VII- La filosofia del Medio Evo - Facoltà di Scienze della Formazione

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VII- La filosofia del Medio Evo
1) Divisione generale
Con l’espressione “filosofia del Medio Evo”
si intende la
speculazione che ebbe inizio con la rivelazione evangelica e si
sviluppò fino alla metà del secolo XIV circa con Guglielmo
d’Ockham, morto intorno al 1350, la cui concezione filosofica suole
considerarsi come l’ultima espressione del pensiero medioevale.
La filosofia del Medio Evo si divide in due grandi periodi: la
filosofia della Patristica, che va dalla Rivelazione evangelica alla
prima metà del secolo XI, quando la pubblicazione del Monologion di
Anselmo d’Aosta segnerà nel 1076 l’inizio del periodo successivo; e
la filosofia della Scolastica, la quale, come detto, si chiude con
Guglielmo d’ Ockham intorno al 1350.
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La filosofia del Medio Evo
Riepilogo visivo
La fil. nel pensiero
cristiano
Agostino di
Tagaste 354-430
Patristica
(dalla rivelazione evangelica al 1076 ca.)
La filosofia del Medio
Evo (dalla rivelazione
evangelica a Guglielmo
d’Ockham, 1350 ca.)
Scolastica
(dal 1076 ca. al 1350 ca.)
Preparazione
(IX-X)
Sviluppo
(XI-XII)
Anselmo d’Aosta
1033-1109
Apogeo
(XIII)
Decadenza
(XIV)
Tommaso d’Aquino
1221-1274
Guglielmo d’Ockham
1280 ca.-1349 ca.
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2)La Patristica
É la filosofia dei Padri della Chiesa, cioè di coloro i quali hanno
elaborato la dottrina cristiana e definito il contenuto della fede.
Essa si rivolge soprattutto alla soluzione del rapporto fra ragione e
fede, fra filosofia e teologia e stabilisce i limiti della ragione umana e
delle sue capacità di ricerca; determina, inoltre, i dogmi ricavandoli
dalla rivelazione divina.
In questa sistemazione dottrinaria della verità cristiana si nota un
diverso orientamento fra la Patristica orientale o greca e la Patristica
occidentale o latina.
I Padri della Chiesa orientale considerano la filosofia greca come
una preparazione o anticipazione, seppur imperfetta e incompleta, del
pensiero cristiano e, quindi, tale da non opporsi alla nuova religione,
la quale è il perfezionamento della dottrina antica.
Da qui il tentativo di conciliare il pensiero classico con la religione
cristiana e l’importanza attribuita alla ragione umana.
I Padri della Chiesa occidentale, invece, dichiarano la civiltà pagana
inconciliabile con il cristianesimo e la combattono apertamente
ripudiando la ragione umana e rifugiandosi nella fede.
Così, il mondo greco e quello romano confermano in questo
periodo la loro diversa mentalità: speculativa e teorica, il primo;
pratica e concreta il secondo.
a) La filosofia nel pensiero cristiano
La filosofia del Cristianesimo è una filosofia nuova che annuncia
una concezione originale del mondo e della vita nei confronti di quella
del mondo classico e pagano.
- Infatti, è diverso il concetto di Dio.
Secondo il mondo classico e pagano, Dio è ragione universale,
astratta, puro intelletto che pensa se stesso, essere perfetto e immobile,
indifferente all’incessante divenire delle cose.
Secondo il cristianesimo, invece, Dio non è fredda e impersonale
razionalità, ma Persona, Padre amoroso, creatore e provvidenza.
- Parimenti diversa è la concezione del mondo.
Il pensiero antico distingue nettamente l’Essere, come perfezione
assoluta, dal non essere, materia irrazionale ed informe.
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L’Essere è il mondo delle idee (Platone), la Forma (Aristotele), di
cui solo un barlume si manifesta nella realtà terrena, perché
contrapposta c’è la materia, originaria ed eterna, inadeguata ad
accogliere la perfezione assoluta.
Di conseguenza, il mondo è una mescolanza di essere e non essere,
di forma e materia, ed è, perciò, una degradazione del perfetto.
Risulta logica, pertanto, la teoria della palingenesi o dell’eterno
ritorno, secondo cui il mondo imperfetto tende, attraverso il divenire,
alla perfezione da cui deriva e nella quale si annulla di nuovo.
Il Cristianesimo, invece, concepisce il mondo come creazione libera
e spontanea di Dio, e considera la materia non preesistente e
contrapposta all’atto creativo divino, bensì creata essa stessa.
Di conseguenza, essa non è più principio del male, eterno e
indistruttibile, né si contrappone alla perfezione dell’essere che Dio
attua nel mondo con la creazione.
Pertanto, il cristianesimo ammette nella sapienza divina, nel Verbo
o Logos, esistente fin dall’eternità, il disegno razionale dell’universo
pensato da Dio, ed ammette anche che questo disegno razionale si è
attuato nel mondo mediante un libero atto della volontà divina, per cui
è passato dall’essenza all’esistenza.
Il mondo, perciò, non è mescolanza di essere e di non essere, di
forma e di materia, né è una degradazione del perfetto, ma piuttosto il
concreto compimento di esso.
- Differente è anche la concezione dell’uomo.
Secondo la filosofia antica, l’uomo, come anche tutte le cose, è
immagine dell’Idea, alla quale deve sempre essere riferito perché
come individualità non ha alcuna importanza.
Ciò che lo distingue dalle cose è la ragione con la quale si può
elevare sopra le cose stesse e raggiungere la verità, cioè la conoscenza
delle Idee, della forma e della perfezione.
Secondo il cristianesimo, invece, l’uomo, creatura divina, è
immagine di Dio, persona libera e autocosciente, figlio di Dio.
La dignità umana è, perciò, immensa perché ciascun individuo è
creato da Dio e per ciascuno Gesù si è fatto uomo e si è sacrificato
sulla croce.
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Nel cristianesimo la ragione, prerogativa dell’uomo, acquista un
significato nuovo; essa è lo strumento con il quale l’individuo si rende
cosciente della sua realtà, del suo legame con Dio e dello scopo
assegnato alla propria esistenza, uno scopo che trascende la vita
terrena e si proietta al di là del tempo, nell’eterno possesso di Dio,
fonte di inesauribile beatitudine.
- Disuguale è pure il concetto del bene e del male.
Per il pensiero classico il bene risiede nella vera conoscenza, offerta
dall’intelletto, e nel rifiuto delle opinioni false, proprie dei sensi.
Il male è l’errore e deriva dalla materia, di cui sono costituiti
l’individuo e gli oggetti della natura, che impedisce all’uomo di
liberarsi dalla fallace apparenza e di giungere alla contemplazione
della verità ed al bene.
Vero e bene, infatti, sono intimamente congiunti fino a diventare
sinonimi: ciò che l’intelletto umano conosce come vero, cioè l’essere,
le idee, la Forma o l’Intelligibile, diventa bene per la volontà.
Di conseguenza, se l’uomo, ingannandosi, considera reali le
opinioni sensibili, cerca la soddisfazione delle passioni; se, invece, si
eleva fino all’attività intellettiva, raggiunge la razionalità e supera gli
istinti sensibili volgendosi all’intelligibilità.
Il Cristianesimo indica il bene nelle virtù teologali, fede, speranza e
carità, che portano ad un rinnovamento interiore e conducono alla
santità.
La fede è l’adesione consapevole dell’uomo alla rivelazione divina;
la speranza è l’attesa fiduciosa della beatitudine eterna; la carità è
amore di Dio ed amore per il prossimo.
Il male consiste nel peccato, cioè in un atto volontario e libero con
cui l’uomo, ribellandosi a Dio, sminuisce se stesso e subordina il fine
trascendente per il quale è stato creato, cioè la beatitudine eterna, ad
uno scopo mondano.
Nel campo morale, dunque, all’intellettualismo classico si
contrappone il volontarismo cristiano.
Secondo il pensiero antico, pochi privilegiati, forniti di eccezionali
capacità intellettive, possono aspirare all’ideale della saggezza;
secondo il Cristianesimo, invece, tutti, con l’aiuto della grazia divina,
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possono raggiungere l’ideale della perfezione e della santità purché
animati dalla buona volontà, cioè da una buona disposizione interiore.
b)Agostino di Tagaste
Il principale rappresentante della Patristica è Agostino di Tagaste,
vissuto fra il 354 e il 430.
1) Egli, prima di seguire la fede cristiana, aderisce a varie correnti
filosofico- religiose che poi rifiuta insoddisfatto man mano che
raggiunge la maturità.
Nella giovinezza accetta il manicheismo, dottrina proclamata dal
persiano Mani, vissuto nel III secolo d. C., che ammette nel mondo
l’esistenza di due divinità contrapposte, il Bene ed il Male, l’una
indipendente dall’altra.
Tale indirizzo trova corrispondenza nel suo animo perché giustifica
la forte attrazione che egli sente verso il peccato, ma ben presto si
convince che il manicheismo non ha fondamento razionale ed è
soltanto una interpretazione fantastica della realtà.
