addirittura il ricorso a dittature
sanguinarie.
In fondo i conservatori si rifacevano all’eredità asburgica e i liberali a quella
borbonica, ma nella confusione dei tempi e nelle conseguenti paralisi si aprirono
ampi spazi d’intervento anche per uomini ambiziosi, spericolati ed assetati di potere,
che si imposero alla testa di stati, regioni o province assumendo poteri dittatoriali:
erano questi i ‘caudillos’ (gli ‘uomini a cavallo’), liberali o conservatori che fossero,
di alta o anche bassa estrazione sociale.
Naturalmente questi dittatori furono sempre in stretto contatto con l’alta società, ma
nondimeno a volte portarono anche cambiamenti e modernizzazione – naturalmente
coi loro sistemi violenti ed oppressivi.
I decenni che seguirono l’indipendenza furono così caratterizzati da una forte
instabilità, dovuta a confuse e dure lotte fra liberali, conservatori e ‘caudillos’, ma la
causa fondamentale di tutto ciò era – ripetiamolo sempre - la ristretta base sociale su
cui poggiavano i monopolisti del potere, i creoli che dominavano sulla massa
sottomessa dei non-bianchi: non a caso i paesi che risentirono meno di questa
situazione furono quelli (come ad esempio il Cile) in cui i non-bianchi erano meno
numerosi e dove di conseguenza era possibile un gioco politico più aperto.
La Chiesa dell’America Latina dopo l’indipendenza
Lo scontro fra liberali e conservatori fu estremamente duro anche e soprattutto nei
confronti della Chiesa Cattolica: come del resto anche in Europa, i primi volevano
ridurne (o annullarne) l’influenza negli affari politici e ritenevano che le sue enormi
ricchezze potessero e dovessero essere impiegate per lo sviluppo dell’economia,
mentre i secondi temevano che un suo indebolimento avrebbe minato le basi
dell’ordine sociale a loro così caro – e favorevole.
Tenuto conto dei diversi punti di vista, ambedue avevano ragione, mentre il Vaticano,
oltretutto, non era disposto a rinnovare ai nuovi presidenti dei nuovi stati il
‘’Patronato Real’, cioè il diritto che i re iberici avevano avuto di nominare i prelati in
America e ciò, unito al ritorno in patria del clero spagnolo, indebolì seriamente la
forza della Chiesa Cattolica d’oltreoceano.
In ogni caso, come in Europa, anche in America la laicizzazione dello stato era ormai
nell’ordine delle cose: le società si emancipavano e nuove filosofie, come il
positivismo, l’anarchismo ed il socialismo avrebbero attraversato il mare per portare
dovunque il loro messaggio a favore di scienza e mondanità.
Ma anche in questo caso era la peculiarità della società americana a farsi sentire
ancora una volta perché se in Europa le classi rurali erano ben più attaccate alla
Chiesa Cattolica che non le élites colte, ciò era ancor più vero in America dove le
comunità indiane, negre e di sangue-misto le erano profondamente legate e spesso
avevano trovato solo nel clero l’unico che le aveva difese ed assistite.
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Il problema razziale nell’America Latina dopo
l’indipendenza
Considerato dal punto di vista della numerosa maggioranza non-bianca, lo scontro fra
liberali e conservatori – su cui tutti gli autori insistono – non aveva in fondo molta
importanza.
Nonostante i tanti roboanti programmi e princìpi di libertà e di autodeterminazione,
nell’America Latina indipendente molti negri erano ancora schiavi, i ‘castas’ (i liberi
di colore) dovevano pagare una tassa speciale ed erano tenuti (legalmente e/o di fatto)
segregati, ed il problema degli indiani si complicò – se possibile - ancora di più.
La Monarchia Cattolica aveva cercato di proteggerli confinandoli in separate ed
almeno parzialmente autogestite ‘rèpublicas de los indios’: naturalmente la loro
presenza non aveva impedito né l’imposizione di particolari tributi né lo sfruttamento
loro e delle loro risorse ma, insomma, un qualche schermo l’aveva offerto.