Cade, quindi, nello scetticismo da cui si libera avvicinandosi alla
filosofia neoplatonica, attraverso la quale raggiunge il concetto della
spiritualità divina e della inesistenza del male.
Infine, spinto dal desiderio di una totale purificazione interiore e
dalla consapevolezza dell’amore di Dio verso le sue creature, si
converte al cristianesimo e nella nuova religione trova l’appagamento
di tutte le sue inquietudini.
2) Nella sua speculazione Agostino parte dal dubbio degli Scettici ma
solo per cogliere la certezza della propria esistenza che è il primo
passo verso la conquista della verità.
Costoro, egli dice, professano il dubbio come fondamento
dell’attività conoscitiva e proclamano che la verità non può essere
raggiunta; tuttavia, sottolinea Agostino, nello stesso momento in cui
fanno una tale affermazione, sono sicuri della verità del proprio
dubbio, per cui chi dubita veramente, dubita anche del proprio
dubitare.
Essi, inoltre, dichiarano il loro desiderio di verità e
contemporaneamente negano che la si possa conseguire.
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Ma, evidenzia Agostino, chi dubita e dice che la verità non può
essere raggiunta, deve pur sapere che cosa sia questa verità; deve,
cioè, conoscerla.
Infatti, una proposizione può essere giudicata falsa o verosimile
solo allorquando si conosce il corrispondente termine di confronto,
cioè il vero.
Di conseguenza, conclude Agostino, anche gli scettici devono
ammettere di possedere la verità.
Dalla validità del dubbio scaturisce una certezza inoppugnabile, la
certezza della mia esistenza, cioè, se dubito, dice Agostino, devo
necessariamente ammettere che sono io a dubitare, per cui devo
altrettanto necessariamente ammettere che esisto: si fallor sum.
Dopo avere affermato la propria esistenza, Agostino dichiara che
dal dubbio scaturiscono la consapevolezza del proprio esistere e
l’amore del proprio essere e del proprio conoscere.
Esse, cioè esistere, nosse, cioè conoscere, e velle, cioè amare sono i
tre elementi che costituiscono la coscienza umana, la quale presenta
una certa analogia con l’unità e trinità divina.
L’uomo, infatti, è uno e contemporaneamente trino, in quanto esiste
(esse: il Padre), conosce (nosse: il Figlio), ama (velle: lo Spirito
Santo).
Letture1: Superamento dello Scetticismo: De Trinitate XV, 12- 21, pp.533-534;
dimostrazione della propria esistenza, consapevolezza del proprio esistere, amore
del proprio essere e del proprio conoscere: De Civitate Dei XI, 26, p. 535, De vera
religione 39, 73, p.536
3) Ma come conosce l’uomo e come può raggiungere la verità?
L’uomo, dice Agostino, mediante i sensi si volge alle cose del
mondo ma la realtà sensibile, soggetta al mutamento, non può offrire
la verità.
Allora, egli dall’esterno si indirizza verso l’interno, verso la sua
natura spirituale, e qui coglie la verità, pur riconoscendo che essa
trascende la sua stessa mente.
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I numeri delle pagine si riferiscono al testo adottato per il corso generale: ABBAGNANOFORNERO, Protagonisti e testi della filosofia, vol. A, tomo 2
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Infatti, questa verità, proprio perché fornita di attributi diversi da
quelli che caratterizzano l’animo dell’uomo, non è creata da lui, ma
egli la scopre soltanto dentro di sé, dove è stata messa da Dio.
Essa è immutabile, perfetta, universale, mentre l’animo umano è
mutevole, imperfetto e particolare.
La mente dell’individuo cambia con il tempo perché via
via
accresce il proprio sapere e compie atti che possono risultare fallaci e
di cui può provare pentimento; anche il dubbio, del resto, dimostra che
l’uomo non aderisce sempre alla verità, anche se ha coscienza di essa.
Di conseguenza, la verità, viva e presente nell’anima umana, è luce
divina, che si comunica all’uomo mediante un misterioso rapporto,
detto illuminazione.
4) Essa è una luce che l’anima riceve da Dio, rischiarandosi tutta; è
come una fiamma alla quale si accende la singola lampada spirituale
di ogni individuo.
Mediante questa luce e questa fiamma Dio comunica all’uomo la
verità, cioè i principi intelligibili delle cose, le forme immutabili
secondo le quali Egli crea il mondo, le essenze universali della realtà
che sono in lui dall’eternità in quanto Dio è Verbo, cioè sapienza.
Di conseguenza, l’illuminazione divina può essere paragonata alla
luce del sole, poiché, come il sole rende visibili gli oggetti, così
l’illuminazione che Dio partecipa all’uomo permette la conoscenza
delle cose del mondo nella loro essenza intelligibile.
L’illuminazione divina non è un semplice atto avvenuto nel
momento della creazione con il quale Dio abbia impresso nella mente
umana immagini delle sue idee, ma piuttosto è un’assistenza continua
da parte di Dio sull’intelletto e sull’anima dell’uomo, è un atto di
grazia e di amore con il quale Egli colma l’inquietudine umana che le
cose sensibili non possono appagare.
Di conseguenza, Dio è un maestro interiore che partecipa la verità
ed acquieta lo spirito di chi sa ascoltarlo.
5) Per quanto riguarda il rapporto fra fede e ragione e, quindi, fra
teologia e filosofia, problema fondamentale in tutto il Medio Evo,
Agostino sostiene che fede e ragione non si escludono ma piuttosto si
completano e si integrano a vicenda, perché l’una e l’altra tendono alla
verità e mirano allo stesso fine che è Dio.
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Infatti, la ragione cerca la verità ma per la sua limitatezza non può
raggiungerla, per cui riconosce la necessità di rivolgersi alla fede, la
quale, intervenendo, conduce l’uomo alla verità ed è, perciò,
presupposto dell’intendere.
Da qui la duplice formula agostiniana: intellige ut credas; crede ut
intelligas, vale a dire “comprendi per credere”; “credi per
comprendere”.
6) Il pensiero di Agostino viene definito “filosofia dell’interiorità”
perché è tutto orientato verso l’esperienza interna.
L’anima, infatti, è il principio della certezza e della verità, affermate
contro lo scetticismo, e la vita dello spirito è il centro verso cui
convergono tutte le attività dell’ uomo.
La stessa conoscenza ed il possesso di Dio si attuano con
l’interiorizzazione dell’indagine filosofica (=ragione) e dell’autorità
religiosa (=fede) che, in tal modo, si unificano e diventano principio
dell’ autocoscienza ed elementi costitutivi dell’essenza spirituale
dell’uomo.
Per questo richiamo all’interiorità Agostino è stato considerato
l’iniziatore del pensiero moderno.
Nei confronti della filosofia greca egli apre al pensiero una nuova
direzione che ha come punto di partenza e come centro di tutto il suo
sviluppo l’interiorità dell’anima.
Socrate aveva già proclamato “conosci te stesso” ed aveva parlato
di maieutica, mentre Platone aveva espresso la teoria della
reminiscenza, ma l’introspezione e l’analisi interiore da loro affermate
si risolvevano in una esercitazione semplicemente intellettuale;
l’invito agostiniano, invece, impegna, oltre all’intelletto, anche la
fede, i sentimenti e la volontà, vale a dire tutto l’uomo.
7) Per Agostino Dio esiste come verità assoluta ed immutabile.
La mente umana, infatti, insoddisfatta delle cose sensibili, si innalza
al di sopra del mondo materiale e, affidandosi all’attività razionale,
trascende anche se stessa, ed infine, inondata dalla luce divina, coglie
la verità, che è Dio stesso, realtà trascendente, Verbo che pensa le idee
eterne e le partecipa all’uomo.
Pertanto, Dio esiste perché comunica la verità alla mente
dell’
individuo.
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Questa dimostrazione ha carattere psicologico, in quanto l’esistenza
di Dio è una esigenza dell’anima ed è il presupposto e la condizione
della conoscenza umana.
Per Agostino, Dio è indefinibile perché infinitamente superiore alle
capacità intellettive dell’uomo; tuttavia, Egli ha delle qualità che per
analogia possono essere ricavate dal mondo umano, come
l’immutabilità e la semplicità.
Egli, inoltre, è uno e trino, e le Persone della SS. Trinità si
distinguono e si differenziano pur nell’unità dell’identica sostanza.
Il Padre, esse, è la fonte dell’essere delle cose come creatore; il
Figlio, nosse, è la fonte della verità che è in lui, in quanto egli pensa le
forme immutabili ed universali delle cose; lo Spirito Santo, velle, è la
fonte dell’amore che spinge l’uomo a sollevarsi fino a Dio ed a
rispettare e ad amare i suoi simili nell’amore di Dio.
La SS. Trinità si riflette nell’anima umana, la quale, per la sua
struttura una e triplice, può esserne considerata l’immagine: l’uomo è
(esse), conosce (nosse), ama (velle) con tutto il suo cuore che, pur
dispiegandosi in queste diverse funzioni, conserva la sua unità
interiore.
Letture: Esistenza di Dio e suoi attributi: Confessiones X, 24, 25, 26, pp. 537538
8) Per quanto riguarda l’origine del mondo, Agostino non accetta né la
concezione platonica secondo la quale il demiurgo plasma la materia
sul modello delle Idee, né il principio di emanazione affermato da
Plotino, ma sostiene che il mondo è stato creato da Dio dal nulla con
un atto di libera volontà.
Le idee, principi intelligibili di tutte le cose, presenti nel Figlio o
Verbo fin dall’eternità, sono il modello della creazione.
Nella materia, essa stessa opera divina, Dio pone dei germi latenti,
energie nascoste dette “ragioni seminali”, che si sviluppano nel tempo,
determinandosi e specificandosi in nuovi esseri, sempre più perfetti.
Ciò non significa che la creazione sia imperfetta e incompleta, ma
soltanto introduce il principio di evoluzione e di progresso, attestando
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la continua assistenza divina al mondo, cioè conferma che Dio è
provvidenza.
Dal momento che il mondo è stato creato, esso non è eterno.
Da questa constatazione deriva una conseguenza molto grave che
sembra non conciliarsi con l’immutabilità divina.
Infatti, ci si potrebbe domandare: che cosa faceva Dio prima della
creazione?
Agostino risponde che tale domanda nasce dal fatto che l’eternità è
immaginata sul modello del tempo.
Il tempo è concepito come una successione di istanti posti l’uno
accanto all’altro come i punti di una lunga linea, che costituiscono il
passato, il presente e il futuro.
Di conseguenza, per analogia, l’eternità è pensata come un tempo
senza principio né fine, come una linea retta infinita, suddivisa
anch’essa in una successione di istanti che si svolgono continuamente.
Tale concezione, però, è errata perché l’eternità non ha successione
né svolgimento, essendo eterno presente.
Di conseguenza, Dio, che è eterno, è al di fuori del tempo ed il
problema di come si possa conciliare l’immutabilità divina con la
creazione del mondo non ha senso in quanto l’opera creativa non è
avvenuta nel tempo.
Anzi, si può dire che il tempo è stato creato insieme con il mondo
nel senso che, prima della creazione, esso (tempo) non esisteva e che
con la creazione del mondo Dio lo ha creato come modo di esistere
proprio delle creature.
Il tempo, così, considerato come cosa, come oggetto, non esiste, e
non ha, perciò, una sua realtà oggettiva.
Il tempo, infatti, è formato di passato, presente e futuro; ma il
passato non esiste più, il futuro non è ancora ed il presente, punto di
congiunzione fra passato e futuro, non ha durata perché trapassa
continuamente.
Tuttavia, l’uomo misura il tempo attribuendolo alle cose che
cambiano e ciò è possibile perché la sua coscienza non cambia ed è
capace di conservare ciò che non è più e di prevedere ciò che non è
ancora.
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Di conseguenza, il tempo acquista realtà nell’interiorità della
coscienza e l’anima ne è la misura.
Così, il passato torna ad essere presente come ricordo, il futuro
come attesa, il presente come visione.
In tal modo l’anima si distende nel passato e nel futuro e così
facendo li rende presenti a se stessa.
Di conseguenza, il tempo può essere definito “distensione
dell’anima”.
Letture: La creazione del mondo e il tempo: Confessiones XI, 14, 18; XI, 20, 27,
pp. 541 – 543
9) Un altro problema che travagliò Agostino fu la presenza del male
nel mondo, che sembra non possa conciliarsi con la perfezione e la
bontà di Dio.
Se l’universo è stato creato da Dio, sommamente buono, come si
spiega il male?
E qui occorre rifarsi al manicheismo, al quale Agostino si era
accostato durante la sua giovinezza.
Secondo il manicheismo, esistono realmente due divinità, il Bene
ed il Male, in perenne lotta fra di loro, mentre Platone considera la
materia come causa del male e lo Stoicismo attribuisce l’origine del
male alle passioni.
Agostino non accetta queste soluzioni perché secondo il
Cristianesimo non è possibile che a Dio si contrapponga un altro dio,
cioè il male, né che sia male ciò che esiste, cioè la materia e le
passioni, vale a dire ciò che ha avuto origine da Dio, somma bontà.
Di conseguenza, il male non è una realtà sostanziale ma
semplicemente privazione di bene, mancanza o limitazione di essere.
Tale privazione e limitazione si riscontra nell’ambito metafisico,
morale e fisico, per cui si parla di male metafisico, male morale e
male fisico.
Il male metafisico si riferisce alla finitezza degli esseri creati: ogni
creatura è necessariamente finita e limitata perché, se possedesse la
pienezza dell’essere, sarebbe identica a Dio.
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Non per questo, però, la creazione cessa
di essere buona; infatti,
ogni cosa rivela una bellezza intrinseca per cui è buona di per se
stessa, e la stessa creazione, considerata nel suo insieme, manifesta
l’armonia universale esistente nel mondo.
Il cosiddetto male metafisico, perciò, non è un vero male ma
soltanto una diminuzione di essere, cioè di bene.
Il male morale è il peccato, di cui è responsabile l’uomo in quanto
essere libero.
L’uomo, quando pecca, si allontana volontariamente dal creatore e
gli preferisce le cose inferiori.
Di conseguenza, il male consiste in un cattivo uso della libera
volontà.
Solo l’uomo e non Dio è responsabile del male morale, che Dio non
vuole ma permette.
Per quanto riguarda il male fisico, da identificare con le malattie, i
dolori o le sofferenze, esso è la conseguenza del male metafisico, cioè
della limitatezza dell’essere: l’uomo, creatura finita e menomata per la
colpa originale, vive nel tempo e quindi è esposto alla corruzione e
alla morte.
D’ altra parte, il male fisico diventa un mezzo di espiazione e di
purificazione del male morale, il peccato, e quindi non è un vero male
perché permette un avvicinamento dell’uomo a Dio.
Letture: Confessiones VII, 12; VII, 13, 15, 16; De civitate Dei, XII, 8, pp. 538540
10) Strettamente legato al problema del male è il tema del libero
arbitrio e della grazia.
Qui occorre rifarsi a Pelagio, un monaco irlandese del V secolo,
secondo il quale il peccato originale di Adamo non ha avuto
conseguenze sugli uomini, per cui essi conservano intatta la possibilità
di salvarsi in virtù della loro autonomia e della loro libera volontà.
Questa affermazione inficia l’importanza dell’ incarnazione e della
morte di Gesù Cristo ed annulla la concezione cristiana incentrata
nella passione del Figlio di Dio.
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Agostino, naturalmente, non accetta questa tesi e riconosce che il
libero arbitrio non è sufficiente per la salvezza umana e che è
indispensabile la grazia divina; perciò egli dice che Adamo, prima
della colpa, era libero e che possedeva una inclinazione naturale verso
il bene: poteva, perciò, non peccare (posse non peccare).
Dopo la ribellione, però, egli fu abbandonato da Dio e divenne
schiavo delle passioni, trasmettendo questo stato di colpa e di
corruzione a tutti i suoi discendenti: perciò egli non poteva non
peccare e insieme con lui tutti gli uomini furono condannati alla stessa
sorte (non posse non peccare).
Da qui la necessità della grazia divina, che viene concessa a tutti
senza distinzione, anche se ad alcuni viene elargita più
generosamente.
11) Ultimo tema da prendere in esame è la concezione della storia.
Agostino nell’opera La città di Dio , forse indotto dall’influenza
manichea, concepisce la storia come il risultato della lotta fra il bene
ed il male, cioè del contrasto fra la società dei buoni e quella degli
empi, tra la città celeste o di Dio e la città terrena o del diavolo a
seconda se gli uomini siano guidati dall’amore di Dio e del prossimo o
dominati dalle passioni egoistiche e dalla cupidigia.
Queste due città sono mescolate nel corso della storia mondana e
solo dopo il giudizio universale saranno nettamente separate l’una
dall’altra, ma già si delineano su questa terra, in quanto la città celeste
è rappresentata dalla Chiesa e quella terrena dall’ Impero romano, che
proprio nel periodo in cui Agostino scriveva La città di Dio era invaso
dai Visigoti di Alarico (410 d. C.).
Letture: La storia (De civitate Dei, XIV, 28, pp. 545- 547
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Riepilogo visivo
Agostino di Tagaste
1) Orientamenti filosofici seguiti da Agostino prima di diventare
cristiano: Manicheismo, Scetticismo, Neoplatonismo
2) Superamento dello scetticismo; dimostrazione della propria
esistenza, consapevolezza del proprio esistere, amore del proprio
essere e del proprio conoscere
3) Problema della conoscenza
4) Dottrina dell’illuminazione
5) Rapporto fede- ragione
6) La filosofia dell’interiorità
7) Esistenza di Dio e suoi attributi
8) La creazione del mondo e il tempo
9) Il male
10) Libero arbitrio e grazia
11) La storia
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3) La Scolastica
É la filosofia insegnata nelle scuole cristiane, sorte e sviluppate
ampiamente durante il Medio Evo per impulso di Carlo Magno.