Per i liberali questa era invece un’assurdità ed un ostacolo ad ogni possibilità di
sviluppo e di modernizzazione del paese, della società e degli indiani stessi:
insistendo sull’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla (stessa) legge, essi
abolirono così (o cercarono di abolire, o dissero che volevano abolire) ogni
particolarismo e disuguaglianza come, appunto, le ‘republicas’.
Al di là della sincerità dei propositi, gli effetti di questa operazione (almeno nel breve
e medio periodo) furono sicuramente negativi: a parte che tributi particolari e il
lavoro coatto (la ‘mita’) spesso rimasero in vigore, l’abolizione della proprietà
comune della terra e la sua divisione fra gli indiani stessi crearono gravi squilibri
perché questi ultimi non erano in grado di muoversi in un’economia di mercato
basata sulla proprietà individuale e così, indeboliti ed isolati, spesso la persero a tutto
vantaggio dei potenti e ben organizzati latifondisti e delle loro ‘haciendas’ in
espansione.
Col successo e l’affermazione dei liberali negli anni Settanta dell’Ottocento anche la
Chiesa Cattolica si era poi fortemente indebolita e di conseguenza era diminuita
anche la sua possibilità di soccorrere ed assistere gli indiani che si ritrovarono così
sempre più soli ed abbandonati in una società che li travolgeva.
Di fronte all’avanzare dell’economia capitalista (della ‘modernità’ si diceva) le
rivolte indiane crebbero in numero ed in intensità (qualcosa che ricordava le rivolte in
Inghilterra contro le ‘enclosures’), ma erano condannate al fallimento di fronte al
trionfante avanzare dell’economia moderna di mercato e costituiscono semmai un
ulteriore tristissimo capitolo nella storia dello snaturamento delle civiltà di un intero
continente.
Fin da quando gli europei erano arrivati in America la fine del sistema di vita e di
valori degli indigeni era stata solo questione di tempo: con la forza dell’onda di uno
tsunami l’Europa tutto travolgeva e tutto avrebbe travolto – e certamente non solo in
America.
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La schiavitù dei negri nell’America ex-spagnola (di quella in Brasile si è già detto)
permaneva dato che si temeva che senza di essa l’economia sarebbe collassata (i
padroni dicono sempre così di fronte alle richiese dei lavoratori), nondimeno venne
adottata una serie di misure - come l’abolizione del commercio degli schiavi nel
1825 e la legge che stabiliva che il bambino negro che nasceva in America era libero
- che gradualmente la ridussero fino alla sua definitiva scomparsa.
I legami ‘misti’ crebbero di conseguenza, ma, ancora una volta, gli schiavi liberati
vennero lasciati in balìa di se stessi e, circondati dal disprezzo, dalla completa
sottovalutazione dei loro problemi e dall’indifferenza per il loro destino, restarono
pur sempre inchiodati ai più bassi livelli della società, discriminati ed emarginati.
Anche il loro dramma rimase ben lontano da una soluzione minimamente accettabile.
La ‘seconda conquista’
Siccome al male non c’è mai fine, la sorte di quelle comunità indiane restate fino
all’indipendenza dell’America Latina relativamente libere dalla civiltà dei bianchi fu
la peggiore di tutte.
La seconda rivoluzione industriale ed il conseguente sviluppo economico erano in
pieno svolgimento anche al di là dell’Atlantico: ferrovie, telegrafo, strade, porti,
navigazione a vapore e quant’altro, aprirono così alla penetrazione, all’occupazione
ed allo sfruttamento anche le ultime vaste regioni interne dell’America Latina, quelle
che fino a quel momento erano rimaste isolate ed ancora abbastanza indipendenti.
Le tribù indiane nomadi e ‘primitive’ che erano riuscite a restare fuori dal dominio
dei bianchi, gli schiavi fuggiti ed i mezzo-sangue che erano riusciti a formare delle
proprie comunità ed a vivere relativamente liberi al di fuori del mondo moderno ed
europeizzato, tutti questi dalla seconda metà del secolo furono irrimediabilmente
sommersi e distrutti da quella che è stata definita la ‘seconda conquista’ dopo quella
del Cinquecento.