Essa può essere considerata continuazione della Patristica ma rivela
anche un suo carattere particolare.
Infatti, mentre la Patristica, muovendo dalla Rivelazione, giunge
alla formulazione dei dogmi, la Scolastica, partendo dai dogmi, li
dispone in un sistema organico in modo che essi concordino
armonicamente con tutto il resto del sapere.
In altre parole, gli scolastici si servono dei risultati conseguiti dai
Padri della Chiesa per costituire un sistema filosofico completo che si
rivolge ai principali problemi del tempo e li risolve coerentemente con
le aspirazioni spirituali del Medio evo.
In questa opera di sistemazione, il rapporto fra fede e ragione, fra
rivelazione e filosofia, è mutato.
Nel periodo della Patristica il punto da cui si muove è la fede, la
quale determina e dirige la ragione nel suo sforzo di esprimere e di
presentare il contenuto della Rivelazione; nei secoli della Scolastica,
invece, il presupposto da cui si parte è la ragione, la quale cerca in
quale modo ed entro quali limiti possa raggiungere le verità costituenti
il contenuto degli stessi dogmi.
Di conseguenza, l’adesione alla fede diventa un atto cosciente della
ragione che non deve essere menomata nella sua dignità.
Comunemente, la Scolastica viene suddivisa in quattro periodi: di
preparazione (secc. IX e X); di sviluppo (secc. XI e XII); di massimo
splendore (sec. XIII); di decadenza (sec. XIV).
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Riepilogo visivo
La Scolastica
Sviluppo
Secc. XI e XII
Preparazione
Secc. IX e X
Scolastica
Secc. IX-XIV
Decadenza
Sec. XIV
Apogeo
Sec. XIII
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I principali problemi di questa corrente sono quelli concernenti
a) il rapporto tra ragione e fede;
b) quello relativo alla cosiddetta questione degli universali.
a)Per quanto riguarda il problema dei rapporti intercorrenti fra fede e
ragione ,e, conseguentemente, fra teologia e filosofia, è da dire che le
principali soluzioni indicate per esso sono tre:
- gli Scolastici del primo periodo riconoscono una sostanziale armonia
tra fede e ragione, in quanto considerano l’una e l’altra provenienti da
Dio;
- nel secolo XIII predomina la tesi che, pur ammettendo la concordia
fra fede e ragione, le distingue l’una dall’altra ed assegna a ciascuna
un campo proprio di indagine: alla prima il mondo delle verità
soprannaturali; alla seconda il mondo della natura.
In questo periodo la filosofia viene definita “ancella della teologia”
perché le è attribuito il compito, oltre che di spiegare le verità di
ordine naturale, di chiarire e di interpretare le verità rivelate senza
oltrepassare i dati della fede.
Di conseguenza, la filosofia rende un servizio alla teologia, in
quanto ricerca nella rivelazione il fondamento dei dogmi ed illustra il
modo e la via che la Chiesa, nel suo magistero infallibile, ha seguito
per giungere a stabilire e fissare le formule dogmatiche.
Naturalmente, la Rivelazione rimane il principio regolatore
dell’indagine filosofica; però, tale principio non è ossessivo né
mortifica la dignità tradizionale, ma traccia il cammino ed indica
l’indirizzo entro il quale il pensiero può liberamente avviarsi e
svolgersi affinché la sua attività sia più feconda.
- Nel periodo della decadenza si prospetta la possibilità di disaccordo
tra fede e ragione che inevitabilmente conduce a risultati diversi ed
anche contrapposti.
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Riepilogo visivo
Rapporto fede - ragione
Secc. XI – XII : armonia
Rapporto fede – ragione
Sec. XIII : armonia e distinzione
Sec. XIV : disaccordo
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b) In riferimento alla questione degli universali è da precisare che
l’universale è il concetto o idea con cui si può pensare l’essenza di un
oggetto, comune ad una intera categoria di individui indicati con il
medesimo nome; per es., l’universale di animale (concetto, idea) è
riferibile a tutti gli animali, pur diversi nelle loro caratteristiche
particolari; l’universale di uomo(concetto, idea) può essere attribuito a
tutti gli uomini, anche se ciascuno manifesta un aspetto suo proprio,
differente da quello degli altri.
Gli universali, perciò, in quanto essenze, riguardano tutti gli esseri
componenti un intero gruppo in contrapposizione al singolo individuo,
che è possibile conoscere mediante la sensibilità.
Nella storia della filosofia il problema non è nuovo perché già si
trova nel pensiero classico, soprattutto nei Cinici, in Platone, e in
Aristotele; ma la Scolastica si domanda più chiaramente se gli
universali abbiano una propria realtà indipendente e autonoma o
esistano solo nell’intelletto dell’uomo quando questi li pensa, oppure
siano soltanto parole, nomi convenzionali che l’uomo crea
appositamente per intendersi con i suoi simili.
Le soluzioni del problema degli universali sono le seguenti:
- realismo estremo, il quale, ispirandosi alla concezione platonica,
secondo cui gli universali sono le Idee esistenti come realtà in sé nell’
iperuranio, afferma che gli universali hanno una propria realtà
trascendente e separata dalle cose particolari, perché contenuti nella
mente divina, e li considera come il modello esemplare di ogni
oggetto perché esistono prima della costituzione delle cose.
Per questo sostiene che gli universali sono ante rem, cioè anteriori
alla realtà.
Rappresentante: Guglielmo di Champeaux.
Letture: Ingredientibus notis, p.587
- realismo moderato, il quale, rifacendosi alla tesi aristotelica, secondo
cui gli universali sono la forma immanente dei singoli individui,
21
ritiene gli universali presenti nelle cose come essenze delle cose stesse
e principio attivo del loro essere.
Per questo dichiara che gli universali sono in re, cioè negli individui
particolari.
In seno al realismo moderato Tommaso d’Aquino sostiene che
l’universale è in re, ossia nella cosa come sostanza di essa, post rem,
dopo la cosa, come concetto elaborato sulla base dell’esperienza, ante
rem, prima della cosa, nella mente divina, a titolo di idea o modello
delle cose create;
- nominalismo estremo, il quale, riprendendo l’affermazione dei
Cinici, riconosce reali solo le cose individuali e particolari, e riduce
gli universali a vuote parole, a semplici nomi generici, creati
convenzionalmente e per comodità di espressione e di comprensione
fra gli uomini.
Con i nomi vengono indicati gruppi di cose somiglianti ma ad essi
non corrisponde alcuna realtà.
Gli universali sono, quindi, semplici flatus vocis.
Rappresentante: Roscellino.
Letture: Glossae super Porphyrium Nostrorum petitioni sociorum, p. 588
- nominalismo moderato, secondo il quale l’universale non esiste nelle
cose ma soltanto in intellectu, essendo nient’altro che un segno
mentale atto a raccogliere in una stessa classe una serie di individui
aventi tra di loro caratteristiche affini.
Rappresentante: Guglielmo d’ Ockham.
Fra il nominalismo estremo ( flatus vocis) e il realismo moderato ( in
re) sta il concettualismo, rappresentato da Abelardo, secondo il quale
l’universale non è una realtà né un puro nome, ma è un sermo, un
discorso che implica sempre il riferimento alla cosa significata, cioè
che tende a significare o a indicare qualche cosa.
Letture: Gl. Sup. Porph. Nostrorum petitioni sociorum, p. 589
22
Riepilogo visivo
Il problema degli universali
Realismo esagerato: ante rem
(Guglielmo di Champeaux)
Realismo moderato: in re
(Tommaso: in re, ante rem, post
rem
Probl. degli universali
Concettualismo: sermo (Abelardo)
Nominalismo estremo: flatus vocis
(Roscellino)
Nominalismo moderato: in intellectu,
segno mentale (G.d’Ockham)
23
In seno al realismo esagerato ed al nominalismo sono, però,
implicite pericolose conseguenze combattute severamente dalla
Chiesa.
Infatti, se si attribuisce realtà solo all’universale, l’individuo viene
annullato e ridotto a semplice apparenza.
Questa tesi svuota di significato l’incarnazione e la morte di Gesù
Cristo, che si sarebbe sacrificato per niente.
Invece, se si attribuisce realtà solo all’individuo e si nega
l’universale, il dogma della SS. Trinità viene messo in discussione,
perché l’unica sostanza divina diventa una semplice e vuota parola e
le tre Persone, essendo distinte l’una dall’altra, sono tre sostanze
diverse e separate, tre dei.
Questa eresia viene condannata dalla Chiesa nel 1092 con l’accusa
di triteismo.
c) Durante i cinque secoli della filosofia scolastica si sviluppano due
grandi correnti:
il misticismo ed
il razionalismo.
Il misticismo si ispira al principio dell’interiorità proclamato da
Agostino ed afferma che l’uomo può conoscere Dio soltanto con uno
slancio di fede e di amore perché Dio è assoluta libertà e volontà e
quindi si manifesta liberamente, senza essere limitato da alcun
principio di necessità che lo costringa a rivelarsi in forme determinate
e prevedibili.
Di conseguenza, la ragione non è adatta a cogliere Dio; pertanto,
deve essere subordinata alla fede e considerata come momento
preparatorio all’esperienza mistica, attraverso la quale l’anima si
congiunge direttamente e immediatamente con il divino in una estatica
unione.
Il razionalismo si collega al pensiero classico, soprattutto
aristotelico e si sviluppa nel sistema di Tommaso d’Aquino.
Esso riconosce che la perfezione assoluta di Dio oltrepassa le
capacità conoscitive dell’uomo, al quale occorre senza dubbio la
Rivelazione, ma, nello stesso tempo, afferma che l’essenza divina è
razionalità per cui Dio non può non manifestarsi in forme razionali.
24
Per questo aggiunge che le verità di fede sono semplicemente
sovrarazionali (cioè al di sopra della ragione, nel senso che la mente
umana non puo’ conoscerle pienamente solo perché limitata) e non
antirazionali (cioè opposte decisamente alla ragione, nel senso che la
mente umana non può conoscerle perché contrarie alla sua essenza),
per cui l’uomo con la sola attività razionale può conoscere Dio, anche
se in modo limitato.
Tuttavia, queste due correnti, pur nella loro contrapposizione, non
sono irriducibili l’una all’altra, ma piuttosto si completano a vicenda
perché ciascuna, pur accettando come fondamento o la fede o la
ragione, non esclude totalmente il presupposto che l’altra sostiene.
I principali rappresentanti della Scolastica sono: Anselmo
d’Aosta,
Bonaventura da Bagnoregio, Tommaso d’Aquino,
Giovanni Duns Scoto, Guglielmo d’Ockham.
25
Riepilogo visivo
La Scolastica
Misticismo: l’uomo può
conoscere solo con la fede
Razionalismo:
fede e ragione
si completano
correnti
Scolastica
rappresentanti
Bonaventura
Anselmo
d’Aosta
Tommaso
d’Aquino
G. Duns
Scoto
Guglielmo
d’Ockham
26
d) Vissuto fra il 1033 e il 1109, Anselmo d’Aosta riprende il tema
tipico di tutta la speculazione medioevale, quello del rapporto fra fede
e ragione, e sostiene che la prima è il presupposto della seconda
perché la mente umana non può, da sola, raggiungere le verità divine.
Il suo motto, perciò, è credo ut intelligam, cioè credo per capire.
Però, anche se la fede è l’inizio della ricerca filosofica, la ragione
non deve rimanere inerte; anzi, essa ha il compito di scoprire e di
spiegare le verità divine, quando queste sono accessibili alla mente
umana.
Naturalmente, la ragione non può arrogarsi il diritto di giudicare e
discutere le verità di fede e quando le sue conclusioni contrastano con
i dogmi, essa è sicuramente nell’errore.
Particolarmente importanti sono in Anselmo le prove che egli
adduce per dimostrare l’esistenza di Dio, tre a posteriori nel
Monologion, una a priori nel Proslogion.
Quelle a posteriori sono argomentazioni che muovono dagli effetti,
dalle conseguenze, sempre particolari, per risalire alla causa che è
universale; si va, cioè, dalle cose create a Dio; la prova a priori,
invece, è un argomento che trascura l’esperienza sensibile e trova
nello stesso concetto di Dio l’evidente certezza della sua esistenza, in
modo che lo stesso ateo ne rimanga convinto.
In questo caso l’esistenza di Dio è, quindi, dedotta dalla stessa idea
di Dio.
Questa prova è detta anche argomentazione ontologica perché
conduce alla conoscenza dell’Ente assoluto.
Esaminiamo dapprima le prove a posteriori riportate nel
Monologion.
Esse sono tre:
- Le cose del mondo sono beni limitati e perciò, in quanto tali,
rimandano ad un Bene assoluto, che è Dio, del quale partecipano in
diverso grado.
- Le cose del mondo esistono ma non per virtù propria perché non
hanno in sé il principio, la causa, della loro esistenza.
27
Esse sono, perciò, contingenti, cioè sono ma potrebbero non essere;
hanno quelle particolari caratteristiche ma potrebbero averne diverse
perché quelle qualità sono accidentali e non sostanziali.
La contingenza delle cose implica l’esistenza di un Essere
necessario, che sia la causa della loro esistenza.
- Le cose del mondo possiedono una maggiore o minore perfezione a
seconda della loro realtà e possono essere disposte gerarchicamente in
una classificazione alla cui sommità c’è l’Essere perfettissimo, che, in
diverso grado, partecipa la sua perfezione alle cose stesse.
E veniamo, adesso, all’ argomentazione a priori riportata nel
Proslogion.
Prendendo lo spunto dal XIII Salmo, dove lo stolto disse in cuor
suo che Dio non c’è, Anselmo sostiene che anche l’ateo nel momento
in cui dice “Dio non è esistente”, possiede la nozione di Dio, perché
egli esprime un giudizio, anche se negativo (Dio = soggetto, è =
copula, non esistente = predicato), del quale ha, senza dubbio, nella
mente i concetti.
Ciò significa che egli sa che cosa è Dio e che cosa significa non
esistere.
E qual è l’idea di Dio?
L’idea di Dio, risponde Anselmo, è quella dell’Essere del quale
nulla di maggiore può essere pensato.
Perciò, egli conclude, l’ateo si contraddice quando afferma che Dio
non esiste perché l’Essere, del quale nulla di maggiore può essere
pensato, in quanto perfettissimo, non può non avere, fra le altre
perfezioni, anche quella dell’esistenza.
In caso contrario, qualunque altra cosa che potesse essere pensata
esistente nella mente e nella realtà sarebbe più perfetta di Dio.
Di conseguenza, nell’Essere perfettissimo l’essenza non si distingue
dall’esistenza, vale a dire, l’idea di Dio coincide con l’esistenza di Dio
stesso.
Letture: Proslogion, 3, 5, pp.569- 570
28
L’argomentazione ontologica viene criticata da un contemporaneo
di Anselmo, il monaco Gaunilone, il quale afferma che pensiero e
realtà sono due cose distinte.
Infatti, egli sostiene, io posso pensare un’isola meravigliosa per
fertilità e ricchezza, la più perfetta fra tutte, ma non è detto che essa
debba esistere per il fatto che io la pensi.
Anselmo a questa obiezione risponde dicendo che le cose, e quindi
anche l’isola immaginaria, non possono essere perfettissime perché
non esistono cose di cui non si possa pensare qualcosa di maggiore.
Soltanto Dio è perfettissimo e quindi solo l’idea di Dio coincide con
l’esistenza di Dio stesso.
29
Riepilogo visivo
Anselmo d’ Aosta
Monologion
=
tre prove a posteriori
fede e ragione:
credo ut intelligam
=
credo per capire
Proslogion
=
prova a priori
o
ontologica
esistenza di
Dio
Anselmo d’Aosta
critica di Gaunilone
30
e) Bonaventura da Bagnoregio, francescano, è il maggiore interprete
dello spirito di San Francesco ed è seguace della filosofia agostiniana.
Egli accetta la presenza divina nel mondo e nell’anima e conclude
con il misticismo: Dio, verità ed amore, è il centro della sua dottrina
nella quale predomina non l’attività intellettiva, bensì l’intuizione
dell’anima.
Per questo motivo l’uomo contempla il divino presente nelle cose
della natura e, ripiegandosi nella propria interiorità, coglie Dio
direttamente e si unisce a Lui in uno slancio mistico.
Riprendendo la tematica, tipica di tutto Il Medioevo, dei rapporti fra
fede e ragione, e quindi fra teologia e filosofia, egli sostiene che
queste non possono e non devono essere distinte, in quanto l’una e
l’altra tendono alla verità.
Si possono distinguere soltanto quando si discute a chi spetti il
primato e quando si intende decidere da quale delle due sia necessario
prendere l’avvio per raggiungere la vera conoscenza.
In questi casi la risposta è che la fede possiede la priorità sulla
ragione e che essa è il presupposto da cui occorre iniziare la ricerca
della verità.
L’uomo, infatti, con la sola ragione non potrebbe cogliere l’essenza
universale delle cose se il Verbo divino con azione illuminante non
partecipasse all’anima le idee modello, i principi intelligibili presenti
in lui dall’eternità e da lui posti nelle stesse cose come segno della
loro derivazione da Dio.
Di conseguenza, la fede, cioè la rivelazione divina, è il presupposto
della ricerca filosofica.
In riferimento al problema dell’esistenza di Dio, Bonaventura
accetta l’argomento ontologico anselmiano; però, lo corregge dicendo
che nella mente dell’uomo è presente non tanto l’idea di Dio, quanto
Dio stesso.
Dio, infatti, si manifesta immediatamente all’anima umana come
luce di verità e quindi in maniera tale che non può essere rifiutato o
negato da nessuno, nemmeno dall’ateo.