Esattamente come fecero gli statunitensi ad ovest degli Appalachi e via via fino al Far
West, contro questi ‘indios bàrbaros’ le nuove repubbliche mossero guerra (una
riedizione della ‘giusta guerra’ dei tempi della Monarchia Cattolica) in nome della
civiltà moderna: gli indiani vennero combattuti, vinti, riuniti a forza in nuove
‘congregaciònes’ dove agirono anche i missionari, ‘civilizzati’ e sottoposti al lavoro
dei creoli nell’edificazione di ‘haciendas’, strade, ferrovie e quant’altro serviva allo
sfruttamento delle nuove terre.
L’attacco finale venne scatenato su tutti i fronti: sul lato meridionale del continente
esso riguardò i circa 200mila Araucani a sud del Bio-Bio (‘la frontera’ nel Cile
centrale), nelle ‘pampas’ dell’Argentina e in Patagonia; su quello settentrionale le
tribù indiane dei vasti e spopolati spazi nell’allora Messico settentrionale (Texas,
California, Nevada, Utah, Arizona, Nuovo Messico, Wyoming e parti del Colorado)
che a metà del secolo sarebbero passati agli Stati Uniti; su quello occidentale (il
Brasile amazzonico) avrebbero agito i portoghesi in una spinta che ancor oggi
continua.
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Si parlava di assorbimento e di assimilazione, ma ciò significava in realtà sterminio e
annientamento: Eakin ricorda quel che disse il futuro presidente argentino (1868-74)
Sarmiento (pag. 221): “Non cercate di risparmiare il sangue dei gauchos [gli abitanti
mezzo-sangue delle pampas]. E’ il fertilizzante (come il sangue degli animali dai
mattatoi) che bisogna rendere utile per il paese. Il loro sangue è la loro unica parte
umana.”
Gli indiani si ritiravano sempre più assistendo alla continua riduzione dei loro spazi
vitali – processo che ancor oggi non può dirsi concluso.
Raggiunti, combattuti, espropriati, snaturati, assoggettati o cacciati ai margini
miserabili della società, questi poveretti furono travolti da una forza per loro
invincibile, sommersi dall’uragano della civiltà dei bianchi senza possibilità di
scampo - e nella seconda metà dell’Ottocento il completamento della conquista
iniziato quasi quattro secoli prima poteva dirsi compiuto.
Qui (e non solo qui) fu la fine di civiltà, di modi di vivere, dei sentimenti, dei valori,
dell’identità di popoli che ora erano storicamente impossibilitati a resistere
all’affermazione di forze troppo superiori a loro: i nuovi stati ormai non avevano più
scrupoli nel perseguire il disegno di completare l’europeizzazione delle loro società –
naturalmente a tutto vantaggio dei creoli e dei loro interessi.
Continuava imperterrita la terribile tristissima storia di queste genti, incapaci di farsi
intendere e sentire, senza voce e senza speranza – e senza che nessuno le difendesse o
potesse difenderle.
L’inesorabile ruota della storia schiacciò popoli e culture - intere civiltà - incapaci di
resistere e di sopravvivere: senza pietà ed anzi - in base al nuovo corollario pseudoscientifico-filosofico - dicendo che era giusto e bene così.
Anche in America Latina insieme al positivismo era infatti arrivato anche il
cosiddetto ‘darwinismo sociale’ secondo il quale era possibile dimostrare
‘scientificamente’ non solo che le varie razze avevano raggiunto gradi diversi sulla
scala dell’evoluzione, ma anche che ciò era frutto della superiorità della razza bianca
sulle altre, poste in un ordine subalterno e gerarchico a seconda delle loro
caratteristiche ‘naturali’.
Se in Europa questa mentalità servì a legittimare le divisioni sociali, la pretesa
colonialista e la conquista di fine-secolo dell’Asia e dell’Africa, in America Latina
fornì invece le basi culturali ed ideologiche per mantenere la segregazione e
l’esclusione razziali, che ora potevano essere giudicate oggettive e ‘naturali’ necessità
perchè mantenevano ‘scientificamente’ ognuno al posto che la natura (non l’uomo!)
gli aveva assegnato.