31
La presenza diretta di Dio nell’anima umana è la prova della sua
esistenza ed il fondamento della conoscenza.
Di particolare importanza è l’opera
bonaventuriana Itinerarium
mentis in Deum, dove il Santo descrive i momenti o tappe necessarie a
che la mente umana arrivi a Dio.
L’ascesa dell’uomo a Dio avviene in tre tappe, compiute ciascuna
da una particolare facoltà o “occhio” dell’anima.
Questa, infatti, ha
un occhio volto alle cose del mondo, oculum carnis, che è la
sensibilità;
un secondo occhio diretto verso la propria interiorità, oculum
rationis, che è lo spirito;
un terzo occhio rivolto alla contemplazione divina, oculum
contemplationis, che è la mente.
Ogni singola tappa si sdoppia in due gradi, dei quali il primo
conduce a Dio indirettamente perché permette di cogliere solo
l’immagine divina; il secondo, invece, conduce a Dio direttamente
perché fa intuire in modo immediato l’essenza stessa di Dio e la sua
presenza.
Quali sono i due gradi della prima tappa?
Nel primo grado della prima tappa l’uomo conosce Dio attraverso i
vestigi divini nel mondo: tutte le cose create, oggetto dell’esperienza
dei sensi, mostrano Dio nella loro bellezza e nella loro armonia.
Nel secondo grado l’uomo conosce Dio direttamente mediante
la
immaginazione perché contempla nelle cose l’essenza, la potenza e la
presenza divina.
Anche la seconda tappa comprende due gradi: nel primo l’uomo,
rivolgendosi alla propria interiorità, con la ragione contempla, nel suo
triplice aspetto di memoria, intelletto e volontà, l’immagine trinitaria
di Dio; nel secondo, l’uomo con l’intelletto conosce direttamente Dio,
poiché la grazia lo illumina con le tre virtù teologali, fede, speranza e
carità.
Analogamente avviene per la terza tappa: nel primo grado l’uomo
con l’intelligenza si solleva al di sopra delle cose sensibili e di se
stesso e, scoprendo la realtà eterna e trascendente quale si manifesta
nelle essenze angeliche, creature somiglianti a Dio, per similitudine
32
contempla Dio nel suo attributo fondamentale di essere; nel secondo
grado l’uomo, mediante l’acume della mente, contempla direttamente
Dio quale Amore e Bene assoluto e in questa intuizione l’anima
umana, pur rimanendo come sostanza distinta da Dio, si congiunge a
Lui nell’estasi mistica.
Cessano, così, le passioni, tacciono i desideri, si estinguono gli
impulsi egoistici e l’uomo, morto e annullato come individualità,
risorge a vera vita, assorbito in Dio.
33
Riepilogo visivo
Bonaventura da Bagnoregio
Fede e ragione
Teologia e filosofia
Esistenza di Dio
Bonaventura da
Bagnoregio
Itinerarium mentis in Deum
Prima tappa:
sensibilità:
sensi e immaginazione
Terza tappa:
mente:
intelligenza e acm
della mente
Seconda tappa:
spirito:
ragione e intelletto
34
f)Tommaso d’ Aquino è un domenicano e segue l’indirizzo del
proprio Ordine, fondato da San Domenico per difendere e divulgare la
fede con la cultura e l’insegnamento.
Egli accetta come fondamento del suo pensiero la filosofia
aristotelica, considerata la più alta espressione della ragione umana e
la inserisce definitivamente nella dottrina cristiana, modificandola in
alcuni punti, dove contrasta con i dogmi della Chiesa.
Distingue, inoltre, la fede dalla ragione e riconosce a quest’ultima i
propri diritti nell’ambito delle verità naturali; ammette il primato
dell’intelletto sulla volontà ed afferma che la conoscenza razionale si
attua mediante l’astrazione dell’universale intelligibile dall’
esperienza sensibile.
In questo indirizzo è evidente il razionalismo che caratterizza la
filosofia di Tommaso, in contrapposizione allo spirito mistico del
pensiero agostiniano- francescano, ed è manifesta l’importanza
attribuita alla persona umana ed alle sue capacità razionali.
Per il Nostro fede e ragione, pur distinguendosi, non sono
contrapposte fra loro, perché l’una e l’altra derivano da Dio, anche se
ciascuna svolge una propria attività autonoma.
Infatti, la prima, appoggiandosi alla rivelazione, si volge alle verità
di ordine soprannaturale; la seconda, rielaborando l’esperienza, scopre
le verità dell’ordine naturale.
Così, i misteri della fede, come, ad esempio, quello della SS.
Trinità, dell’incarnazione e morte del Figlio di Dio, ecc., riguardano
verità soprannaturali, cioè superiori alle capacità comprensive della
ragione che non può spiegarle, ma non per questo sono irrazionali,
perché altrimenti si dovrebbe concludere che Dio ha concesso
all’uomo due doni, fede e ragione, che si escludono a vicenda e
bisognerebbe, perciò, ammettere in Dio stesso la contraddizione.
Altre verità, invece, sono comuni tanto alla fede quanto alla
ragione, come l’esistenza di Dio e l’immortalità dell’anima che
possono essere dimostrate anche razionalmente.
L’attività razionale può recare un valido contributo alla fede.
Essa, infatti, dimostra alcune verità, come l’esistenza di Dio e
l’immortalità dell’anima, che costituiscono come “i preamboli della
35
fede”, in quanto dispongono la mente ad accettare consapevolmente la
fede stessa: l’uomo che con la ragione dimostra, ad esempio,
l’esistenza di Dio, è portato ad accettare anche la rivelazione divina
che afferma le stesse verità ed a riconoscere, quindi, la convenienza
della fede.
Inoltre, l’attività razionale, anche se non è capace di spiegare i
misteri della fede, perché sono verità soprarazionali, può formulare
analogie che illustrano e giustificano gli stessi misteri.
Ad esempio, chiariscono il mistero
dell’ Unità- Trinità divina
alcune considerazioni compiute sulle cose della natura, creata da Dio
stesso: la foglia del trifoglio che, pur essendo unica, si suddivide in tre
foglie; il raggio di luce bianca che, incontrando un prisma di vetro, si
scompone in sette colori, cioè nei colori componenti la stessa luce
bianca.
Infine, l’attività razionale può controbattere le argomentazioni
contro la fede, dimostrandone la falsità.
Pertanto, giustamente, la ragione, ossia la filosofia, può essere
considerata ancella della teologia, cioè della fede.
Letture:Summa contra Gentiles, I, q.7-8,pp.628-629
Per quanto riguarda la dimostrazione dell’esistenza di Dio,
Tommaso non accetta la prova ontologica affermata da Anselmo e da
Bonaventura, perché l’essenza di Dio pensata come concetto rimane
idea e quindi pensiero dell’ intelletto, senza includerne
necessariamente l’ esistenza reale.
Inoltre, l’essenza di Dio, cioè di un Essere infinito e perfettissimo,
non può essere compresa dalla mente umana, che è limitata.
Egli, allora, dimostra l’esistenza di Dio mediante cinque prove a
posteriori, che partono, cioè, dall’osservazione delle cose del mondo,
prove da lui definite “vie” per indicare che esse segnano il cammino
attraverso il quale l’uomo può risalire a Dio muovendo dalla realtà
sensibile.
La prima via, di derivazione aristotelica, è quella del movimento.
Nell’universo esiste il movimento: ogni mosso suppone un motore,
il quale, a sua volta, è mosso da un altro motore, e così via di seguito
36
Dal momento che non si può andare all’infinito, è necessario
fermarsi ad un primo motore che muove senza essere mosso.
Questo primo Motore immobile è Dio.
La seconda via, anch’essa di derivazione aristotelica, fa capo al
rapporto fra effetto e causa.
Ogni cosa dipende da un’altra, cioè è effetto di una causa, la quale,
a sua volta, è effetto di un’altra causa, e così via.
Non potendosi procedere all’infinito, è necessario ammettere una
Causa prima non causata, che, cioè, non sia effetto di nessun’altra
causa.
Questa Causa prima è Dio.
La terza via, derivata da Anselmo, è quella del rapporto tra
contingente (=possibile) e necessario.
Tutte le cose che esistono in natura sono soggette al mutamento,
cioè nascono, si trasformano, muoiono, e pertanto sono contingenti,
cioè esistono ma potrebbero anche non esistere.
Di conseguenza, esse non sono per virtù propria, non avendo in sé
la ragione del loro esistere.
La contingenza delle cose fa risalire ad un Essere necessario, che
possieda in se stesso la ragione dell’esistere e da cui derivi l’esistenza
delle cose contingenti.
Questo essere necessario è Dio.
La quarta via, anche questa derivata da Aristotele e da Anselmo, è
quella dei vari gradi di perfezione: le cose della natura possiedono una
minore o maggiore perfezione; è necessario, perciò, che esista un
Essere assolutamente perfetto che in diverso grado partecipa alle cose
la sua perfezione e che è assunto come termine di confronto.
La quinta via è quella dell’ordinamento finalistico delle cose: nel
mondo i fenomeni si succedono regolarmente e ordinatamente
rivelando un’armonia che non può essere prodotta dal caso.
Questo ordinamento finalistico si nota anche nelle cose naturali, che
sono prive di intelligenza e quindi incapaci di volgersi
intenzionalmente verso un fine.
Di conseguenza, l’ordine ammirevole dell’universo fa presupporre
l’esistenza di una intelligenza ordinatrice, che è Dio.
37
Dalle suddette prove risulta evidente che il mondo dipende da Dio
perché Egli è Motore immobile, Causa prima, Essere necessario,
Perfezione assoluta, Intelligenza ordinatrice.
Tutti questi attributi escludono sia il panteismo, cioè l’immanenza
divina nel mondo, sia l’indifferenza divina per il mondo.
Tommaso, infatti, afferma che Dio è creatore e che le cose create
hanno una quantità minore o maggiore di essere, possiedono un
diverso grado di perfezione, ma ricevono il loro essere e la loro
perfezione da Dio e non si identificano con l’essere e la perfezione.
Letture: Summa theologiae, I, q.2,a.3, pp.640-641
Dio partecipa alle cose l’esistenza e la diversa perfezione ma
rimane separato e distinto dal mondo creato, come rimangono lontani
la Causa infinita e l’effetto finito.
Dio, però, anche se trascende il mondo, non trascura le cose create,
ma piuttosto provvede affinché ogni creatura, anche individualmente,
consegua i propri fini particolari nel disegno generale della sua
volontà.
Per Tommaso tutte le cose del mondo sono sintesi di essenza ed
esistenza: l’essenza o natura è ciò che è la cosa, cioè il complesso
delle caratteristiche che essa possiede, per cui appartiene ad una
determinata specie piuttosto che ad un’altra (ad es., è uomo e non
animale: l’essenza di animale comprende vita vegetativa e sensitiva,
l’essenza di uomo comprende vita vegetativa, sensitiva e razionale);
l’esistenza o essere rappresenta l’esistere concreto che si attua in virtù
di una energia ricevuta da Dio.
L’essenza corrisponde alla potenza, l’esistenza all’atto.
Infatti, l’essenza di una cosa è la semplice possibilità di esistere;
l’esistenza l’attuazione, cioè l’atto, di questa possibilità.
Così l’umanità, considerata come essenza, non ha l’esistenza ma
soltanto la possibilità di attuarsi in singole esistenze umane, ciascuna
delle quali esiste in virtù di un atto creativo di Dio.
Nelle cose, dunque, essenza ed esistenza sono distinte; in Dio,
invece, esse si identificano, ed è per questo che le cose sono
contingenti e Dio, invece, è essere necessario.
38
In riferimento al problema gnoseologico, Tommaso sostiene che
non esistono idee innate.
Il processo conoscitivo inizia con la sensazione e si compie con
l’attività intellettiva: nihil est in intellectu quod prius non fuerit in
sensu, cioè niente è nell’intelletto che prima non sia stato nei sensi.
I sensi sono modificati dagli oggetti esterni e colgono le cose non
nella loro materialità ma nella loro immagine sensibile (specie
sensibile).
Ad esempio, l’occhio vede il colore dell’arancia ma non percepisce
la materia di cui l’arancia è costituita.
La sensazione è conservata nella fantasia, la quale produce il
fantasma, che è l’insieme delle singole immagini sensibili di uno
stesso oggetto percepite nelle esperienze precedenti.
Nel fantasma è implicita, contenuta in potenza, la specie
intelligibile, cioè il concetto, che l’intelletto coglie mediante
l’astrazione.
L’ intelletto umano è passivo ed attivo nello stesso tempo e
possiede perciò due capacità: in quanto può ricevere la specie
intelligibile, è intelletto passivo o potenziale; in quanto astrae la specie
intelligibile dal fantasma e la illumina in modo che l’intelletto passivo
la conosca, passando dalla potenza all’atto, è intelletto attivo o agente.
L’intelletto attivo non ha la funzione di conoscere ma, come una
sorgente luminosa, ha la capacità di diffondere raggi luminosi che
permettono la vista degli oggetti.
Con l’apprensione della specie intelligibile, astratta dal fantasma
sensibile, si conclude la prima parte della conoscenza intellettiva, che
è detta “apprensione” perché con essa l’intelletto intende ciò che una
cosa è.
Es., L’uomo è animale ragionevole.
La seconda parte comprende il giudizio e il ragionamento.
Il giudizio è costituito da un soggetto e da un predicato congiunti
dalla copula e con esso l’intelletto afferma o nega qualcosa, cioè
giudica se una cosa è o non è.
Es., Socrate è uomo; il cane non è uomo.
Il ragionamento è l’insieme di più giudizi e spiega il motivo di ciò
che viene affermato o negato nel giudizio.
39
Es., Tutti gli animali ragionevoli sono uomini; Socrate è un animale
ragionevole; quindi Socrate è uomo.
La verità consiste nell’adeguazione della cosa e dell’intelletto,
adaequatio rei et intellectus, cioè nella piena e perfetta corrispondenza
fra l’universale, contenuto come forma in ogni cosa particolare (es.,
l’essenza di uomo, l’umanità) e la specie intelligibile che l’intelletto
astrae dalla cosa stessa (es., il concetto di uomo).
L’errore si può avere non nel momento dell’attività
astrattiva
dell’intelletto, e quindi non nell’apprensione, ma nella formulazione
dei giudizi e dei ragionamenti, cioè quando viene attribuita una specie
intelligibile ad una cosa a cui non compete.
40
Riepilogo visivo
Tommaso d’ Aquino: Probl. della conoscenza
Sensazione
fantasia
OGGETTO_ varie specie sensibili_ fantasma, contiene in potenza
_
(es., odore, colore, ecc.)
Attivo
(astrae)
per astrazione l’intelletto
la specie intelligibile
o concetto
= Prima fase:
apprensione
Passivo
(incamera, elabora
e conosce)
verità
Seconda fase:
formulazione del
giudizio(l’int. giudica se una cosa è o non è)
e
ragionamento(spiega il motivo del giudizio)
errore
verità: adaequatio rei et intellectus
errore: quando si attribuisce una specie intelligibile ad una
cosa cui non compete
41
A questo punto, dal momento che Tommaso è prettamente un
aristotelico, occorre fare un confronto fra la conoscenza umana del
primo e quella del secondo.
Entrambi negano l’innatismo ed affermano che la conoscenza inizia
dai sensi; Aristotele parla di specie sensibile, di schema
rappresentativo e di concetto; Tommaso di specie sensibile, fantasma
e specie intelligibile; giudizio e concetto sono comuni ad entrambi e
tutti e due ammettono che l’uomo possiede l’intelletto passivo.
Qui finiscono le analogie.
Le differenze riguardano la concezione dell’intelletto attivo:
Aristotele sostiene che l’intelletto attivo è come distaccato dall’uomo;
secondo Tommaso, invece, si tratta dello stesso intelletto umano, che
ha la funzione di astrarre dal fantasma la specie intelligibile,
consentendo all’intelletto passivo la conoscenza universale.
A questo punto occorre accennare al problema politico che
verrà
ripreso nel corso monografico.
Anche qui Tommaso riprende Aristotele: l’uomo è portato
naturalmente a vivere associato, per cui lo Stato ha il compito di
tutelare i beni materiali dei cittadini, di assecondare il loro sviluppo
culturale e di assicurare la pace.
Egli dichiara che ogni forma di governo è valida purché garantisca i
diritti dei cittadini ed il benessere della società, ma le sue preferenze
sono per la monarchia, che assicura meglio l’unità dello Stato.
Questo guida l’uomo alla felicità terrena, mentre la Chiesa lo
conduce alla felicità eterna; di conseguenza, il potere temporale, anche
se svolge la sua attività in un campo autonomo e distinto, deve essere
subordinato all’autorità spirituale, sia perché anch’esso deriva
direttamente da Dio, sia perché persegue una finalità inferiore a quella
della Chiesa.
42
Riepilogo visivo
Tommaso d’ Aquino
Esistenza di Dio: quinque viae a posteriori:
movimento, causa ed effetto, contingente e
necessario, gradi di perfezione, ordinamento
finalistico
Fede - ragione
Rapporto Dio- mondo
Tommaso d’Aquino
politica
Essenza ed esistenza
Gnoseologia
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g)Giovanni Duns Scoto è un francescano e fa capo all’Università di
Oxford dove si combattono le tendenze aristoteliche e razionalistiche
dell’università di Parigi.
Egli, però, non rinnega totalmente l’aristotelismo ma cerca di
conciliarlo con il misticismo del pensiero di Agostino e dei
Francescani, che diventa presupposto fondamentale della sua dottrina.
Per questo motivo egli afferma il primato della volontà
sull’intelletto, tanto nell’uomo quanto in Dio.
Infatti, è la volontà che spinge l’intelletto a conoscere
questo o
quell’oggetto ed è ancora la volontà che conduce l’uomo a questa o a
quell’altra azione.