Uno degli effetti di questa filosofia ‘scientifica’ fu infine quello di incoraggiare
l’immigrazione di bianchi (e bianche) dall’Europa allo scopo esplicito di elevare la
qualità razziale della popolazione.
Non stupisce quindi che il solco fra le città - abitate da bianchi, in contatto con
Europa ed U.S.A., aperte all’istruzione – e la campagna - a grande maggioranza
indiana, negra e ‘mista’ e lontana dalle voci del progresso e della cultura – crescesse
in misura maggiore che nel resto dell’Occidente.
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In fondo i darwiniani sociali non avevano torto, se non nel giudicare positivamente
tutto questo irreparabile disastro: l’impoverimento è stato tale che quel che resta di
mondi e civiltà non europei oggi lo si va a vedere da turisti nei musei e nelle apposite
riserve.
Conclusione
In America Latina nel XIX secolo si formò una serie di stati soltanto per metà
europei, con società dai tratti ancora medievali, profondamente diverse da quelle
europee e con divisioni non solo economiche e culturali, ma anche etniche e razziali.
La sua economia, basata sull’agricoltura e sull’estrazione mineraria, era rimasta
largamente mercantile e tuttavia proprio essa legava indissolubilmente l’America
Latina all’Europa ed agli U.S.A.: le differenze fra le due sponde dell’Atlantico si
sarebbero così sempre più ridotte, ma certamente non ancora annullate - come si può
facilmente verificare nelle regioni più interne, povere e marginali, dove vivono solo
‘indios’ abbandonati e ricacciati sempre più indietro; o nella tragica Amazzonia dove
l’avanzata dei bianchi procede inesorabile e travolgente.
Certamente ci sono anche fenomeni in controtendenza, sviluppi che fanno ben
sperare, come l’elezione di Evo Morales, un ‘indio’ ex-‘cocalero’, alla presidenza del
Perù, ma la strada per fondere i popoli di tre mondi in un continente solo appare
ancora lunga – sempre ammesso che sia possibile.
E sempre ammesso che sia giusta, che cioè questa fusione amalgamatrice ed
omogeneizzatrice di genti e di civiltà sia desiderabile ed apprezzabile.
L’America Latina di oggi comunque è frutto di questo incrocio di razze e di culture
ed anche quei bianchi nati e vissuti da secoli e generazioni al di là dell’Atlantico
hanno sviluppato una cultura non pienamente europea, mentre riemergono aspetti
delle civiltà sommerse e date per estinte: di qui l’originalità di questo continente, la
sua unicità seppur declinata nei vari stati, ognuno con la sua storia e le sue
caratteristiche soprattutto frutto (ancora una volta) del tipo di razze, di etnie e degli
innumerevoli incroci che ne hanno composto e compongono la società.
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Bibliografia
Alfred W.Crosby: “Lo scambio colombiano” – Einaudi, Torino 1992.
“Imperialismo ecologico – L’espansione biologica dell’Europa” Laterza, Bari 1988.
Edwin Williamson: “The Penguin History of Latin America” – Penguin Books,
Lays Ltd, St Ives plc (England) 2009.
John H. Elliott: “La Spagna imperiale 1469-1716” – il Mulino, Bologna 1982.
Toby Green: “Inquisizione – Il regno della paura” – Armenia, Milano 2008.
José Hermano Saraiva: “Portugal: a companion history” – Carcanet Press Limited,
Manchester 1997.
Marshall C. Eakin: “The History of Latin America – Collision of Cultures”,
Pallgrave macmillan, New York 2007.
Robert Harvey: “Liberators – Latin America’s struggles for independence”,
The Overlook Press, New York 2002.
John Charles Chasteen: “Americanos” – Oxford University Press, New York 2008.
Numerosi saggi e articoli tratti da giornali, riviste e Internet.
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