Anche l’attività divina è determinata non dalla razionalità ma dalla
volontà, la quale è la caratteristica fondamentale dell’assoluta potenza
e infinita libertà di Dio.
In caso contrario, cioè se Dio dovesse manifestarsi solo in forme
razionali, non sarebbe libero ma condizionato necessariamente da una
forza a cui non potrebbe sottrarsi, pur essendo questa forza intrinseca
a lui in quanto costituente la sua stessa essenza.
Per questi motivi la sua filosofia viene definita “volontarismo”.
Riguardo al rapporto fede- ragione Duns Scoto intende affermare la
priorità della prima sulla seconda.
Infatti, anche le verità
di ordine soprannaturale che secondo
Tommaso sono dimostrabili filosoficamente, secondo Duns Scoto
sono soltanto oggetto di fede.
È questo il caso, ad esempio, dell’esistenza di Dio, dell’immortalità
dell’anima, della Provvidenza, oltre, naturalmente, ai misteri, come
quello della SS. Trinità o quello dell’Incarnazione.
La ragione può tutt’al più riflettere su queste verità e cercarne una
spiegazione, ma essa rimane sempre nell’ambito della probabilità e
non può mai raggiungere la certezza.
Per questo primato della fede nei confronti della ragione, la volontà
ha il compito di accogliere i dati della Rivelazione, la quale perde il
suo carattere speculativo e diventa norma di vita pratica perché
suggerisce principi direttivi e regole per la condotta dell’uomo.
In tal modo fede e ragione
risultano eterogenee, per cui verrà a
determinarsi una frattura inconciliabile fra teologia e filosofia.
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Criticando S. Tommaso 2, Duns Scoto sostiene che la materia non è
semplice potenza, e quindi assolutamente indeterminata, ma possiede
un suo atto, una sua forma, anche se infima, altrimenti sarebbe niente.
Di conseguenza, tutti gli esseri, anche quelli spirituali, come gli
angeli e l’anima, sono composti di materia e forma, per cui non
esistono forme prive di materia.
In caso contrario queste forme immateriali non potrebbero avere
rapporti con altri esseri perché è la materia che, come passività,
permette di ricevere l’azione degli altri.
Gli esseri più complessi hanno una pluralità di forme, ciascuna
delle quali presiede ad una diversa funzione; così, ad esempio,
nell’uomo esistono la forma vegetativa, la sensitiva e quella razionale.
Per Duns Scoto gli individui si distinguono fra di loro non per la
materia che è indeterminata ma per l’ haecceitas.
Il termine deriva da haec, che significa “questa cosa qui”, “questa
cosa e non un’ altra”, ed è il processo tramite cui la sostanza comune
si contrae in una cosa singola: ad es., l’individualizzazione della
sostanza universale di uomo si contrae in questo o quell’uomo
particolare.
Riguardo al problema degli universali, Duns Scoto è orientato verso
il concettualismo, ma non nega totalmente il realismo moderato;
rifiuta, invece, nettamente il nominalismo, che annulla ogni sapere
oggettivo e riduce la conoscenza ad una finzione mentale, perché i
nomi non hanno una realtà corrispondente e sono semplici e vuote
parole create convenzionalmente dall’uomo; respinge anche il
realismo esagerato perché l’universale non può esistere al di fuori
dell’oggetto né nell’oggetto stesso.
Secondo lui, le singole cose sono particolari ma non sono estranee
all’essenza universale della specie alla quale appartengono.
Così, l’intelletto dell’uomo nota che
questa essenza, la quale si
presenta sempre individualizzata nelle cose particolari, si è attuata in
una pluralità di individui e perciò la universalizza, riferendola ad una
molteplicità di esseri. L’universale, dunque, esiste nell’intelletto.
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Secondo Tommaso, materia e forma, potenza ed atto, si identificano. Tale
coincidenza si riscontra solo negli esseri corporei ma non si può ammettere per le
sostanze spirituali, cioè gli angeli e l’ anima umana.
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Riepilogo visivo
Giovanni Duns Scoto
fede- ragione
volontarismo
Giovanni Duns Scoto
Probl. degli universali
Pluralità delle forme
haecceitas
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Guglielmo d’ Ockham può essere considerato l’ultima grande figura
della Scolastica e nello stesso tempo la prima dell’età moderna.
Egli sostiene che la realtà è costituita da esseri individuali,
ciascuno dei quali possiede caratteristiche proprie: questo cane e
quest’ altro cane particolare, questo uomo e quest’ altro uomo con
qualità diverse.
Non esiste, perciò, una essenza comune a più esseri, ma ci sono
soltanto individui, ognuno dei quali è una realtà a sé stante separata
dagli altri individui.
Di conseguenza, il vero sapere consiste nella diretta esperienza
delle cose individuali, che si ottiene mediante l’attività sensitiva.
Questa conoscenza è chiamata
intuitiva, perché coglie
immediatamente il singolo, ed è contrapposta a quella concettuale o
astrattiva, confusa e indeterminata, perché è rivolta all’universale che
non ha alcuna realtà concreta.
Riguardo al problema degli universali,
Ockham segue il
nominalismo.
Egli, infatti, dice che la realtà è costituita soltanto
di esseri
individuali e che universale è solo il termine o la parola con cui si
vogliono indicare più oggetti aventi caratteri affini.
Ad esempio, il nome “uomo” è universale perché si può riferire ad
una pluralità di esseri (Pietro, Paolo, Maria, ecc.), ma i singoli uomini,
pur essendo in qualche modo somiglianti, possiedono caratteristiche
individuali che li rendono diversi l’uno dall’altro.
Perciò, la parola “uomo” è un simbolo creato convenzionalmente
per raccogliere un certo numero di individui sotto lo stesso segno, per
comodità di espressione e di comprensione.
Quali le conseguenze del sapere intuitivo e del nominalismo
affermati da Ockham?
Conseguenze molto gravi che segnano il declino della Scolastica, e
precisamente
- le critiche al principio di causa e
- al concetto di sostanza.
- Cominciamo dalla prima.
L’uomo, mediante l’esperienza sensibile, conosce le cose
particolari, i singoli fatti, e non può andare oltre i dati sperimentati per
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affermare che due cose, due fatti, sono legati fra loro da una
connessione causale.
Per esempio, vedo un lampo e successivamente odo un tuono: sono
certo di questi due fenomeni perché li percepisco direttamente con la
vista e con l’udito; posso riconoscere che il lampo è avvenuto prima
del tuono ma non posso affermare che esso è causa del tuono perché
oltrepasserei le due percezioni sensibili (vista e udito) e stabilirei fra i
due fenomeni un legame che l’esperienza non mi offre.
Infatti, posso ammettere che fino ad ora ho udito il tuono dopo aver
visto il lampo, ma non posso affermare che sarà sempre così, che,
cioè, al lampo debba seguire necessariamente il tuono.
- In riferimento alla seconda critica, cioè al concetto di sostanza,
Ockham dice che l’uomo percepisce le qualità che costituiscono i
singoli oggetti, ma non può oltrepassare queste qualità ed affermare
che esse sono come attaccate ad un sostrato che le sostiene e le
riunisce, cioè ad una sostanza (= che sta sotto) materiale.
Esempio: Ho davanti a me un’arancia: la vedo, la odoro, ne gusto il
sapore; posso dire che queste tre qualità (colore, profumo, sapore)
appartengono a quell’arancia, ma non poso affermare che esse siano
raccolte in un sostegno, la sostanza materiale, perché tale sostegno
non è oggetto di esperienza.
Analogamente avviene per l’anima che è sostanza spirituale.
L’uomo è consapevole dei suoi stati d’animo (dolore, gioia, ira,
ecc.) ma non può andare oltre questi sentimenti ed ammettere che essi
si trovino in un sostrato che li sostiene, cioè nella sostanza spirituale
(l’anima).
Es., provo un dolore di cui sono pienamente certo perché mi
procura un profondo disagio interiore.
Posso riconoscere che questo stato d’animo è in me ma non posso
ammettere che esiste in me un sostrato, una sostanza spirituale che lo
sostiene, perché dell’anima non ho esperienza sensibile.
Per questo motivo anche la sostanza spirituale divina non può
essere oggetto di conoscenza.
Dal momento che per Ockham unica fonte di conoscenza certa è
l’esperienza sensibile, tutto ciò che non può essere percepito con i
sensi non può essere conosciuto.
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Di conseguenza, la realtà divina, l’anima, le essenze spirituali e
tutte le verità soprasensibili non sono oggetto della scienza umana ma
possono essere accettate solo per fede.
Perciò fede e ragione sono separate e indipendenti e si trovano l’una
accanto all’altra senza avere alcun rapporto fra loro.
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Riepilogo visivo
Guglielmo d’Ockham
Problema degli
universali:
nominalismo
Conoscenza: attività
sensitiva, detta intuitiva
perché coglie
immediatamente il
singolo
Guglielmo d’Ockham
Conseguenze:
critica al principio di causa;
critica al concetto di
sostanza
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